mercoledì 10 agosto 2022

L'APOSTOLO DI FRONTE AGLI APOSTOLILA PALESTINA

 (segue da qui)

III 

LA PALESTINA

L'inizio del primo secolo della nostra era è l'età d'oro della pace romana. Erano passati, nell'anno 1, trent'anni da quando la battaglia di Azio aveva deciso di un impero che comprendeva tutto il mondo antico ad eccezione delle estreme regioni orientali che bagnava l'Eufrate, e dell'Arabia. Mai condizioni politiche ed economiche sono state più favorevoli alla propagazione di religioni nuove; i Padri della Chiesa hanno potuto dire, forti di premesse inattaccabili, che il loro dio aveva ordinato la storia del mondo in vista della diffusione della sua religione. La pace romana era una pace organizzata. Augusto, divenuto unico padrone dell'impero, non solo aveva pacificato le province, ma ne aveva riorganizzato l'amministrazione; nello stesso momento in cui pose fine ai disordini, aveva posto fine alle esazioni dei governatori; inaugurò, per l'universo, il più lungo periodo di tranquillità e di prosperità che gli uomini abbiano mai conosciuto. I suoi successori, Tiberio il primo, continuarono la sua opera; i drammi di palazzo in cui si compiace l'immaginazione sfrenata di Tacito non raggiunsero il resto del mondo e i movimenti militari che seguirono la morte di Nerone portarono solo un turbamento momentaneo. 

Col favore della civiltà greca e della pace romana, le relazioni commerciali erano diventate intense tra tutte le parti dell'impero, almeno tra quelle che si aprivano sul Mediterraneo. Alessandria d'Egitto, Antiochia in Siria, Efeso in Asia Minore, Corinto in Grecia, erano città importanti, brulicanti e fastose, che sembravano considerare i Romani come parvenu ai quali si deve obbedire ma che si disprezza. Tutti i giorni le navi salivano e gettavano l'ancora, cariche di merci, portando filosofi e retori, trasportando le merci e le idee; le città nuove, Beirut, Smirne non le hanno sostituite; cos'è la moderna Alessandria accanto a quella di Cleopatra e di Cirillo? Qualunque possa essere il rinnovamento che alcuni prevedono per il bacino orientale del Mediterraneo, il primato sembra averlo lasciato per sempre; ma è impossibile comprendere qualcosa degli eventi che si sono svolti milleottocento anni fa se si dimentica che esso era, meglio di Roma, il centro della civiltà.

Quella civiltà era soprattutto greca e la pace romana si era fatta ausiliaria della cultura greca. Il mondo mediterraneo, nella sua parte orientale soprattutto ma anche nella sua parte occidentale, era stato greco nei costumi prima di obbedire ai proconsoli venuti da Roma. Da secoli, tutte queste terre avevano ricevuto dai coloni arrivati dalla Grecia la preziosa fiaccola. Il greco era parlato in tutte le città; le antiche lingue locali divennero dialetti che erano usati solo nelle classi inferiori; il latino rimase la lingua dei funzionari; il primo scrittore cristiano latino è senza dubbio Tertulliano, alla fine del secondo secolo.

La civiltà antica non si componeva però unicamente di elementi greci e romani; il vecchio mondo asiatico vi aveva dato un largo contributo; ma, propagandosi attraverso il bacino del Mediterraneo, le idee dell'antica Asia avevano dovuto apprendere a parlare greco. Il giudaismo lo aveva fatto, due secoli prima della nostra era, traducendo i suoi libri in greco; adottando la lingua greca, i ghetti si erano diffusi. Similmente, i culti siriani, i culti frigi e poi quelli iranici avevano adottato la lingua universale e questo permise loro, come al giudaismo, di penetrare il mondo greco-romano. Il dio Gesù seguirà l'esempio quando, intorno all'anno 44, rinuncerà al suo abito palestinese.

Ciascuna delle principali regioni del Mediterraneo orientale aveva così il suo dio, espressione e veicolo della sua civiltà propria, che propagava nella grande corrente della civiltà mondiale; l'Egitto aveva Iside e Osiride, la Siria aveva Adone, la Frigia aveva Attis e la Grande Madre, la Giudea aveva il suo Jahvé. Gli antichi culti esotici erano già passati per l'ellenismo, ma sotto il suo nome ellenizzato, Dioniso rimaneva, con i suoi misteri, un'importazione. A sua volta, il dio Gesù, nato in un angolo oscuro della Palestina, avrebbe rivestito il mantello greco per entrare nel mondo romano, portando la sua robaccia orientale ma pronto ad arricchirsi, come gli altri, delle spoglie della civiltà in cui penetrava.

Magnifico scambio dove ciascuno riceve e dà, contribuendo alla creazione della civiltà, così bene che si distinguerà a malapena, qualche secolo più tardi, ciò che è asiatico, ciò che è ellenico e ciò che è romano nella chiesa cattolica o nell'impero di un Costantino.

