giovedì 5 ottobre 2023

Paolo e le fasi formative del Cristianesimo

 (segue da qui)

§ 89) Paolo e le fasi formative del Cristianesimo. — Morto il Battista, tutti i seguaci di lui affluirono alla comunità galilea di Gerusalemme, che coltivava la stessa adorazione per lo stesso Maestro. Fu difatti per l'affluire dei discepoli di Giovanni che la comunità di Giacomo ebbe i primi apporti sensibili, e fu dopo quell'affluenza che i riti già praticati dal Battista, specie il rito del Battesimo, entrarono a far parte del rituale galileo, fondendo insieme le due tradizioni.

Ma l'acquisto che ebbe influenza decisiva lo ricevette la comunità galilea, qualche anno dopo, con Saulo: un giudeo della diaspora, nativo di Tarso in Cilicia, che, iniziato alla nuova concezione galilea nel 32 E.V., avendo preso il battesimo, volle assumere, per umiltà, il nome di Paolo, ossia Piccolo.

Saulo non era stato alla scuola del Maestro, e non aveva mai potuto vederlo, essendo quegli morto molto tempo prima, quando egli stesso viveva lontano. Avendo anzi ereditato la cittadinanza romana dal padre (che non sappiamo per quali meriti l'avesse acquistata), era cresciuto in Cilicia avversario del moto galileo, estesosi nel frattempo in quella provincia. Ed era naturale che in quella avversione egli avesse persistito da adulto, per non mostrarsi meno romano dei veri figli di Roma. Fu così che, trovandosi egli in Giudea verso gli anni 28 o 30, e rappresentando, di fronte agli altri giudei, un'autorità per la sua veste di cittadino romano, volle darsi a perseguitare le molte comunità messianiche (galilee e zelote), il cui moto si manifestava in funzione anti-romana.

Senonché gli stati d'animo artificiosi non possono durare. Saulo aveva fatto enormi sforzi per mostrarsi degno cittadino di Roma, ed avverso più che un romano al movimento messianico del Galileo. Il suo sistema nervoso pertanto non poteva non restare scosso di fronte a quei suoi compatriotti, che affrontavano fanaticamente la morte; né egli stesso, alla fine, poteva non sentirsi compenetrato dalle idee di quei fanatici, che erano sangue del suo sangue.

Un vero romano, ed un occidentale, non avrebbe fatto caso di quel fanatismo, ed avrebbe evitato i primi eccessi crudeli di Saulo, come ne avrebbe evitato le successive debolezze. Ma Saulo era un giudeo: dello stesso sangue cioè e della stessa carne dei messianici da lui perseguitati; e quando, dopo avere assistito in Giudea a tante condanne o flagellazioni, la stanchezza di un lungo viaggio debilitante, attraverso il deserto di Siria, sulla polverosa via di Damasco, lo vinse, facendogli ritenere «visione» quell'incubo ch'egli aveva cominciato a provare per le persecuzioni esercitate, egli si prosternò nella polvere, e convertito improvvisamente al movimento già avversato, si credette l'uomo del destino, e adoperò in favore della nuova idea lo stesso zelo, che già aveva adoperato per combatterla. Il galileismo della diaspora guadagnava così il più invadente dei suoi uomini, e da quel momento il buon esito della causa poteva dirsi assicurato.

Giunti a questo punto, è tempo d'illustrare le fasi formative e trasformative attraverso le quali ebbe a passare il movimento messianico di Giudea, per dar luogo prima al cristianesimo di Paolo, e poi al cattolicesimo attuale. Sull'argomento abbiamo già ricordato (§§ 15, 47) che la forma precostituita — dalla quale il cristianesimo ebbe a germogliare — fu, in Israele, la fase del messianismo apocalittico-zelota. Giacché su questa forma messianica ebbe ad innestarsi il neo-messianismo di Giuda Galileo. Ed appunto il neo-messianismo galileo diede luogo alla prima fase del movimento cristiano (ebionismo, o messianismo pauperista di Giacomo).

La seconda fase, sviluppatasi nei territori della diaspora greca, fu fase galileo-mistica (galileismo); perché i primi seguaci del «Maestro», emigrati nell'Oriente greco dopo la reazione dell'anno 7 E.V., costituirono colà comunità galileo-mistiche, e si chiamarono essi stessi «Galilei», dal nome del Maestro. Più tardi in Antiochia la comunità galilea colà costituita, volendo — per l'influsso della sopravvenuta dottrina della redenzione, predicata da Paolo — accentuare l'aspetto ideale e mistico della predicazione del Maestro (in contrasto con l'aspetto attuale ed operante, predicato dalla scuola di Giacomo), cessava nel 47 E.V. di chiamarsi dei «Galilei», per chiamarsi soltanto dei «Messianici» (in greco Kristiànoi).

