venerdì 20 settembre 2024

ECCE DEUS — EBREO E GENTILE

 (segue da qui)


EBREO E GENTILE 

36. In realtà, ha ricevuto più di un trattamento. La parabola di Lazzaro e del Ricco Epulone è una presentazione interessante della questione. Il Ricco Epulone è il ricco ebreo, Lazzaro il misero gentile, “povero e bisognoso”, “malato e pieno di piaghe”: ovviamente e certamente, come si vede in più di una circostanza. Così Lazzaro giaceva alla porta, aspettando che cadessero le briciole dalla tavola dell'uomo ricco. Proprio così, la donna siro-fenicia (Marco 7:28) dichiara saggiamente che i cani mangiano le briciole dei figli. Ora, nessuno dubita che per figli si intendano qui gli ebrei e per cani i Gentili: da qui la presunzione che si intenda lo stesso nell'altra parabola. Ancora, Lazzaro è portato nel seno di Abramo, mentre il Ricco Epulone è gettato all'inferno. Esattamente come in Matteo 8:11-12 si dichiara che molti dall'oriente e dall'occidente (i gentili) siederanno con Abramo nel Regno, mentre i figli del Regno (gli ebrei) saranno gettati fuori nelle tenebre. Ancora, il Ricco Epulone chiede che Lazzaro sia mandato “a casa di mio padre” per ammonire i suoi “cinque fratelli”. Che cosa significa ciò? La “casa di mio padre” — ossia la casa di Jahvé — è un nome dell'Antico Testamento che indica la Palestina. Così in Osea 8:1: “Come un'aquila (l'Assiria) piomba sulla casa di Jahvé” (Canaan); Osea 9:3, 4, 5, 6: “Non potranno restare nella terra di Jahvé, ma Efraim ritornerà in Egitto e in Assiria mangeranno cibi immondi...chiunque ne mangerà sarà contaminato; poiché il loro pane sarà per loro soltanto, e non entrerà nella casa di Jahvé......l'Egitto li raccoglierà, Menfi li seppellirà”; 9:15: “io li caccerò dalla mia casa” (il popolo fuori dalla terra di Israele). Ma i “cinque fratelli”? Chiaramente le cinque nazioni di Samaria (2 Re 17:24-41), i cinque mariti della donna di Samaria (Giovanni 4:18), che hanno “Mosè e i profeti”. Osserva, inoltre, il totale scollamento di questa parabola (Luca 16:19-31) col suo contesto; rimuovila, e il flusso del pensiero è altrettanto fluido come prima. Essa non è nemmeno messa in bocca al Gesù. Ovviamente è una parabola del tutto indipendente, inserita qui, ma avente la sua propria raison d'être

37. Il quarto Evangelista ha colto l'affermazione di Luca secondo cui non avrebbero creduto neanche se uno (Lazzaro) fosse risorto dai morti, e l'ha sviluppata in una storia elaborata in cui un certo Lazzaro risorge effettivamente dai morti, col risultato previsto: essi non credono, sono solo induriti nella loro incredulità (11:46, 53). Che questa sia l'interpretazione di questa minuta narrativa sembra certo, perché Lazzaro è noto alla storia sinottica solo in Luca 16:20, 23, 24, 25. Ma se Maria e Marta avessero avuto un tale fratello, e se un miracolo così stupendo fosse avvenuto in tali condizioni, è del tutto inconcepibile che i Sinottici avrebbero mancato di notarlo, tanto più che fu proprio questo prodigio (secondo Giovanni) la causa principale dell'arresto e dell'esecuzione del Gesù (11:53). 

38. Possiamo ora vedere chiaramente chi erano i dieci lebbrosi guariti in Luca 17:11-19. Perché dieci? Perché di passaggio per la Samaria? Perché stavano “lontano”? Tutti questi indizi puntano alle disperse Dieci Tribù d'Israele, contaminate dal contatto con l'idolatria pagana. Sembra davvero sorprendente che qualcuno non riesca a percepire immediatamente che questa storia non può essere storica, non può essere una leggenda, che essa deve essere un simbolismo intriso di significato. Qualcuno si chiede chi fosse il tipico Samaritano solitario che rese grazie? Il suo nome non si trova forse in Atti 8:13? Non è forse Simon Mago? [1] Questo, però, tra parentesi e senza insistenza. 