Non c'era che una regione che faceva ancora eccezione nella pace romana durante i primi tre quarti del primo secolo: la Palestina. Ricorderemo prossimamente quali disordini perenni agitarono questo paese a partire dalla morte di Erode fino al momento in cui scoppiò la grande insurrezione dell'anno 66; ma quell'era di disordini, quell'insurrezione, la guerra spietata che ne seguì, poi, nel 70, la presa di Gerusalemme da parte di Tito e la distruzione del Tempio, dovevano giustamente essere la causa che avrebbe scatenato, attraverso il mondo ritornato alla pace, la diffusione del cristianesimo.

Ci tocca al presente, allontanandoci dalla grande corrente mediterranea, penetrare in quella lontana Palestina, patria del dio ancora ignorato che doveva pervenire un giorno a così brillanti destini.


Dallo storico Flavio Giuseppe, che fu quasi il contemporaneo di san Paolo, fino a Renan e Loti, molti scrittori — e Baedecker non è il meno pittoresco — hanno descritto le cinque province della Palestina sulle quali il grande Erode aveva regnato e che, più o meno, rientravano nel giudaismo. Il viaggiatore che pretende oggi di visitarli non può che camminare su orme illustri; ogni nome che incontrerà risveglierà in lui il ricordo di pagine famose; forte di queste evocazioni, potrà quindi camminare a passo spedito.

Il punto di partenza di ogni itinerario non può che essere Gerusalemme; è di là che il giudaismo, più di duemila anni fa, si slanciò fuori dalla Giudea e conquistò, senza assimilarle, quelle province dell'antica Canaan che il suo dio gli aveva promesso.

Gerusalemme, capitale della Giudea, cuore del giudaismo e la Mecca israelita, è situata a quasi ottocento metri di altitudine, al centro di un paese aspro. Dall'immensa spianata del Tempio, lo sguardo degli ebrei dell'anno 1 scopriva un paesaggio il cui aspetto non è praticamente cambiato: a est e a sud, indefinitamente, il deserto; a ovest e a nord, un paese triste, una vegetazione senza profondità, un cielo austero dove non si sente nessun uccello canoro.

Abbiamo tentato di spiegare [1] come, cinque secoli prima della nostra era, l'ambizione fosse venuta ai possessori di questo tetro altopiano giudaico di estendere il loro dominio sulle regioni più ricche che si estendevano oltre il campo del loro orizzonte visivo a nord-est, a nord e a ovest, e come per quella ambizione si spiegasse l'intero seguito della letteratura e della storia ebraica; infatti, per gli uomini di Gerusalemme, la religione non era altro che l'espressione del loro nazionalismo dapprima e del loro imperialismo in seguito; imporre il loro dio e il suo culto al vicino non era nient'altra cosa che imporgli il loro regno e le loro leggi. Abbiamo analizzato questo proposito, lungamente maturato, di ricostruire a loro profitto l'antico impero semi-favoloso di Davide e di Salomone e, per annettersi i territori del vicino congenere, di annettersi le sue leggende. E quella ambizione si era espressa negli scritti ebraici con il credo: Jahvé ha promesso ai nostri antenati il pacifico e glorioso possesso della Palestina... Jahvé è apparso al nostro antenato Abramo e gli ha detto: Io ti darò quella terra. 

All'inizio ciò non era stato che una lenta penetrazione delle regioni vicine da parte dei coloni ebrei; poi, tutto di colpo, alla metà del secondo secolo, il tentativo si era fatto con i Maccabei le armi in pugno. E sotto l'idumeo Erode il Grande, il giudaismo aveva infine realizzato il sogno secolare del geovista e dell'elohista, e riconquista la Palestina, vale a dire il paese di Canaan. All'indomani della morte di Erode, Gerusalemme, capitale della Giudea, è nel contempo con il suo tempio magnifico la santa Mecca e il cuore del giudaismo.

Per le sue dimensioni, per il numero della sua popolazione regolare, è solo una piccola città; ma è il luogo sacro verso cui sono rivolti gli sguardi di tutti gli ebrei e giudaizzanti del mondo; non ha quasi nessuna industria e a malapena il minimo di commercio indispensabile a un agglomerato di uomini; è una città colta, o piuttosto una città santa, dove la politica e la teologia (che è qui quasi la stessa cosa) sono le sole occupazioni; ma a ogni Pasqua migliaia di pellegrini vengono ogni anno a presentarsi davanti al loro dio e a rinnovare il vecchio sfondo delle loro speranze, dei loro odi e delle loro ambizioni secolari. 

Ed è più che il cuore del giudaismo, è la sua fortezza; sembra, a vedere le sue mura, che la promessa di Jahvé che ha predetto loro l'eternità possa senza difficoltà essere mantenuta.


