giovedì 10 dicembre 2020

IL PUZZLE DEI VANGELIIl quadro politico

 (segue da qui)

1° Il quadro politico

Storicamente, il cristianesimo ha avuto origine sostanzialmente con l'impero romano, e si è sviluppato esclusivamente, nei primi secoli, all'interno di quell'impero. Sembra quindi che la ricerca delle condizioni della sua espansione dovrebbe essere facilitata dalla nostra ampia informazione su questo periodo. Non lo è affatto.

Senza dubbio, si rileverà facilmente che l'unificazione del mondo antico sotto la dominazione di Roma ha ampiamente favorito, da una parte la circolazione delle idee e dei testi, d'altra parte la concezione stessa di una religione universale. È perché Roma aveva creato un impero quasi universale che ha potuto espandersi l'idea di una religione aperta a tutti gli uomini; precedentemente, non si conoscevano che le divinità protettrici delle tribù, delle nazioni o delle città; la conquista romana avendo dimostrato l'impotenza di queste divinità locali e realizzato l'unità politica, diveniva possibile concepire una o più divinità su scala mondiale, se si può osare questo neologismo.

Che l'unità dell'impero abbia favorito la concezione di una religione universale ne abbiamo la prova nei vari tentativi che furono fatti ai tempi degli imperatori. Non sarà necessario risalire alla prematura iniziativa di Amenofi IV in Egitto per spiegare che questi tentativi di culto universale sono gravitati attorno ad un tema solare. Il problema sarebbe quindi facile da risolvere, se fosse un culto solare o quello di un dio di origine solare, come Mitra, ad essersi imposto. La cosa parve possibile, e non ricercherò qui le cause che fecero fallire quella diffusione del culto di Mitra. Quel che è certo è che non ebbe luogo, e che questo fallimento beneficiò indirettamente al cristianesimo, che non è però, nella sua essenza, un culto solare.

In secondo luogo, l'unificazione dell'impero ha favorito gli scambi, sia economici che spirituali. A dire il vero, Roma non ha fatto che ereditare le conquiste e le ambizioni di Alessandro, che concepì per primo e fallì di realizzare un impero universale: gli imperatori romani sono gli eredi di Alessandro, che aveva aperto loro la via. 

Il cristianesimo si sviluppò, nell'impero romano, durante il periodo più favorevole a quella espansione, quello della «pace romana». Gli sarebbe stato senza dubbio molto più difficile imporsi, se non avesse approfittato di quel lungo periodo di calma per gettare le sue fondamenta, che si riveleranno in seguito abbastanza forti da resistere alle invasioni barbariche.

Col favore della generale tolleranza dei Romani in materia religiosa, numerosi culti approfittarono allora di circostanze favorevoli per espandersi in tutto l'impero, e specialmente a Roma stessa. Tutti questi culti provengono dalla vicina Asia, ad eccezione del culto egiziano di Iside. Quella invasione dei culti orientali suscita molte proteste tra i vecchi Romani tradizionalisti, [2] si cerca a volte di reagire contro quella che sembra essere una depravazione dei costumi; ma la corrente orientale è la più forte, e anche gli imperatori si lasceranno conquistare da queste influenze: sebbene restauratore dell'antica religione, Augusto autorizza i culti di Adone e di Sabazio; è da Claudio che il culto di Attis ricevette il diritto di manifestarsi in pieno giorno a Roma; c'erano templi di Iside a Roma e a Pompei; il culto di Mitra, ampiamente diffuso nelle legioni romane (già popolate da mercenari stranieri), diventerà quasi ufficiale sotto Commodo. E si assicura anche che Marco Aurelio avesse fatto ricorso a «riti stranieri» nel corso della guerra contro i Marcomanni, o fatto ricorso ad uno stregone egiziano. [3] Tertulliano fingerà di vedervi un riconoscimento del cristianesimo, [4] mentre non si trattava probabilmente che di una concessione alla superstizione dei soldati.

Il favore imperiale si farà attendere, per i cristiani, fino al IV° secolo. Ma prima di allora il cristianesimo ha beneficiato, come tutti gli altri culti, dell'unificazione dell'impero. L'espressione evangelica «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» [5] si basa sulla dominazione romana, così come lo aveva già notato Origene. [6] È la pace romana, sono le strutture di comunicazione romane ad aver permesso gli spostamenti dell'apostolo Paolo così come l'esportazione in Egitto e poi in Italia della Gnosi siriana. E se una comunità cristiana ha potuto stabilirsi a Roma, in un'epoca abbastanza mal determinata, è ancora grazie alle strutture che la capitale offriva all'insediamento di tutti gli stranieri e dei loro culti, che fossero siriani, egiziani, ebrei o altri. 