39. Ritornando all'idea del ricco ebreo gaudente e del povero gentile avido di briciole, la troviamo magnificamente esposta nella parabola del Figliol Prodigo, con l'accento posto sulla gioia in cielo per il ritorno dell'umanità al vero Dio dopo la sua lunga tresca con le false religioni del paganesimo. Il figlio maggiore che guarda con tanto cruccio, quasi dispiaciuto come se fosse lo stesso vitello grasso, anche se non per una ragione altrettanto valida, simboleggia in modo vivido il giudeo geloso, così riluttante a condividere i propri beni col suo fratello minore Gentile: il giudeo che aveva servito Dio per tanti anni e non aveva mai trasgredito un comandamento, e che aveva invero sofferto molto e si era rallegrato solo raramente in così tanti secoli. La sua riluttanza non era innaturale. Nota, però, che, sebbene ora rifiuti di entrare nel Regno, il suo diritto di primogenitura non è realmente perso. Dice il Padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”. Di nuovo udiamo la voce dell'Apostolo: “Così tutto Israele sarà salvato”.  

40. Un'immagine ancora più sottile e più elaborata, anche se molto meno simpatica, dell'ebreo si trova nel famigerato personaggio di Giuda Iscariota, l'ebreo Consegnatore. Che questo sia il significato di Iskariot sembra provato, con una probabilità almeno pari a quella che si attribuisce comunemente a tali questioni, in un altro capitolo (vedi infra). Il termine v'sikkarti (“e io consegnerò”) si trova effettivamente in Isaia 19:4, e la forma Skariotes sembra solo un lievissimo travestimento formato per analogia da una parola greca come stratiotes (soldato) che passa in siriaco nella forma “estratiota”. Il suffisso “colui che rese (o consegnò)[2] sembra semplicemente una traduzione di (I)Skariot, e non significa colui che tradì. L'ebreo (Giuda) è chiamato il Consegnatore perché consegnò il culto di Gesù (la sua prerogativa naturale, il monoteismo, il vero culto) ai Gentili. Naturalmente, in questo contesto, non faccio nessun tentativo di provare queste affermazioni. Questa idea ha subito, di sicuro, molte elaborazioni e qualche deformazione, ma è ancora chiaramente riconoscibile nella storia evangelica. L'interpretazione di (I)Skariot come “uomo di Qerioth” è impossibile, come ammette espressamente Wellhausen, per esempio. 

41. Ma l'immagine di gran lunga più gradevole del gentile e dell'ebreo nei loro rapporti con il nuovo culto di Gesù è data da Luca (10:38-42). Nelle due sorelle Maria e Marta (signora), la prima seduta ai piedi di Gesù (adottando volentieri il culto di Gesù), la seconda oberata da molti servizi (riti e cerimonie ebraici), e che pretende un servizio analogo dalla sorella, sembra impossibile non riconoscere il mondo gentile e quello ebraico. Considera che era un'abitudine vecchia di molti secoli parlare di un popolo come di una donna (figlia di Sion, figlia del mio popolo), e poi spiega come l'antico pensiero cristiano, che rimuginava continuamente sul nodoso problema dell'ebreo e del gentile nel Regno, avesse potuto narrare un simile episodio senza pensare all'evidente allegoria. 

42. Che il grande drammaturgo Giovanni fosse consapevole della vera portata sembra chiaro dal suo famoso undicesimo capitolo: “Era allora malato un certo Lazzaro di Betania, [3] il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato”. Siccome Lazzaro non può essere altro che il mondo gentile, così anche sua sorella Maria. Non c'è incoerenza, ma solo un'armoniosa varietà nel simbolismo. Questo fratello è malato fino alla morte: quanto è vero ciò del paganesimo! Tutti e tre (ebrei e gentili) sono amati dal Gesù. Lazzaro è indicato come  “Colui che tu ami”: un'umanità chiaramente pagana. Poteva un tale favorito dell'uomo Gesù essere assolutamente sfuggito al setaccio della tradizione sinottica? Impossibile! Nota, inoltre, i vari tocchi delicati dell'artista. Il Gesù sa che il suo “amico Lazzaro” è malato, eppure ritarda due giorni prima che intervenga la morte. Perché? Perché questo strano motivo? Non è forse il lungo ritardo della Storia, la pazienza millenaria di Jahvé con la malattia del paganesimo, che il simbolista mette in scena? Ancora, è Marta, non Maria (l'ebrea, non la gentile), che va incontro al Gesù veniente (nella Legge e nei Profeti). Lei è chiaramente designata come il popolo di Dio dalle parole poste sulle sue labbra: “So che tutto quello che chiederai a Dio, Dio te lo darà”; “so che resusciterà, nella resurrezione, nell'ultimo giorno”; “sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo (Messia), il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo”. Nota, inoltre, come la fede dell'ebrea sia squisitamente integrata dalla dottrina del Gesù: “Io sono la Resurrezione e la Vita”, ecc.: parole che hanno un significato adeguato solo se intese non a proposito di una persona, ma di un'Idea, di un Insegnamento che appassiona l'anima. Nota, inoltre, l'incontro e il dialogo diversissimi con Maria, che cade ai piedi di Gesù — cioè lo adora — come non fece Marta. Nota pure che Gesù chiama Maria (la “chiamata dei Gentili”), che egli non entra mai nella casa di Marta, la quale lascia Gesù dove lo incontrò e si oppone all'apertura del sepolcro

