martedì 3 gennaio 2023

Origini Sociali del CristianesimoIL CRISTIANESIMO NASCENTE (Veduta generale)

 (segue da qui)

CAPITOLO PRIMO


IL CRISTIANESIMO NASCENTE

(Veduta generale)

I

È soprattutto tramite l'azione personale di Gesù, dei suoi discepoli e dell'apostolo Paolo che si è tentato fin qui di spiegare la genesi del cristianesimo. Ma gli sforzi fatti in questo senso hanno portato solo a risultati deludenti. In tale materia, d'altronde, i fattori individuali possono svolgere solo un ruolo secondario. Non fanno che dare una forma appropriata alle tendenze confuse, ai bisogni impellenti della folla. Per diffondersi e per durare come ha fatto, il cristianesimo ha dovuto avere cause complesse di ordine sociale, dovute agli ambienti diversi nei quali si è operata la sua formazione. 

La prima di queste cause sociali è da cercare nelle tendenze rivoluzionarie che si affermavano tra le masse ebraiche di Palestina all'inizio della nostra era. Il popolo era allora sfruttato, pressato, oppresso da una aristocrazia potente. Era così da molto tempo. Numerose testimonianze lo attestano. Ma la situazione si era aggravata sotto Erode, le cui spese sfrenate avevano stremato il paese. Essa divenne ancora più tesa quando il potere imperiale si insediò in Giudea. Una fiscalità rigorosa fu organizzata senza indugio e che non poté che aggravare la miseria. Essa suscitò ancora più rancori perché era l'opera dei goyim e si volgeva a loro profitto. Giuseppe racconta come, in quella occasione, sotto la guida di un certo Giuda, soprannominato il Galileo, un partito nazionalista si formò, quello degli Zeloti. Questa gente aveva un programma chiarissimo. Essi sostenevano che non si dovesse riconoscere altro padrone che Jahvè. Volevano instaurare il regno di Dio previsto dai profeti. Senza dubbio il loro capo appariva come il Messia predestinato che avrebbe instaurato nel nome dell'Altissimo la giustizia perfetta. La loro propaganda elettrizzò la folla e si scatenò non solo contro i Romani, ma anche contro l'aristocrazia ebraica, accusata di collaborare con la dominazione straniera. Questo era il preludio di una rivoluzione sociale in cui la massa dei proletari si ergeva contro i ricchi e i potenti. Le sue conseguenze si sarebbero fatte sentire per più generazioni. Giuseppe vi vede la causa principale dei turbamenti che dovevano portare alla grande rivolta. Possiamo discernervi allo stesso titolo quasi un annuncio lontano del cristianesimo.

In quella forma di emancipazione del popolo ebraico, ansioso di veder instaurarsi il regime ideale predetto dagli antichi oracoli, uno dei grandi antenati ossessionava soprattutto le immaginazioni. Questi era Giosuè, in ebraico Jehoshua, che la traduzione greca della Bibbia chiamava Iesous o Gesù. Egli aveva completato l'opera di Mosè assicurando il trionfo di Israele. Il suo nome significava «Jahvé Salva». Nella mente dei messianisti, il liberatore atteso doveva essere la sua immagine vivente. Diversi testi di Giuseppe lo lasciano intendere abbastanza chiaramente, benché lui stesso nasconda il più possibile questo aspetto religioso di un movimento che disapprovava.

Sotto Tiberio, al tempo del procuratore Pilato, ci è raccontato, «un uomo... che metteva tutta la sua arte nel piacere al buon popolo», riuscì a condurre con sé sul monte sacro di Gerizim una truppa numerosa di gente armata, promettendo loro di riesumare davanti a loro il deposito sacro che era stato nascosto lì da Mosè. [1] Questo equivale a dire che egli si presentava come un erede tardivo del grande legislatore, come un altro Giosuè o Gesù, che avrebbe condotto alla vittoria il nuovo Israele facendosi accompagnare a sua volta dal Tabernacolo e dall'Arca dell'Alleanza.

Un po' più tardi, sotto Claudio, mentre Fado era procuratore di Giudea, un certo Teuda, che si dava come un profeta e si rivolgeva, ci è precisato, «alla grande massa», riuscì a reclutare numerosi associati invitandoli a seguirlo al Giordano, le cui acque, sul suo ordine, si sarebbero divise davanti a loro. [2] Si illudeva dunque di rinnovare il famoso miracolo compiuto in passato dal successore di Mosè, per liberare di nuovo la Palestina e instaurarvi il regno di Dio. 