Con questa trasformazione, gli idealisti di Antiochia davano a conoscere che per essi il «Messia» era già venuto (§ 22), ed aveva già attuato la sua divina missione (redenzione dei peccati). Ciò a differenza degli altri Galilei di Palestina, per i quali la missione — umana e non divina — del Messia (salvazione dalla servitù straniera) avrebbe avuto attuazione soltanto colla seconda sua comparsa.

Malgrado la prima manifestazione eterodossa di Antiochia, la dottrina prevalente, tanto in Giudea che nella diaspora, restava ancora quella tradizionale: del Messia-Salvatore cioè. Giacché vivendo ancora in Giudea i principali discepoli del Maestro, Giacomo e Simone, gli stessi mantenevano una certa unità d'indirizzo sia in Giudea che nella Diaspora. Dopo il 48 Giacomo e Simone vennero a mancare. Ed appunto allora — per la predicazione sempre più assorbente di Paolo — la fase del Cristianesimo di Antiochia ebbe a poco a poco ad estendersi in tutta la diaspora, diventando da ultimo, nell'oriente greco, fase paolista (§ 85).

La fase paolista (terza fase) apportò una trasformazione radicale nella dottrina messianica originaria. Giacché sostanzialmente, fino ad allora il Galileismo era stato una setta Giudaica, e la figura del «Messia» Galileo era stata prevalentemente quella della concezione tradizionale di Giudea: del «Messia-Uomo» cioè, del quale si aspettava la seconda venuta, attuatrice dell'evento a mezzo delle opere. Con Paolo invece — il quale, verisimilmente, oltre che nel misticismo ebraico ed ellenico, era stato istruito nei misteri di Mithra (perché la sua Tarso era la città santa del Mitraismo) — la figura del Messia Galileo si avviò a universalizzarsi e trasumanarsi. Giacché da quella immanente e giudea di Messia Salvatore (Messia-Uomo), si trasformò in quella trascendente e universale di Messia-Redentore (Messia-Dio cioè, cfr. Salmo LXXXII-8). E poiché — secondo il «messaggio» che Paolo affermava di aver ricevuto direttamente, per ispirazione del nuovo Dio — la «redenzione» aveva già avuto luogo, col «sacrificio sulla croce» del Gesù, la seconda venuta del Messia era bensì da attendere; ma non per dar luogo ad un regno terreno in Israele; bensì, con la fine del mondo, per giudicare gli uomini, e dar luogo quindi ad un «Regno di Dio» universale.

Con questa nuova concezione (che era in sostanza una sincresi delle credenze giudaiche, zoroastriane e mitraiche fuse coll'idea universale di Roma), la separazione — tra i messianici tradizionalisti da una parte, fedeli alla formula giudea del Messia-Uomo (dottrina delle opere), ed i messianici paolisti dall'altra, predicanti la nuova formula universale del Messia-Dio (dottrina della fede) — si faceva netta e stagliante. E proprio da allora il personaggio, che al primo movimento aveva dato vita in Giudea, cominciò a sdoppiarsi. Giacché per i primi esso restava sempre Giuda Galileo: l'uomo energico e volitivo, già «conosciuto secondo la carne». Per i secondi invece esso diventava il Salvatore Messia (Gesù Cristo): l'Unto per eccellenza cioè, che nessuno doveva più «riconoscere secondo la carne» e cioè quale uomo; ma tutti dovevano venerare secondo lo spirito, e cioè quale Dio.

Avevano inizio così, nell'Oriente romano, le lotte senza quartiere tra messianici galilei da una parte (giudeo-cristiani), e cristiani paolisti dall'altra. Ed appunto in questa fase di contrasto, tra immanentisti e trascendentisti, la funzione del proto-apostolo Pietro veniva valorizzata ed esaltata dai primi; mentre la funzione del neo-apostolo Paolo veniva valorizzata ed esaltata dai secondi. [1] Giacché proprio in questo periodo (anni 48-70), nacquero i molti apocrifi, adulatori dell'uno o dell'altro, denominati «Vangelo di Pietro» ad opera dei primi, e «Vangelo di Paolo» ad opera dei secondi. 