43. Fin dall'infanzia lo scrittore non ha mai potuto leggere questo capitolo senza provare una sensazione di inquietudine, di smarrimento, per le parti recitate dalle due sorelle, che sembravano quasi invertire le relazioni naturali del caso; né questa reazione mentale del tutto involontaria si è mai attenuata finché non è stato svelato il significato simbolico dei personaggi. 

43a. Giovanni è attento a identificare Maria, la sorella di Lazzaro, come “quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli”. In 12:2 egli sottolinea che “Marta serviva” (anzi, “si affannava” nel servizio — war bemüht mit der Bedienung — Merx). È Maria che sommerge Gesù di adorazione, contro la quale Giuda (cioè il giudaismo) protesta. Ora, a prima vista questa scena è composta dalle scene sinottiche riportate in Marco 14:2-9; Matteo 26:6-13; Luca 7:36-50, 10:38-42. Forse nessuno lo negherà. In Marco e in Matteo la scena si svolge a Betania, nella casa di Simone il lebbroso; in Luca è nella casa di Simone il Fariseo; ma Giovanni prende un elemento importante dalla scena nella casa di Marta a Betania. In Marco e in Matteo si tratta semplicemente di una donna; in Luca è una donna decaduta: una peccatrice. Gli scrittori sono perfettamente consapevoli di avere a che fare con simboli e non con Storia reale, perché modificano liberamente le affermazioni per adattarle agli scopi del loro pensiero. In particolare, in Luca sembra chiaro come il sole che lo scrittore intenda esporre il netto contrasto tra le accoglienze riservate a Gesù (al culto di Gesù) dagli ebrei e dai gentili. Il Fariseo lo riceve senza alcun segno di onore o di culto; la donna peccatrice lo sommerge di entrambi e anche di affetto.  Loisy pensa che non ci sia niente di più facile (rien de plus facile) che spiegare l'episodio a Cafarnao o in un villaggio vicino: la cortigiana poteva entrare facilmente, grazie al tumulto e alla libertà che accompagnano le grandi feste in Oriente! (Ev. Syn., I, 684). È Loisy o Renan a scrivere? È altrettanto facile spiegare una simile intrusione a un pranzo in onore di un vescovo a Boston. Loisy ammette una “certa indifferenza” negli Evangelisti quanto a una “mera materia fattuale”, nonché la presenza di ciò che “si potrebbe quasi definire una traccia di culto religioso”. Né sembrerebbe mantenere fermamente la storicità dell'episodio di Betania. Altri acuti biografi di Gesù hanno sottolineato la presenza di donne, anche di donne peccatrici, nella narrazione evangelica e hanno ipotizzato astutamente che il Cristo dovette essere un Rabbino straordinariamente bello e affascinante — in effetti, “un uomo caro e affascinante”, come la razza ebraica non raramente raggiunge in bellezza — e dovette avere avuto un'attrazione particolare per l'eterno femminino. Non è nemmeno facile rendere giustizia alle narrazioni evangeliche come Storia reale senza una qualche supposizione di questo tipo, perché le loro affermazioni indicano certamente ciò, né vanno intese come semplici invenzioni gratuite. D'altra parte, non è ancora stato dimostrato come un tratto così marcato del carattere possa essere inserito in un Gesusbild che sia anche solo in parte plausibile o accettabile, senza un'offesa fatale alla coscienza religiosa. Così, tra Krethi e Plethi, la tedi liberale del Gesù puramente umano va completamente in pezzi. 

