(per la prefazione del traduttore, si veda qui)
GESÙ È UNA PERSONALITÀ STORICA ?
CONFERENZA
Dr. Arthur Drews, professore all'Università.
Colui che, alla nostra epoca, vuole trattare pubblicamente un problema come quello dell'esistenza storica di Gesù, deve aspettarsi di passare per un perturbatore della vita religiosa, per un nemico dei buoni costumi e dell'ordine sociale. Queste tendenze distruttive mi sono completamente estranee. Se accettassi l'invito che l'Unione monista tedesca mi ha fatto l'onore di rivolgermi, venendo a trattare davanti a voi questo argomento, è perché ero convinto che questa questione particolarmente scottante della religione moderna non potesse più essere relegata nell'ufficio degli studiosi. Le persone istruite hanno il diritto di voler essere illuminate sullo stato di questa questione e di essere in grado di farsi un'opinione al riguardo. Questo compito è certamente importante.
A causa del legame stretto che collega questo problema agli interessi di ordine morale, è a malapena possibile esprimersi in maniera di non ferire qualcuno e di non creare malintesi di molti tipi. Me ne sono reso perfettamente conto, e sono già stato avvertito dall'accoglienza ricevuta durante la mia conferenza. Tutto quello che posso dire è che tenterò, per quanto sarà in mio potere, di astenermi in tutte le mie spiegazioni di ogni punto, da qualsiasi manifestazione offensiva, al fine di rendere possibile uno studio puramente positivo di questa importante questione. E se, malgrado ciò, nell'ardore del combattimento, dovesse capitare a uno di noi di impiegare una parola dal suono troppo duro, che l'idea di un'offesa personale sia in ogni caso respinta, e che ciascuno di noi assuma in anticipo nel suo avversario la buona fede di cui si vanta egli stesso.
La questione di cui noi ci occupiamo è stata posta molto prima della nostra epoca. Già nel 1780 e nel 1790 i francesi Dupuis e Volney l'hanno sollevata e risolta per la negazione. Tra noi, David Frederick Strauss, con la sua decomposizione delle storie evangeliche in miti e in poesia pia, ha interessato le persone istruite in una cerchia molto estesa, mentre la critica puramente negativa che ha fatto Bruno Bauer degli scritti del Nuovo Testamento è rimasta quasi senza influenza e solo recentemente ha cominciato a conquistare l'interesse di cui era degna. Tuttavia la teologia, detta critica o storica, del secolo scorso, nel negare la divinità di Cristo, ha distrutto l'aura immateriale di questa figura, e ha collocato il presunto fondatore della religione cristiana sotto un giorno puramente storico, annoverandolo fra altre personalità notevoli nella storia dell'umanità. In queste condizioni, la questione della realtà della sua esistenza storica ha perduto la natura paradossale che aveva conservato fino ad allora agli occhi del maggior numero, e non sembra affatto singolare porre la questione dell'esistenza storica di Gesù più che quella dell'esistenza dei sette re di Roma, per esempio, o di Guglielmo Tell o di qualche altro personaggio storico.
Su cosa si appoggia, in realtà, il credo in un Gesù storico? Sul Nuovo Testamento: vangeli, atti degli apostoli e le cosiddette epistole di Paolo. Queste ultime sono, all'unanimità, i più antichi monumenti del cristianesimo. In verità, non conosciamo la data esatta dell'apparizione di alcuna delle Epistole, attribuite a Paolo, che ci sono pervenute. Tuttavia, secondo l'opinione ricevuta, la loro composizione è anteriore all'anno 70 e può risalire agli anni 53-62, mentre il più antico dei Vangeli in nostro possesso, quello di Marco, sarebbe stato scritto solo dopo l'anno 70. Si suppone quindi che l'autore delle Epistole sia proprio Paolo, il tessitore di Tarso e l'apostolo itinerante che conosciamo dagli Atti degli Apostoli. Ma già qui le opinioni divergono. Dal punto di vista ortodosso, secondo il quale tutte le cosiddette epistole di Paolo sono state scritte da Paolo stesso, tranne tutt'al più l'Epistola agli Ebrei, tutte le diverse valutazioni del valore storico di queste lettere, rilasciate dalla teologia moderna, sono senza valore. Il maggior numero di teologi rivendica perlomeno, con Ferdinand Baur, l'autenticità di quattro grandi epistole, e cioè: quella ai Galati, le due ai Corinzi e quella ai Romani. Ma, in Olanda, un'intera scuola teologica concorda con Bruno Bauer nel considerare tutte queste epistole di Paolo generalmente interpolate e scritte in un'epoca ben successiva, nell'interesse della Chiesa cristiana; e questa opinione radicale ha recentemente guadagnato, anche tra noi, sempre più terreno, nella misura in cui ci si è abituati ad esaminare gli scritti biblici con meno pregiudizi, e ci si rende meglio conto della facilità con la quale la Chiesa si sia servita, in origine, di pie falsificazioni introdotte nelle fonti letterarie primitive, al fine di stabilire la sua posizione nel mondo.
Ma la personalità di Paolo non ci dà affatto una garanzia? Non abbiamo affatto in lui una testimonianza degna di fede per quel che è dell'esistenza storica di Gesù? Gli Atti degli Apostoli ci raccontano gli avvenimenti più importanti della vita di quest'uomo. Sfortunatamente i loro dati storici sono troppo incerti, malgrado alcuni tentativi moderni fatti per salvare quest'opera: i loro racconti sono piene di ornamenti romanzeschi e tendenzialmente truccati. Soprattutto per quanto riguarda la descrizione che ci danno di Paolo, la loro raffigurazione è, come lo ha già riconosciuto Bruno Bauer — dimostrandolo con argomentazioni impressionanti ai difensori della tradizione ecclesiastica — un'opera talmente elaborata, che noi siamo assolutamente giustificati nel diffidare dell'accuratezza degli eventi raccontati in questi scritti. Infine, l'autore degli Atti degli Apostoli non ci dice affatto che Paolo ha avuto un'attività letteraria! L'affermazione che Paolo sia realmente l'autore delle epistole in questione non trova dunque alcun sostegno negli Atti degli Apostoli.