L'antica aristocrazia romana disprezza queste importazioni, ma sta per morire. Gli imperatori si circondano di uomini nuovi, liberti o figli di liberti, che non hanno la stessa preoccupazione di conservare le tradizioni. Ben più, tenuto conto del reclutamento della schiavitù, la maggior parte di questi liberti, che accedono al potere, sono di origine straniera; [7] non saranno che più inclini a tollerare o a ricevere culti che sono loro più familiari che ai Romani.

È nel «secolo d'oro» dell'impero romano, sotto gli Antonini, che il cristianesimo si espande; è al tempo di Marco Aurelio che furono probabilmente scritti, come vedremo, i vangeli. Il fatto che a Roma stessa un imperatore abbia potuto dedicarsi a speculazioni filosofiche è sufficiente a caratterizzare un clima in cui i problemi spirituali sono in primo piano, dove la pace interna [8] procura il tempo libero necessario per queste ricerche. È difficile immaginare come il conflitto tra i «cristiani» di Roma e gli Gnostici avesse potuto svilupparsi al tempo delle lotte politiche alle quali Augusto pose fine. La rottura con Marcione (144) ebbe luogo durante il regno di Antonino, mentre a Roma non succedeva nulla, il popolo appassionandosi ai giochi, la classe agiata per la filosofia. L'impero aveva delle basi che si credevano solide, e Roma sembrava eterna.

Così si spiega uno dei tratti più eclatanti dei vangeli, l'assenza apparente di ogni attaccamento temporale, di ogni allusione ai problemi contemporanei. Questo vuoto non è peculiare della letteratura religiosa: si potrebbe scrivere uno studio sulle idee politiche di un Virgilio o di un Seneca, ma, attraverso le loro opere, chi potrebbe farlo per Plinio il Giovane o anche per Tacito? Nel I° secolo, Lucano o Ovidio possono a rigore essere considerati scrittori dei opposizione; a partire da Traiano, non ci sono più oppositori. Si può ritenere che questa sia una delle cause della decadenza delle lettere latine, il fatto non è meno evidente. Nel secolo successivo, anche un Tertulliano si sforzerà di adulare il potere. [9] Il silenzio si è fatto su tutti i problemi politici o sociali, allo stesso modo in cui in Francia, al tempo di Luigi XIV, sarà necessario esaminare da vicino alcune allusioni critiche in La Fontaine o La Bruyère. [9*] Il secolo d'oro dell'impero romano è un secolo conformista.

L'ELLENISMO — Tuttavia l'unità dell'impero non era che apparente; un germe di divisione sussisteva, che aveva quasi spezzato il mondo antico in due parti prima di Azio, e che provocherà la sua rottura nel IV° secolo. Anche se sottomesso a Roma, il mondo mediterraneo rimane doppio: l'Occidente è latino, ma l'Oriente rimane greco.

La divisione è marcata dalla differenza di lingua: l'impero è bilingue, e gli editti imperiali devono essere tradotti in greco per i paesi dell'est. Certo, può darsi che si sia usato a volte il latino in Egitto o in Siria; inoltre sappiamo che il greco era largamente usato a Roma, non soltanto  eruditi come Cicerone lo impiegano per moda letteraria, non solo Marco Aurelio scrive in greco i suoi Pensieri, ma anche tra la gente il greco doveva essere la lingua di tutti i gruppi di origine orientale che popolavano la capitale. Sennò, come spiegare che i vangeli, in linea di principio destinati alle classi popolari, siano stati scritti in greco, anche quello di Marco, sicuramente scritto a Roma? Fino al III° secolo con Tertulliano, il latino rimane sconosciuto ai testi e agli autori cristiani.

La cosa è ancora più certa per le province dell'Asia: si parlava greco, non solo in Grecia o in Egitto, ma anche in Bitinia, in Siria. Non saremo quindi sorpresi che l'apostolo Paolo abbia usato quella lingua, come gli autori dell'Apocalisse o della prima versione del IV° Vangelo. Si parlava anche certamente greco in Palestina, almeno a Cesarea; mal ci immaginiamo che Ponzio Pilato abbia appreso l'aramaico; è certamente in greco che dava le sue istruzioni e rendeva giustizia. Non era lo stesso per i popoli, che mantenevano la loro lingua: l'aramaico deve essere la lingua comune a Gerusalemme. Ma l'uso del greco come lingua di scambio e come veicolo di idee era così naturale che nessuno dei nostri evangelisti si è sognato di dotare Gesù di un interprete al momento del suo processo. Ne servirebbe uno per la verosimiglianza, ma questa non è la principale preoccupazione dei nostri autori: Gesù, uomo del popolo che parla al popolo, è ritenuto citare la versione greca della Bibbia ed esprimersi fluentemente in greco. Quanto all'ebraico, è una lingua morta, che non è più utilizzata che per il culto.