Il viaggiatore che, nel primo secolo, avrebbe lasciato Gerusalemme per andare a visitare le province palestinesi sarebbe stato colpito dal contrasto che avrebbe constatato tra la capitale e le province. Oggi il contrasto geografico sussiste, come evidentemente vi è novecento anni fa, tra la Giudea e le altre province palestinesi. Ma per il resto, questo contrasto è stato esagerato. Sotto altitudini e di conseguenza sotto climi diversi, la vecchia anima ebraica aveva penetrata l'intera Palestina (la Samaria sempre esclusa, beninteso). 

Il viaggiatore che rifà oggi l'antica strada verso nord attraversa all'uscita da Gerusalemme una serie di regioni pietrose, poco abitate, mal coltivate, grandi campagne quasi deserte, tetre come il cielo sopra Gerusalemme. Dopo una breve giornata a cavallo, egli arriva alle frontiere dell'antica provincia della Samaria. 

La Samaria era restata per gli ebrei il nemico secolare, il nemico ereditario. Sottomessa dopo un lungo periodo di rivalità e di ostilità, non si era mai disarmata; gli ebrei avevano ben raso al suolo le sue città e, quel che era peggio, distrutto il suo tempio (il tempio rivale costruito sul Garizim), i Samaritani avevano accettato solo un giudaismo eterodosso; essi praticavano, nel primo secolo come precedentemente, una sorta di mosaismo scismatico o, per meglio dire, eretico, che ispirava negli ebrei purosangue più orrore forse del paganesimo; così non calpestavano il loro suolo se non con ripugnanza, preferendo, per recarsi nelle regioni del nord, fare una lunga diversione verso est.

Il viaggiatore moderno, che non ha affatto quella riluttanza, continua il suo cammino. Ma già l'altopiano si abbassa, le valli si aprono e, man mano che discende, il viaggiatore ha incontrato ruscelli più numerosi, prati più verdi; ora le viti, i fichi e gli ulivi si moltiplicano, le sorgenti zampillano, l'erba è più fitta e, quando si scorge la cima di Garizim, si è nel mezzo di grassi pascoli. Il paesaggio è ora tutt'altro che in Giudea; i frutteti sono verdi; l'acqua scorre in mezzo ad un'erba fine; i fiori spuntano da tutte le parti. Ecco Nablus, l'antica Sichem, l'antica capitale del paese di Efraim, oggi come un tempo piccola città sperduta lontano dalle grandi strade mondiali. E a poca distanza, ecco con le sue terrazze su cui l'antica città si ergeva, le rovine di Samaria stessa, la seconda capitale del Paese, quella che Erode aveva magnificamente restaurato e che aveva chiamato Sebaste in onore dell'imperatore.

La strada, o piuttosto il sentiero, oltrepassa ora ruscelli, costeggia burroni, sale su colline, sprofonda in valli, attraversa boschi di ulivi e di fichi; poi gli alberi scompaiono; non c'è altro che vaste praterie che si estendono lungo i pendii e le valli. Si continua a scendere e, al calar della sera, una vasta pianura appare, un mare di prati; un immenso tappeto verdeggiante bagnato dall'acqua corrente, di un'incredibile fertilità, una sorta di deserto di prati; e tutt'intorno un cerchio di montagne non meno verdeggianti; siamo in Galilea.

Il paese era stato conquistato dal giudaismo molto prima di quello della Samaria, e il successo vi era stato migliore. I Galilei, per quanto mista fosse la loro razza, passavano per ebrei pressappoco ortodossi; a malapena i veri ebrei di Giudea trovavano da ridire del loro dialetto o del loro accento, delle loro maniere provinciali o paesane; la popolazione di Galilea era del tutto solidale, all'epoca del figlio di Erode, con gli uomini di Gerusalemme.

Avanziamo nella vasta pianura attraverso queste terre umide e grasse. L'altitudine è ormai di ottanta metri soltanto; ma ecco, a destra, su un'altura, c'è l'antica  Izreèl, dove Acab e Gezabele ebbero il loro riparo, oggi un villaggio arabo dove si può ancora vedere dispiegarsi la fantasia. Di fronte, a nord, su una altura, Nazaret, umile villaggio nell'anno 1, oggi succursale ben affollata della nostra piazza di San Sulpizio; passiamo oltre; il luogo non presenta altro interesse che l'errore etimologico di san Matteo [2] e lo spettacolo delle devozioni moderne.

Dirigiamoci piuttosto verso nord-ovest; andiamo a incontrare Seffori, l'antica capitale della Galilea; era stata, nell'anno 1, appena magnificamente ricostruita da Erode. Dopo una lunga mezza giornata, arriviamo all'estremità del lago di verde che abbiamo appena attraversato; l'altitudine risale a poco a poco; eccoci in campagne sassose, ma sempre coperte da una abbondante vegetazione; campi, pascoli; saliamo ancora e ci immettiamo sulla strada ancestrale che, orientata da ovest a est, conduce dal Mediterraneo e dalla città che fu di volta in volta Acri, Tolemaide e San Giovanni d'Acri, fino a Damasco e alle rive dell'Eufrate. 

