sabato 19 ottobre 2024

ECCE DEUS — USO NEOTESTAMENTARIO DI “DETTO” O “DETTA”

 (segue da qui)

USO NEOTESTAMENTARIO DI “DETTO” O “DETTA” 

Riservandoci allora il diritto di entrare in ulteriori dettagli di critica, se in qualsiasi momento ne dovesse valere la pena, ci addentriamo ora in un percorso di ricerca completamente diverso, e senza alcun presagio iniziale su dove ci condurrà. Forse non è senza importanza l'osservazione che Matteo non dice (2:23) Nazaret o una città di Nazaret, ma una “città detta Nazaret”. [1] La frase sembra abbastanza innocente e si accorda perfettamente con l'uso greco, eppure può farci riflettere. Questo participio “detto” [2] è applicato altrove nel Nuovo Testamento quattro volte a città: “Una città detta Nain” (Luca 7:11), “Una città detta Betsaida” (Luca 9:10), “Una città di Samaria detta Sicar” (Giovanni 4:5), “In una città detta Efraim” (Giovanni 11:54). Il punto è che tutti questi nomi sono sospetti o particolari. Su Nain la critica migliore si sente incertissima. La Nain di Giuseppe (Guerra Giudaica 4:9, 4 e seguenti) non è adatta, essendo vicina a Edom; laddove la Nain di Luca dovrebbe essere vicina a Shunem. Siccome la storia lucana è chiaramente un simbolismo modellato su 1 Re 17:8-24, è molto probabile che Nain stia per Naim, menzionata nel Midrash (Ber. rabba, 98, su Genesi 49:15), e che questo sia un semplice travestimento (dell'evangelista) per Shunem. Così Cheyne, E. B., 3263. Nestle (Phil. Sac., 20) suggerisce ingegnosamente che “Nain”, ritradotta in נחים, potrebbe significare “il risvegliato”, nel qual caso si tratterebbe chiaramente di un nome simbolico fatto su misura per il miracolo. 

Venendo ora a Betsaida, scopriamo che si trattò dell'antico nome di una città ricostruita, ampliata e rinominata Julias; quindi Betsaida non fu il vero nome in uso al momento della composizione del Vangelo. 

Della città detta “Sicar” i più eruditi non sanno nulla, e non è il caso di entrare nel circolo delle eterne dispute su di essa. I critici tendono a identificarla con Sichem, pensando che l'Evangelista possa aver cambiato arbitrariamente il nome per qualche ragione nascosta; egli potrebbe, per così dire, aver dato questo nome al luogo. È sufficiente che Sichar sia altrove sconosciuta e prenda il suo posto, assieme a Efraim, Enon, Salim e gli altri, come un “nome di luogo alquanto improbabile” (Cheyne, E. B., 4829) del Quarto Vangelo. 

Il caso di Efraim non è del tutto parallelo; la forma delle parole non è proprio la stessa, come ha osservato il lettore. Però, visto il carattere generale del Quarto Vangelo, sembra molto probabile pure a Keim (sulla scia di Späth) che il nome sia qui simbolico, non inteso veramente a indicare una città particolare: “In effetti, è un'idea verosimile considerarla simbolo della terra rifiutata, ma infine redenta (Osea 1:11), delle Dieci Tribù e dei Samaritani. Cfr. i, 590: Messias filius Ephraim (3:8n)”. Sembra quindi che in tutti questi casi la parola “detto” (λεγομένη) denoti molto probabilmente un epiteto applicato, forse, dallo stesso scrittore; cosicché potrebbe essere reso, senza tradirne il senso, “cosiddetto”, o anche “che possiamo chiamare”

