lunedì 27 febbraio 2023

Origini Sociali del CristianesimoIl Vangelo dei Nazareni

 (segue da qui)


Il Vangelo dei Nazareni.

Giustamente Epifanio menziona un «Vangelo dei Nazareni», chiamato anche «degli Ebrei» o «degli Ebioniti», di cui alcuni dettagli particolarmente arcaici lo hanno offuscato molto. [56] Vi sono molte probabilità che bisogna vedervi in quell'opera la più antica delle Vite di Gesù. Un tale documento sarebbe per noi del più grande interesse se non fosse perduto da molto tempo. Ma possiamo farcene qualche idea dalle citazioni o allusioni di vari autori ecclesiastici che se ne sono occupati.

Il racconto era presentato nel nome dei primi dodici discepoli del Cristo, personificazione cristiana delle dodici tribù di Israele. Così è chiamato talvolta «il Vangelo dei dodici Apostoli». Più precisamente, si dava come scritto da uno di loro, Matteo, che sarebbe stato un pubblicano e, a questo titolo, avrebbe saputo impugnare la penna. Per questo motivo è chiamato anche «Vangelo secondo Matteo», quantunque sia da distinguere da quello che possediamo sotto questo nome. È senza dubbio a questo primo racconto della Vita di Gesù che si applica l'osservazione seguente del vecchio Papia: «Matteo scrisse gli Oracoli».

La scena si apre «ai giorni di Erode re di Giudea», sotto il sommo sacerdote Caifa. Siccome il primo era morto un po' prima della nostra era, mentre il secondo visse sotto Ponzio Pilato, questo dettaglio testimonia da sé solo una cronologia molto caotica. Una tale confusione non si comprenderebbe in un Vangelo tardivo. Si spiega, in un primo tentativo, con l'assenza di ogni tradizione storica e i tentennamenti inevitabili di una leggenda in via di formazione.

In quel tempo, dunque, «venne un uomo di nome Giovanni, che battezzava con il battesimo di penitenza nel fiume Giordano». Così si realizzava un oracolo di Malachia (3:1) riguardante un «messaggero» chiamato a «preparare la via del Signore», poiché, per un cristiano erede della tradizione essena, tale preparazione implicava la purificazione delle anime, di cui il battesimo era il simbolo attivo. Si nutriva solo di miele selvatico, unico cibo che si trova nel deserto, perché così si compiva un'altra profezia riportata in Isaia (40:3): «Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore». Aveva una veste di peli di cammello e una cintura di pelle intorno ai lombi. Questo era un tempo l'abbigliamento del profeta Elia (2 Re 1:8). Ora il «messaggero» del Signore era presentato in Malachia (4:5) come un nuovo Elia, che avrebbe operato per la conversione di Israele finché sarebbe venuto il «giorno del Signore». In applicazione di quest'ultimo oracolo, l'evangelista aggiunge che «tutta Gerusalemme», farisei in testa, andava da lui per ricevere da lui il battesimo di penitenza. Lunghi dettagli venivano in seguito, senza dubbio a proposito della predicazione del battista. Costui, nei termini del racconto, era, per suo padre Zaccaria e sua madre Elisabetta, della razza di Aronne. Era un modo per affermare e mettere in rilievo la tesi cara al primo autore dell'Epistola agli Ebrei, per cui il nuovo Melchisedec è ben superiore ai rappresentanti dell'antico sacerdozio. 

Gesù, infatti, appariva presso Giovanni come una personalità trascendente. Andò da lui solo su invito e con un'alta coscienza del proprio valore: «La madre del Signore e i suoi fratelli gli dissero: «Giovanni battezza per la remissione dei peccati, andiamo a farci battezzare da lui. Ma egli disse loro: In cosa ho peccato per andare a farmi battezzare da lui?» Egli andò, malgrado tutto, dal battista. Ma era piuttosto, nel pensiero del narratore, per realizzare altre profezie che si riferivano a lui stesso. Era detto in Isaia (41:1): «Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha unto per portare la buona novella agli afflitti». Questo testo richiamava quello del Salmo 2, già invocato nella dissertazione «agli Ebrei», dove l'«Unto» misterioso dice di sé stesso: «Il Signore mi ha detto: Tu sei mio Figlio, io ti ho generato oggi». L'evangelista mostrava alla sua maniera la realizzazione di questi due oracoli: «Siccome il popolo era battezzato, Gesù venne anche e fu battezzato da Giovanni. E come usciva dall'acqua, i cieli si aprirono ed egli vide lo Spirito Santo di Dio sotto la forma di una colomba che discendeva e che entrava in lui. E una voce venne dal cielo, dicendo: Tu sei mio Figlio prediletto, io mi sono compiaciuto in te, io ti ho generato oggi». Un altro oracolo, parzialmente realizzato in quest'ultimo passo, diceva in Isaia (42:1): «Ecco il mio servo (in greco: «mio figlio»), in cui io mi sono compiaciuto; io ho posto il mio Spirito su di lui». Il narratore ci tiene a riprodurre quella dichiarazione nella sua forma indiretta. La introduce artificialmente per mezzo di una domanda che il battista, sorpreso da un dettaglio della scena, pone a Gesù: «Subito una grande luce illumina il luogo. Vedendo ciò,  Giovanni gli disse: Chi sei tu, Signore? E di nuovo una voce venne dal cielo verso di lui: Questo è mio Figlio, l'amato, in cui io mi sono compiaciuto»