Più tardi, ancora, sotto il governo di Felice, numerosi impostori persuasero la folla a seguirli nel deserto, promettendole di realizzare con l'assistenza divina prodigi eclatanti. Senza dubbio volevano ripetere la storia degli antichi israeliti che, dopo aver vagato nella regione del Sinai, erano stati introdotti a colpi di miracoli nella terra promessa. Uno di loro, venuto dall'Egitto, esortò la popolazione a seguirlo fin sul Monte degli Ulivi, da dove avrebbe fatto crollare davanti a loro le mura di Gerusalemme e da dove sarebbe andato alla loro testa a vincere la guarnigione romana e a governare il popolo. Riuscì ad arruolare fino a trentamila uomini. Cosa voleva e cosa si aspettavano i suoi creduloni seguaci se non il rinnovamento del prodigio compiuto un tempo a Gerico? Anche in questo caso è su Giosuè, sul Gesù dei Settanta, che si modellava il nuovo Salvatore. Questo messianismo marziale, che si rappresentava la liberazione finale di Israele come un rinnovamento del gesto eroico degli inizi, ha ispirato di buon'ora tutta una letteratura molto abbondante e particolarmente apprezzata, quella delle Apocalissi. L'annuncio della grande lotta che avrebbe assicurato la salvezza del popolo eletto vi assunse le forme più ampie. Inglobava nella sua prospettiva la terra intera e il cielo stesso, tutto l'universo conosciuto. Vi si vedevano i nemici di Dio dappertutto schierati contro i suoi servi, scontrandosi d'improvviso contro le sue legioni e precipitando in un abisso tenebroso e ardente, mentre i fedeli vittoriosi avrebbero preso possesso del regno atteso e avrebbero goduto in pace una beatitudine incontaminata.

Per vedere quanto queste prospettive abbiano influenzato la preparazione evangelica, basta dare una sbirciatina all'Apocalisse di Giovanni, che chiude il Nuovo Testamento ma che dovrebbe piuttosto aprirlo, perché rappresenta nel suo nucleo un cristianesimo molto arcaico. È un esempio notevole e particolarmente riuscito di quella letteratura di combattimento che annuncia il trionfo degli eletti di Israele con il crollo della Roma imperiale e che coinvolge il mondo intero in questo grande dramma. Il ruolo centrale vi spetta a Gesù. Ma questo Gesù rassomiglia molto di più al Giosuè biblico che all'umile artigiano di Nazaret. È anche una figura più divina che umana. È in cielo che si trova la sua dimora. Lì si tiene presso il trono di Dio sotto la forma di un agnello immolato dall'origine del mondo. Egli assume l'apparenza del Figlio dell'uomo solo per discendere sulla terra armato di una falce affilata, per mietere e raccogliere e riempire il torchio dell'ira divina fino a che il sangue non ne trabocchi. [3] Restiamo, anche lì, lontani dal Vangelo. Ne siamo nondimeno sulla via che vi conduce. L'idea del regno di Dio tendeva per sua stessa natura a superare la cornice angusta di Israele, ad espandersi in una Società di giusti appartenenti a tutte le razze e a tutti i paesi. Quella del re ideale chiamato a governarla implicava non solo una potenza irresistibile, ma pure una infinita bontà, sempre soccorrevole dei disgraziati. Quella logica interna del messianismo poteva svilupparsi solo in un ambiente propizio, meno strettamente e meno ferocemente nazionalista di quello degli Zeloti. Ma trovò nella Palestina stessa il terreno favorevole alla sua fioritura.

Se alcuni, tra la gente del popolo, sognavano una rivoluzione sociale che si sarebbe fatta col ferro e col fuoco nell'ambito della nazione, altri avevano un ideale più pacifico e più umano. Poveri, onesti e fondamentalmente pii di fronte a padroni opulenti che disprezzavano la Legge o se ne curavano pochissimo, essi erano venuti a considerare la povertà  una virtù e la ricchezza la fonte di tutti i mali.