Ma abbandoniamo la questione dell'autenticità delle epistole di Paolo, sulla quale senza dubbio non si arriverà mai a mettersi completamente d'accordo, per la semplicissima ragione che mancano i dati positivi per risolverla. E vediamo cosa possiamo apprendere da Paolo a proposito del Gesù storico! Ebbene, troviamo, nelle quattro grandi epistole dell'apostolo, che sole possono essere prese in considerazione perché sono generalmente accettate, un gran numero di parole e di comandamenti del “Signore”, parole e comandamenti citati di passaggio e pertinenti alle questioni pratiche dell'organizzazione della comunità. È così, per esempio, che Paolo si richiama a Gesù come capo della comunità, poichè ne va della difesa del divorzio e del diritto che hanno gli apostoli di farsi nutrire da questa comunità. Ma non si può scoprire in queste parole se Paolo si riferisce espressamente a un individuo storico, oppure se si tratta semplicemente di regole date, con parecchie altre simili, come “parole del Signore”, vale a dire, del patrono e del protettore della comunità religiosa in questione.
In due punti soltanto, egli cita formalmente dei fatti risalenti a un Gesù storico. Il primo di questi passi si trova nella prima ai Corinzi, cap. 11: 23-25, dove è detto: “il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, ecc...”
Nella notte in cui fu tradito! Ahimè! l'intero passo dà l'impressione di un'interpolazione successiva.
Perché suppone le parole della santa Cena istituite in Luca, parole che, al momento della composizione dell'Epistola ai Corinzi, non dovevano essere mai scritte ancora. Non va affatto meglio col passo della prima ai Corinzi, cap. 15:5 e seguenti, dove Paolo cerca di confermare la verità del suo insegnamento mediante la resurrezione di Gesù, citando dei testimoni che avrebbero visto Gesù dopo la sua morte.
Tra questi testimoni si sarebbero trovati “più di cinquecento fratelli”, che lo avrebbero tutti visto allo stesso momento. Stiamo per essere sorpresi del fatto che i Vangeli, seppure sarebbero stati scritti molto più tardi delle epistole di Paolo, non facciano alcuna menzione di questo avvenimento straordinario. Così i teologi critici sono convinti che, in tutti questi casi, ci siano al massimo solo visioni o allucinazioni dei discepoli in estasi; il passo citato non può dunque tantomeno servire a provare il Gesù storico. Persino se questi discepoli avessero visto qualcosa, un Gesù in una trasfigurazione celeste, ciò non proverebbe ancora che avessero avuto più di una visione interiore, né che questa visione sia stata prodotta da un individuo reale e deceduto. La visione dei discepoli e dei membri della comunità testimonia tutt'al più la loro fede in un certo Gesù, ma non l'esistenza storica del Gesù dei teologi liberali. Nel primo capitolo dell'Epistola ai Galati, Paolo menziona Giacomo “il fratello del Signore”, come lui si esprime, di cui avrebbe fatto la conoscenza a Gerusalemme. Si dirà che se Gesù ha avuto un fratello, e se Paolo ha conosciuto questo fratello personalmente, Gesù deve essere esistito come personaggio storico.
Ma era consuetudine nelle antiche comunità religiose che i membri di queste comunità si chiamassero tra loro, “fratelli” e “sorelle”. È così che troviamo nella prima ai Corinzi, cap. 11:5:
“Non abbiamo il diritto (si tratta di Paolo e di Barnaba) di portare con noi una sorella per donna, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?” La fraternità della setta è qui evidente. Girolamo potrebbe aver visto giusto quando disse: “Giacomo era chiamato il fratello del Signore per il suo grande carattere, la sua fede incomparabile e la sua rara saggezza. Gli altri apostoli sono, è vero, a loro volta chiamati fratelli, ma lui porta di preferenza questo nome, perché il Signore, quando se ne andò, gli aveva affidato i figli di sua madre, cioè i membri della comunità di Gerusalemme”. Si obietterà che Girolamo combattè la consanguineità fraterna di Giacomo a causa del suo attaccamento all'idea della verginità di Maria. Ma Origene, nel suo scritto contro Celso, si esprime in una maniera identica, eppure ai suoi tempi la disputa relativa a Maria non era ancora sorta. Paolo nondimeno predica in pubblico un vangelo di Gesù, e la condizione umana, la morte e la resurrezione di Gesù costituiscono l'essenziale di tutto il suo pensiero e di tutta la sua attività religiosa. La condizione umana e la realtà storica sono due cose diverse; il problema è sapere se, allorchè l'apostolo parla di Gesù come di un “uomo”, egli abbia in vista un individuo reale e storico, un uomo che ha vissuto in un'epoca determinata e in determinate circostanze. È certo, e questo punto non è affatto contestato dai teologi, che Paolo ha attribuito estremamente poco valore ai fatti storici della vita di Gesù. Paolo ebbe delle occasioni di informarsi sul Gesù storico, che non aveva affatto conosciuto personalmente, nelle sue relazioni con i discepoli e i seguaci che, per molti anni, avevano familiarmente circondato Gesù. Costoro, si sa, avevano impresse le sue parole così profondamente nella loro memoria da poter riprodurre per molto tempo dopo la sua morte — i teologi ce lo assicurano —, alla parola presa, ciascuna delle sentenze del maestro e fornire così agli evangelisti il materiale delle loro composizioni.
Paolo non mostra alcun interesse per loro. Sembra addirittura che, secondo le sue stesse espressioni, si sia astenuto intenzionalmente dall'apprendere dai discepoli ciò che costoro potevano sapere riguardo il loro Gesù. La vita terrena di Gesù nel suo insieme gli è perfettamente indifferente. Perlomeno, le sue epistole non ci dicono assolutamente nulla sulla persona e sulla vita di Gesù: “Se tutte le sue epistole fossero andate perdute”, ha detto un teologo contemporaneo di primo piano, “noi non saremmo molto meno informati su Gesù di quanto lo siamo”. Paolo non racconta nemmeno come degli avvenimenti storici che Gesù abbia fatto dei miracoli, che si sia elevato con la sua vita morale al di sopra di tutto ciò che lo circondava; passa sotto silenzio la nascita miracolosa di quest'uomo e tutto ciò che lo riguarda, allorchè all'epoca in cui visse Paolo si era avidi di meraviglie, e lui avrebbe sicuramente richiamato e fortificato con queste storie l'interesse che si portava a Gesù. Ciò che egli dà come “parole del Signore”, queste sono, proprio come ho già detto, delle semplici regole pratiche per la comunità, dato che queste regole non si collegano affatto ad un individuo storico. Tutte queste prescrizioni morali, tutti questi avvertimenti, sono assolutamente indipendenti da un'attribuzione ad un Gesù storico.
