martedì 21 febbraio 2023

Origini Sociali del CristianesimoIl giusto perseguitato degli Esseni

 (segue da qui)


Il giusto perseguitato degli Esseni.

L'idea di un giusto perseguitato che trionfa, grazie alla sua pazienza, sulla prova in cui doveva sprofondare, è assente da questi testi. Ma si afferma con forza in altri scritti che hanno la stessa origine. Non poteva che essere molto familiare agli Esseni. La loro concezione generale del destino umano li orientava in questo senso. Per loro, in effetti, l'abbiamo visto, l'anima, spirituale per natura, si trova nel corpo come in una prigione, da cui può liberarsi solo con la morte. [43] D'altra parte, si vede circondata da potenze malvagie che cercano solo di sedurla e di distruggerla, perché gli Angeli prevaricatori, che un tempo hanno sviato la razza umana e attirato su di essa la catastrofe del diluvio, continuano quaggiù la loro opera malvagia. La vita presente del giusto è quindi un combattimento incessante contro le forze nemiche. Ma questa lotta deve concludersi con una vittoria totale, perché Dio aiuta i suoi. Il giusto perseguitato, se persevera fino alla fine, trionferà su tutti gli ostacoli e godrà della felicità riservata agli eletti. 

1. Questo tema dogmatico si traduce sotto una forma figurata nel Testamento dei Dodici Patriarchi. Una figura vi domina tutte le altre. È quella di Giuseppe, tradito dai suoi fratelli e venduto ai Madianiti, poi da loro a un egiziano che, per la denuncia calunniosa della sua donna, lo fa rinchiudere in prigione. Queste contraddizioni hanno portato solo a mostrare quanto egli fosse amato da Dio. Per quanto fosse stato maltrattato dalla sorte, altrettanto è stato in seguito colmato di beni e di onori. Investito della fiducia del sovrano, che gli ha affidato l'amministrazione dell'Egitto, ha salvato dalla fame tutti i suoi sudditi e i suoi stessi fratelli, proprio quelli che avevano tramato la sua rovina.

Lui stesso, nel suo Testamento, fa  risaltare il felice esito delle sue molteplici prove: «Io ho visto», dice, «nella mia vita la gelosia e la morte, eppure non mi sono mai allontanato dalla verità. I miei fratelli mi odiavano, ma il Signore mi amava. Essi volevano colpirmi, ma lui mi custodì. Fui venduto come schiavo, lui mi diede la libertà. Fui imprigionato, la sua mano potente mi liberò. Fui torturato dalla fame, lui stesso mi nutrì. Ero solo, Dio mi consolò; malato, mi visitò; fui messo in prigione, testimoniò indulgenza nelle mie pene e mi liberò. Fui calunniato, si occupò di me; aspramente combattuto da una Egiziana, mi liberò; invidiato dai miei compagni di prigionia, mi risollevò». [44] Questo capro espiatorio della perversità umana è un protetto dell'Altissimo. 

In un libro che racconta del suo matrimonio con Aseneth, e che ha dovuto vedere la luce sulle rive del Nilo, ma in una cerchia legata agli Esseni di Palestina, Giuseppe aumenta ancora in dignità. Colei che è chiamata dalla Provvidenza a diventare sua moglie, avendo cominciato a tenere sul suo conto, senza conoscerlo ancora, dichiarazioni irrispettose, lo vede arrivare un giorno con uno sfarzo regale, una veste bianca di una qualità rara, una corona ornata da dodici diamanti, uno scettro nella mano destra, un volto radioso. Sconvolta, grida: «Dove fuggire? Dove nascondermi? Come Giuseppe, questo Figlio di Dio, mi guarda, io che ho parlato così male di lui? Egli vede tutto ciò che è nascosto, sa tutto, e nessun segreto gli sfugge, a causa della grande luce che porta in sé... Non ho forse detto che questo figlio di pastore è venuto da Canaan? Ecco, egli viene a noi simile al sole sul suo carro, entra nella nostra casa e la illumina come la luce sulla terra. Sono stato tanto sciocca e sfrontata da disprezzarlo... Non sapevo che è un Figlio di Dio. Quale uomo, in effetti, produrrebbe una tale bellezza? Quale donna partorirebbe una tale luce?». Più oltre il Faraone, essendosi fatto presentare Aseneth, le disse: «Il Signore ti ha scelta come sposa di Giuseppe, che è come un figlio dell'Altissimo». Abbiamo lì un esempio tipico della elevata posizione alla quale poteva giungere, nella mitologia essena, il giusto perseguitato.