Così fecero gli Esseni, che Giuseppe ci mostra solidamente organizzati in tutte le città e pure nei piccoli villaggi dove molti si davano ai lavori nei campi. Gli adepti di quella società professavano una sorta di giudaismo gnostico in cui gli Angeli svolgevano un grandissimo ruolo, ma in cui il destino umano costituiva il centro. Essi dicevano in particolare che le anime erano spirituali per natura, che si trovavano imprigionate nella carne per aver ceduto in passato alla concupiscenza, ma che avrebbero riacquistato la loro libertà originaria e la perfetta felicità applicandosi sulla terra a evitare il male e a fare il bene. Per loro non poteva esserci nessuna salvezza senza un'osservanza strettissima della Legge mosaica. Erano in opposizione aperta al sacerdozio ufficiale, che, ben dotato, opulento e avido, formava con loro un contrasto completo. Ma avevano i loro sacerdoti che intervenivano nella loro vita quotidiana, che benedicevano i loro pasti e li trasformavano in sante agapi. Ora questa gente faceva professione di povertà. Ogni proprietà privata era loro proibita. I veri Esseni erano votati al celibato. Soprattutto, mettevano in comune la totalità dei loro beni, non solo le case e le loro terre, ma anche il cibo e persino gli abiti. Inoltre, era loro prescritto di mantenere un'estrema semplicità nella loro condotta, nella loro alimentazione, nelle cure dei loro corpi.

È da una tendenza analoga e senza dubbio strettamente apparentata che procedeva la setta cristiana degli Ebioniti. Il nome deriva dall'ebraico «ebion», che vuol dire povero. Esso dà a pensare non solo che questa gente era poco fortunata, ma anche che si compiaceva della sua povertà, che ne faceva ostentazione. 

Questo gruppo rappresenta una forma arcaicissima del cristianesimo. Il libro canonico degli Atti ci descrive la Chiesa nascente di Gerusalemme come una comunità di asceti che hanno rinunciato a ogni proprietà personale e hanno messo tutti i loro beni in comune. L'apostolo Paolo, che ha visto in questi primi cristiani raggruppati attorno a tre notabili, Giacomo, Cefa e Giovanni, ce li presenta come un'assemblea di «poveri». Li chiama anche i «santi di Gerusalemme» o semplicemente i «santi». Questo attributo equivale a quello di «Nazareni», che fu loro dapprima applicato, e che proveniva apparentemente dall'ebraico «nazir», in greco «nazaraios», con il quale si indicava la gente votata o consacrata a Jahvè. Questi antichi credenti erano umili israeliti, fondamentalmente pii, che si rappresentavano il Cristo Gesù nel contempo come un uomo del popolo e come un Figlio di Dio. Senza dubbio gli applicarono il passo della profezia di Giacobbe, dove si legge a proposito di Giuseppe, nella traduzione dei Settanta, che è «Nazareno tra i suoi fratelli», come pure che l'assistenza di suo padre ha fatto di lui «il pastore, la roccia di Israele». [4]

Giuseppe ci dice che gli Esseni leggevano molto la Bibbia e che la interpretavano allegoricamente. Era il loro proprio ideale che dovevano cercarvi. Gli Ebioniti o Nazareni fecero lo stesso. Siamo sicuri che le loro letture vertevano di preferenza sulle pagine dei libri sacri che esaltavano gli umili. Senza dubbio si compiacevano delle invettive di Amos, di Osea, di Isaia contro il lusso e la rapacità dei grandi. Ma una raccolta soprattutto era fatta per compiacerli: il salterio, che si è potuto chiamare «il libro dei poveri di Israele». Essi vi trovavano la loro stessa immagine ingrandita e abbellita, come ammantata da un'aureola. Era uno dei loro fratelli che parlava lì, che comunicava la sua miseria profonda e la sua speranza infinita. «Obbrobrio degli uomini e rifiuto del popolo», spogliato, perseguitato, votato a morte dai potenti che trafissero le sue mani e i suoi piedi, che contarono tutte le sue ossa e si spartirono finanche le sue vesti, egli si rivolgeva a Dio come a un padre, lo invocava giorno e notte, domandandogli nella sua agonia di strapparlo dalla morte, poi, d'improvviso, la sua preghiera si concludeva in un ringraziamento, ringraziava Dio per averlo strappato dallo Scéol, per averlo esaltato nella misura stessa del suo abbattimento.

Sui lettori pii, che leggevano la Bibbia con una fede candida, tali testi dovevano fare un'impressione profonda. Essi si presentavano come l'espressione sincera dei sentimenti di un giusto ideale, di un figlio di Dio, caduto tra uomini perversi, che aveva coraggiosamente accettato la sofferenza e la morte, che aveva così meritato di rivivere e di prendere posto alla destra del Padre. Quella visione mistica, ampliata e completata da vari passi di libri profetici o sapienziali, conteneva, come in germe, tutta la teologia cristiana.