Era per altro naturale che la fase paolista si rivelasse una fase di lotta e contrasto rispetto alla fase tradizionale. Giacché la dottrina di Paolo del «Messia-Dio» non solo distruggeva la credenza giudaica nel Messia-Duce, che da tempo costituiva la suprema speranza d'Israele; non solo distruggeva la dottrina pratica del maestro Galileo, consistente nell'opposizione alle gerarchie, e nel disconoscimento del tributo a Cesare (§ 55); ma distruggeva lo stesso concetto basilare della Thorà, consistente nel «monoteismo». Non potevano quindi i tradizionalisti non reagire violentemente a tanta alterazione dell'originaria dottrina.

Nell'anno 70 E.V. però succedeva la distruzione di Gerusalemme, e questo evento — che veniva interpretato in favore della predicazione di Paolo — dava un duro colpo alla concezione tradizionale di Giudea. Aveva luogo infatti allora, nei territori greci della diaspora, l'immigrazione di gran parte dei galileo-zeloti superstiti, per cui anche le comunità paoliste venivano invase dai nuovi profughi. E poiché la recente sconfitta aveva avvilito gli zeloti, persuadendoli che la loro concezione immanentista del Messia-Duce non era attuabile, doveva derivare che coloro i quali non volevano rinnegare la personalità del «Messia», nella quale avevano fino ad allora creduto, accettassero di seguire, nei nuovi territori, la concezione trascendentista dello stesso Messia, quale era stata predicata ed attuata da Paolo.

A seguito di questi eventi, nell'Oriente greco fu lentamente considerata formula ortodossa non più quella immanente e giudaica del Salvatore «attuale»; bensì quella paolista e trascendente del Redentore «ideale». Derivava, come conseguenza immediata, la riconciliazione fra Pietristi e Paolisti. E proprio allora, in pari omaggio alle due correnti ormai fuse, aveva inizio la venerazione associata dell'apostolo Pietro e dell'apostolo Paolo, considerati entrambi «propagatori» a pari merito della nuova dottrina. Ugualmente da allora le due concezioni del Messia-Uomo facente capo ai primi, e del Messia-Dio facente capo ai secondi, si fondevano, venendone fuori la concezione nuovissima dell'Uomo-Dio.

Era però conseguente che a tanta distanza dalla morte del Maestro, mentre le generazioni che lo avevano conosciuto si erano da tempo estinte dovesse la nuova immagine dell'Uomo-Dio risultare grandemente diversa dall'immagine originaria del Messia-Uomo. La persona storica di Giuda Galileo restava pertanto, da allora, una delle tante figure sbiadite della storia d'Israele, mentre al suo posto veniva immaginata e venerata, sotto i soli attributi messianici, una figura eterea, che nulla più aveva di storico e nulla più aveva di reale. E poiché proprio questa seconda figura penetrava nella tradizione orale, che appunto allora, nei territori della diaspora greca, si veniva raccogliendo nello scritto, non poteva non venirne fuori da ultimo una narrazione mista, irreale e contraddittoria, quale appunto si legge nei Sinottici, e specialmente nei vari apocrifi.

Il seguito della Storia del movimento sarà storia di Roma. Giacché, una volta eliminato quanto già esistente di settario nella originaria concezione messianica, ed una volta allontanata quest'ultima dal suo luogo d'origine, nel clima universale ed umano di Roma sarà facile, alla nuova «mistica» derivata, assimilare gli elementi eterni, che appunto della romanità erano prerogativa. Lentamente infatti, per l'entrata nel «movimento» di pensatori nuovi, apportatori dello spirito latino, e per il contatto continuo colla vecchia civiltà di Roma, la concezione, originariamente gretta, violenta e settaria, diventerà generosa, umana ed universale. E quantunque non saranno infrequenti, nel susseguirsi dei secoli, i ritorni sporadici alla cieca violenza originaria, tuttavia l'impronta di humanitas, che la concezione assimilerà lentamente dal romanesimo, prevarrà quasi sempre nella storia. E proprio tale impronta di humanitas permetterà alla concezione cristiana di trionfare sulle concezioni affini, impregnando di sé l'attuale Cristianesimo. 

NOTE

[1] Si tenga presente che i veri apostoli (propagandisti) autorizzati del primitivo galileismo sono stati soltanto Pietro e Paolo. Ciò si desume direttamente dall'epistola ai Galati, e indirettamente da tutte le altre epistole di Paolo nonché dagli «Atti». Difatti dalla epistola ai Galati apprendiamo che nel primo concilio di Gerusalemme gli anziani avevano autorizzato solo Pietro quale apostolo dei circoncisi, e Paolo quale apostolo degli incirconcisi; mentre nelle altre epistole si parla bensì di altri apostoli, ma trattasi soltanto e sempre di quei «falsi apostoli» contro i quali Paolo si scaglia spesso, né mai si parla dei «dodici» ma soltanto dei «tre».

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