In tutti i suoi insegnamenti, Paolo considera Gesù solo dal punto di vista della salvezza spirituale degli uomini. E da nessuna parte si è dato la minima pena di presentarlo a loro in una maniera più umana, sia nel ricordare loro la compassione che Gesù avrebbe mostrato per i poveri e gli oppressi, sia nel citare qualcuna delle frasi essenziali di Gesù oppure delle sue azioni principali, e cercando così di convincere gli uomini che il più famoso dei maestri e dei profeti ebrei era stato, per servirmi di un'espressione cara ai teologi, “unico nel suo genere”. La morte e la resurrezione, ecco in realtà i soli fatti che Paolo cita riguardo Gesù, e che non si stanca mai di presentare ai suoi lettori sotto le forme più diverse. Ciò sembra tanto più straordinario in quanto la condizione umana di Gesù è costantemente affermata da lui nella maniera più netta e collocata al centro della sua concezione religiosa del mondo. Eppure, Gesù, come lo descrive Paolo, non è affatto del tutto un uomo, ma una personalità divina, un essere spirituale e celeste, né carne, né sangue, un tipo assolutamente privo di ogni individualità, un tipo sovrumano. Questo al punto tale, che persino un teologo come Brückner non può negare che l'immagine di Cristo derivata da Paolo “sia quasi assolutamente indipendente dalla personalità storica di Gesù”.
Dalla personalità storica? Quasi assolutamente indipendente? Ma ciò che si deve precisamente provare, è che sotto il Cristo di Paolo ci sia una personalità storica. Invece di farlo, la teologia parte costantemente da questa affermazione, non dimostrata, che questo ritratto di Cristo in Paolo è realmente derivato dall'immagine di Gesù che visse sulla terra. Un giudizio spoglio di pregiudizi non potrà mancare di riconoscere che le epistole di Paolo non implicano in alcuna maniera la necessità di ammettere un tale Gesù, e che nessuno avrebbe trovato questo Gesù nelle epistole, a meno che non avesse già in anticipo accettato l'idea. Non si può dunque per nulla affermare, come fanno di solito i teologi, che l'esistenza di un Gesù storico trovi in Paolo “la sua più sicura dimostrazione”. Da dove proviene questa conoscenza di un Gesù storico, che si introduce così involontariamente nel pensiero di Paolo? Essa viene dai Vangeli. Ma questi, all'unanimità, sono di un'epoca posteriore a quella delle epistole di Paolo. Allora il problema è sapere da dove i vangeli hanno derivato la loro conoscenza di una tale personalità.
Dei quattro vangeli che ci sono pervenuti, il più recente è quello di Giovanni. Si ammette molto generalmente al giorno d'oggi che esso risale all'anno 140 dell'era cristiana. In ogni caso, esso suppone l'esistenza di altri vangeli, e la sua natura è così nettamente dogmatica e tendenziosa, da non poter essere presa in considerazione come fonte storica. Degli altri tre vangeli, di solito chiamati sinottici, a causa della somiglianza delle loro esposizioni, tanto per la forma che per la sostanza, è Marco che passa per il più antico. Matteo e Luca l'hanno avuto sotto i loro occhi mentre scrivevano i loro vangeli. È quindi a Marco che dobbiamo attenerci di preferenza se vogliamo rispondere a questa domanda: da dove i vangeli derivano ciò che sanno di Gesù?
Secondo l'opinione comune, Marco sarebbe stato l'amico e il discepolo di Pietro e il compagno dell'apostolo Paolo nei suoi viaggi apostolici. Come tale, avrebbe notato ciò che aveva appreso lui stesso da Pietro riguardo a Gesù.
Questo è ciò che ci riporta lo storico ecclesiastico Eusebio, nel sesto secolo, riferendosi a Papia, vescovo del secondo secolo, che pretende di ricavare questo fatto da Giovanni l'evangelista. Così Eusebio ha appreso da Papia ciò che costui aveva ricavato da Giovanni l'evangelista, che lo aveva ricavato a sua volta da Marco, che lo ottenne da Pietro, che lo ricavò da Gesù, ci creda chi vorrà.
In ogni caso, Marco non ha affatto dovuto citare gli atti e le parole di Gesù in ordine cronologico, ma nell'ordine in cui Pietro li raccontava nelle sue conferenze, secondo i bisogni del suo pubblico. Se dunque il nostro vangelo di Marco presenta qualche ordine nella successione degli avvenimenti, certamente non può derivare dal discepolo di Pietro. Di conseguenza, nessun significato storico gli si può attribuire. Non è che la testimonianza dell'arte di un compilatore posteriore. Si comprende così a meraviglia che non vi è nell'insieme dei tre vangeli alcuna concordanza dal punto di vista della successione degli eventi, così che è impossibile scrivere una vita di Gesù; e proprio per questo la nostra opinione sul valore storico dei vangeli deve ben diminuire.
