mercoledì 22 febbraio 2023

Origini Sociali del CristianesimoL'epistola agli Ebrei.

(segue da qui)

L'epistola agli Ebrei.

Una grande speranza non può restare sterile. Tende a realizzarsi. Crea, alla bisogna, il suo oggetto. Attendete qualche persona cara? In certi momenti, per quanto lontana sia, vi sembra di sentirla. Se migliaia di persone condividono la vostra attesa, molti si immagineranno di averla vista. Le folle in cerca di un salvatore non tardano a fabbricarsene qualcuno, da cui spesso saranno ingannate. Questo è ciò che accadde agli Zeloti. Aspettandosi la venuta di un liberatore di Israele, credettero di trovarlo in vari avventurieri, e non rinnegarono alcuni se non per ripiegare su altri. Siccome le loro speranze si riponevano su un piano molto materiale, un'esperienza brutale li aveva presto disillusi. I mistici sfuggono a questo rischio. Si muovono in un mondo puramente ideale. Non hanno dunque da temere le smentite della realtà. Non era un capo di truppe capace di imporsi sui Romani che gli Esseni auspicavano nelle loro preghiere. Era piuttosto una guida provvidenziale che desse loro l'esempio di una santità compiuta e mostrasse loro la via del cielo. Non avevano bisogno di vederlo per figurarlo, né di ascoltarlo per ricevere i suoi ordini. Bastava loro scrutare sul suo conto le Scritture. Leggendole, proiettavano inconsciamente sulle pagine sacre l'ideale che portavano in sé stessi.

Alcuni arrivarono così a formarsi il ritratto di un uomo esemplare che aveva vissuto da perfetto esseno e si era rivelato per le sue parole e per i suoi atti come un vero Figlio di Dio. È sotto quella forma che si raffigurarono l'«Unto» del Signore, il «Messia» o il «Cristo», di cui gli Zeloti attendevano l'avvento ma immaginandoselo sotto i tratti di un guerriero. Lo designarono con l'antico nome di «Gesù»,  forma greca del nome di Giosuè, Jehosuah, che in ebraico vuol dire «Dio Salvatore» e che perciò gli si addiceva in modo eccellente. Era per loro il Giosuè dei tempi nuovi, chiamato a continuare Mosè e persino a sorpassarlo, introducendo il popolo di Dio nella terra promessa. L'annuncio della sua venuta era, nel pieno senso del termine, ciò che si chiamava in greco un «euangelion» o «vangelo», vale a dire una «buona novella». Per beneficiare di quel favore, era necessario innanzitutto crederci, far prova di una fede fiduciosa. Quella virtù nuova si aggiungeva a quelle di cui gli Esseni davano già l'esempio. Essa era il segno distintivo del nuovo gruppo, di ciò che si chiamò di buon'ora la «Chiesa», vale a dire l'«Assemblea». Era necessario anche annunciare dappertutto il lieto messaggio. Gli «apostoli», apostoloi, in altri termini gli «inviati», si incaricarono specialmente di questo messaggio. È soprattutto grazie a loro che la fede nuova si propagò.

I primi che possiamo raggiungere con una testimonianza diretta sono Giacomo o Giacobbe, Cefa (nome aramaico di «Pietro») e Giovanni, che un missionario siriano, Paolo «apostolo del Cristo Gesù», ci presenta come suoi predecessori nell'apostolato, e come i notabili o, secondo la sua formula, le «colonne» della Chiesa di Gerusalemme, dove li incontrò verso la metà del I° secolo. Erano, secondo quanto lascia intravedere, ebrei molto pii, molto legati alle tradizioni ancestrali. D'altra parte, il gruppo che presiedevano fu presentato e raccomandato da loro al loro collega siriano come una comunità di «poveri», in ebraico «ébionim», da cui è venuto il nome di «Ebioniti» (Galati 2:1, 10). Da lontano questa gente ci appare, attraverso la sua relazione, come buoni Esseni che credevano alla venuta del Cristo Gesù.