Questa probabilità sembra aumentare di molto se consideriamo altri usi simili nel Nuovo Testamento. Di questi ce ne sono circa ventisette, come ad esempio: “Gesù il cosiddetto Cristo” (Matteo 1:16; 27:17, 22); “Simone il cosiddetto Pietro” (Matteo 4:18; 10:2); “cosiddetto Matteo” (Matteo 9:9), detto per nome Levi (Luca 5:27); “il cosiddetto Giuda Iscariot” (Matteo 26:14); “un prigioniero famoso detto Barabba” (Matteo 27:16); “luogo detto Golgota, che è il cosiddetto Luogo del Teschio” (Matteo 27:33); “il cosiddetto Barabba” (Marco 15:7); “la festa degli azzimi, la cosiddetta pasqua” (Luca 22:1); “il cosiddetto Giuda” (Luca 22:47); “il Messia, il cosiddetto Cristo, deve venire” (Giovanni 4:25); “una piscina, la cosiddetta (in ebraico) Betesda”, o “la soprannominata”, ἐπιλεγομένη (Giovanni 5:2); “quell'uomo, il cosiddetto Gesù” (Giovanni 9:11); “Tommaso, il cosiddetto Didimo” (Giovanni 11:16; 20:24; 21:2); “nel luogo detto Litostroto ed in ebraico Gabbata” (Giovanni 19:13); “il Luogo cosiddetto del Teschio, che in ebraico è detto Golgota” (Giovanni 19:17); “La porta del tempio cosiddetta Bella” (Atti 3:2); “Sinagoga cosiddetta dei Liberti” o “dei cosiddetti Liberti” (Atti 6:9); “sebbene vi siano cosiddetti dèi” (1 Corinzi 8:5); “Quelli detti incirconcisione dalla cosiddetta circoncisione” (Efesini 2:11); “Colui che s'innalza sopra tutto ciò che è cosiddetto dio od oggetto di culto” (2 Tessalonicesi 2:4); “tabernacolo, cosiddetto Santo dei Santi” (Ebrei 9:3). Aggiungi “il sommo sacerdote cosiddetto Caifa” (Matteo 26:3) e “luogo detto Getsemani” (Matteo 26:36), dove il parallelo in Marco 14:32 è particolare — “luogo il cui nome è Getsemani” — e “Gesù, il cosiddetto Giusto” (Colossesi 4:11). Vi restano solo cinque o sei casi in cui viene usata una frase simile, come “che è chiamato”; ma non è il caso di dilungarci. 

Notiamo che in tutti questi casi la parola “detto” è usata per introdurre un nome o aggiuntivo o in qualche modo peculiare, cosicché potrebbe essere reso “soprannominato”. L'elenco è esaustivo per l'uso neotestamentario; [3] e se c'è qualcosa come il ragionamento per induzione completa, dobbiamo ammettere che Matteo, scrivendo “città detta Nazaret”, sembra tradire la consapevolezza di usare questo nome alla maniera di un epiteto, o almeno in qualche maniera particolare. Sembra che stia dicendo: “una città che, ai fini della mia rappresentazione, può essere detta Nazaret”. Perché? Allo scopo di spiegare il termine Nazoreo! 

Alcuni di questi casi meritano un esame ulteriore. Quanto al luogo detto Getsemani — cioè “Torchio delle Olive” — nessuno ne sa nulla e la sua realtà topografica appare altamente problematica. Sembra essere verosimile l'ipotesi che il nome sia puramente simbolico, suggerito dal passo famoso di Isaia: “Le tue vesti sono come quelle di chi calca l'uva nel tino” (Gath). Quest'ultimo termine significa torchio, e a quanto pare nient'altro che un torchio. [4] La combinazione Gath-Shemani (torchio degli oli o delle olive) è singolare e sembra molto improbabile come il nome di un luogo. Ma perché non può significare semplicemente “torchio dell'Olivo”? Come osserva bene Wellhausen, la parola non è aramaica, ma ebraica. Un nome del genere, se fosse stato un nome, avrebbe dovuto essere tramandato per secoli. Difficilmente lo sarebbe stato se non avesse indicato un luogo importante; e in tal caso probabilmente ne avremmo sentito parlare. È molto improbabile, allora, che ci fosse un luogo nominato Torchio delle Olive. Il simbolismo sembra perfettamente ovvio. Il torchio è quello di Isaia (63:2): il torchio della sofferenza divina. Questa spiegazione sembra così perfettamente soddisfacente in ogni aspetto che pare inutile guardare oltre. Che l'Evangelista pensasse a Isaia sembra chiaro dal fatto che a questo punto lui separa il Gesù dai suoi discepoli: “Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me; e (il successivo?) Luca aggiunge: “Gli apparve un angelo dal cielo per rafforzarlo”: non c'era bisogno di un aiuto umano, ma divino. Si spiega così anche la “premonizione” dei discepoli, che Wellhausen trova così sconcertante e incoerente (Ev. Matth., pag. 139). L'intera scena è concepita per drammatizzare l'idea di un Dio sofferente e, allo stesso tempo, per realizzare le parole del profeta in un senso molto più elevato di quello del profeta. Ci fu bisogno quindi di aggiungere pathos, perché l'idea di sofferenza era naturalmente così estranea all'idea di Dio, sebbene intrinseca all'idea di uomo, che la rappresentazione corse il rischio di apparire irreale, una finzione evidente. Da qui la cura crescente con cui ogni evangelista successivo elabora i dettagli del quadro meraviglioso, con un successo sublime. 

Certo, qualcuno dirà che il divino guerriero isaiano sta trionfando sui suoi nemici, che le sue vesti sono rosse del loro sangue; mentre nei Vangeli è il Gesù che soffre, e le sue vesti sono macchiate del suo stesso sangue (Luca 22:44). Verissimo, in effetti. L'idea del torchio è stata ripresa, ma non solo ripresa: è stata cristianizzata nel frattempo. La vendetta è stata trasformata in sacrificio di sé. Non c'è nulla di strano in questo. È abitudine dello scrittore neotestamentario cogliere un'idea o una frase veterotestamentaria e trasformarla per adattarla ai propri scopi. In questo caso la trasformazione è proprio quella che ci saremmo potuti aspettare. È possibile non percepire la delicata e bella suggestione dell'accostamento “torchio delle olive”? In Isaia si trattava del vino dell'ira e della vendetta a sgorgare dal torchio; non così nei Vangeli. Lì c'è ancora il torchio (Gath) del profeta; ma è l'olio della guarigione e della salvezza che sgorga dolcemente per tutte le nazioni. 

Riguardo alla “piscina cosiddetta (in ebraico) Betesda” (Giovanni 5:2), il caso appare chiaro come il sole. Che l'intera storia sia un simbolismo evidente sembra fin troppo chiaro per essere discusso. I nostri editori moderni hanno rimosso il versetto 4, seguendo manoscritti venerabili, ma rinunciando al buon senso. Infatti, evidentemente, un versetto di tal fatta è assolutamente necessario per dare verosimiglianza all'intera storia, ed è indispensabile che sia implicito nel versetto 7. Ma i primi copisti di א, B, C, D e altri, come pure molti traduttori, sembrano non aver gradito l'angelo del versetto 4 e di conseguenza l'hanno omesso, sebbene Tertulliano (De Baptismo, 5) dichiari che “un angelo con il suo intervento agitava la piscina di Betsaida”, il che fa risalire l'attestazione dell'idea del versetto al secondo secolo, molto prima di ogni manoscritto evangelico. 

Che questa piscina simboleggi il battesimo (ebraico) o la purificazione esteriore lo si vede chiaramente nel manoscritto siriaco sinaitico, che la rende al versetto 7 con (una parola che significa) battesimo. Il versetto 2 è perduto da questo antico manoscritto, ma il manoscritto curetoniano riporta luogo del battesimo. Lo storpio di trentotto anni è evidentemente l'Umanità, che aspettava proprio da trentotto secoli la venuta del culto di Gesù per guarirla. Il simbolo illustra vividamente l'impotenza della religione etnica ebraica dei riti, delle cerimonie, delle purificazioni, e l'onnipotenza della religione spirituale, della nuova dottrina del Gesù. Sui dettagli dell'interpretazione non insistiamo. Ma o l'intero racconto va accettato come fatto, come Storia, oppure va interpretato simbolicamente. Ma se qualcuno lo interpreta davvero come fatto storico, non abbiamo nulla da eccepire, ma nemmeno da discutere; egli è al di là dei termini del nostro argomento. D'altro canto, se lo intendiamo come simbolismo, allora non c'era questa piscina topografica e né questo nome; il nome “Betesda” diventa parte del simbolismo e la parola λεγόμενον ha il significato che abbiamo trovato di solito nel Vangelo. Inoltre, è risaputo che nessuna piscina di questo tipo è menzionata altrove, né è possibile trovarla a Gerusalemme. Dice Godet, che naturalmente accetta la lettera alla lettera, rifiutando il versetto 4: “Comme il est impossible d'identifier la piscine de Béthésda avec l'une des sources thermales dont nous venons de parler, elle doit avoir été recouverte par les décombres, ecc.”!

Passiamo ora al “luogo detto Litostroto ed in ebraico Gabbata” (Giovanni 19:13). Però non dobbiamo soffermarci a lungo. È risaputo che tutti i tentativi fatti in ogni epoca, anche dagli studiosi più ingegnosi,  eruditi e comprensivi, di individuare questo luogo “lastricato” hanno fallito completamente. Ma alla fine si è capito che hanno cercato per tutto il tempo nel punto sbagliato, a Gerusalemme mentre il “lastrico” appariva solo nella fantasia dell'Evangelista. Può bastare riferire alla “conclusione” di Canney nell'Encyclopaedia Biblica, 3640: “Non sembra improbabile, quindi, che il luogo Litostroto-Gabbata sia esistito, come località precisa, solo nella mente dell'autore”. Le parole greche ed ebraiche non erano certo mere supposizioni. L'autore aveva qualche ragione per preferirle ad altre, ragioni che possiamo essere capaci o meno di scoprire. Il fatto che avesse dato un nome al luogo era semplicemente una parte del suo intento generale di una vivida rappresentazione drammatica, per mezzo di dettagli ben immaginati. 

Solo pochi passi più oltre arriviamo a “il Luogo cosiddetto del Teschio, che in ebraico è detto Golgota” (Giovanni 19:17). Sicuramente questi due “luoghi” sono quasi collegati. Perché uno dovrebbe essere mantenuto e l'altro lasciato? La ricerca del Golgota è stata piuttosto inutile tanto quanto quella di Gabbata. Ma la rinuncia a quest'ultimo non sembrò comportare conseguenze così gravi e quindi è stata fatta più facilmente. Però le ragioni sono le stesse. Non c'è il minimo motivo per mantenere l'uno oppure l'altro come luogo reale. Matteo, infatti, lascia intendere chiaramente che il nome “Golgota” è una creazione, traducendolo in greco (27:33). 

Sugli altri esempi sembra inutile soffermarsi. I “cosiddetti” nomi sembrano essere tutti secondari o dei nomignoli o dei soprannomi dati per questo o per quell'altro motivo. Così, “il sommo sacerdote cosiddetto Caifa” si chiamò in realtà Giuseppe, come apprendiamo da Giuseppe (Antichità 18, 2, 2, [5] e Antichità 18, 4, 3). [6] Il “cosiddetto Giuda” era semplicemente Judaeus, il popolo ebraico. 