Diventiamo ancora più sconcertati, se ci ricordiamo che nessuno dei vangeli ha potuto essere composto prima dell'anno 70, dal momento che il vangelo di Marco presuppone già realizzata la rovina di Gerusalemme, che ebbe luogo a questa data; Luca e Matteo dovevano essere stati composti solo un po' prima e un po' dopo la fine del primo secolo. Quindi almeno quaranta anni sono passati prima che sia apparso il primo racconto scritto e completo sulla vita di Gesù. Negli anni precedenti, le comunità si sarebbero accontentate di conservare, per mezzo di narrazioni orali, ciò che era importante sapere riguardo il Salvatore. Si può immaginare che cosa questo ci dà dal punto di vista della fiducia storica da accordare ai vangeli, pensando a ciò che possiamo noi stessi conoscere della vita dei nostri nonni e perfino dei nostri genitori, fossero morti quarant'anni fa e non ci avessero lasciato alcun documento scritto. Si aggiunga a ciò che siamo in Oriente, dove gli uomini sono pieni di fantasia, privi di senso storico, veri tipi di inesattezza e di incapacità a rendere e a conservare i fatti in maniera obiettiva, qualunque sia l'eccellenza della loro memoria! E in effetti, le numerose contraddizioni e varianti, che si trovano altrettanto bene in ciascuno dei sinottici quando li si confrontano tra loro (non si tratta affatto qui di punti indifferenti come i nomi o le indicazioni di tempo e di luogo) mostrano quante cose fossero già diventate incerte e discutibili nelle loro memorie, all'epoca in cui furono composte; mostrano anche quanta fantasia regnasse già allora, perché i racconti aggiuntivi sono accresciuti da osservazioni di sfondo o da discrete insinuazioni; ricordatevi le storie della nascita e dell'infanzia, quella della tentazione, i miracoli di Gesù, la trasfigurazione, l'ascensione, o perfino una storia come quella dei mercanti cacciati dal tempio, oppure l'agonia nel giardino di Getsemani, un'agonia a cui nessuno tuttavia poteva assistere per ascoltare le parole di Gesù. Tutte queste storie non hanno certamente alcun fondamento storico. Accade a malapena se, nei vangeli, due eventi siano riportati nelle stesse condizioni di relazione reciproca oppure soltanto nella stessa maniera. Coloro che vogliono convincersene non hanno che da leggere la Revue des quatre évangiles di S. E. Berus (Lipsia, 1897) con il commentario che l'accompagna.
Ma, secondo Papia, le sentenze pronunciate da Gesù sarebbero almeno state scritte prima della composizione dei vangeli da questo Matteo, che i vangeli ci dipingono come un apostolo, e questa cosiddetta fonte orale avrebbe servito da base a tutti i sinottici. Indiscutibilmente, questa redazione non ha potuto aver luogo che dopo la morte di Gesù, dopo che i sopravvissuti avevano compreso il valore del maestro, e allorchè cercarono di salvare delle sentenze di Gesù tutto ciò che poteva ancora essere salvato; ammettiamo che le cose siano accadute in questo modo, come affermano i partigiani di un Gesù storico: quale valore storico si può attribuire a delle frasi che sono state fissate solo così tardi? Nessuna espressione esatta dei pensieri di Gesù, nessun discorso completo e un po' lungo, del genere di quelli che ci sono stati trasmessi, non possono in alcun caso derivare da Gesù, per la semplice ragione che, già nella fonte orale, non potevano esistere strettamente parola per parola. E, in effetti, i teologi concordano sul fatto che i lunghi discorsi di Gesù, contenuti nei vangeli, sono stati ristabiliti unicamente per mezzo di parole trasmesse dalla tradizione, che essi devono la loro sistemazione solo alle combinazioni fantasiose degli evangelisti; di conseguenza, essi sono senza alcun valore storico, e le circostanze in cui Gesù li ha tenuti non hanno che una natura di pura finzione. È fatta di parole che appartengono ai momenti più diversi della vita di Gesù e che sono spesso separate da un anno di distanza.
Ma perfino per i pronunciamenti più brevi di Gesù, non abbiamo alcuna assicurazione che siano usciti in questa forma dalle sue labbra. E allora, i teologi sono proprio costretti a convenire che non possediamo alcuna parola autentica di Gesù, che non possiamo riportare con certezza ad un Gesù storico nessuna delle sentenze pervenute fino a noi. Inoltre, non è solamente la forma delle espressioni di Gesù che è incerta; le opinioni divergono ancora, lo si sa, su ciò che potrebbe essere la vera base della sua predicazione, e particolarmente su ciò che aveva voluto con il suo vangelo: Harnack afferma, è vero, che il Vangelo è qualcosa di così semplice, che ci parla con una tale potenza, che è difficile non comprenderlo affatto: colui che ha l'occhio acuto, dice nel suo libro “L'essenza del cristianesimo”, “per esaminare tutto ciò è vivo, colui che prova “una sensazione vera di fronte a tutto ciò che è veramente grande, costui è costretto a vederlo e a liberarlo dai suoi veli storici”. Ma le numerose contraddizioni che il suo libro ha sollevato nella cerchia stessa dei suoi colleghi, e le molte obiezioni che gli sono state rivolte a proposito della sua inaccurata comprensione del “messaggio gioioso” di Gesù, hanno ben potuto apportare a lui stesso la convinzione che, su questo terreno, la confusione, come egli lo riconosce in un altro punto del suo libro, è realmente “senza rimedio”, o in ogni caso “sembra” esserlo. Si è quindi obbligati ad ammettere necessariamente come sentenze del Gesù storico le parole e le parabole di Gesù citate in questa pretesa fonte verbale? Non potevano essere altrettanto buone le frasi di certi membri della comunità, o di certi maestri; e queste sentenze, giudicate degne di esser consegnate, non potevano essere state scritte, utilizzate nelle cerimonie di culto, e attribuite, per aumentarne il valore, “al Signore”, vale a dire, all'eroe dell'Associazione o del Culto?
Infine, e questo è essenziale: i vangeli non mostrano da nessuna parte la pretesa di essere libri di storia nel senso che noi diamo a questa parola. Nulla era più lontano dal pensiero dei loro autori che lasciare un racconto della vita e degli insegnamenti di Gesù, che rispondesse alla realtà. Ciò che essi volevano era: fare il ritratto di un personaggio che, con la sua vita e la sua morte, si eleva ben al di sopra della persona umana, in generale; che, con la sua condotta sulla terra, e il sacrificio volontario della sua vita, si rivela come il Messia inviato da Dio per liberare il suo popolo; avevano per scopo di invitare così gli uomini a partecipare alla successione di questa personalità, ad appropriarsi interiormente della sua esistenza; volevano giustificare e rafforzare l'attaccamento di coloro che credevano in essa. I vangeli sono degli scritti per la fede, questi sono dei libri di edificazione religiosa: “Sarebbe fuori luogo”, dice il teologo Fülischer, “cercare nei vangeli una preoccupazione per l'armonia storica”. Sì, lo stesso Marco è così povero — lui da cui i teologi credono ancora di poter meglio estrarre i tratti del Gesù storico — che il teologo Wrede, dopo il suo profondo esame critico di quest'opera, non può fare a meno di riconoscere che, nel suo insieme, essa non presenta più alcuna concezione storica della vita reale di Gesù. “I pallidi resti di considerazioni di questa natura”, egli dice, “rimangono soli nella concezione religiosa, la quale otrepassa il dominio della storia del dogma”. E Wrede lamenta il fatto che un vangelo così costituito sia il più antico di coloro ai quali possiamo riferirci per conoscere la vita di Gesù.
Il vangelo di Marco lascia aperta la questione di sapere se il suo autore abbia voluto ritrarre un uomo divenuto Dio oppure un Dio divenuto uomo.
È abbastanza certo che Gesù, come appare in fondo alla concezione religiosa di Paolo, è un essere sovrumano, divino, inviato sulla terra da Dio suo padre per salvare l'umanità; Gesù sarebbe diventato un uomo solo per un breve intervallo, si sarebbe come tale sacrificato per l'umanità, e sarebbe ritornato, dopo la sua morte espiatoria, al suo stato divino primitivo. È un essere che, per tutta l'eternità, era nascosto in Dio, che ha cooperato alla creazione del mondo, che tornerà alla fine dei giorni e giudicherà gli uomini. E la figura di questo Gesù appartiene, secondo le idee accettate, ad un'epoca precedente a quella in cui visse l'uomo, di cui gli evangelisti ci raccontano l'esistenza.
Allora sorge questa domanda: come si può spiegare che Gesù, come lo rappresenta un Paolo, apparisse già come essere divino, mentre i vangeli, che sono ben posteriori, lo mostrano ancora così esitante, così cauto, quando si tratta della sua divinità? E quest'altra domanda: come è possibile che l'uomo Gesù abbia potuto, così presto dopo la sua morte, essere elevato a questo stato “d'essere favoloso e mistico”, secondo l'espressione del teologo Grützmacher, a questo “Cristo celeste”, come ci appare nelle epistole di Paolo? Sette anni al massimo, probabilmente tre, un anno appena, secondo le più recenti combinazioni, hanno dovuto passare tra la morte di Gesù e l'attività di Paolo. E sarebbe bastato questo breve lasso di tempo per intraprendere a realizzare l'apoteosi dell'uomo Gesù? E non è solo Paolo, al quale io voglio ben riconoscere una natura eccezionale, che sarebbe stato in grado di realizzare questo prodigio; i discepoli immediati di Gesù, degli uomini rudi, dei lavoratori, dei manovali, che si erano seduti alla tavola di Gesù, che sapevano bene quel che Gesù era realmente stato, anche costoro si sarebbero dichiarati favorevoli alla concezione di Paolo ? Eppure sembra proprio che, durante la vita di Gesù, essi non avessero notato nulla di sovrumano in lui. La teologia storica ha fatto di tutto per spiegare questa mostruosità psicologica, questo miracolo, il più grande di tutti, nelle origini del cristianesimo. Si è affidata all'elevazione al rango di dio di altri personaggi eminenti dell'antichità, come Platone, Aristotele, Demetrio Poliorcete, Alessandro, i Tolomei, ecc. Ma si trattava allora, in tutti i casi, di una divinizzazione di un genere completamente diverso; era l'omaggio riconoscente di discepoli che ammiravano il maestro, era un sentimento ricolmo di entusiasmo, un'adulazione folle, ma non il fondamento di una nuova religione. La teologia ha in seguito tentato di spiegare l'apoteosi di Gesù per mezzo di visioni estatiche che ebbero i discepoli dopo la sua morte. Ha affermato così che la religione cristiana doveva l'esistenza a dei casi patologici di uomini esaltati e di donne isteriche, e questa non è certamente una base molto solida per la fede. Inoltre, la teologia ovviamente non si sente affatto molto soddisfatta di questa dichiarazione alquanto assurda, perché secondo l'espressione del teologo Gunkel, le origini della cristologia di Paolo e di Giovanni rimangono: “il problema dei problemi nelle ricerche concernenti il Nuovo Testamento”.
Ma, pur ammettendo la stessa spiegazione liberale delle cose, dobbiamo comunque risolvere una questione altrettanto difficile, che è questa: come ha fatto la religione di questa piccola comunità messianica, che si trovava a Gerusalemme, ad espandersi con una rapidità tale, che, due secoli al massimo dopo la morte di Gesù, noi troviamo delle comunità cristiane, non solo in tutta l'Asia Minore, ma anche nelle isole del Mediterraneo, nelle città marittime della Grecia, in Italia, a Pozzuoli, a Roma? A proposito di questa questione, che Stendel soprattutto ha posto, il teologo Schweitzer disse parlando della teologia storica: “Fino a quando questa teologia non ha capito come, sotto l'influenza della setta messianica ebraica, il cristianesimo si sia diffuso in un istante e su tutti i punti contemporaneamente, nelle popolazioni greco-romane, essa deve formalmente concedere il diritto di presentarsi a tutte le ipotesi che intravedono questo problema e cercano di risolverlo, fossero anche le più stravaganti”.
Tutte queste difficoltà scompaiono in un sol colpo, se si ammette che Gesù non è stato affatto un uomo divinizzato, ma proprio un dio umanizzato, e che l'apparizione della religione cristiana, in connessione con il culto di questo dio, è occorsa molto prima di quanto i Vangeli lasciano supporre.
In realtà, è quasi impossibile eludere l'ipotesi di un Gesù anteriore al cristianesimo, di un dio con questo nome che, molto prima dell'apparizione del Nuovo Testamento, fu l'oggetto di una venerazione religiosa. Tra le numerose sette ebraiche che, all'inizio della nostra era, vivevano nell'attesa della prossima fine del mondo, Gesù non era che un altro nome del Messia promesso, Messia che doveva liberare Israele dalla sua infelice condizione politica e sociale, e ripristinare il suo antico preteso splendore. Era considerato come “l'Intermediario” tra Dio e il mondo, come il “figlio di Dio” che Jahvè avrebbe inviato sulla terra, per soccorrere i suoi nella loro lotta contro la potenza dei malvagi. Egli apparve, come esprime anche il suo nome di Gesù, che vuol dire “soccorso di Dio”, come il guaritore, il salvatore delle anime umane nei confronti dei demoni che le opprimevano; sembra persino che la rappresentazione di questo essere divino intermedio sia proiettata su questo Giosuè o Gesù dell'Antico Testamento, che avrebbe condotto Israele dal deserto nella terra promessa da Dio “dove scorre latte e miele”, vale a dire, nel paese della Via Lattea e della luna, questo grande recipiente di miele della mitologia antica, nel paese degli antenati, nel paese della felicità eterna, nel “regno dei cieli”.