43b. Ora, però, l'intera spiegazione è ovvia e trasparente. Nell'Antico Testamento, come pure nel Nuovo, una donna peccatrice è il simbolo di un popolo idolatra o apostata. Basti solo pensare al profeta Osea, a Geremia 3, a Ezechiele 23 (a Oolà e Oolibà), alla “generazione adultera” di Matteo e di Marco, alla Gezabele dell'Apocalisse. Non appena si fa l'allusione, diventa chiaro come la luce che la donna peccatrice che unge il Gesù e bagna i suoi piedi con le sue lacrime, e lo ricopre di carezze di riverenza e affetto, non può essere altro che il mondo pagano convertito, così a lungo abbandonato al servizio spudorato del politeismo. Quando si propone un indovinello o un rebus, ci si può arrovellare invano per scioglierlo. Una volta che la soluzione è stata enunciata, però, non c'è più alcun dubbio di sorta: la vediamo chiaramente e distintamente, tanto da soddisfare il cartesiano più rigoroso. [4I critici non hanno più bisogno di chiedersi come Gesù avesse esercitato un così meraviglioso magnetismo sulle prostitute del villaggio. 

In un caso il simbolista, giocando sul suo tema preferito, sembra aver superato sé stesso. Naturalmente, il riferimento è alla famosa pericope ora stampata tra parentesi (Giovanni 7:53-8:12). Il simbolismo è perfettamente ovvio, ma la caratterizzazione è quasi eccessiva; per questo diede molto presto fastidio e non si è mai affermata del tutto, né in Giovanni né in Luca, a livello di codice. Molto probabilmente si trattò di un'elaborazione dell'episodio citato da Papia, anche nel Vangelo secondo gli Ebrei, della donna accusata di molti peccati e portata dinanzi a Gesù (Eusebio, Storia Ecclesiastica 3:39). Reuss pensa che “l'autenticità del fatto appare sufficientemente accertata”! Godet pensa ad un “tratto inimitabile della vita di Gesù”! Eppure, molto prima di loro, Hengstenberg (come ho appena osservato) aveva chiaramente intuito che la storia fosse l'invenzione di un credente ostile al giudaismo, che avrebbe raffigurato la grazia salvifica di Dio nei confronti del mondo gentile. Questi critici si rifiutano di vedere la figura spirituale più ovvia e insistono ostinatamente sulla lettera più mortificante del fatto storico. Non li si può biasimare. Sono guidati da un fedele istinto logico. Sentono di dover resistere agli inizi: persino una piccola concessione al simbolico comporterebbe, in ultima analisi, la rinuncia alla loro intera tesi storica.

NOTE

[1] La cui sublime trasfigurazione è Simone il convertito, il penitente, l'Apostolo, il cosiddetto Pietro. Qualcuno obietta che questo lebbroso non avrebbe potuto simboleggiare allo stesso tempo una tribù perduta e un individuo, Simon Mago? Ma nulla era più familiare al pensiero orientale di questa rappresentazione di un popolo da parte di una persona: le nozioni del generale e del particolare confluivano continuamente l'una nell'altra. Tuttavia, sembra molto probabile che i versetti 15-19 siano frutto di una mano successiva, un'espansione dell'idea originale più semplice, in considerazione del rilievo di Simon Mago nei primi giorni della Chiesa. Simoniani, come apprendiamo da Origene (Contra Celsum 5:63), era uno dei nomi assegnati ai cristiani.

[2] ὁ παραδούς.

[3Questa Betania è in siriaco e perciò in aramaico Beth “ania”, e quest'ultima parola è stata interpretata variamente in modo errato. La radice ebraica corrispondente ricorre continuamente nell'Antico Testamento nel senso primario di vessare, affliggere, e nel senso derivato di povero (“ani”). Ma in Luca 10:40 è detto che Marta si affannava, e la parola siriaca è proprio questa stessa “ania”, come pure nel siriaco sinaitico di Giovanni 12:2 (come notato da Nestle, Phil. Sac., pag. 20, e come sta ora nel monumentale Evangelion da-Mepharreshe di Burkitt, pag. 492), dove il testo ricevuto in tutte le lingue presenta ora serviva. Betania, allora, significa casa di colei che si affanna, e vediamo perché Giovanni ne fece la casa della Marta che si affanna. Non è necessario discutere qui se fosse mai esistito un simile villaggio. L'ovvia allusione è che il nome indichi la Giudea o la nazionalità ebraica, la casa di colei che accolse il Gesù quando giunse lì dalla Diaspora.

[4] Nel suo mirabile ed erudito Biblische Liebeslieder il professor Haupt ha fatto questa osservazione e l'ha illustrata assai felicemente con questo esempio: 2 × 2 = 4 ii (Nichts neues vor Paris). 

Nessun commento: