(segue da qui)
GIUDA = JUDAEUS
Il secondo problema, quello di (I)scariot(a), sembrerebbe quindi risolto e, in effetti, in maniera sorprendentemente soddisfacente. Ma rimane la domanda: “Chi fu Giuda?”. Contro l'opinione che fosse un semplice uomo, come Arnold o Burr, stanno le considerazioni più profonde. In primo luogo, il movente del consegnatore sembra mancare del tutto. L'idea che egli volesse provocare Gesù a una dimostrazione di potere miracoloso e a un'immediata instaurazione del Regno è del tutto inammissibile, anche se sostenuta da De Quincey e, mirabile dictu, successivamente da Volkmar (Jesus Nazarenus, pag. 121). Supponi che il piano fosse riuscito, a cosa sarebbe servito Giuda? Gesù lo avrebbe mantenuto al suo posto di tesoriere dopo un simile tradimento? Che Giuda fosse un autentico demonio fin dall'inizio sembra la spiegazione più plausibile, e l'ortodossia estrema potrebbe in effetti sostenere che fosse stato scelto da Gesù proprio per la sua diabolicità, come strumento verso il fine divinamente stabilito. Ciò sembrerebbe abbastanza coerente, e l'ortodossia si dimostra qui, come in molti altri punti, di gran lunga superiore per prontezza dialettica al Liberalismo, che è deplorevolmente illogico, zoppicante su entrambe le gambe. Ma si può pensare seriamente a un'idea del genere? Non c'è il minimo accenno nei Sinottici. Questi non sanno nulla di Giuda come uomo cattivo. Dicono che egli “consegnò” Gesù alle autorità, niente di più. Persino il denaro (un misero salario di quattro mesi, secondo Matteo) appare come un premio perfettamente volontario nel racconto di Marco, promessogli dopo la sua proposta ai sommi sacerdoti. Ma su questa circostanza non poniamo l'accento. Sembra strano, però, che i Sinottici non abbiano alcuna parola di condanna per il consegnatore; ancora più strano che non attribuiscano mai alcun movente al consegnatore, soprattutto perché sono liberissimi con i moventi in generale. A quanto pare non furono più saggi dei moderni e non riuscirono a trovare una spiegazione. Altrimenti Luca difficilmente avrebbe attribuito la condotta di Iscariota al diavolo che era entrato in lui, il che sembrerebbe una sorta di dernier ressort. Giovanni, secondo la sua abitudine, si spinge molto oltre, dichiarando che Giuda fu un ladro, che il diavolo lo spinse alla consegna, che Satana entrò in lui, che fu egli stesso un diavolo. Tutto questo lo riconosciamo di colpo come parte della maniera di Giovanni nel lavorare sui Sinottici. Da queste ragioni immaginarie, più che dal discreto silenzio di Matteo e soprattutto di Marco, sembra ancora più chiaro che gli Evangelisti non riuscirono a immaginare alcuna ragione plausibile per la consegna. Eppure la ragione, se ci fosse stata, difficilmente avrebbe potuto essere tenuta così profondamente segreta. Inoltre, anche se non fosse stato possibile scoprirla, perché Matteo, e in particolare Marco, ne furono così del tutto indifferenti? Le loro fantasie furono vivaci; perché non inventarono una ragione? L'unica risposta sembra essere che Marco sentì almeno che l'azione non era da attribuire a motivazioni umane: che non poteva essere compresa in un modo così banale.
Se la consegna viene osservata dal lato delle autorità, è ugualmente incomprensibile. Che bisogno avevano di Giuda e del suo bacio? Nessuna. Senza dubbio avrebbero potuto arrestare Gesù in qualsiasi momento e in pieno giorno, in perfetta sicurezza. I suoi discepoli sembrano essere stati disarmati o indisposti a opporre resistenza, perfino se uno recise un “orecchio”. Egli stesso siede apparentemente solo e inosservato, osservando tranquillamente la folla che versa contributi al tesoro del tempio. E che bisogno c'era di temere il popolo, che gridò “Crocifiggilo, crocifiggilo”? Guardala allora nel modo in cui vuoi, la consegna appare immotivata, inutile, incomprensibile. Inoltre, non sembra aver fatto parte della tradizione più antica. Nell'Apocalisse (21:14) i Dodici appaiono schierati tutti insieme, come fondamenta inamovibili della città muraria celeste; non c'è alcun accenno di defezione. Pure “l'Apostolo” parla di Gesù che appare ai Dodici, anche se è possibile che dodici sia usato qui in senso tecnico, perfino se solo undici fossero presenti. A dire il vero, egli fa riferimento a una consegna nelle parole “nella notte in cui fu consegnato”, ma non fa alcuna allusione al consegnatore. Qualcuno potrebbe dire che tale allusione non fosse necessaria. Forse; ma a un esame più attento rimaniamo stupiti dalla natura dell'affermazione dell'Apostolo: “Poiché io ho ricevuto dal Signore quello che anche vi ho trasmesso, cioè che il Signore Gesù, ecc.” (ἐγὼ γὰρ παρέλαβον ἀπὸ τοῦ Κυρίου, ὃ καὶ παρέδωκα ὑμῖν). Nota la posizione enfatica dell'ἐγὼ: Qualunque cosa dicano gli altri, “Io ho ricevuto dal Signore”, ecc. I critici disperati potrebbero dire che “dal Signore” voglia dire dalla Chiesa di Gerusalemme, la Urgemeinde dell'immaginazione tedesca. Ma un grecista consumato come Georg Heinrici se ne intende e ci dice chiaramente (nel Kommentar di Meyer, pag. 325 e seguenti) che non c'è questo riferimento. È infatti evidente che nessuno dei lettori dell'Apostolo avrebbe pensato di intendere “Io ho ricevuto dal Signore” come “Io ho ricevuto da Pietro o da Giovanni”; è solo lo sconcertato commentatore moderno che potrebbe inciampare su una siffatta idea. Il riferimento deve essere a qualche forma di rivelazione soprannaturale. Perciò esso può al massimo testimoniare un'esperienza soggettiva dell'Apostolo, non una tradizione dei Dodici. Inoltre, il sottoscritto sembra aver provato definitivamente che questo passo è un'interpolazione nell'Epistola ai Corinzi (pag. 146 e seguenti). Quanto al racconto (in Atti 1) dell'elezione di Mattia (di cui non sentiamo più parlare) al posto vacante causato dalla scomparsa di Giuda, la sua origine tardiva è ravvisabile nelle affermazioni circa il campo Akel-damach = campo del sonno = cimitero. La coscienza rivelata è chiaramente impossibile per chi parla di un evento che avrebbe potuto essere occorso non prima di due mesi prima. Il discorso, allora, è stato composto dallo storico (“era necessario che si adempisse questa Scrittura”) e messo in bocca a Pietro. Notiamo che Giuda viene qui definito una “guida”.
Non riusciamo quindi a trovare l'idea di un Giuda consegnatore nelle più antiche espressioni extra-evangeliche della storia cristiana; al di fuori dei Vangeli non c'è alcun supporto reale alle affermazioni che i Vangeli stessi non riescono a rendere comprensibili. Ma considera per un momento che cosa si possa propriamente definire cedere o consegnare. Sicuramente nient'altro che ciò che si ha; la cessione e la consegna sembrano implicare un possesso precedente. Ma in che senso si sarebbe mai potuto dire che Giuda avesse posseduto il Gesù? Come uomo, in nessun senso. Inoltre, come condotta di un uomo, si è visto che la sua consegna è in ogni modo incomprensibile. Ma siamo sicuri che fosse un uomo? A mio avviso, sicuramente non lo fu. È un semplice caso che Giuda sia così simile a Judaeus? Oppure lui sta per l'ebraismo, per il popolo ebraico? Questa sembra diventare un'ipotesi necessaria non appena percepiamo l'impossibilità di comprendere Giuda come un uomo. Su questa ipotesi tutto diventa chiaro. La consegna fu davvero ai Gentili; la frase: “Essi [le autorità ebraiche] lo consegneranno nelle mani dei gentili” sembra appartenere alla più antica narrativa evangelica (Matteo 20:19; Marco 10:33; Luca 18:32) e mette a nudo il nocciolo dell'intera questione. È degno di nota il fatto che, mentre in Matteo e Marco viene menzionata prima la consegna alle autorità ebraiche e poi la consegna ai Gentili, in Luca viene menzionata solo quest'ultima. Luca presenta certamente una forma generalmente più giovane di Marco, ma occasionalmente, a quanto pare, una più antica, il che non deve sorprenderci. Io sospetto che il pensiero più antico fosse quello della consegna della grande Idea di Gesù, del culto di Gesù, da parte degli ebrei ai pagani. Questo, infatti, fu il fatto supremo, il fatto strabiliante, della storia cristiana iniziale, e occupò intensamente il pensiero degli uomini. Non è strano che nei Vangeli trovi una così molteplice espressione per mezzo di parabole e per mezzo di simboli. La meraviglia sarebbe se non fosse così. La storia di Giuda e della sua consegna sembra il trattamento più drammatico che il grande fatto abbia mai ricevuto. Altri esempi meno elaborati si trovano nelle parabole di Lazzaro e del ricco Epulone, del Figliol Prodigo e del Ricco che “se ne andò (da Gesù) sconsolato, perché aveva molti beni” (la Legge, i Profeti, le Promesse, gli Oracoli di Dio). Che Israele sia qui inteso diventa evidente, se non lo era già, quando confrontiamo Marco 10:22: “Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò sconsolato”, [1] con Isaia 57:17: “Ed egli fu afflitto, e con sguardo tetro se ne andò per le sue vie”. [2] Il profeta sta descrivendo la condotta di Dio nei confronti di Giacobbe, che è ancora il suo Diletto, anche se addolorato per un breve periodo (βραχύ τι). Il rarissimo verbo della Septuaginta στυγνάζω mostra che Marco sta semplicemente riecheggiando Isaia, anche se Dittmar non nota il parallelo. Ci sono abbastanza altre considerazioni che confermano questa interpretazione; ma c'è spazio per menzionarne solo una: che il Gesù “amò” questo Ricco. Ma l'attribuzione di un siffatto sentimento a Gesù è del tutto priva di paralleli in Marco, il cui ritratto del Gesù è sprovvisto singolarmente di attributi umani: σπλαγχνίζομαι (usato tre volte a proposito del Gesù) è un'eccezione che conferma fortemente la regola; si limita a rendere l'espressione veterotestamentaria רתס, costantemente ed esclusivamente usato in pratica a proposito di Jahvé o in correlazione a Jahvé, le eccezioni essendo davvero confermative. La spiegazione è semplice e quasi scontata. Dice Jahvé (Osea 11:1): “Quando Israele era giovane, io l'amai”. Che Matteo (19:16-26) riconobbe come tale il riferimento è accennato con arte squisita nella parola νεανίσκος, che egli applica al Ricco, il quale, secondo Marco, aveva osservato tutti i comandamenti “fin dalla giovinezza”, la quale giovinezza doveva pertanto essere ormai trascorsa. Ma Matteo, come ognuno sa, fu un letteralista, che tenne in gran conto le parole esatte della Scrittura; e, osservando che Israele era giovane quando fu amato, trasformò audacemente quell'Uno (εἷς) di Marco in un Giovane (νεανίσκος). Quale altra spiegazione si può dare a questa “correzione di Marco”?
Naturalmente, è facile dire che il simbolismo di Giuda (= Judaeus) non è stato recepito coerentemente. La consegna si fa agli stessi ebrei (sommo sacerdote e altri dignitari), i quali poi consegnano ai pagani. Rispondiamo che il simbolo ci è giunto solo in una forma altamente elaborata e storicizzata; questa rielaborazione deve sempre fare violenza all'idea originale. Un simbolo, non più di una metafora, sopporterà delle forzature, anche se spesso rielaborato. Un singolo punto di rassomiglianza anche solo remota basterà per ogni similitudine.
Ammirandola, gli uomini pensano quanto più bella
Di tutte le stelle fisse sia la stella errante!
In un momento di calma il signor Lang senza dubbio confesserebbe e non negherebbe, e questo senza pregiudicare la grande bellezza dei suoi versi, che la somiglianza di Lord Byron con qualunque corpo celeste conosciuto del nostro sistema planetario è estremamente debole e sfuggente. Le vie del rielaboratore sono già scoperte; sarebbe inutile tentare di tracciare le fasi che hanno condotto a un risultato così composito come quello che ci sta dinanzi nei Vangeli. Eppure anche lì le prove di un'evoluzione graduale da Marco a Giovanni sono chiare e manifeste. Ricordiamo che pure il primo ci trasporta non alla fonte, ma solo a metà del flusso. Se consideriamo altre parti della narrativa evangelica e notiamo i ricchi raccolti — trenta, sessanta, cento volte — che sono stati accumulati da singole idee fondamentali, l'evoluzione ipotizzata in questo caso sembra a malapena eccessiva. Ma l'interpretazione di Giuda qui suggerita non è presentata come conclusiva né provata dalle considerazioni avanzate. Essa fa parte di un sistema generale di esegesi neotestamentaria; essa sta in piedi o cade con la concezione totale della genesi del cristianesimo tenuta dal sottoscritto, alla quale presta forza, ma dalla quale in misura molto maggiore la attinge.
Non così, però, la decifrazione di (I)scariot(a). Si tratta di una questione filologica, che non condivide affatto il fato di una teoria delle origini cristiane, ma è apparentemente solitaria come la Cosa in Sé di Kant. Ma anch'essa può nondimeno entrare in relazione. Infatti, la forma D ben attestata, ἀπὸ Καρυωτου, deve apparire ora come un primo tentativo di interpretare l'epiteto Iscariot, la cui giustificazione non fu più intuita. In tal modo si getta una forte luce collaterale su un tentativo apparentemente simile di interpretare l'epiteto ben più importante, Nazaraios. Sembra provato che questo appellativo fosse un appellativo antichissimo, anteriore alla nostra epoca (cfr. Der vorchristliche Jesus, ii); infatti, troviamo il nome Naṣiru inserito in un elenco di tribù o categorie sulla tavoletta d'argilla dell'iscrizione di Tiglatpileser III. Possiamo star sicuri che il nome non è derivato da Nazaret, ma è un'evoluzione della radice familiare N-Ṣ-R, che significa guardia, protezione. Però in Matteo 2:23, il termine è dedotto da Nazaret, la quale città, sotto varie forme del nome, è completamente naturalizzata nei nostri Vangeli. Anche in Marco 1:9, leggiamo che “Gesù venne da (ἀπὸ) Nazaret di Galilea”. Ciò sembra un'aggiunta successiva alla narrativa, come indicato dal titolo Ἰησοῦς, usato qui senza l'articolo, ma altrove regolarmente con esso, in questo Vangelo. [3] Per di più, il testo è incerto; la lettura εἰς invece di ἀπό potrebbe essere più antica. In Matteo (21:11) troviamo “il profeta Gesù ὁ ἀπὸ Ναζαρὲθ”, e la stessa espressione greca pure in Giovanni 1:45; Atti 10:38. Possiamo ora comprendere questa frase. Sembra non essere altro che un tentativo di spiegare Nazoraios, proprio come ἀπὸ Καρυωτου è un tentativo di spiegare (I)scariot. Quanto a Nazaret stessa, naturalmente ora è lì, ben visibile; [4] ma anticamente sembra che recasse un altro nome, Hinnaton, secondo la testimonianza delle tavolette di El-Amarna e degli Annali di Tiglatpileser III. Entrambe le parole vogliono dire la stessa cosa, ossia: difesa, protezione; e possiamo ora vedere come sia giunta in esistenza la “città chiamata Nazaret”. Il nuovo nome Nazaret, che significa difesa, fu applicato all'antico villaggio di Hinnaton, che significa protezione. Alcuni intuirono che questo nome non avrebbe prodotto il desiderato gentilizio Nazareo, e quindi scrissero Nazara, la forma preferita da Keim, ma scarsamente attestata. Sembrerebbe, quindi, che il mistero che circonda questi nomi si stia chiarendo.
I passi delle tavolette sono, secondo Winckler: in 11 (13-17), lettera di Burna-Buriash, re di Karduniash, a Naphururiya, re d'Egitto: “Ora, i miei mercanti che erano partiti assieme ad Ahu-tabu, si erano trattenuti in Canaan per affari, mentre Ahu-tabu era proseguito (per giungere) presso mio fratello, nella città di Hinnatuni di Canaan”. Inoltre, 196 (24-32), nella continuazione di una lettera troviamo: “Ma Zurata ha preso Lab'aya da Megiddo e mi ha detto: 'Lo manderò al re su delle navi'. Invece Zurata l'ha preso e l'ha rimandato da Hinnatuna a casa sua”.
L'iscrizione negli Annali (a cura di Paul Rost, 1893) recita: “1. 232 — — — [šal-lat] (âlu) Ḫi-na-tu-na, 650 šal-lat (âlu) Ḳa-na — — — — (prigionieri) (città) Ḫi-na-tu-na, 650 prigionieri (città) Ḳa-na — —”. Siccome il documento è andato perduto dopo Ḳa-na, non possiamo essere certi che si intenda Cana di Galilea. Se si trovasse un pezzo di carta strappato subito dopo le lettere Adria, non si sarebbe sicuri se il riferimento fosse ad Adria in Italia; avrebbe potuto essere ad Adrianopoli. Ma siccome Hinnatuna si trovò certamente in Canaan, il suggerimento di Cana, sei miglia a nord della nostra Nazaret (= Hinnatuna), pare essere a portata di mano.
Che Giuda Iscariota simboleggi il popolo ebraico nel suo rifiuto del culto di Gesù sembra così ovvio, sembra incontrarci così vicino alla soglia del significato nascosto del Nuovo Testamento, che potrebbe indurci a meraviglia che qualcuno lo trascuri. Però i critici più abili, e anche i più audaci, i più perspicaci, lo hanno ignorato. Nella Catena di Cramer troviamo solo inezie sul tema di Giuda; egli non è più il Consegnatore, ma il Traditore (prodotes) — il prefisso pro ha, infatti, del tutto soppiantato il prefisso para — e la sua cupidigia e la sua viltà generale affollano pagina dopo pagina. Su Giovanni 13:30 è chiesto: “Perché l'Evangelista dice che era notte quando Giuda uscì? Per insegnarci quanto fosse sconsiderato, perché nemmeno l'ora (del giorno) poté frenare il suo impulso”. Da ciò non c'è nulla da sperare. Bruno Bauer, naturalmente, “risolse” l'intera faccenda in una curva caustica, formata da riflessi dell'Antico Testamento. In questo caso trovò la principale superficie di riflessione nel Salmo 41:9: “Persino il mio intimo amico, su cui facevo affidamento e che mangiava il mio pane, ha alzato contro di me il suo calcagno” (Kritik der evangelischen Geschichte, 13:85, 4). “A partire da quelle parole del Salmo è sorta l'intera scena”. Ma lui non sembra collegare Giuda all'ebraismo. Strauss discute a lungo di Giuda (Leben Jesu kritisch bearbeitet, §§ 118, 119), ma senza gettare alcuna luce sulla questione. Volkmar, che scrutò così intensamente i Vangeli e che vide più in profondità di ciascuno dei suoi contemporanei (con la possibile eccezione di Loman), nella sua grande opera Marcus (pag. 555) dichiarò che “per Marco, Giuda, uno dei Dodici, è il simbolo del giudaismo che uccise il Cristo, che nei primi discepoli fu più strettamente unito a Lui fino alla fine”. L'Iscariota, però, lui lo considerò ancora storico ed “effettivamente famigerato come apostata”. Marco lo utilizzò come veicolo adatto per la sua idea di giudaismo, e la fusione tra il simbolico e lo storico ci procurò Giuda Iscariota. Volkmar non ha dubbi sul fatto che quest'ultima parola significhi “uomo di Keriot”, ed è giustamente spiegata dalla forma di D, ἀπὸ Καρυωτου, in Giovanni. Il grande studioso di Zurigo ebbe un'intuizione meravigliosa. Il suo Marcus (1875) è, in effetti, un volume di intuizioni; ma è quasi illeggibile, ed è stato da tempo chiuso con i sette sigilli dell'oblio, che neanche Wrede riuscì a sciogliere. Egli stesso si ritrasse mezzo spaventato da ciò che vide, e nel suo canto del cigno (Jesus Nazarenus, 1882) sembra di sentire una palinodia. Nel frattempo la sua tesi critica principale della priorità di Marco è diventata un luogo comune della critica, anche se la fonte dei Logia, così diligentemente sfruttata da Matteo, potrebbe vantare un'antichità ancora maggiore. L'idea di Volkmar che il Marco paolino, coll'insistere sulla frase “Uno dei Dodici”, intenda alludere al fatto che un certo elemento del vecchio giudaismo si fosse protratto fino all'ultimo nel “gruppo primitivo dei discepoli”, possiede, in effetti, una certa plausibilità; ma sembra ipotizzare un gruppo primitivo che non è mai esistito, rendere questo Vangelo inutilmente polemico e ingigantire una questione relativamente insignificante, come fece la critica di Baur in generale, perfino nelle sue illustrazioni successive e più severamente critiche.
NOTE
[1] ὁ δὲ στυγνάσας ἐπὶ τῷ λόγῳ ἀπῆλθεν λυπούμενος.
[2] καὶ ἐλυπήθη καὶ ἐπορεύθη στυγνὸς ἐν ταῖς ὁδοῖς αὐτοῦ. Nel Text Bibel di Kautzsch (1904) troviamo l'ebraico tradotto (da Victor Ryssel) così: “Allora egli se ne andò indietreggiando da lì per la via da lui stesso scelta”. Nell'ultimissima edizione Budde traduce così: "Ed egli se ne andò apostata, dove lo spinse il suo cuore (in senso stretto, sulla via del suo cuore)”.
[3] Vocativi e 1:1, 10:47, 16:6, naturalmente eccettuati.
[4] Eppure Burkitt sembra pensare che il villaggio moderno non abbia nulla a che fare con il villaggio antico, che lui preferisce identificare con Corazin.
Nessun commento:
Posta un commento