Come si è formata la loro fede? Possiamo farcene qualche idea dal curioso scritto intitolato «Agli Ebrei», che viene al seguito delle Epistole di Paolo. Un esame attento mostra che alcuni passi si staccano nettamente dal contesto e gli sono stati aggiunti per trasformarlo in una missiva paolina e infondervi uno spirito nuovo (2:1, 4; 3; 4; 5:11; 6:12; 9:19; fine). Se lasciamo da parte queste aggiunte tardive, abbiamo davanti a noi non una lettera ma una dissertazione teologica, che è stata scritta prima dell'anno 70, perché vi si parla dei sacerdoti che «entrano in ogni tempo» nella prima parte del Tempio e del Sommo Sacerdote che «entra da solo una volta all'anno» nel Santo dei Santi (9: 6, 7). Lo scopo diretto del testo è mostrare che i cristiani non hanno da offrire i sacrifici cruenti richiesti dalla Legge perché hanno una vittima ben più perfetta e un sacerdote molto più eminente nella persona del Cristo Gesù. Ma attorno a questo tema centrale si raggruppano testi biblici e si ricamano commentari la cui trama ci rivela la svolta intellettuale dell'autore e quella del gruppo al quale si rivolge.

Il falso Enoc ricavava la sua presentazione dell'«Eletto» dalla raccolta di Isaia (42:1 seguenti), quella del «Figlio dell'uomo» dal libro di Daniele (7:13, 14). Il nostro teologo si affida piuttosto all'opera del salmista, dove si esprime l'ideale dei poveri di Israele.  Egli parte dal Salmo 2, dove un «Unto» anonimo dichiara: «Il Signore mi ha detto: Tu sei mio Figlio». Egli ritrova questo Figlio di Dio in un altro passo del Salmo 102: «Sei tu che, al principio, Signore, hai fondato la terra e i cieli sono l'opera delle tue mani». Lo riconosce ancora in questo «Figlio dell'uomo» sul conto del quale il Salmo 8 dice a Dio: «Tu lo hai abbassato per un po' di tempo al di sotto degli Angeli, tu lo hai coronato di gloria e di onore, tu hai messo tutto sotto i suoi piedi». Di questo abbassamento provvidenziale, preludio di una esaltazione prodigiosa, egli vede l'accettazione semplice e schietta nel Salmo 11, dove l'interessato dice al suo primo autore: «Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, ma mi hai formato un corpo... Allora ho detto: io vengo, o Dio, per fare la tua volontà». Egli rivede questo stesso personaggio nel Salmo 22 dove un giusto sofferente, disprezzato, rifiutato, spogliato delle sue vesti, con le mani e i piedi trafitti, grida al cielo in preda all'angoscia: «È lui», dice, «che nei giorni della sua carne ha presentato, con grandi grida e lacrime, preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte». Gli applica, di conseguenza, fin dall'inizio, quella dichiarazione del Salmo 45: «Tu hai amato la giustizia e odiato l'iniquità. Ecco perché Dio, il tuo Dio, ti ha unto d'olio di letizia al di sopra dei tuoi compagni». Soprattutto inscrive a suo conto il testo cruciale del Salmo 110 in cui il Signore dice al suo associato divino: «Siedi alla mia destra... Tu sei sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedec». Questo, spiega, è la realizzazione di un oracolo di Geremia (31:31, 34), dove Dio annuncia una «alleanza nuova» le cui clausole saranno incise non più sulla pietra ma nei cuori. 

Da tutti questi testi, così riuniti da un'esegesi inaspettata e singolarmente sconcertante, emerge una teologia nuova e molto audace: Dio, che si manifestò un tempo per mezzo dei profeti, ha parlato, negli ultimi tempi, per mezzo di suo Figlio, «riflesso della sua gloria ed espressione della sua sostanza», tramite il quale ha creato il mondo e sostiene tutte le cose. Questo Figlio di Dio, che era ben al di sopra degli angeli, si è posto per un tempo al di sotto di essi diventando figlio dell'uomo, simile in tutte le cose ai suoi fratelli, soffrendo, agonizzando come loro e gridando la sua angoscia per implorare l'assistenza divina. Egli è stato prefigurato da Melchisedec, questo re di Salem sacerdote dell'Altissimo, di cui parla la Genesi (14:18, 20), «che è senza padre, senza madre, senza genealogia, che non ha né inizio di giorni né fine di vita», e di cui leggiamo che offrì dinanzi ad Abramo pane e vino. Anche lui ha offerto a Dio un'oblazione pura, quella di una vita dedicata alla pratica della giustizia. Ha portato davanti all'altare celeste non il sangue di capri e di vitelli, ma il suo stesso sangue. Così è stato coronato di gloria e collocato alla destra di suo Padre celeste, dove lo raggiungeranno coloro che avranno seguito il suo esempio quaggiù. È il suo «Unto» o il suo Cristo, perché ha ricevuto in ricompensa per i suoi meriti l'«olio di letizia» che lo consacra re e Sommo Sacerdote per l'eternità, nuovo Melchisedec di un culto tutto mistico. Egli si chiama Gesù perché è «il Principe della Salvezza», perché ha purificato gli uomini dai loro peccati e ha ottenuto per loro una «redenzione eterna». Queste ultime spiegazioni sono nello spirito del documento senza esservi formulate in termini espliciti. Questo perché sono già comunemente accettate dalla totalità dei credenti. Esse si basano sullo stesso metodo di esegesi biblica, che consiste nel cercare nei vecchi testi la figura anticipata dei tempi nuovi: «La Legge», dice l'autore, «è un'ombra dei beni a venire». [46]

