venerdì 1 settembre 2023

Le testimonianze:
a) Giuseppe e Luca
b) Il «Vangelo» di Paolo e gli «Annali» di Tacito

 (segue da qui)

XVIII. — IDENTITÀ DEL «GALILEO» STORICO

COL «GALILEO» EVANGELICO

§ 55) Le testimonianze: a) Giuseppe e Luca. Il quesito se Giuda Galileo fosse il vero messia d'Israele lo aveva posto all'epoca Giuseppe Flavio, a conclusione della sua esposizione. Giacché dopo avere elencato i fenomeni in forza dei quali i messianici di Giudea si erano illusi di poter vincere, decidendosi di ribellarsi a Roma, così aveva concluso lo storico (Guerra VI, V, 2): «Ciò che più di ogni altra cosa incitò i Giudei alla guerra, fu un'equivoca profezia, trovata anch'essa nelle sacre scritture, e per la quale, proprio in quel periodo, uno della loro provincia avrebbe dovuto ottenere l'impero del mondo ...  Anche molti uomini saggi s'ingannarono nell'interpretarla; giacché altro non voleva significare invece quella profezia, se non la futura signorìa di Vespasiano, acclamato imperatore in Giudea».

Lo storico dunque riconobbe che la causa principale della guerra giudaica andava precisata nella profezia di Genesi, che i «messianici» di Giudea avevano applicato a Giuda Galileo. Ora, gli stessi «messianici» di Giudea, trasferiti nei territori della diaspora col nome di «Galilei», e più tardi chiamatisi alla greca «cristiani», applicarono al Gesù Galileo la profezia medesima (cfr. Eusebio, Libro I, Capo III, 3). E se in Giudea i «Messianici» avevano riconosciuto Giuda Galileo quale il messia preannunziato da Genesi, mentre gli stessi messianici, trasferiti nei territori della diaspora, chiamarono «Gesù» lo stesso Messia, ciò vuol dire che c'è stata l'aggiunta di un attributo al personaggio, non già che un nuovo personaggio si sia generato, diverso da Giuda Galileo. La identificazione quindi del Galileo evangelico nel Galileo storico non potrà più essere messa in dubbio. E quel che dimostreremo più avanti, circa l'identità dei discepoli del Gesù coi discepoli di Giuda, sarà soltanto una riprova a completamento, per aver poi modo noi di ricostruire tutto il processo formativo e trasformativo del primo cristianesimo.

Peraltro non è superfluo rilevare altre circostanze. Infatti dalla storia di Giuseppe Flavio, noi apprendiamo che il Galileo storico fu arrestato e morì perché «sovvertiva la nazione divietando di dare il censo a Cesare». Ma anche il Galileo evangelico fu arrestato e condannato, come assicura Luca (XXIII, 2), «perché accusato di sovvertire la nazione, divietando di dare il censo a Cesare». Su questo passo di Luca anzi è indispensabile fermarsi, se si vuole comprendere il vero aspetto, sotto il quale i profani avevano visto e valutato il «Messia» storico. Giacché in base a tale passo non restano dubbi che secondo le convinzioni dei Giudei profani, il Redentore Cristiano avesse tentato di sovvertire la nazione, appunto incitando il popolo a non dare il tributo. E poiché proprio sotto questo aspetto ci presenta il personaggio lo storico Giuseppe Flavio, non resta dubbio che il Giuda Galileo di Flavio sia da considerare una sola persona col Gesù Galileo di Luca.

b) Il «Vangelo» di Paolo e gli «Annali» di Tacito. — Senonché, a parte il passo di Luca sopra citato, i Vangeli negano che Gesù avesse incitato i Giudei a non pagare il tributo. Dai Vangeli anzi si rileva che Gesù avrebbe predicato «Rendete a Cesare quel ch'è di Cesare». Come spiegare quest'altra contraddizione? Alla domanda risponde esaurientemente la Epistola di Paolo ai Romani, nel Capo XIII, versetti 1-8. Dal detto passo di Paolo emerge che i componenti le prime comunità cristiane di Roma — che erano Giudei e Greci colà residenti (Rom. I, 16) — non volevano riconoscere l'autorità del magistrato romano, e non intendevano affatto che fosse pagato il tributo a Cesare. E proprio su tali argomenti scrive ad essi l'Apostolo, esortandoli a riconoscere l'autorità dei magistrati, ed esortandoli a pagare il tributo a chi di dovere.

