martedì 19 febbraio 2019

Il Cristo è esistito?La moneta nei vangeli (VII)

La storia e la geografia nei vangeli

CAPITOLO VII

LA MONETA NEI VANGELI

Oltre al loro odio contro la ricchezza, l'imbarazzo col quale gli evangelisti affrontano le questioni di denaro indica che non dovevano vederne spesso il colore. Non si trova, infatti, nel Nuovo Testamento, la menzione di alcuna moneta d'oro: gli stateri greci, così diffusi in Oriente, l'aureo romano, i sicli d'oro ebraici non sono nemmeno nominati. Come moneta di denaro, si parla solo del denario romano del valore di circa 0.83 franchi; della dracma greca grosso modo equivalente al denario e allo statere greco (Matteo 17:27) che si può stimare in 3.30 franchi. Il siclo d'argento d'Israele che si avvicina pressappoco allo statere è ignorato dagli Apostoli, così come tutte le altre monete ebraiche; probabilmente non aveva per nulla corso comune al di fuori della Palestina, regione totalmente sconosciuta ai redattori della Buona Novella. Si noti anche l'assenza straordinaria del sesterzio, l'unità di conto del mondo romano: lo stesso pubblicano Matteo non ne parla affatto!
Mentre, al contrario, gli evangelisti nominano il denario, prezzo del salario giornaliero di un vignaiolo (Matteo 20:10), la dracma, di cui erano necessarie due per assolvere il tributo (Matteo 17:23); l'assarion o asse (circa 10 franchi), prezzo di due passeri (Matteo 10:29 — Luca 12:6); il lepton o spicciolo, offerta della vedova (Marco 12:42 — Luca 21:2) che vale un quarto dell'asse, si vede che essi sanno di cosa si tratta e che queste monete sono loro familiari, benché non abbiano potuto essere sempre nelle loro borse e benché, per rendere più sorprendente e più chiara la loro dimostrazione a proposito del tributo dovuto a Cesare (Marco 12:15 — Matteo 22:19 — Luca 20:24) Gesù sia obbligato a prendere in prestito un denario dai farisei che lo interrogano, il che sembra indicare chiaramente che in quel giorno, né lui, né i suoi discepoli, possedevano, tra di loro, una tale fortuna.
Marco (14:11) e Luca (22:15) non specificano affatto la somma per la quale l'Iscariota vendette il suo maestro; ma Matteo (26:15 — 27:3) ci racconta che Gesù fu consegnato per trenta pezzi d'argento. Giovanni, che doveva essere meno misero di suoi confratelli, ha senza dubbio trovato la somma ridicolmente insufficiente, poiché egli preferisce sopprimere questo passo dai suoi predecessori e non indica affatto il motivo del tradimento, pensando probabilmente e con ragione che, in fatto di passioni malvagie, la cupidità sordida non sia affatto la più tirannica, come se la figurano così spesso i poveri disgraziati. È comprensibile che la somma specificata da Matteo appaia esorbitante agli occhi del primo evangelista e capace di far dannare un santo. [1] Tuttavia, se queste monete sono dei denarii romani o delle dracme greche, come è verosimile, ciò equivarrebbe tutt'al più a venticinque franchi; e anche se, supposizione inammissibile, si trattasse del secolo di Giuda Maccabeo, il prezzo del tradimento avrebbe ancora fruttato solo 85 franchi a Giuda; colui che era l'amministratore e il tesoriere della banda (Giovanni 18:29) e un bel mascalzone (Giovanni 12:6), doveva realizzare dei profitti altrimenti seri facendo, ogni giorno, allentare i cordoni della borsa: si ingannò quindi miseramente nei suoi calcoli, consegnando per così poco il padrone che lo nutriva. [2] Tuttavia, è stato buon contabile, poiché esita, nel vedere Maria, sorella di Lazzaro, disperdere trecento denari (250 franchi) di profumo sui piedi di Gesù e trova, non senza ragione, che si sarebbe potuto fare un impiego migliore di questa somma (Giovanni 12:3, 5). Si può concludere anche da questo passo che Maria deve essere ricca per possedere con lei un articolo di lusso di un così grande valore, a meno che non si preferisca supporre che possedesse un magazzino di profumeria ben provvisto, che sarebbe nondimeno strano in un villaggio così povero.
Quando gli evangelisti vogliono far menzione di una somma realmente considerevole, si sente che sono incapaci di specificare nella loro immaginazione e divagano in una maniera incredibilmente puerile: le mine e i talenti, monete di conto del mondo ellenico antico, non rappresentano ai loro occhi nient'altro che un valore enorme, ma che resta irrimediabilmente confuso nella loro mente. Matteo (25:15) parla di un uomo che affida cinque talenti (28.500 franchi) a uno dei suoi schiavi, due talenti a un secondo e uno a un terzo. È parecchio, e pochi padroni, alla nostra epoca, ne metterebbero così tanti nelle mani dei loro domestici; Luca (19:13), nella parabola corrispondente, ha vagamente l'intuizione che questa somma sia esorbitante; ma, nella correzione, cade incredibilmente nell'estremo opposto: non mette più in scena un semplice individuo che dispone così facilmente di più di quarantacinquemila franchi, ma lo sostituisce con un re che si accontenta di far distribuire solamente dieci mine (circa 800 franchi) in amministrazione, a dieci schiavi, e il rischio, così condiviso e diminuito, non sarebbe affatto allarmante, perfino per il re d'Yvetot.  Ma Matteo si mostra ancora più stravagante quando (Matteo 18:24) ci racconta che, senza disturbarsi, un re aveva prestato diecimila talenti (circa sessanta milioni di franchi) a uno dei suoi schiavi. È certo che l'evangelista non si rende affatto conto, nemmeno un po', dell'enormità della somma e che non sa affatto che cos'è un talento più di quanto un cieco non sappia distinguere i colori. Questa somma che era già formidabile al nostro tempo, era molto più fantastica nel primo secolo: è il doppio di quanto Augusto, il più ricco degli imperatori romani, poteva lasciare ai suoi eredi e non gli sarebbe certamente affatto venuto il pensiero di prestarlo al suo migliore amico. Se si trattasse di talenti d'oro (il testo non specifica affatto) la somma sarebbe ancora più favolosa e raggiungerebbe quasi il miliardo!
È egualmente suggestivo constatare, — (e questo sottolinea chiarissimamente l'ignoranza degli autori sacri in ciò che concerne le monete ebraiche) — con quanta cura il redattore degli Atti evita di pronunciare la parola siclo, moneta della Giudea, il cui nome non ha senza dubbio alcun significato per lui o per i suoi lettori. Nel verso (7:16), dove ricorda, secondo la Genesi (23:16), che Abramo aveva acquistato un sepolcro, egli cancella volutamente i termini “quattrocento sicli d'argento”, che sono nella Bibbia e che è incapace di tradurre in valore greco, e li sostituisce con l'espressione indeterminata: “A prezzo d'argento”.
Troviamo anche negli Atti (19:19) che Paolo fece bruciare, ad Efeso,  dei libri di magia per una somma di cinquantamila pezzi d'argento. Si può supporre che l'autore abbia voluto parlare di dracme, ma nulla ce lo assicura.
Gli evangelisti citano ancora meno di pesi e di misure che di monete e non riscontriamo in loro alcuna menzione del sistema metrico ebraico, fatto che non lascia affatto sorprendere, se si accetta l'ipotesi ortodossa che questi scrittori siano galilei. [3] In effetti, benché le misure latine e soprattutto le misure greche fossero largamente diffuse in tutto il mondo orientale, tuttavia quelle della Giudea erano lungi dall'essere scomparse, e principalmente in ciò che riguarda le abitudini delle classi inferiori, esse non si erano affatto ritratte davanti al tipo greco. Gli editori della leggenda sacra, se fossero stati davvero come li pretende la tradizione ecclesiastica, degli ebrei di gente comune, non avrebbero dunque potuto fare altrimenti se non menzionare le norme di cui si servivano tutti i giorni, a esclusione di quelle di Roma e dell'Attica che non potevano essere loro familiari e il cui impiego era molto recente.