Quest'idea di un intermediario divino e di un salvatore di anime non era affatto estranea alle popolazioni non ebraiche dell'Asia Minore. Nel corso della natura, nell'indebolimento delle sue forze durante l'inverno, e nel loro ringiovanimento dal sole del nuovo anno, queste persone vedevano il destino di una divinità giovane e bella, che moriva in inverno e che, in primavera, si eleva a una nuova sovranità. Secondo la loro opinione, questo dio animava con il suo sangue le forze indebolite della Natura, e si sacrificava così per la salvezza del suo popolo. Questo atto del loro dio apparve a loro, nel dominio della coscienza, simile ad un sacrificio volontario di questo dio per i peccati del suo popolo, al quale restituiva così la purezza primitiva. Da tutta l'antichità, questo credo trovava in un culto la sua drammatica espressione. Un uomo che si presentava volontariamente, o che si costringeva a questo atto, doveva, in rappresentanza del dio, dare la sua vita per il mondo. Moriva della morte del “capro espiatorio”, e al suo sangue, versato realmente o solo in apparenza, era connesso il pensiero della liberazione e della salvezza del popolo. Il signor Brückner ha pubblicato, nella sua raccolta di libri storici religiosi a uso divulgativo, un piccolo scritto notevole che deve essere citato in questa occasione: “Il salvatore divino che muore e che risorge, nelle religioni orientali, e i suoi rapporti con il cristianesimo”. Nelle riunioni dei misteri pagani, che erano così numerosi nella regione mediterranea all'inizio della nostra era, si insegnava soprattutto il credo nella salvezza realizzata da un dio che muore e che risorge, e questo insegnamento era dato sotto una forma spirituale e morale; proprio come le sette ebraiche onoravano il loro Gesù, i pagani a loro volta onoravano il loro dio salvatore come un dispensatore di vita e di felicità. Inoltre, la rappresentazione del destino di questo dio era la parte essenziale del culto: si piangeva la sua morte a voce alta, e si salutava la sua resurrezione con dei trasporti di gioia. Il capitolo 53 di Isaia ci mostra che Israele non era affatto completamente sfuggito all'influenza di questa concezione. “L'uomo dei dolori, servo di Dio”, messo in scena dal profeta, presenta in una maniera così evidente i tratti del dio liberatore che muore e che risorge, al punto che è difficile rifiutare l'idea di un'influenza di una di queste concezioni sull'altra. In queste condizioni, queste due idee così diverse l'una dall'altra, non potevano affatto fondersi: l'idea di Gesù salvatore delle sette ebraiche, che porta la fine del mondo e il nuovo regno, e l'idea di un dio liberatore che si sacrifica per i suoi? Con quale facilità, l'idea dell'“uomo dei dolori, servo di Dio” non poteva applicarsi al messia ebraico e all'opera di liberazione compiuta dal figlio divino, il salvatore che riscatta i peccati dell'umanità con le sue sofferenze immeritate e la sua morte? Non si può affatto affermare che Paolo sia stato il primo a realizzare questa fusione. Gli Atti degli Apostoli riportano, se possiamo accordare loro credito su questo punto, che già prima di lui, delle persone di Cipro e di Cirene avevano predicato il vangelo del messia Gesù, morto sul legno dei martiri, e che avevano convertito molti ebrei e pagani. Ma Paolo potrebbe ben essere stato colui che ha dato a questa concezione l'espressione più pura e più profonda, l'ha stabilita nel modo più solido, e l'ha fatta trionfare, grazie alla sua personalità energica e vivace, rispetto a tutte le concezioni opposte. Paolo ha dichiarato che Dio stesso si era fatto uomo, al fine di dare all'uomo la possibilità di divenire Dio. Fece del credo nell'incarnazione di Dio e nel sacrificio dell'uomo-dio la condizione di salvezza; elevò così il pensiero fondamentale del culto pagano all'altezza di un puro simbolo religioso, riportando alla sua autentica origine spirituale il costume barbarico che si era stabilito di offrire realmente un sacrificio umano, ma per questa spiritualizzazione del sacrificio espiatorio divino non c'era affatto bisogno di una personalità storica che sarebbe in qualche modo vissuta prima dell'uomo-dio. Gesù non è per Paolo che un uomo ideale, al quale sono naturalmente attribuite una nascita carnale e una vita terrena; ma egli non è mai stato un reale individuo storico. Ciò che lo interessa in questo uomo ideale, è unicamente il suo sacrificio volontario, la sua resurrezione e il suo ritorno all'esistenza puramente ideale, concezione da cui dipende la salvezza. E questo è il motivo per cui cercare in Paolo le tracce di un Gesù storico, equivale a fraintendere assolutamente l'essenza della sua concezione religiosa del mondo.