Di questa importante circostanza si era accorto Ernesto Renan, commentando l'Epistola ai Romani, ed aveva spiegato il passo di Paolo, appunto col rilevare che nelle prime comunità cristiane esistevano, ai tempi di Paolo, discepoli di Giuda Galileo. Difatti così si legge al Cap. XVII del San Paolo di Renan: «Sembra che nell'epoca in cui Paolo scriveva questa epistola, varie chiese, e soprattutto quella di Roma, contassero nel proprio seno tanto discepoli di Giuda il Gaulonita, che negavano la legittimità del tributo, e predicavano la rivolta contro l'autorità romana, quanto ebioniti, i quali opponevano il regno di Satana al regno del Messia, identificando il mondo presente con l'impero del demonio. Ad essi Paolo risponde da vero discepolo di Gesù».

Senonché Renan, nel commentare il passo di Paolo, vide triplo: vide Galilei cioè, vide Ebioniti e vide Cristiani antiocheni come fossero tre entità distinte. Si trattava invece di un'unica sostanza: e cioè della «scuola» di Giuda Galileo, considerata nelle sue prime tre fasi, o strati spirituali. Giacché la prima fase del messianismo di Giuda Galileo era stata la fase ebionita di Giudea; la seconda era stata la fase Galilea della diaspora, e la terza era stata la fase del cristianesimo di Antiochia, cui appunto aveva dato vita Paolo stesso. Né poteva Paolo — venuto per edificare sui primi due strati — non trovare, nelle comunità alle quali si rivolgeva, ebioniti e galilei, da trasformare in cristiani antiocheni (giudeo-cristiani). È manifesto dunque che ebioniti, galilei e cristiani antiocheni non costituivano tre confessioni di diversa origine; bensì una medesima concezione originaria.

Ed ecco il testo della lettera, che Paolo scrisse a suo tempo, onde far cessare, nei continuatori greci di Giuda Galileo, quello che anche allora era l'aspetto principale della dottrina-madre, e che maggiormente si opponeva alla sua libera divulgazione nel mondo romano: l'opposizione al tributo cioè, ed il rifiuto di riconoscere la potestà dei magistrati romani: «Ciascuno stia sottomesso alla potestà ufficiale, perché non v'è potestà che non venga da Dio. Le potestà che esistono sono ordinate da Dio, in modo che colui il quale fa opposizione alle potestà, resiste all'ordine stabilito da Dio. Ora, quelli che resistono all'ordine stabilito da Dio, si attirano un giudizio severo. I Prìncipi infatti non sono il terrore di chi opera il bene, ma di chi opera il male. Vuoi tu non avere paura delle potestà? Opera il bene e da esse avrai lode. Imperocché essa è ministra di Dio, per te, per il bene. Ma se operi il male, temi. Giacché non invano la potestà porta la spada. Essa infatti è ministra vendicatrice di Dio, per punire chiunque fa il male. Pertanto restate soggetti alla potestà, come è necessario; non soltanto per evitare li castigo; ma per coscienza.

«Ed ecco anche perché voi pagate i tributi. Giacché i Principi sono funzionari di Dio, occupati ad adempiere un ufficio loro affidato. Rendete dunque a ciascuno quello che gli è dovuto. A chi è dovuto il tributo rendete il tributo, a chi è dovuta la decima rendete la decima; a chi è dovuto il timore rendete il timore; a chi è dovuto l'onore rendete l'onore. Non vi resti altro debito, se non quello dello scambievole amore; giacché chi ama il prossimo ha adempiuto alla legge».