L'influenza dell'ellenismo non si limita alla lingua, è anche il pensiero greco che domina. Si sa che esso è ampiamente penetrato a Roma, che lo spirito greco ha conquistato il suo conquistatore. Ma lo spirito latino, con il suo buon senso contadino, si difende. In Oriente, la sottigliezza greca regna incontrastata, sia nell'opera di un Luciano di Samosata che nelle controversie religiose. Quando l'autore dell'Apocalisse mette in guardia contro i Nicolaiti, o quando il Cristo gnostico sarà assimilato al Logos platonico ricevuto dalla scuola ebraica di Alessandria, tutte queste sottigliezze, queste speculazioni astratte rientrano nel pensiero greco.

A Roma si ha lo spirito più positivo. Le persone colte si iniziano alla filosofia greca, e non siamo troppo sorpresi di vedere Gnostici come Marcione o Valentino stabilirsi a Roma e trovarvi dapprima un pubblico favorevole; ma quel pubblico è necessariamente limitato, la massa del popolo, in gran parte analfabeta, non capirà, e avrà tendenza a semplificare, ad accusare le contraddizioni invece di mitigarle con un verbalismo erudito. Trapiantato a Roma, il cristianesimo, di origine orientale, doveva necessariamente subire una trasformazione tanto più profonda quanto più penetrava negli strati popolari dell'Occidente.

Con la sua abitudine agli equivoci, lo spirito greco poteva benissimo accomodarsi con un Cristo che, pur restando un essere celeste, prendeva l'apparenza dell'umanità, che sembrava diventare un uomo pur non essendolo. Poteva ben accettare la natura puramente simbolica dei racconti dell'incarnazione, della passione, oppure il dogma di una comunione con il dio per mezzo del pane e del vino. A Roma, e soprattutto nel popolo, tutto questo ciò sembra troppo erudito e troppo vago: Gesù era uomo o non lo era, non vi era soluzione intermedia. E beninteso più sarebbe stato uomo, più il popolo si sentiva vicino a lui. Allo stesso modo in cui si prendevano alla lettera i racconti della morte di Attis, bisognava che la morte di Gesù fosse un fatto reale, non un'allegoria. Lo spirito greco sapeva giocare con le favole: a Roma ogni favola tendeva ad essere presa in senso letterale. È così che, nei nostri vangeli, gli episodi, che non avevano all'origine che un senso allegorico, saranno presi per racconti di fatti reali: Origene potrà ben ricordare in seguito che molte cose non sono accadute come le si sono scritte, è il racconto scritto che si imporrà. 

Ma non si imporrà che in Occidente, l'Oriente continuerà i suoi giochi sottili. Al Concilio di Nicea, si tenterà un compromesso, senza poter mettere fine alle «eresie». Solo l'irruzione dei Barbari ritarderà la rottura inevitabile tra il mondo greco (anche se l'impero bizantino continua a definirsi «romano») e le vestigia della romanità in Occidente.

LA VITA DELLE PROVINCE — Se conosciamo abbastanza bene la storia di Roma, siamo molto meno informati sulla vita materiale e spirituale nelle remote province dell'Asia. La nostra curiosità, su questo punto, è scarsamente soddisfatta dei dettagli emersi dalla corrispondenza di Plinio il Giovane. Come si viveva, ad esempio, ad Antiochia o a Damasco?

Che ci sia stata, in queste capitali provinciali, una vita intellettuale, è molto probabile. Che ci sia stata un'intensa vita religiosa, lo sappiamo dal numero stesso di culti che vi si praticavano. Ma quante cose ignoriamo, che sarebbero utili per comprendere la genesi di una nuova religione!

Sarebbe interessante, in particolare, essere meglio informati sulla vita intellettuale e religiosa ad Antiochia, da dove partì l'apostolo Paolo, che fu un centro attivo dello Gnosticismo, e che comportava una comunità ebraica largamente aperta ai proseliti. Da nessun'altra parte si trovavano realizzate condizioni più favorevoli alla formazione del sincretismo, ed è precisamente là che fu elaborato il sincretismo cristiano. Per sfortuna Antiochia non ha dato i natali a nessun grande scrittore, e la descrizione di questo ambiente, certamente molto vario, non ha tentato nessun autore antico. 

Siamo un po' più informati su Alessandria, ma molto poco sulle prime comunità cristiane in Egitto. Sappiamo che gli Gnostici vi hanno preceduto i cristiani romani. 

Incertezze da tutte le parti ci impediscono di approfondire lo studio di questi ambienti precristiani, che sarebbe così utile da conoscere.