Una tale interpretazione dei testi scritturali è conforme allo spirito e alla tradizione degli Esseni. Anch'essi ripudiano i sacrifici cruenti. Anch'essi interpretano in un senso simbolico i testi che ne impongono la pratica. Perciò anche loro sono condotti all'idea di un sacerdozio spirituale, dove sacerdote e vittima si fondono su un piano ideale. Sono loro, infine, che hanno visto per primi nella Bibbia ebraica l'annuncio dei tempi nuovi. 

La prospettiva generale del messaggio «agli Ebrei» differisce nondimeno, in modo molto chiaro, da quella degli antichi Esseni e particolarmente da quella che si afferma nel libro di Enoc. L'ideale religioso attribuito al patriarca antidiluviano si riferiva a un futuro considerato senza dubbio prossimo, o persino imminente, ma non ancora realizzato. Questa era solo una grande speranza. Al contrario, quello che emerge dall'Epistola agli Ebrei appare come se avesse già preso corpo nella persona del Figlio di Dio fatto uomo, su cui i suoi discepoli non hanno che da regolare la loro vita per diventare essi stessi i figli adottivi del Padre celeste. Egli appartiene al passato, ad un passato peraltro recente, perché si è manifestato, secondo l'espressione dell'autore, «alla fine dei giorni». Lì è il tratto distintivo del cristianesimo. Nulla mostra che bisogna vedervi un ricordo concreto, una interpretazione mistica di fatti recenti. Nessun dettaglio del dramma religioso che emerge da questo testo dà l'impressione di una scena vissuta, di una tradizione storica. Tutti i tratti, persino i più precisi, sono attinti dalla Bibbia ebraica e soprattutto dalla raccolta dei Salmi che la chiude. L'autore prende alla lettera tutto ciò che il salmista dice — o sembra dire — di sé stesso, della sua filiazione divina, della sua venuta nel mondo, delle sofferenze che vi ha patito, del sacrificio che ha fatto della propria persona, della sua ascensione alla destra del Padre. Per lui e per i credenti della stessa famiglia, questi fatti, essendo attestati da Dio stesso in una scrittura ispirata, sono più certi dei meglio garantiti tra quelli che si ammettono sulla fede di un semplice mortale. Siccome, d'altra parte, il libro in cui si leggono viene dopo quelli di Mosè e dei profeti, a conclusione della Bibbia ebraica, è dopo la chiusura dell'era profetica, in «quella fine dei giorni» predetta dagli oracoli, che il Figlio è venuto a compiere la sua missione. Quella affermazione essenziale, sulla quale si basa il cristianesimo, è nata dalla fede fiduciosa di umili israeliti che scrutavano senza posa le scritture per trovarvi il loro ideale mistico. 

È una credenza di questo tipo, nata da uno stesso stato d'animo, che doveva professare la Chiesa di Gerusalemme quando Paolo la conobbe, verso la metà del I° secolo. Non vediamo che egli l'abbia considerata la custode privilegiata dei ricordi concreti degli atti e delle parole di Gesù, che avrebbero custodito gelosamente i testimoni della sua vita. La intendeva così poco sotto questo aspetto che non mostrò alcun interesse a documentarsi presso di essa dopo la sua conversione. Secondo il frammento autobiografico che leggiamo nella sua Lettera ai Galati (1:18), egli salì solo tre anni dopo a Gerusalemme, e solo «per fare la conoscenza di Cefa». Ancora non vi è lì che una glossa tardiva e apocrifa. Secondo il racconto originale, è solo «al termine di quattordici anni» che fece questo viaggio, e lo intraprese solo per difendere contro i notabili della metropoli la sua propria concezione della propaganda cristiana (2:1). Siccome la fede si fondava sulla Bibbia, ogni lettore dei testi sacri che si ritenesse in grado di comprenderli sentiva di saperne quanto i primi capi della Chiesa. 

NOTE DEL CAPITOLO 4
[46] Ebrei 5:4, 9:11, 14; 10:5; 2:10; 7:25; 9:28; 9:12, 14; 10:1.

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