Risulta, quindi, che l'epiteto “cosiddetto” (λεγομεν-), anteposto a un nome usato dal vangelo, sottintenda comunemente che non si tratta del nome proprio, ma di un soprannome o di un nomignolo, oppure che si tratta di un nome fittizio per una mera immaginazione. In nessun caso risulta essere il vero nome di una cosa reale. Questa è almeno l'induzione fatta con ogni cura fino alla “città cosiddetta Nazaret”. In tutti e trentuno i casi questo è il risultato. Cosa dire allora del trentaduesimo caso, il caso di Nazaret? Non c'è bisogno di invocare il calcolo delle probabilità. [7] Il buon senso esige imperiosamente che si dia qui l'unico e autentico significato al termine, a meno che non si possa addurre una ragione positiva e decisiva a favore dell'altro significato. Ognuno sa che non è mai stata scoperta o inventata alcuna ragione contraria; al contrario, sono state addotte ragioni fortissime e del tutto indipendenti (in Der vorchristliche Jesus) per ritenere inventato il nome per spiegare l'appellativo molto più antico di Nazareo, e nessuna di queste è stata ancora invalidata. [8] Se, dunque, c'è una qualche virtù nell'induzione completa, il caso sembra chiuso contro Nazaret come nome proprio di una “città cosiddetta”

Nessuno citi il fatto che Nazaret ricorre undici volte senza l'aggettivo “cosiddetto”. Cento casi negativi non avrebbero alcun peso contro l'unico caso positivo. Così pure il sommo sacerdote è otto volte semplicemente “Caifa” e solo una volta il “cosiddetto Caifa”. Il soprannome può benissimo essere usato senza l'aggettivo, come l'ufficiale può apparire senza il suo distintivo; ma la presenza dell'aggettivo in un singolo caso definisce il soprannome, come il distintivo una volta indossato definisce l'ufficiale. È superfluo, quindi, esaminare ulteriormente gli undici casi, anche se tale esame avvalorerebbe fortemente la nostra tesi.

NOTE

[1] πόλιν λεγομένην Ναζαρέτ

[2] λεγομεν; in Luca, καλουμεν.

[3] Non è sembrato necessario considerare in generale l'uso affine di καλουμεν.

[4] A dire il vero, un torchio può essere usato per vari scopi (come in Giudici 6:11); e la parola gath può essere stata talvolta usata inaccuratamente per la parola bad(â), che significa regolarmente torchio, come in Pe'ah 7:1, dove gath “significa certamente un torchio”. Altrove, però, la differenza tra le due parole, come tra le due cose, sembra rispettata coerentemente.

[5] Ἰώσηπος ὁ καὶ Καϊάφας διάδοχος ἦν αὐτῷ.

[6] Ἰώσηπον τὸν καὶ Καϊάφαν ἐπικαλούμενον — Giuseppe anche soprannominato Caifa.

[7] Questo è anzi un caso particolare di un problema generale importantissimo: in un sacchetto ci sono n palline, tutte note per essere o bianche o nere. Vengono estratte a caso w palline bianche e b palline nere, e nessuna viene sostituita. Quale è la probabilità che la prossima pallina estratta a caso sia bianca? La risposta è (w + 1)(w + b + 2). Se, nel caso speciale in esame, w è uguale a 31 e b è uguale a zero, la risposta sarà 32/33. Quindi ci sarebbe solo una possibilità su 33 che Nazaret sia usato in Matteo 2:23, come nome ordinario; ci sarebbero 32 possibilità su 33 che sia usato come una sorta di soprannome, soprannome o nome fittizio, come negli altri casi esaminati. La probabilità potrebbe anzi sembrare molto più alta di quanto questo calcolo dimostri; non si è considerato, infatti, che i 31 casi su 32 indicano fortemente che questo è l'uso costante dello scrittore; che non ci possono essere affatto palle nere. Ma il risultato fornito è sufficiente ai fini di questo argomentazione. Non contestiamo ai nostri avversari il loro tre per cento di probabilità. 

[8] Vedi nota, pag. 292.

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