Fu di Paolo dunque — e rispondeva alla legge di adattamento all'ambiente — non solo il linguaggio d'amore e di fratellanza che si rivela nei Vangeli, specie nel «discorso della montagna»; ma fu di Paolo anche il detto «Rendete a Cesare quel che è di Cesare, e rendete a Dio quel che è di Dio». Per altro, poiché la tradizione evangelica fu completata dopo molti anni dalla morte di Paolo, e cioè soltanto dopo l'anno 70, cominciando ad essere raccolta nello scritto solo dopo l'anno 80, era naturale che nelle comunità della diaspora, laddove la tradizione, morto Paolo, si era venuta formando, come erano affluite le profezie di Gesù d'Anano, così dovevano essere affluiti gl'insegnamenti di Paolo. Ed appunto un miscuglio — che di rado riesce ad apparire fusione — tra gli insegnamenti di Giuda Galileo, le vicende di Gesù d'Anano, e la dottrina di Paolo finì per essere da ultimo la dottrina evangelica. Né va taciuto che anche la parola «vangelo» fu escogitata da Paolo (§ 92). Ugualmente possiamo affermare che il celebre passo «quod deux coniunxit homo non separet» (Matteo, XIX, 6) fu anch'esso dottrina di Paolo (Corinti, VII, 27; cfr. la nota su «Paolo e il divorzio» al Capo VII).

Si ricava da quanto sopra che incorse in errore Ernesto Renan quando, concludendo il suo commento all'epistola, aggiunse: «Paolo risponde da vero discepolo di Gesù». In effetti Paolo rispose «da Paolo». Giacché l'apostolo delle genti non era stato un discepolo del Gesù-Uomo, e non aveva mai voluto apprendere, dai discepoli che avevano sentito la parola del Maestro, quale in effetti tale parola fosse stata. Così difatti Paolo scrive testualmente (Galati, I, 11-24): «L'Evangelo che io sto divulgando non è affatto cosa umana ... Non avendolo ricevuto né imparato da alcun uomo; ma solo per rivelazione di Gesù Cristo ... Giacché quando piacque a Colui che mi aveva isolato fin dall'utero di mia madre, e che per sua grazia si era degnato di eleggermi, Egli stesso mi rivelò (visione di Damasco) il suo Figliuolo, affinché io lo predicassi alle genti. E subitamente io non presi già consiglio dalla carne e dal sangue, né andai a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me; ma me ne andai a meditare nell'Arabia, e poi di nuovo ritornai a Damasco».

Il «vangelo» predicato da Paolo — a detta dell'apostolo — fu da lui ricevuto per «rivelazione», sia dal Dio Padre, sia dal Dio figlio; ma non dall'Uomo-Dio. Esso quindi fu una sua creazione: una creazione cioè delle sue molte visioni. Giacché di «visioni» se ne presentavano tropo spesso all'apostolo Paolo ... Ed appunto una creazione delle visioni di Paolo è il «Gesù» cui allude Renan, che passò poi nella leggenda messianica, entrando di forza altresì nella storia.

Dall'epistola ai Romani dunque noi ricaviamo una prova decisiva della continuità del movimento, da Giuda Galileo a Paolo. Giacché da tale epistola emerge che la dottrina professata dalle prime comunità messianiche della diaspora (che ormai si chiamavano comunità «cristiane»), ai tempi di Paolo era ancora la dottrina di Giuda Galileo, la quale imponeva di non pagare il tributo a Cesare, e di non riconoscere potestà terrene all'infuori di Dio. Implicitamente quindi Paolo attesta che il Gesù Galileo altri non era stato che Giuda Galileo. 

Che poi le autorità messianiche del mondo romano fossero allora composte dei medesimi elementi che avevano costituito e costituivano i messianici di Giudea, appare manifesto anche da Cornelio Tacito (Annali XV, 44). Questi, parlando dei Giudeo-Cristiani di Roma, accusati dell'incendio sotto Nerone, mette in relazione diretta le rivolte messianiche di Giudea con le sommosse dei Giudeo-Cristiani di Roma, apertamente rivelando che i Giudeo-Cristiani di Roma altri non erano che gli stessi uomini, aderenti al movimento messianico di Giudea. Tale movimento infatti (che lo storico romano chiama exitiabilis superstitio), «represso una volta — come precisa Tacito — scoppiava nuovamente poco dopo, non soltanto in Giudea, sorgente di quel malanno, ma in Roma altresì, dove tutte le brutture e le vergogne convergono e vi fanno scuola» (Repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Judaeam, originem eius mali, sed per Urbem etiam, quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque).  

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