Passiamo a nord di Nazaret; attraversiamo Cana e dei religiosi greci ci fanno vedere le brocche di arenaria dove l'acqua fu cambiata in vino; attorno a noi si estendono brughiere dove pascolano greggi di capre, poi campi, le stesse praterie, colline sempre verdeggianti, con da lontano la cima innevata dell'Hermon, e di colpo, tra due ondulazioni di terreno, come in fondo ad un abisso dai pendii dolci e tutti fioriti, scorgiamo, ad una profondità che non è meno di quattrocento metri, benché siamo appena a duecento metri sul livello del mare, le acque bluastre del lago di Tiberiade.

Fin da Strabone, tutti i geografi hanno esposto, in effetti, che il lago di Tiberiade, il Giordano e il mar Morto sono ad un'altitudine molto inferiore rispetto al mare. A ovest, le tre province di Giudea, di Samaria e di Galilea, che il nostro viaggiatore ha appena attraversato, sono delimitate dal Mediterraneo; ma ad est, da una straordinaria depressione di terra che discende, con il lago di Tiberiade, a duecento metri sotto il livello del Mediterraneo e, con il mar Morto, a quasi quattrocento metri. Gerusalemme, che è a ottocento metri d'altezza al di sopra del Mediterraneo, si affaccia così di milleduecento metri sopra sulla pianura di Gerico e la riva dove fu Sodoma; e la strada da Seffori a Tiberiade, che dopo Canaan è a soli duecento metri d'altitudine, tutto di colpo ha quattrocento metri di tornanti da discendere per arrivare alle rive del lago.  

Dall'altro lato del lago, del Giordano e del Mar Morto, le altre due province palestinesi, l'Hauran e la Perea, si estendono su vasti altopiani che si ergono di fronte a quelli che abbiamo appena percorso, e in modo simmetrico; gli altopiani dell'Hauran dominano così il lago allo stesso modo degli altopiani della Galilea, e quelli della Perea si ergono al di sopra del fiume e del mar Morto simmetricamente agli altopiani della Samaria e della Giudea.

Su entrambi i lati, la discesa è costituita da una serie di ondulazioni gigantesche, di colline incastonate le une sotto le altre, quasi sempre in dolce pendenza, raramente ripide, tranne che intorno al mar Morto; e dappertutto, tranne sempre nella regione del mar Morto, una vegetazione verdeggiante ricopre declivi e pendii.

Il fondo, la parte bassa, si estende tra le due catene montuose da nord a sud, in una sorta di altopiano, su una larghezza che varia da dieci a venti chilometri, che occupano di volta in volta il corso superiore del Giordano, il lago di Tiberiade, il corso inferiore del Giordano e il mar Morto. Arrivato al lago, il piede dei due pendii raggiunge quasi la linea dell'acqua, lasciando solo una stretta linea di costa di due o tre chilometri. All'uscita del lago, su ciascun lato del fiume, c'è un'alternanza di oasi e di zone sabbiose dove il clima è tropicale. Attorno al mar Morto non c'è quasi più costa, ma la discesa ripida delle due pareti e uno dei più terribili deserti del mondo.

Ritorniamo al punto in cui la nostra strada ci ha condotto, al momento in cui abbiamo scoperto, dall'alto degli altopiani della Galilea, al di sotto di noi il lago di Tiberiade. Lunghe svolte ci conducono alla città stessa, a quella Tiberiade, seconda capitale galilea, costruita da Erode Antipa, città tutta romana, in orrore agli ebrei benpensanti del primo secolo, che doveva divenire, dopo la distruzione di Gerusalemme, il centro del giudaismo. Non fermiamoci; un grande interesse ci chiama un po' più oltre; un'ora di viaggio, seguendo la strada verso nord, ci porta a Medjel... Medjel, quella Magdala dove i viaggiatori che si recavano a Damasco incontravano, assisa sul ciglio della strada, con il velo delle prostitute sul capo, quella per sempre santa che coi suoi capelli asciugò i piedi del salvatore. 

A Medjel entriamo nel paese di Genesaret; qui eccoci nella patria del dio.

Una pianura stretta, appena più lunga che larga, due chilometri per cinque (la metà della penisola di Quiberon, del principato di Monaco, la metà della città di Parigi), che costeggia il lago e che chiudono, dal lato della Galilea, le colline verdeggianti sulle quali si staglia l'altopiano galileo; di fronte, sull'altra sponda del lago, la linea di colline, altrettanto verdeggianti e un po' più ripide, che sostengono l'altopiano opposto.

Ed ecco l'Heptageon, le Sette Sorgenti; è presso quella bella fonte, in questo «luogo deserto», che il Signore fece sedere la folla che era venuta ad ascoltarlo e moltiplicò per loro i cinque pani e i due pesci; una cosa inverosimile in quella leggenda non è tanto che egli abbia potuto compiere questi miracoli e pronunciare il famoso Discorso della Montagna in mezzo alle grida e a dispetto delle invettive dei carrettieri e degli scavatori che costruivano in questo momento la città di Tiberiade, [3] è che abbiano potuto stare là cinquemila persone.

E, passate le Sette Sorgenti, abbiamo lasciato il paese di Genesaret.

Non lontano ci sono le tre città dove il dio avrebbe predicato di preferenza, le tre città che non vollero credere, le città maledette, Cafarnao, Corazin e Betsaida. Arriviamo ora alla riva orientale del lago; non siamo più in Galilea; qui comincia quell'agglomerato di province che, in epoca biblica, si chiamava il paese di Basan e che si chiama più generalmente, per l'epoca che ci interessa, col nome di una delle sue parti, l'Auranitide o l'Hauran, vasto e fertile paese che toccava alla regione di Damasco e si estendeva fino ai confini del grande deserto.

A sud dell'Hauran c'era l'ultima delle cinque regioni della Palestina, l'antico paese di Galaad, quello che nel primo secolo si chiamava la Perea; delimitata a ovest dal Giordano ed estendendosi fino al mar Morto, la Perea toccava così le frontiere orientali della Galilea, della Samaria e della Giudea. A sud della Perea si trovavano gli arabi e Petra, la più famosa delle loro misteriose capitali.

La Giudea era allora interamente ebraica; abbiamo detto che la Samaria passava per professare un giudaismo scismatico; in Galilea il giudaismo dominava, un po' mescolato però con elementi sospetti di provenienza antica; in Perea, e soprattutto nell'Hauran, il giudaismo aveva di fronte a sé, da una parte, una forte cultura greco-romana e, d'altra parte, un retroterra beduino che non si lasciava contaminare.

La storia di queste due regioni, Perea e Hauran, è oscura e le leggende bibliche non bastano a chiarirla. C'è motivo di credere che verso il terzo secolo prima della nostra era l'emigrazione ebraica vi fosse portata lì come altrove; le regioni della Perea vicine al Giordano ricevettero più delle altre coloni ebrei. Nel secondo secolo essi vi erano numerosi; e quando, al momento dell'insurrezione dei Maccabei, si rinnovò uno di quei massacri di ebrei che troviamo attraverso tutta la storia del mondo, vediamo, tra le vittime di questi pogrom, tanti ebrei di Galaad quanti ebrei di Galilea. Sappiamo anche che i Maccabei fecero frequenti incursioni in entrambe le regioni e vi compirono una serie di semi-conquiste; alla sua morte, nel 79, il re ebreo Alessandro Ianneo era padrone di un gran numero di città e di distretti nella Perea e nella parte orientale dell'Hauran, nonché di Samaria e di Galilea.

Con Erode, creatura dei Romani e loro ammiratore, la civiltà romana penetrò in queste regioni ancor più del giudaismo. Le strade romane cominciarono ad attraversare il paese; città intere furono ricostruite alla romana, con tanto di palazzi. A Gerico, Erode si fece costruire una lussuosa residenza invernale, oasi a poche ore di distanza dalla tristezza giudea. A Macheronte costruì il castello dove Salomè doveva eseguire la più famosa delle danze. A Gerasa, le costruzioni romane hanno lasciato le rovine che stupiscono il viaggiatore. Il vecchio paese semitico, infestato di beduini, entrava così nella civiltà greco-romana, ma il giudaismo vi trovava meno proseliti.

La Perea costituiva però la via che conduceva a Gerusalemme i pellegrini delle regioni del nord. Sappiamo che gli ebrei e i giudaizzanti ortodossi si rifiutavano di attraversare la regione aborrita e scismatica dei Samaritani e preferivano fare una lunga diversione piuttosto che contaminarvi i loro passi. Per andare dalla Galilea a Gerusalemme, essi prendevano dunque la stessa strada degli abitanti dell'Hauran occidentale; quella strada discendeva, sulla sua riva sinistra, il corso del Giordano; è per essa che i vangeli fanno passare Gesù per recarsi lui stesso dalla Galilea a Gerusalemme, ed è per essa che noi ritorniamo al nostro punto di partenza.

Dopo essersi riunita a quella che veniva dall'interno della Perea e dell'Hauran, saliva con essa alla montagna spoglia dove si trovava il Tempio. Ma dopo aver lasciato Gerico e prima di salire a Gerusalemme, la strada lasciava alla sua sinistra un terreno desertico che si estendeva fino al mar Morto e che nessuna strada attraversava. Non superando mai l'altitudine di duecentocinquanta metri sotto il livello del Mediterraneo, sorta di conca incuneata tra la montagna di Gerusalemme e le alture che dominano la riva sinistra del Giordano, vi era una zona torrida dove fioriva una vegetazione lussureggiante di arbusti e di terebinti qua e là su un suolo arido. 

Era là che in primavera i Galilei della setta venivano a celebrare, in segreto e al riparo dalle curiosità straniere, il loro dramma sacro, secondo una periodicità di cui ci è impossibile dire se fosse annuale o a qual numero di anni si ripetesse. 

Ed è là che il dramma sacro era stato celebrato nella primavera dell'anno 27. [4


I partiti politici. — Con fortune di apparenza diverse, queste cinque regioni seguivano uno stesso destino. Il grande Erode le aveva per quasi mezzo secolo riunite sotto il suo dominio, ricostruendo così per la prima volta, sotto il suo scettro di idumeo,— con grande scandalo dei puri ebrei, — il regno di Davide e di Salomone, e realizzando, lui per primo, le promesse che il dio Jahvé aveva fatto ai suoi Gerosolimitani.

Alla sua morte, quattro anni prima della nostra era, il suo testamento aveva distribuito, con il consenso di Roma, le cinque regioni tra tre dei suoi figli: la Giudea e la Samaria a uno, la Galilea e la Perea all'altro, l'Hauran al terzo. Nel giro di qualche anno, le prime due erano divenute province romane; poi, un capriccio di Roma le aveva cedute, con le altre tre regioni, a un nipote di Erode, Erode Agrippa, che per tre anni (41-44) aveva regnato come suo nonno su tutta la Palestina. Poi erano ridiventate province romane, governate da procuratori. Ma ad essere governati dai procuratori romani o dai principi erodiani, gli Stati palestinesi non percepivano notevoli differenze. In entrambi i casi, Roma restava la vera padrona; e in entrambi i casi, Roma lasciava amministrarsi, sotto la sua sorveglianza beninteso e salvo certe riserve, quest'intero secondo le loro proprie leggi e i loro usi. 

Abbiamo abbozzato in un precedente volume [5] la situazione della Palestina nel primo secolo; abbiamo tentato di notare lo stato d'animo e di indicare quali partiti dividessero il giudaismo; abbiamo riconosciuto due grandi tradizioni, due metodi, che noi abbiamo simboleggiato sotto i nomi di due rabbini, Hillel e Shammai, la tradizione della guerra sotterranea e la tradizione della guerra aperta; ci è impossibile proseguire senza ricordare e riassumere le nostre conclusioni.

L'ardente nazionalismo dei fondatori dello Stato ebraico, all'epoca di Esdra, il patriottismo feroce che era la condizione della loro esistenza, si era espresso nel culto del dio nazionale Jahvé, e ciò aveva segnato la sua strada nel giudaismo. A forza di identificare il dio Jahvé con la patria ebraica, a forza di ripetere che Israele era il popolo di Jahvé come Jahvé era il dio di Israele, gli antichi Moshlim che composero i libri di Mosè si persuasero che tra Jahvé e gli ebrei un patto era stato stretto e che, mediante l'osservanza della sua legge, Jahvé aveva promesso agli ebrei il libero e pacifico godimento della loro terra.

A dispetto dei Tolomei e dei Seleucidi di volta in volta padroni della Giudea, i profeti avevano ribadito il patto. [6] Per un colpo di genio, all'ora in cui la miseria si faceva più disperata, all'ora in cui la promessa divina sembrava prossima a fallire, i due Isaia l'avevano estesa fino ad annunciare che Jahvé prometteva non solo il godimento pacifico e glorioso della Palestina, ma il dominio del mondo.

L'anima atroce dei salmisti si era riconfortata nella Promessa: infine, come di nuovo le smentite si moltiplicavano, le apocalissi, con il libro di Daniele, erano apparse. Nelle apocalissi non ci sono più condizioni da soddisfare: l'evento finale, il mondo sottomesso, la terra posseduta, Gerusalemme glorificata, è annunciato positivamente, in un termine determinato, con tutte le sue circostanze; l'ebreo non ha più che da aspettare, nel compimento devoto delle opere della Legge, ma nella perseveranza di una fede invincibile. Il giorno in cui, dall'alto del cielo, il Messia apparirà, in mezzo a nubi semiaperte, nel fulgore dei tuoni e dei cherubini, l'opera si compirà e gli ebrei riceveranno dalle sue mani, senza colpo ferire, tra i loro nemici sterminati o inginocchiati, la loro eredità. 

Tale era divenuto l'imperialismo ebraico quando i Romani si impadronirono della Palestina.

Ancora una volta, la realizzazione delle speranze era ritardata; ancora una volta, la realtà dava alle ambizioni un'implacabile smentita.

Aggiungiamo che i Romani erano padroni più duri di quanto lo fossero stati i Siriani o gli Egiziani. E poi, mentre gli Egiziani e i Siriani avevano lasciato gli ebrei a governarsi da soli sotto la loro sovranità, Roma impose, da re o procuratori, dei sovrani aborriti. Infatti, i Romani, così tolleranti verso i popoli che governavano, avevano finito per stancarsi del fanatismo ebraico; a sudditi ingovernabili,  governo tirannico.

Allora si formarono i due grandi partiti dell'ultima epoca del popolo ebraico. Si ebbe il partito di coloro che si esasperarono e il partito di coloro che, senza rinunciare a nulla, pazientarono. Si ebbero con Hillel e Shammai due interpretazioni della Promessa: la tradizione della guerra sotterranea e la tradizione della guerra aperta.

Hillel interpretò:

Seguire l'esempio dei nostri padri. Pazientare. Affidarsi alla parola divina. Rimettersi a Jahvé. Attendere. E attendere tutto da lui. Non aspettarsi nulla da sé. Osservare le ordinanze. Credere e sperare.

Shammai interpretò:

Resistere all'oppressore. Obbedire solo a Dio. Rifiutare ogni sottomissione all'empio.

Abbiamo nella stessa sede riassunto la storia terribilmente agitata della Palestina dalla morte di Erode (4 prima della nostra era) fino alla grande insurrezione dell'anno 66. Abbiamo raccontato come ciascuno dei due partiti, Hillelisti e Shammaisti, avesse svolto il proprio ruolo durante quel periodo travagliato, gli uni predicando la prossima venuta del regno messianico, gli altri appellandosi immediatamente la spada. Si è soliti vedere nei primi degli agitatori religiosi, nei secondi degli agitatori politici; la distinzione non è che apparenza, o piuttosto di metodo. Ma il ruolo degli agitatori religiosi non può comprendersi se si dimenticano, come secondo quadro di un dittico, le terribili attività degli agitatori politici.

Dall'indomani della morte di Erode il Grande, gli shammaisti alzarono la testa e fu in Galilea e nella parte occidentale dell'Hauran che trovarono i loro migliori mezzi di resistenza sotto la guida di un certo Giuda detto il Gaulonita, nato a Gamala in Gaulonitide (ovest dell'Hauran), che fu il primo in ordine di tempo di questi agitatori e il loro prototipo.

Non rifaremo la storia di queste rivolte, sempre soffocate nel fuoco e nel sangue, e sempre rinascenti. La politica romana è sempre stata di liberalità per la sottomissione, di repressione feroce per la rivolta. Non appena Giuda il Gaulonita si è insorto, Varo arriva, prende Seffori centro della rivolta, la incendia e vende i suoi abitanti come schiavi.

Giuda il Gaulonita è fuggito a Emmaus, presso Tiberiade; Varo lo segue, si impadronisce di Emmaus, la brucia come ha bruciato Seffori e, lasciando Giuda a nascondersi sulle montagne, corre a Gerusalemme a sedare la sedizione e fa crocifiggere duemila rivoltosi.

Il censimento di Quirino, dieci anni più tardi, è una nuova fonte di problemi. Gli ebrei consideravano il censimento un'imposizione intollerabile e la Bibbia è piena dell'ira che assale Jahvé ogni volta che l'autorità civile pretende di contare il suo popolo. Giuda il Gaulonita riprende le armi con un fariseo di nome Sadoc.

Le costruzioni realizzate dai figli di Erode ravvivano il malcontento; per costruire Tiberiade (24-26), Erode Antipa ha dovuto profanare tombe antiche.

Il tributo era un'altra causa di sedizione. Gli Hillelisti accettarono di pagarla; gli Shammaisti si rifiutarono di farlo e cedettero solo alla forza; gli esattori delle tasse, chiamati allora i pubblicani, erano, di tutti gli uomini, i più odiati e i più disprezzati.

Dopo la morte di Erode e il censimento di Quirino, i problemi continuano. Il pugno di ferro di Ponzio Pilato ebbe grande difficoltà a mantenere l'ordine.

Volendo far collocare la sua immagine nel tempio di Gerusalemme, Caligola, pochi anni più tardi, quasi scatenò una rivolta generale.

Come suo nonno Erode, Erode Agrippa seppe mantenere l'ordine. Già all'indomani della sua morte, una nuova rivolta scoppia, diretta dai figli di Giuda il Gaulonita; presi, costoro sono crocifissi.

Gli anni che precedettero la grande insurrezione del 66 sono sempre più agitati; atti di fanatismo spaventoso da parte dei Giudei sempre più esasperati; repressione sempre più dura da parte dei Romani. «Un così grande terrore», dice Flavio Giuseppe, «regnava a Gerusalemme, che non si credeva di essere meno in pericolo che nel mezzo della guerra più sanguinosa».