Per vedere quanto abbia contribuito a formarla, non si ha che da leggere un testo particolarmente curioso del Nuovo Testamento, quello dell'Epistola agli Ebrei, che, quali che siano la sua data e la sua destinazione, presenta un carattere molto arcaico. È costituita nel suo primo nucleo da considerazioni didattiche, di un carattere speculativo; una concezione specificamente ebraica del cristianesimo vi è esposta a grandi tratti. Ora essa è costruita da zero con alcuni passi dei Salmi che vengono a rafforzare altri frammenti biblici. Dio, leggiamo, avendo parlato un tempo attraverso i profeti, lo ha fatto, in questa fine dei giorni, per mezzo di suo «Figlio». Questa progenie divina era superiore agli Angeli, ma è stato messo per un certo tempo al di sotto di loro. È divenuto simile agli uomini per liberare gli uomini dall'impero del male. Egli può compatire le comuni miserie perché le ha conosciute. È passato per ogni sorta di prove. Nei giorni della sua carne, ha presentato, con grandi grida e lacrime, preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte. È stato esaudito a causa della sua pietà. Avendo imparato, benché fosse Figlio, a obbedire, egli è divenuto, per coloro che gli obbedivano, l'autore di una salvezza eterna. Qualificato da Dio «sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec», egli realizza la figura profetica di questo sacerdote dell'Altissimo, re di Salem, che non aveva né padre né madre, né principio né fine. Come il suo precursore era superiore ad Abramo, che fu benedetto da lui e gli pagò la decima, così egli si elevò al di sopra dei capi del giudaismo. Il Sommo Sacerdote di Gerusalemme entra una volta all'anno con il sangue purificatore di una vittima nella parte più appartata del tempio. Lui ha portato, una volta per tutte, nel santuario celeste il proprio sangue, la cui virtù superiore purifica le nostre anime. Egli ha stabilito la nuova alleanza predetta dal Signore a Israele.

Questo dettaglio si riferisce ad una profezia famosa di Geremia; l'allusione è significativa. Essa fa pensare alla comunità ebraica della Nuova Alleanza, i cui statuti, conservati in parte da un papiro, sono stati pubblicati nel 1910, e che sembra essere stata fondata in Palestina all'inizio della nostra era. [5] Il titolo stesso che quella associazione si era data è sufficiente a mostrare che vi si considerava obsoleto il giudaismo tradizionale. Diversi passi degli statuti attestano che il sacerdozio vi teneva un posto importante, ma che non era quello del Tempio, e che vi si rivendicava un Messia che personificava e predicava la giustizia, che era disceso da Aronne e non aveva nulla a che vedere con Giuda. Queste coincidenze provano quanto si avrebbe torto a vedere nel cristianesimo arcaico esposto dall'Epistola agli Ebrei solo una libera speculazione di un dotto isolato le cui vedute personali avrebbero avuto la buona fortuna di sopravvivergli. Abbiamo qui l'espressione di una credenza collettiva nata dalle speranze e dalle miserie di un intero popolo.

Questa è la fede che si addice a una comunità di pia gente, intrisa di tradizione ebraica, ma molto distaccata dai suoi rappresentanti ufficiali, la cui anima pacifica si consola delle miserie presenti con pii ricordi mescolati a speranze grandiose in mistiche conventicole organizzate fuori dalla sinagoga. Se Giuseppe avesse letto questo brano teologico rivolto «agli Ebrei», vi avrebbe visto senza dubbio solo un esempio caratteristico dell'esegesi allegorica rilevata da lui nella setta essena. Non sospettò affatto di avere davanti a sé una nuova religione che si sarebbe opposta a quella di Israele.

Quella religione d'altronde, se si fosse confinata in Galilea o in Giudea, sarebbe stata presto soffocata dal messianismo nazionalista. Essa raggruppava di fronte a lui solo un numero abbastanza ristretto di adepti, troppo modesti e troppo pacifici per imporsi all'attenzione. Ecco perché l'autore ha dovuto passare presso di loro senza scorgerli e perché la loro segnalazione ci sfugge.