Se si considera da questo nuovo punto di vista l'origine del cristianesimo, si vede colmarsi il divario che, nel metodo teologico liberale, rimane aperto tra il Gesù storico e Paolo. Una catena ininterrotta di idee comincia con Giosuè, il liberatore dell'antico Israele; la figura dell'uomo dei dolori, servo di Dio e del messia di Daniele o “figlio di Dio” ne formano gli anelli, per condurci dall'Antico al Nuovo Testamento; abbiamo allora davanti a noi uno sviluppo storico unico. Una volta che il dio primitivo Gesù era stato dichiarato uomo da Paolo, beninteso: uomo ideale, non vi era evidentemente più alcuna difficoltà nel fissare in una maniera precisa l'idea della condizione umana di Gesù. La storia eterna di questo Gesù, come Paolo l'aveva compresa, doveva allora soltanto essere specificata nel tempo; il mito dell'uomo-dio che si offriva in sacrificio per gli uomini doveva solo essere trasformato nella storia vissuta di un uomo reale, e il materiale dei vangeli era pronto. Si troverà nel “Mito di Cristo” l'esposizione delle ragioni che portarono a prendere come modelli i grandi ritratti messianici dell'Antico Testamento: Mosè, Giosuè, Elia, Eliseo, ecc..., e a mescolarli a delle concezioni mitiche del paganesimo, particolarmente a delle concezioni di ordine astrologico, come anche alle esperienze personali di certi individui, per fornire così alle comunità il materiale di una storia della vita di Gesù, dove tutte queste cose si trovano amalgamate. In tutti i casi, i vangeli non contengono nulla che non possa essersi prodotto in questa maniera; non si tratta affatto qui di una pura creazione, ma della cristallizzazione di un materiale già preparato, della forma del culto già esistente di un salvatore che muore e che risorge, e non è affatto un solo individuo che ha lavorato su quest'opera, ma la fantasia delle comunità durante i secoli. Secondo l'opinione prevalente, sono dei miti pagani e dei dati dell'Antico Testamento ad essere stati innestati sulla personalità del Gesù storico, e ne hanno determinato la figura fino ai suoi minimi dettagli; perché non dovrebbe essere capitato lo stesso proprio con il nome di Gesù, che avrebbe designato un antico dio, oggetto di un culto, e che i primi cristiani avrebbero collocato alla base della loro concezione religiosa del mondo? Seguono dei detti e delle parabole di Gesù così come degli eventi della sua vita. Che li si collochi tanto in alto quanto si voglia dal punto di vista della forma oppure dal punto di vista della religione: essi non contengono nulla che oltrepassi le facoltà intellettuali di un individuo umano; devono il loro incredibile prestigio solo al fatto che sono attribuiti all'Uomo-Dio storico. L'esistenza di un Gesù storico non può in alcun modo essere dimostrata appoggiandosi a loro; poichè si tratta precisamente di sapere se derivino dal Gesù storico oppure se, in definitiva, non si debba collocarli con i salmi e i detti dell'Antico Testamento, che sono attribuiti a Davide e a Salomone, benchè sappiamo fin troppo bene che questi salmi e detti non avevano avuto nè l'uno nè l'altro di questi due re per autori.
Un argomento serio contro le considerazioni appena lette sarebbe naturalmente la constatazione nella letteratura extra-ecclesiastica di una menzione dei fatti riportati dai Vangeli. Ma questo argomento non esiste affatto. Non si può nemmeno considerare che il semplice nome del rabbino di Nazaret si trovi così certificato. Poiché i passi che sono relativi a lui nelle Antichità dello storico ebreo Giuseppe sono delle interpolazioni cristiane, e in particolare il passo famoso del capitolo 18:3 è un'aggiunta talmente evidente di un'epoca successiva che nemmeno la stessa teologia cattolica romana osa affermarne l'autenticità. Il passo di Svetonio non è certo migliore, e, inoltre, il suo significato è così incerto che non prova assolutamente nulla per quel che riguarda il Gesù storico. Quanto al passo ben noto di Tacito, nei suoi Annali, dove è detto, in occasione della cosiddetta “persecuzione dei cristiani” sotto Nerone, che il fondatore di questa setta, chiamato Christus, era stato messo a morte dal procuratore Ponzio Pilato, sotto il regno di Tiberio, non può essere che una falsificazione; poiché, con ogni probabilità, questa famosa persecuzione non ha mai avuto luogo; ma tutto questo racconto di Roma incendiata da Nerone e della messa a morte dei cristiani a questo proposito è l'opera fantasiosa di un ecclesiastico del quarto o del quinto secolo. Nessun autore latino o greco di quest'epoca ne fa menzione. Lo stesso ebreo Flavio Giuseppe, che nonostante parla assai sovente di Nerone e che non cerca affatto di nascondere i crimini di questo imperatore, non sa nulla di una “persecuzione dei cristiani” ordinata da Nerone. Gli autori cristiani, a loro volta, fino alla fine del quarto secolo, mantengono un completo silenzio sul crimine di cui Nerone si sarebbe reso colpevole nei confronti dei loro compagni di fede. [1] È solo in una lettera visibilmente falsificata di Seneca all'apostolo Paolo, lettera appartenente alla fine del quarto secolo, che si vede emergere una vaga allusione a questo evento. Poi si trova una descrizione più ampia nella cronaca di Sulpicio Severo (morto nel 403); ma la forma è estremamente poco verosimile, e questo stesso cronista non è generalmente per nulla degno di fede. Sì, ne sono convinto, tutta questa storia nebulosa della persecuzione dei cristiani sotto Nerone, con tutte le sue stranezze, le sue torce viventi, ecc., è penetrata nel testo di Tacito solo per queste deviazioni, opera di un falsario che credeva in tal modo di glorificare la Chiesa. Sono i giardini di Nerone che sarebbero stati il luogo di queste esecuzioni. Ma questi giardini si trovavano sulla collina attuale del Vaticano, dove sorge oggi la cattedrale di San Pietro. Il luogo sul quale sorge la più grande santità della cristianità cattolica romana è saturo del sangue dei primi martiri! Hinc illae lacrimae!
Non dobbiamo, dicono, dare troppo peso a questa considerazione che gli autori pagani non sanno nulla di Gesù. In che modo, in effetti, avrebbero attribuito una qualche importanza all'esecuzione di un ebreo che aveva avuto luogo a Gerusalemme? Ma vi è un fatto molto importante, che non si sarebbe dovuto affatto prendere alla leggera, come lo si è fatto finora: il fatto è che gli scrittori ebrei di quest'epoca, un Filone di Alessandria, un Giusto di Tiberiade, un Flavio Giuseppe, il Talmud, etc..., non menzionano per nulla il nome del rabbino di Nazaret, il fatto è che essi conservano il più completo silenzio sulla consegna fatta dal Sinedrio, all'autorità romana così aborrita, di un compatriota e di un compagno di fede, nonché sul movimento religioso che si legava a quest'uomo. Gli antichi cristiani sono stati su questo soggetto di tutt'altra opinione. Si sono sentiti tormentati da questo silenzio della letteratura profana; l'hanno considerata come una forte obiezione contro l'autorità storica dei vangeli; e per rimediare a questo difetto, non avevano affatto paura di abbandonarsi alle interpolazioni di cui si è menzionato più sopra, e di appoggiare l'esistenza storica di Gesù su tutta una serie di falsificazioni. Da qui gli scambi di lettere tra Seneca e Paolo, tra Pilato e Tiberio, probabilmente anche tra Plinio e Traiano; da qui, i numerosi passi di Tertulliano e di altri scrittori cristiani, che dimostrano almeno che la fiducia nell'autenticità dei racconti evangelici non era affatto assoluta fin dai primi secoli dell'era cristiana. E noi dovremmo mostrare più fiducia nell'autenticità delle narrazioni sinottiche rispetto a questi primi cristiani, molto più vicini di quanto lo siamo noi a questi cosiddetti eventi storici? Da parte mia, confesso di provare la più estrema diffidenza nei confronti delle espressioni scritte di un'istituzione che si è impegnata a delle “correzioni” di eventi storici, del tipo di quelle fatte dalla Chiesa nei primi secoli dell'era cristiana. Coloro che si arrogano, come la Chiesa, il diritto di agire così nel loro proprio interesse, non possono lamentarsi minimamente, se si rifiutano di rivendicare le origini letterarie della loro esistenza, e se ci permettiamo di porre un grande punto interrogativo allorchè si tratta della realtà storica dei Vangeli.