Si sa con quale ostinazione, nella nostra stessa epoca, malgrado la legge e le sanzioni, malgrado il controllo di numerosi verificatori ufficiali, malgrado la larga diffusione dell'istruzione, le unità dei tempi antichi resistono alla propagazione del sistema decimale di gran lunga più semplice, non solo tra gli operai e i contadini che continuano a contare con le braccia, con i piedi, con i pollici, con gli arpenti, anche con gli scudi, ma perfino tra le persone più indotte a utilizzare il nuovo metodo di calcolo i quali mantengono l'abitudine solita di parlare molto spesso, altrettanto spesso dei loro bisnonni, di leghe, di libbre, di sacchi e di scellini; è persino di moda dire un luigi anziché venti franchi. La resistenza dell'antico costume doveva dunque avere infinitamente più successo in un'epoca in cui non esisteva alcun obbligo legale, in cui nessun funzionario era incaricato di imporre un regime uniforme e in cui, non andando quasi nessuno a scuola, l'abitudine da sola apprendeva l'uso metrico.
Le poche misure che troviamo nei vangeli sono tutte, o latine, come il moggio o lo staio di 8,75 litri (Matteo 5:15); il miglio di 1.479 metri (Matteo 5:41) e la litra o la libbra di 327,5 grammi (Giovanni 19:39); o, più frequentemente greche, come il pecus o cubito di 0,462 metri (Matteo 6:27); lo stadio di 157,50 metri (Luca 24:13 — Giovanni 6:19 — 11:18); la metrèta o l'anfora di 39,40 litri (Giovanni 2:6).
I nomi di monete, di pesi e di misure, confermano quindi ancora la conclusione che gli evangelisti non hanno mai visto la Giudea; che non hanno mai conosciuto qualcuno del paese. Tutto ciò che fa da sfondo al Cristo ebraico è greco. Il Messia giustifica la sua missione per mezzo di citazioni estratte, non dalla Bibbia ebraica, ma dalla sua traduzione greca! [4] Gli stessi vestiti dei contadini galilei dei vangeli sono stati confezionati da un sarto greco: Gesù e i suoi discepoli portano l'himation (Matteo 9:20) il chitone (Matteo 10:10), la clamide (Matteo 27:28, 31). Quando Gesù siede a tavola, si sdraia sempre (anakeimai) su un letto, alla maniera dei ricchi greci; gli artisti del Rinascimento lo misero al contrario su una poltrona.
È così che nel Fedro di Racine, gli attori mostravano le loro parrucche, si chiamavano Signore e Madame e discorrevano educatamente nel mezzo di un salotto di Luigi XIV; ma Racine aveva la scusa di essere tremila anni più giovane della sua eroina e di non credere affatto nella sua realtà.
Cosa rimane dunque di una leggenda il cui personaggio principale è un fantasma inafferrabile e il cui intero entourage, uomini e cose, è falso, arci-falso?
  