LA PALESTINA — Tra le province, la Palestina deve essere considerata isolatamente, sia per la sua originalità che per le informazioni che ci sono pervenute.

Ho raccontato altrove [10] la lunga lotta del partito ebraico degli Zeloti contro l'occupante romano: dall'anno 6 o 7 (censimento di Quirino) al 66, c'è la guerra occulta, la resistenza nella macchia, la successione di assassinii clandestini; a partire dal 66, c'è la lotta armata, che non conoscerà neppure una tregua con la presa di Gerusalemme nel 70. 

Nella misura in cui si vuole attribuire al cristianesimo le origini ebraiche — e sono innegabili, anche se le si ha esagerate — questi eventi dovevano aver giocato un ruolo importante. Ma quale? 

La rovina di Gerusalemme comportò certamente un afflusso importante di rifugiati nelle comunità preesistenti della «diaspora». Nello stesso tempo cessava il culto ufficiale ebraico, e con esso l'influenza della casta dei sommi sacerdoti. Ma se la capitale è abbandonata, la vita non ha cessato del tutto in Palestina. Sfortunatamente regna il silenzio nei testi che ci sono pervenuti, ed è difficile apprezzare in quale misura la sottomissione fu pesante per gli sconfitti. L'annuncio della rovina di Gerusalemme, profezia a posteriori, figura nei vangeli, ma non si sa molto bene se annuncia la fine del mondo [11] o l'alba di tempi nuovi.

La resistenza ebraica non è del resto cessata. Nel 132, al tempo di Adriano, la lotta riprenderà sotto la guida di un nuovo Messia, chiamato Bar Kokhba; si concluderà nel 135 con una nuova sconfitta, che segnerà la fine delle pretese ebraiche ad un regno temporale. Anche i nostri vangeli conoscono questi eventi e vi fanno un'allusione, [12] abbastanza chiara come si vedrà; essi sanno che il tentativo è fallito, e che bisogna dissociarsene. 

Non è in Palestina, è a Roma che si porrà il problema dei rapporti del giudaismo con la nuova religione. Nel 140, Marcione tenterà di staccare il cristianesimo dai suoi legami ebraici: non ci riuscirà. Questo potrebbe indurci a pensare che la comunità di Roma, che allontanerà Marcione nel 144, fosse composta in maggioranza da ebrei o da giudaizzanti. I nostri vangeli sono gli strumenti di lotta condotta da quella fazione «giudeo-cristiana» contro gli Gnostici. La lotta proseguirà ancora al tempo di Celso e di Ireneo. È chiaro che i giudeo-cristiani, ossia i cristiani intrisi di giudaismo e che si legano (in apparenza per lo meno) al giudaismo, hanno prevalso. Non conosciamo sfortunatamente gli episodi di questo conflitto. I nostri vangeli sono il prodotto di quella vittoria, ma vedremo quanto i vincitori hanno dovuto, per vincere, prendere in prestito dai loro avversari.

In relazione agli eventi in Palestina, una domanda importante si pone: che ne è stato degli Esseni? Anche se si ammette che un gran numero di loro sono morti durante la guerra o l'assedio, come è probabilmente il caso della comunità di Qumran che non è mai tornata a recuperare i suoi manoscritti nascosti nelle grotte, è improbabile che siano stati tutti vittime della guerra. Ve ne erano in tutte le città, e fino in Egitto. Cosa sono divenuti? Essi scomparvero dalla storia in quell'epoca. La tentazione è forte di farli entrare nelle prime cosiddette comunità cosiddette cristiane, che essi hanno forse formato in maggioranza. È possibile, ma bisogna allora ammettere che si sarebbero rapidamente evoluti, fino a perdere la memoria del loro Maestro di Giustizia, oppure a reincarnarlo in Gesù: l'ipotesi è fragile, ed è meglio ammettere che non ne sappiamo nulla. Le influenze profonde dell'Essenismo sono discernibili nei Vangeli, ma non sappiamo come vi siano passate. 

NOTE

[2] Giovenale, 3:2 e 6:511-591.

[3] Dione Cassio, 71:8:4.

[4] Apologetico 5:6.

[5] Matteo 28:19. Confronta Luca 24:47.

[6] Contra Celsum 2:30.

[7] Si veda Jean GAGÉ, Les classes sociales dans l'empire romain, Payot 1964, pag. 141.

[8] Non alle frontiere, ma ciò influenza poco la vita urbana.

[9] Apologetico, cap. 30-32.

[9*] Non dimentico Vauban, che non è uno scrittore, ma un economista.

[10] G. FAU, Le dossier juif, 1° parte.

[11] Matteo 24:3.

[12] Marco 13:14-19, Matteo 24:15-21, Luca 21:20-24.

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