II

La situazione era tutt'altra nei numerosi insediamenti ebraici disseminati fuori dalla Palestina. Gli Israeliti trovandosi come sradicati si interessarono molto meno dei loro correligionari galilei o giudei  al sogno nazionale. A voler compiacersene, a far troppo prova di ambizioni patriottiche, avrebbero peraltro aizzato contro di loro tutto il loro circondario pagano. Avevano troppe diffidenze da dissipare, troppe beffe da sfidare, troppe inimicizie da vincere. Da quel momento in poi, una forte corrente di antisemitismo si faceva sentire attorno a loro. L'immagine dell'ebreo sofferente, del Figlio di Dio misconosciuto dagli uomini, sottoposto da loro alle più dure prove, rispondeva meglio al loro proprio destino di quella del re guerriero trionfante su tutti i suoi nemici. Essi mantennero il tema iniziale, ma trasponendolo. La figura del Cristo glorioso fu proiettata da loro in un futuro indefinito, mentre quella del Santo ideale, vittima dell'ingiustizia comune, appariva loro molto vicina, come una proiezione ideale della loro vita quotidiana.

Questo stato d'animo era ancora più marcato tra i loro proseliti. Un'attiva propaganda era fatta all'inizio della nostra era per portare al giudaismo la gente di fuori, i goyim. Molti si lasciavano attirare dall'idea del Dio unico e dall'elevazione della moralità ebraica. Molti erano pure felici di approfittare dei privilegi concessi alla sinagoga. In questo Impero autoritario, dove il diritto di Associazione era concesso solo in casi rarissimi, con clausole molto restrittive, gli Israeliti, beneficiando del favore che era stato loro concesso in passato da Cesare, avevano il diritto di tenere grandi assemblee e di discorrere a loro discrezione, di costituire  donazioni, lasciti, contributi, un fondo comune di cui beneficiavano i poveri, di possedere di loro proprietà edifici corporativi dove ognuno era sicuro di trovare riparo, cimiteri dove i morti più abbandonati avevano la loro parte di preghiere comuni. Il piccolo popolo apprezzò grandemente questi vantaggi collettivi. È soprattutto tra loro che si effettuavano le conversioni. Quella clientela adottiva respingeva ancor più dei veri ebrei l'idea di un Cristo bellicoso trionfante con la forza su ogni opposizione. Ma essa si compiaceva ancora più di loro dell'immagine del Giusto misconosciuto, che Dio aveva esaltato nella misura del suo abbattimento, e che doveva apparire un giorno imminente per giudicare i vivi e i morti. Essa si aggrappò ancora di più a quella speranza perché vi trovava una compensazione alle sue miserie, un rimedio provvidenziale all'ingiustizia della sorte. 

Dovunque l'influenza ebraica predominasse, questi umili credenti si rappresentarono la fede cristiana nel contesto della tradizione mosaica alla quale avevano aderito. Questo è ciò che accadde in Transgiordania. Il paese era sottomesso agli Arabi nabatei, la cui dominazione si estendeva dal sud della Palestina meridionale fino alla regione vicina del Libano, dove furono per qualche tempo i padroni di Damasco. Gli Israeliti vi erano numerosissimi. Essi rappresentavano una cultura più elevata a quella degli indigeni; così il cristianesimo, che vi si insediò di buon'ora, vi custodì più che altrove il marchio della sua origine palestinese. I suoi adepti vi si distinsero per il loro attaccamento all'ortodossia ebraica. Tutte le testimonianze che abbiamo su di loro concordano nel dirci che tenevano in grandissima considerazione il Codice mosaico e che ritenevano la sua stretta osservanza una condizione essenziale della salvezza. Adepti a quella Chiesa giudaizzante che, credendo in Cristo, osservavano tutti i precetti della Legge, sono segnalati ancora nel IV° secolo nella regione di Damasco. [6]

È lì, in questo ambiente ben attaccato alle vecchie tradizioni, che l'apostolo Paolo si è convertito al cristianesimo, di cui era stato dapprima un avversario appassionato. Egli andò subito a predicarlo in Arabia senza provare il bisogno di salire a Gerusalemme per intendersi con i suoi principali rappresentanti. Non è che abbia avuto qualcosa contro di loro. Nulla allora lo separava da loro. È entrato in conflitto con loro solo molto tempo più tardi, quando ha lasciato l'Arabia per recarsi in Siria. Il suo nuovo atteggiamento è stato determinato da questo nuovo ambiente. È perché la situazione vi era molto diversa. Tendenze nettamente contrarie vi si profilavano. 