2. Un caso dello stesso genere ci è offerto dal Testamento di Giobbe, che ha visto la luce nella stessa cerchia di quello dei dodici Patriarchi, in un'epoca più tardiva, prossima all'inizio della nostra era. Già il libro canonico di Giobbe, al quale si lega, presentava il suo eroe come un giusto fortunato, di cui Satana aveva molto abusato. Ma il racconto delle sue prove serviva solo a introdurre il grave problema discusso in seguito: perché Dio permette che la gente buona sia soggetta agli attacchi del male? Nel Testamento, il fatto marginale diventa il principale. Il racconto lo impone sulla discussione. Apprendiamo, per una serie di dettagli concreti e pittoreschi, come Giobbe, nel tempo della sua prosperità, impiegasse le sue giornate a celebrare le lodi di Dio e a fare del bene attorno a sé, come la malvagità del Diavolo gli abbia fatto perdere i suoi figli, i suoi beni, la sua salute, i suoi amici, tutto ciò che rendeva attraente la sua vita, come coperto di ulcere su un letamaio, sia stato guarito, risollevato, glorificato, rimesso in possesso dei suoi beni, dotato di una famiglia nuova, come infine la sua anima, staccata dal suo corpo, sia stata raccolta da un coro angelico, su un carro splendente, verso la regione del Paradiso, dove i suoi figli e la sua sposa lo avevano già preceduto. [45]

Siamo lì alla soglia del Vangelo. Le prove di Giobbe preludono a quelle di Gesù, e la sua ascesa finale è della stessa natura di quella che corona la carriera del Cristo.

3. Questo mondo esseno, dove si aveva una così alta idea del ruolo salutare della sofferenza ben sopportata, doveva particolarmente interessarsi alle pagine misteriose del libro di Isaia, del trattato della Sapienza e della raccolta dei Salmi, dove si vedeva un giusto ideale, «Servo» o «Figlio» di Dio, oltraggiato, percosso, torturato fino all'agonia da una banda di scellerati, poi strappato alla morte, esaltato, glorificato, in proporzione alla pazienza meritoria di cui aveva fatto prova. Per quanto questi testi fossero sconcertanti per i Sadducei, i Farisei, gli Zeloti, che contavano su una ricompensa immediata per il loro attaccamento pio alla Legge, altrettanto essi potevano piacere ai pii asceti, che avevano rinunciato ai loro beni, ai piaceri della vita, alla propria volontà per ottenere dopo la loro morte una felicità eterna. Questa santa gente vi trovava un incoraggiamento e un modello. A forza di ritornare a queste stesse raffigurazioni e di fissare su di esse il loro sguardo interiore, erano naturalmente indotti a formarsene un'immagine composita, in cui i tratti comuni si rafforzavano, dove le differenze svanivano. Così si profilò e si incise nella loro mente la figura mitica di un Figlio di Dio, esempio compiuto di ogni perfezione, sofferente e morente per la colpa degli uomini e per il loro bene, poi che risorge e che coinvolge i suoi adepti alla sua nuova vita.

D'altra parte, questo Santo ideale si accostava troppo, per certi aspetti, al «Figlio dell'uomo», all'«Eletto», all'«Unto» del Signore, messo in scena nelle Parabole di Enoc, per non confondersi più o meno con lui. Per mezzo della loro unione, completava di costituirsi, riguardo alla fede, la personalità complessa del Salvatore divino, il cui bisogno si faceva sentire alle anime religiose. È da questi elementi diversi, combinati in dosi variabili, che si è formata la fisionomia del Cristo, che si delinea dagli scritti del Nuovo Testamento. Ma è nel mondo esseno che un'elaborazione di questo genere ha potuto e dovuto prodursi, perché rispondeva alle aspirazioni del gruppo e non faceva che tradurre il suo ideale sotto una forma facilmente afferrabile.  

NOTE DEL CAPITOLO 4

[43] GIUSEPPE, Guerra Giudaica 2, 8:11. 

[44] Testamento dei dodici patriarchi, cfr. MIGNE, Dictionnaire des Apocryphes, volume 1, colonna 853 e seguenti.

[45] Testamento di Giobbe, cfr. MIGNE, Dictionnaire des Apocryphes, volume 2, colonna 403 e seguenti.

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