Nelle altre città della Giudea, delle sedizioni scoppiano tra ebrei e pagani, a cui seguono abominevoli massacri. La più feroce intolleranza regna negli ambienti gerosolimitani; non appena non possono perseguitare altri, gli ebrei gridano essi stessi alla persecuzione. Razza eletta da Jahvé, essi hanno diritto sui pagani e i pagani non hanno alcun diritto su di loro. Il fanatismo giudaico dava così l'esempio a quelle chiese per cui la libertà si definisce il diritto al privilegio, e che si giudicano perseguitate non appena esse non possono opprimere i loro avversari.

Un giorno, a Gerusalemme, i capi del partito della resistenza decidono che i sacrifici offerti nel tempio dai pagani devono essere respinti e rifiutano le vittime offerte in nome dell'imperatore. Gli uomini dell'altro partito, sadducei e farisei, tentano di far ritornare i faziosi sulla loro risoluzione; comprendono il pericolo che minaccia la città; inutilmente; i faziosi, confidando nel loro grande numero, soffiano solo sulla rivolta.

La metà del primo secolo segna, in Giudea, una delle epoche più travagliate della storia; un vento di follia furiosa soffia su Gerusalemme; ma la passione nazionale non cessa un attimo di rivestire la forma della passione religiosa; la religione, tra gli ebrei, è, fino alla fine, l'espressione del nazionalismo. 

Le grandi feste che si celebrano ogni anno a Gerusalemme sono sempre occasione di tumulti. Gerusalemme non è una capitale orientale; è una città santa; non si potrebbe paragonarla meglio che a La Mecca di oggi. La legge mosaica ha ordinato, per ciascuna delle grandi feste, che gli ebrei si recassero al Tempio, al tempio unico di Gerusalemme, per presentarsi davanti al loro dio.

«Tre volte all'anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al volto di Jahvé, vostro dio, nel luogo che Egli avrà scelto: nella festa degli azzimi, nella festa delle settimane e nella festa delle capanne». [7]

La legge, una volta fatta per un paese che comprendeva Gerusalemme e i suoi sobborghi, resta la legge di un paese che comprende la Palestina tutt'intera, per non parlare delle colonie sparse in ogni luogo. Il giudaismo, infatti, si mantiene con tutte le sue ordinanze; non rinuncia a nessun verso della sua Torà; sa che i doveri che continua a imporsi sono le forze che si conserva. E a ciascuna delle tre grandi feste, immensi pellegrinaggi, dove la vita nazionale si perpetua sotto le specie della comunione religiosa, si riuniscono nella città santa.

Gerusalemme, in tempi ordinari, conta trentamila anime; al momento delle feste, i pellegrini costituiscono una popolazione di un milione di teste esaltate, di cuori convulsi, di bocche urlanti. Tutto ciò si agita ai piedi del Tempio, centro del mondo, dimora di Jahvé. Le coorti romane vegliano; ma la rabbia intorno a loro gronda, le febbri si agitano; non si ci rende perfettamente conto della potenza romana; i profeti predicano dall'alto dei gradini; gli Zeloti scivolano, pugnale alla mano, tra la folla; e si ridicono le promesse indimenticabili di Jahvé.

Oltre a Gerusalemme e alla Giudea, è in Galilea che la rivolta gronda più forte. La Galilea è un focolaio perenne di insurrezione; è da lì che sono usciti Giuda il Gaulonita e i suoi figli; è lì che nel 66 la rivolta scoppierà quasi nello stesso tempo a Gerusalemme, e le legioni avranno da riconquistare il paese metro dopo metro prima di arrivare alla capitale.

È però da lì che era partita l'umile setta che doveva conquistare pacificamente il mondo.


NOTE

[1] Source du fleuve chrétien, edizione inglese.

[2] Ci si ricordi il testo di san Matteo 2:23: «Gesù andò (o: abitò) in una città chiamata Nazaret (o: Nazareth), perché fosse adempiuto ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: Sarà chiamato Nazareno (o: Nazoreo)», mentre in realtà il termine «Nazoreo» deriva dalla parola «Nazir» (la quale designa certi asceti consacrati a Dio) e non significa in alcun modo abitante o nativo di Nazaret.

[3] Si veda Première génération chrétienne, pagine 77-78.

[4] Dobbiamo ricordarci che abbiamo adottato la data dell'anno 27 solo a titolo di ipotesi plausibile. Si veda, a questo proposito, Dieu Jésus, pag. 219 e seguenti.

[5] Source du fleuve chrétien, 3:3.

[6] Ricordiamo anche che, ritornando all'antica tradizione esegetica, abbiamo situato i profeti dopo i libri della Legge, ma riportandone il tutto a dopo la Cattività.

[7] Deuteronomio 16:16.

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