La morale del racconto è ricavata subito: «Allora Giovanni cadendo ai suoi piedi gli disse: «io ti prego, Signore, di battezzarmi». Ma egli gli resistette, dicendo: «Lascia fare, perché è così che bisogna che tutto sia compiuto». Le ultime parole sono decisive. Mostrano che tutta quella storia è stata conosciuta in termini di un gruppo di oracoli la cui realizzazione, nella mente dei giudeo-cristiani, doveva operarsi per mezzo del Cristo. 

Un altro frammento di racconto battesimale accentua l'interpretazione messianica delle antiche Scritture e fa svolgere allo Spirito Santo un ruolo più personale: «Quando Gesù fu uscito dall'acqua, la fonte intera dello Spirito Santo discese e si posò su di lui, e gli disse: Mio figlio, ti aspettavo in tutti i profeti perché riposassi in te. Tu sei, in effetti, il mio riposo; tu sei mio Figlio prediletto, che regna eternamente». È lo Spirito ad avere qui la parola. Ora, egli è designato in ebraico e in aramaico con la parola femminile «Ruah». Il suo ruolo appare quindi, in questo caso, come quello di una madre. Il Cristo stesso lo dichiara in quest'altro frammento, che ci introduce in piena fantasmagoria: «Subito mia madre, lo Spirito Santo, mi afferrò per uno dei miei capelli e mi portò sul grande monte Tabor».

Nel pensiero dell'evangelista, Gesù era nondimeno, per nascita, un uomo come gli altri. Aveva allora «trent'anni», l'età di Davide al suo avvento (2 Samuele 5:4), quella dei sacerdoti al loro ingresso in carica (Numeri 4:3, 23, 30). Era figlio di Giuseppe e di Maria. Suo padre portava lo stesso nome del più famoso e del più amato dei Figli del patriarca Giacobbe che, morendo, impartì le benedizioni sul suo capo come su quello del «Nazareno», secondo la versione greca della Genesi (49:26). Sua madre si chiamava come la sorella di Mosè, che l'Esodo (15:20) descrive come «profetessa» e a cui si richiamava, secondo la testimonianza di Filone, il gruppo dei Terapeuti strettamente legato a quello degli Esseni. Così come il Padre celeste restava avvolto nel mistero e si manifestava solo per l'intermediazione dello Spirito Santo, Giuseppe non appariva affatto e Maria entrava da sola in scena. Altri figli la accompagnavano, perché Gesù aveva dei fratelli. Così volevano vari testi biblici in cui si credeva di vederlo prefigurare (Salmo 69:9; 84:28, ecc.). Ma dopo il suo battesimo, non volle avere nulla in comune con i suoi parenti. «Un giorno si venne a dirgli: «Tua madre e i tuoi fratelli sono fuori». Egli rispose: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» E stendendo le mani sui suoi discepoli, aggiunse: «Ecco i miei fratelli e mia madre. Questi sono quelli che fanno la volontà di Dio».

Così non abitava affatto con la sua famiglia. La sua residenza era a Cafarnao, «borgo del Consolatore», presso il lago di Tiberiade. Senza dubbio si leggeva che non aveva dove posare il suo capo. Un altro frammento del Vangelo lo mostra che entra «nella casa di Simone, soprannominato Pietro», con un gruppo di discepoli: «Avendo preso la parola, gli disse: Come passavo lungo il lago di Tiberiade, ho scelto Giovanni e Giacomo, figli di Zebedeo, e Simone e Andrea, e Taddeo e Simone lo Zelota e Giuda Iscariota, e tu, Matteo, che eri assiso nel tuo ufficio di pubblicano, ti ho chiamato e tu mi hai seguito. Voi dunque, voglio che siate i miei dodici apostoli in testimonianza per Israele»

Una condizione preliminare era imposta da lui ai suoi compagni: quella di abbandonare tutto per seguirlo. È quanto spiegava un episodio del più puro essenismo, che doveva far seguito ad una prima accusa contro i possidenti: «Un altro ricco gli disse: Maestro, che devo fare di buono per vivere? Gli disse: Uomo, pratica la Legge e i Profeti. Gli rispose: L'ho fatto. Ed egli gli disse: Va', vendi tutto ciò che possiedi, dividilo con i poveri e seguimi. Il ricco si mise a grattarsi la testa e ciò non gli piacque. E il Signore gli disse: Come puoi dire: io ho praticato la Legge e i Profeti? Perché  è scritto nella Legge: tu amerai il tuo prossimo come te stesso. Ed ecco che molti dei tuoi fratelli, figli di Abramo, sono coperti di sudiciume, morendo di fame, e la tua casa è piena di beni e non ne esce nulla di nulla per loro. E voltatosi disse a Simone, suo discepolo, assiso presso di lui: Simone, figlio di Giovanni, è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli».