Gli ebrei erano meno fortemente radicati sulla costa siriana che nei paesi situati in riva al Giordano. Il loro numero andava diminuendo man mano che si saliva verso nord. I loro legami con la madrepatria si facevano necessariamente più lontani. Soprattutto, non rappresentavano più, come in Transgiordania, un'élite le cui credenze e pratiche si imponevano. L'ellenismo vi  era stato sviluppato in una maniera intensa. Antiochia in particolare, dove risiedeva il legato imperiale, era una città di elevata cultura dove i filosofi e gli artisti greci erano in grande onore. Gli ebrei vi figuravano da stranieri, quasi da intrusi. Si abbandonavano nondimeno ad un proselitismo molto attivo. Ma la loro propaganda, per avere qualche possibilità di successo, doveva farsi più accomodante che altrove. Gente che era stata iniziata alla saggezza di Platone o di Zenone poteva ben essere attratta dall'idea di un Dio unico che ha fatto il cielo e la terra, da quella di un giudice equo che ricompenserà i suoi fedeli e castigherà gli empi, o da quella di un giusto ideale che sopporta senza cedere ogni sorta di prove immeritate. Ripugnava loro di lasciar imprimere su di loro il marchio della circoncisione, che li esponeva a ogni sorta di scherni, o a sottomettersi nei loro pasti e nella loro vita sociale alle osservanze minuziose che impone il Levitico. Fatalmente, dinanzi alla loro resistenza, le prescrizioni più rigide si attenuarono, una casistica si creava. 

In Siria, la fede messianica dei poveri d'Israele trovò di buon'ora un terreno favorevole, attorno alle sinagoghe dove si univano agli ebrei autentici numerosi proseliti di una condizione modestissima. Essa vi fece molti seguaci. Ma a causa della posizione inferiore dei suoi seguaci rispetto ai Greci, dovette abbandonare il mosaismo intransigente che aveva adottato in Palestina e in Transgiordania per adattarsi alle esigenze di questo nuovo ambiente.

Lo vediamo dall'esempio di Paolo. Predicando in Siria la nuova fede, non domandò ai convertiti di farsi circoncidere, né di astenersi dalle carni sacrificate agli idoli, né di evitare la frequentazione di gente impura. Ma  una campagna appassionata fu condotta contro di lui da Gerusalemme da parte del gruppo organizzato attorno a Giacomo, a Cefa e a Giovanni. Egli non cedette un solo istante. Gli piace farlo osservare nel racconto iniziale della sua lettera ai Galati. Ma anche i suoi avversari restarono sulle loro posizioni e Cefa, che sembrava schierarsi una volta col suo modo di vedere, cambiò prestissimo atteggiamento perché fu intimidito dall'intervento di emissari di Giacomo.

Il conflitto avrebbe potuto perpetuarsi. Le due parti si bilanciavano. Una aveva a sostegno la forza della tradizione, il prestigio di un passato lontano e meraviglioso. L'altra poteva far valere il brillante futuro che avrebbe assicurato al giudaismo un numero sempre maggiore di proseliti. Un fatto sociale di una grande importanza sopraggiunse a far pendere la bilancia a favore della seconda. La rivolta palestinese dell'anno 66 che comportò la repressione violenta degli eserciti imperiali e la rovina totale di Gerusalemme e del Tempio ebbe immense ripercussioni, il cui effetto si fece sentire in tutto l'Impero e persino oltre, ovunque esistesse qualche colonia ebraica. I sacrifici legali che potevano aver luogo solo nel santuario di Sion e che erano stati presentati da Dio stesso come la condizione indispensabile per il mantenimento della sua alleanza con il popolo eletto, non potevano farsi più. L'alleanza diveniva quindi decaduta. La Legge si trovava abrogata. Perché le prescrizioni che regolavano i rapporti con gli stranieri si sarebbero imposte più di quelle che dettavano i doveri verso Dio? Perché la circoncisione doveva sopravvivere agli olocausti? Il crollo del giudaismo ebbe per controparte l'emancipazione legale del cristianesimo.

Molti proseliti optarono pertanto per la religione nuova, per paura di compromettersi con la vecchia. Essi si erano uniti alla sinagoga perché la vedevano ufficialmente riconosciuta e persino protetta dall'autorità romana. Si allontanarono da essa dopo la ribellione per non essere avvolti dalla riprovazione di cui era oggetto. Il cristianesimo, emancipandosi, offrì loro un mezzo opportuno per liberarsene senza rinnegare la propria fede. Ma figurò, pertanto, da concorrente. Derivato dal giudaismo esso divenne, per forza di cose, più o meno antigiudaico.

Quella situazione nuova aveva cause sociali, non dottrinali. Ma aveva bisogno di essere giustificata da una dottrina che fosse a sua misura. Il cristianesimo era vissuto fin lì su uno sfondo di idee ebraiche. Una volta staccatasi dalla vecchia ortodossia alla scuola della quale si era formata, aveva bisogno di una teologia nuova che spiegasse la sua secessione. 