NOTE

[1] Due versi ingenui di Luca (15:8, 9) mostrano con ancora più prove, come l'argento fosse raro ed invidiato in questo ambiente: “Oppure, qual è la donna che se ha dieci dramme e ne perde una, non accende un lume e non spazza la casa e non cerca con cura finché non la ritrova? Quando l'ha trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta”.
Accade, in effetti, che solo una famiglia molto povera  si prende tanta fatica per ricercare un pezzo di venti soldi perduti e ancora, allorché li si abbia ritrovati, non disturba affatto i suoi vicini per manifestare loro la sua gioia.

[2] Benché la somma di venticinque franchi sia molto modesta, il Sinedrio avrebbe potuto tuttavia risparmiarla facilmente: era, infatti, del tutto inutile per Giuda denunciare Gesù alla polizia che doveva conoscerlo perfettamente, poiché, per di un anno, il Salvatore “aveva parlato al mondo apertamente; aveva sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non aveva mai detto nulla di nascosto” (Giovanni 18:20). Si poteva dunque arrestarlo in fragranza di reato. Marco (14: 2), Matteo (26: 5) dicono, è vero, che si voleva evitare dei disordini durante le feste della Pasqua, ma se questa spiegazione giustifica abbastanza poco l'arresto di notte, seguito il giorno dopo da un'esecuzione pubblica in pieno giorno, non fornisce affatto un resoconto migliore dell'utilità del tradimento dell'Iscariota.

[3] Tuttavia, troviamo nella parabola dell'Amministratore infedele, un'eccezione unica: due misure spesso menzionate nell'Antico Testamento, vi sono riprodotte. Ma poiché erano anche egualmente di un impiego abituale in Egitto e in tutta l'Asia Minore, è probabile che l'autore del terzo vangelo li abbia ricavati piuttosto dall'uso corrente di queste regioni piuttosto che dai suoi ricordi biblici:
Luca 16:5. — “Tu quanto devi al mio padrone?”
6. — “Quello rispose: Cento bati d'olio...”.
7. — “Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento cori di grano”.
(Il bato, nel primo secolo, valeva circa trentanove litri. Il coro o chomer valeva dieci volte di più).

[4] Il cristianesimo, giudeo-ellenico sin dai suoi inizi, lo rimase a lungo anche a Roma: nelle Catacombe, le più antiche iscrizioni di sepolture sono quasi tutte scritte in greco e non è che a partire dal terzo secolo che si trovano degli epitaffi latini, fatto che prova che, anche nelle classi più basse, l'elemento latino rifiutava generalmente di associarsi ai disprezzati giudaizzanti, e che era la popolazione greco-orientale dell'Impero a comporre quasi interamente l'esercito dei proseliti della nuova religione.

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