«Non siate mai contenti», diceva altrove il Cristo, «se non allorché avrete visto vostro fratello gioire nella carità». «Colui che turba lo spirito di suo fratello», spiegava ancora, «è un grande criminale». Lui recava piuttosto alle anime turbate la calma ristoratrice. Siccome lo Spirito Santo era venuto a «riposarsi» in lui, era in sua compagnia che tutte le vane agitazioni dovevano prendere fine: «Colui che mi cerca», diceva, «non avrà riposo finché non mi trova. Colui che mi avrà trovato sarà pieno di ammirazione. Colui che l'ammirazione avrà afferrato dominerà come un re. Colui che sarà venuto a dominare si troverà in riposo». Siamo qui in pieno misticismo, un misticismo ben conforme alla tradizione degli Esseni, che vedevano nelle passioni delle malattie dell'anima e nel controllo di sé il segno della regalità spirituale.

Come loro, egli riprovava i massacri sacri: «Io sono venuto», dichiarava, «a distruggere i sacrifici, e se voi non cessate di sacrificare, la collera di Dio non si allontanerà da voi». All'offesa delle vittime preferiva, conformemente alla parola di un profeta (Osea 6:6), la pratica della misericordia. Lo si vede bene dall'atteggiamento indulgente che adottò, un giorno, nei confronti di «una donna accusata davanti a lui di numerosi peccati».

Il suo disdegno per ogni vittima rituale si estendeva financo a quella del banchetto pasquale. Poco prima della sua morte il suo entourage gli domandò: «Dove vuoi che ti prepariamo da mangiare a Pasqua?» «L'ho forse domandato?», rispose con malumore. Spezzò il pane con i suoi discepoli, li fece bere dal suo calice, ricolmo d'acqua e non di vino. Era lui che doveva servire da agnello pasquale. Era votato alla morte, vittima innocente, da Caifa, il sommo sacerdote del tempo, la cui menzione, all'inizio del Vangelo, mirava a preparare questo epilogo. Un apostolo prediletto, «Giacomo il Giusto», aveva giurato di non mangiare più pane prima di vederlo resuscitato. La sua fedeltà fu ricompensata. Gesù, uscendo dal sepolcro e lasciando tra le mani del servo del sommo sacerdote, che si trovava lì, il sudario in cui era avvolto, apparve d'improvviso davanti all'apostolo, prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e glielo presentò, dicendo: «Mio fratello, mangia il tuo pane, perché il Figlio dell'uomo è risorto dai morti».

Quella biografia del Dio Salvatore poteva rivaleggiare vantaggiosamente con quella dei Simoniani. Si sarà osservato che un «Simone» vi appariva pure e vi svolgeva un ruolo di primo piano, ma solo come compagno di Gesù, il cui ruolo si trovava così ingrandito. Era Cefa, il secondo dei tre notabili della Chiesa nascente di Gerusalemme. Siccome il suo nome, che voleva dire «pietra», poteva essere interpretato da semplice soprannome, mentre non era lo stesso per i suoi due associati Giacomo e Giovanni, l'evangelista ha fatto di lui un «Simone» soprannominato «Pietro» e lo ha messo in scena prima di tutti gli altri apostoli, prima di Giacomo stesso. L'Elena dei simoniani, quella prostituta di bassa lega, ultima avatar della Sapienza decaduta, che il Dio Salvatore ha ritrovato, si ritrova, anche lei, in quella «donna accusata di numerosi peccati» che il narratore fa condurre da accusata davanti a Gesù per fornire a quest'ultimo l'occasione di assolverla. Soltanto non si è parlato affatto a suo proposito del «travasamento» delle anime, né della prima donna, fonte di tutti i mali, né, a maggior ragione, dello Spirito divino caduto nella materia da cui la Grande Potenza era sola capace di estrarla. Il racconto è meno ingombro di mitologia, più semplice e più familiare. Ha tutte le apparenze di una storia vissuta.

Questo primo Vangelo, così sprovvisto di pretese teologiche e letterarie, metteva la fede nuova alla portata di tutti. Dava ad una dottrina austera ed esigente, fino ad allora un po' astrusa, l'attrattiva di un romanzo popolare. Così esso doveva fare di più per il suo successo rispetto alle più dotte dissertazioni del tipo dell'Epistola agli Ebrei. Portava in sé il futuro del cristianesimo.   

NOTE DEL CAPITOLO 4

[56] EPIFANIO. Si veda MIGNE, Dictionnaire des Apocryphes, volume 2, colonna 635 e seguenti, e HILGENFELD, librorum deperditorum fragmenta, fascicolo 4, appendice al Pastore di Erma. 

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