III

La setta samaritana dei Simoniani, che aveva con esso molte affinità, gli fornì gli elementi. Essa professava una gnosi simile a quella degli Esseni, ma più distaccata dal giudaismo e persino fondamentalmente ostile alla legge mosaica, molto eclettica peraltro e tutta penetrata di ellenismo. Un personaggio trascendente, Simone, che passava per suo primo autore, vi occupava un posto simile a quello che Gesù teneva tra i cristiani. Aveva insegnato che nessuno può salvarsi con l'osservazione della Legge, perché le prescrizioni legali sono state stabilite solo dagli Angeli e servono solo a mantenere gli uomini in schiavitù. Le buone opere non servono quindi a nulla. L'anima può essere liberata solo dalla fede. Bisogna credere nella bontà di Dio. Simone ne diede una prova tangibile sottoponendosi per l'umanità decaduta alle più dure prove. Così devono farlo i suoi discepoli. Camminino al suo seguito. Si assimilino a lui fino a farsi uno solo con lui. In questo modo trionferanno sulle potenze malvagie e sulla morte. Troveranno la vita eterna e la beatitudine senza fine. [7]

Quella dottrina molto coerente, molto omogenea, era professata non solo nella regione della Samaria, ma anche in Siria, in particolare ad Antiochia, nel centro stesso della propaganda cristiana. Essa rispondeva ai bisogni della Chiesa nascente e colmava opportunamente le sue prime lacune. Così influì grandemente sulla sua evoluzione.

Questo è ciò che attesta chiaramente la raccolta delle Epistole di Paolo. Ci resta di questo apostolo un certo numero di lettere che mostrano gli sforzi fatti da lui per conquistare alla nuova fede numerosi proseliti senza obbligarli a tutte le prescrizioni della Legge mosaica. Glosse importanti vi furono introdotte in cui si affermavano tendenze molto più radicali. Non era più una parte più o meno importante, ma la totalità della legge giudaica ad essere trascurata. L'esenzione non interveniva più soltanto in favore dei pagani convertiti, ma si estendeva agli ebrei stessi. Gesù non si limitava più al ruolo del Cristo, ma appariva come un essere divino chiamato a riparare l'opera nefasta degli arconti ribelli, che non volle affatto come loro eguagliarsi all'Altissimo, ma si mise al suo servizio, prese la forma di uno schiavo, si fece simile agli uomini e spinse l'obbedienza fino alla morte. Era chiamato la Potenza di Dio e la Sapienza di Dio. Prese quindi il titolo di Simone e anche quello della sua compagna. La prima donna scomparve dalla scena dove aveva svolto un ruolo troppo scabroso, ma al suo posto veniva il primo uomo, il cui peccato originale rese tutti gli uomini peccatori. La Legge, era spiegato, fa di noi degli schiavi. La nostra liberazione può avvenire solo tramite una fede fiduciosa in Cristo Gesù. Non è dovuta alle nostre opere, ma alla grazia di Dio, che ha mostrato in lui i tesori della sua bontà, che per mezzo di lui ci ha resi «ricchi di intelligenza e di conoscenza», o più esattamente, di «gnosi». [8]

Queste considerazioni, visibilmente ispirate dalla dottrina simoniana, che sono presentate dallo pseudo-Paolo sotto una forma polemica, si ritrovano sul piano storico in alcune parti del Quarto Vangelo e nella prima Epistola ai Filippesi. Qui, come nella nuova raccolta delle Epistole di Paolo, Gesù interpreta il ruolo di Simone, della grande Potenza venuta in soccorso dell'anima peccatrice. Il cristianesimo ha definitivamente rotto con il giudaismo. È diventato una religione di salvezza aperta a tutti gli uomini di buona volontà, dove non c'è più né ebreo, né greco, né barbaro, ma dove tutti sono solo uno in Cristo.

Così liberato dai suoi vecchi legami, uscì dal mondo ristretto degli ebrei e dei proseliti, si rivolse liberamente verso i pagani. 

Fu anche verso di loro che il suo sforzo si rivolse quasi esclusivamente. I sostenitori della Legge non perdonarono le critiche formulate contro le loro tradizioni più sacre. Combatterono aspramente i suoi adepti, e i fratelli del giorno prima divennero irriducibili nemici.