Gesù è un personaggio storico? Noi abbiamo risposto a questa domanda. I documenti citati più sopra, sui quali si appoggia l'ipotesi di un Gesù storico, non ci permettono affatto di rispondere “sì” con fiducia, come sono soliti fare i teologi. Le Epistole di Paolo, assumendole autentiche, non conoscono per nulla il Gesù storico. I Vangeli, che, loro, presentano Gesù sotto il punto di vista storico, non sono affatto delle fonti storiche, ma piuttosto degli scritti dalla tendenza religiosa o ecclesiastica. Mancano di ogni originalità; hanno operato su dei materiali scritti o orali assolutamente incerti e, mettendo tutto nella migliore luce possibile, ci presentano ciò che sapeva la seconda o terza generazione dopo Gesù, forse perfino una generazione ancora dopo. Si pensi anche a tutto ciò che è stato corretto nei testi dei sinottici, perfino dopo essere stati canonizzati, a tutto ciò che è stato aggiunto o cancellato, e si converrà che nessuno storico serio, a meno che non li esamini con l'idea preconcetta di trovarvi della Storia, potrà prendere questo racconto per nient'altro che dei miti, delle pie finzioni e delle invenzioni leggendarie.
Tutto ciò che possiamo dire, noialtri che non siamo affatto dei teologi, è che dopo aver esaminato coscienziosamente tutti i documenti summenzionati, avendo sollevato tutti i problemi ad essi associati, non possiamo considerare affatto sufficiente lo stato dell'evidenza per affermare con piena certezza, in base a quelli, l'esistenza di un Gesù storico.
Noi siamo assolutamente guidati qui solo dal puro interesse che portiamo per la realtà storica delle cose, e non porteremo alcun danno a questo interesse, perfino se degli interessi del sentimento dovessero patirne. In questo noi agiamo secondo la nostra convinzione che la verità, se è realmente la verità, non potrebbe nuocere ai giusti interessi del sentimento; al contrario, può solo essere favorevole a loro. Quanto alle conseguenze pratiche che possono risultare per la religione dalla negazione di un Gesù storico, quanto al significato che può avere per noi questo Gesù, sempre se possa ancora averne uno, si tratta di una cosa assolutamente distinta. Per noi tutto si riduce ad un semplice problema di scienza storica, come del resto la teologia storica ha egualmente postulato. Se la teologia può provare l'esistenza di Gesù, noi accetteremo la sua prova. Cosa dovremmo dire di nuovo, dal momento che il Gesù della teologia liberale ci interessa unicamente come personaggio storico, e per il resto, assolutamente niente. Se la teologia non può affatto provare questa esistenza o, almeno, se non può provarla meglio di quanto ha fatto fino a questo giorno, che non si aspetti che noi basiamo su questo terreno la salvezza delle nostre anime (scroscio di applausi).
DISCUSSIONE
Il professor Drews ha esposto alla discussione le tesi seguenti:
1°. Prima del Gesù evangelico, vi era un dio Gesù e un culto di questo dio tra le sette ebraiche, un culto che, con ogni probabilità, risale fino a Giosuè dell'Antico Testamento, e nel quale si sono fusi in un insieme unico: da un lato, i pensieri escatologici dell'apocalittica ebraica e, dall'altro, la rappresentazione pagana del dio-liberatore che muore e risorge.
2°. La più antica testimonianza del cristianesimo, Paolo, non sa nulla di un Gesù “storico”; il suo “figlio di Dio” divenuto uomo è precisamente questo Gesù, divinità liberatrice giudeo-pagana, e Paolo non ha fatto che collocarlo alla base della sua concezione religiosa del mondo, elevandolo ad un più alto grado di purezza religiosa e morale.
3°. I Vangeli non contengono affatto la storia di un uomo reale, ma soltanto il mito dell'uomo-Dio Gesù sotto un travestimento storico; in tale maniera, che non solo i profeti di Israele, con le figure messianiche dell'Antico Testamento, come Mosè, Elia, Eliseo, ecc., ma anche certe concezioni mitiche dei popoli pagani vicini degli ebrei, concezioni relative alla divinità di un salvatore, hanno portato la loro porzione alla storia di questo Gesù.
4°. In questa maniera di spiegare le cose, ciò che rimane delle suddette fonti con una natura “irriducibile” è solo marginale e senza interesse e non riguarda affatto il credo religioso in Gesù. Al contrario, tutto ciò che è importante e religiosamente decisivo in questo credo, come il battesimo, la cena, la crocifissione e la resurrezione di Gesù, è derivato dal culto simbolico del Gesù mitico; tutto ciò non deve affatto la sua origine ad una realtà storica, ma procede dal credo nella divinità liberatrice giudeo-pagana, un credo che è anteriore al cristianesimo.
5°. Tutto ben considerato, e in base ai risultati della teologia critica, il Gesù “storico” è una figura così dubbia, così elusiva e così evanescente che è impossibile considerare il credo in questo Gesù come la condizione indispensabile di salvezza religiosa.
NOTE
[1] Von Soden, nel suo scritto: “Gesù è vissuto? o sicurezza dei dati del signor Drews”, ha affermato il contrario riferendosi alla prima lettera di Clemente, a Dionigi di Corinto, a Tertulliano e a Eusebio. Egli conta senza dubbio sul fatto che i suoi lettori non andranno affatto a verificare i passi invocati, perché in realtà questi passi non permettono alcuna conclusione certa a proposito di una persecuzione di massa dei cristiani sotto Nerone. Si riporta al mio libro La leggenda di Pietro, 1910, pagina 40 e seguenti.
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