Ma se la propaganda cristiana si scontrò di solito contro una opposizione feroce da parte delle sinagoghe, trovò la migliore accoglienza negli ambienti pagani. Offriva loro gli stessi vantaggi del proselitismo ebraico, la fede in un Dio unico, la sola che convenne ad un impero sottomesso ad un unico padrone, una regola di vita ben precisa imposta in nome di questo Dio come la legge civile in nome dell'imperatore, soprattutto la grande speranza del regno di Dio predetto dai profeti, che avrebbe instaurato dappertutto la giustizia e la pace. Il cristianesimo presentava d'altronde alle anime religiose ciò che il giudaismo non aveva affatto, l'immagine concreta di un figlio di Dio venuto tra gli uomini, sofferente e morente per assicurare il trionfo di quella fede trascendente, di quella vita esemplare, di quell'ultima speranza, che assunse con esso una forma più personale e più mistica. 

L'idea di un salvatore divino che andò incontro alla morte per riprendere in seguito una vita nuova e più perfetta, alla quale tutta la gente di buona volontà poteva partecipare unendosi a lui, era diffusissima. Rispondeva ai bisogni del tempo. In seguito al crollo dei vecchi Stati, che si erano fusi uno dopo l'altro nel mondo romano, gli individui si trovarono isolati e persino indifesi. Non potendo più contare sul corpo sociale per cui avevano vissuto e per cui si erano sacrificati i loro antenati, si preoccupavano solo di sé stessi e del loro proprio destino. Il futuro che era stato negato al loro gruppo, lo volevano ormai per loro stessi. Cercavano il modo di superare la morte e di assicurarsi un'eternità di beatitudine.

I siriani si appellavano a Adone, i frigi ad Attis, altri asiatici a Mitra, come i greci a Dioniso e gli egiziani ad Osiride. Ma Gesù offriva le stesse garanzie di tutti questi dèi e aveva su di loro più vantaggi. Mentre le loro figure si perdevano nel lontano delle ere, lui si presentava come un contemporaneo. Rappresentava una moralità ben più severa. Ora la folla, d'istinto, dà la sua preferenza ai maestri più rigidi, anche a costo di seguirli fino in fondo nella via che conduce al sacrificio. I concorrenti di Gesù, formatisi in seno al politeismo, erano molto tolleranti e stavano tra loro bene assieme; lui, al contrario, puro prodotto del monoteismo ebraico, era un Dio geloso e non voleva affatto condivisione. I seguaci di Adone, di Attis, di Mitra, di Osiride di Dioniso non rischiavano nulla a seguirlo; potevano perdere tutto a ignorarlo. È dunque a lui che gli esitanti dovevano finire per rivolgersi. 

In questo ambiente pagano, come negli insediamenti ebraici che avevano evangelizzato i suoi primi missionari, fu soprattutto la gente di condizione modesta che andò da lui. Un testo tardivo della prima Epistola ai Corinzi lo fa sottolineare con forza: «Considerate, fratelli», vi è detto, «che tra voi che siete stati chiamati non ci sono molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili. Ma Dio ha scelto nel mondo esseri che sono sprovvisti di sapienza per confondere i forti, esseri vili e disprezzati, che non sono nulla, per ridurre a niente coloro che sono qualcosa». [9] Niente ne è più naturale. Era soprattutto questa povera gente ad interessarsi alla Rivoluzione sociale che si predicava loro in nome del Cristo. Contadini e artigiani si riconoscevano in questo uomo del popolo che aveva condiviso i loro travagli e le loro sofferenze. Essi trasferirono su di lui il loro ideale di giustizia e di fraternità. Schiavi e liberti si appassionarono ancora di più a questo Salvatore di rango divino che aveva preso la forma di uno schiavo per liberare gli adepti dalla tirannia delle Potenze del Male: ora essi erano numerosissimi ed esercitavano un'influenza molto maggiore di quanto l'inferiorità della loro condizione desse a pensare. Molti sarebbero diventati gli apostoli della nuova fede, non solo tra i loro fratelli, ma anche presso i loro padroni. Più grande ancora fu l'attrazione che il cristianesimo esercitò sulle donne. Le trattava come eguali agli uomini e riconosceva loro gli stessi diritti al regno di Dio. Così sollevò grandissimi entusiasmi. Molte umili credenti si innamorarono del giovane Dio che portava loro la salvezza, ed esse si diedero per lui ad un proselitismo ardente.

Pressappoco tutti questi neofiti ignoravano completamente la Bibbia e si trovavano estranei alla gnosi. Non ebbe servito a nulla provare loro dalle scritture che Gesù era stato predetto dai profeti, o per la ragione che la sua dottrina rappresentava la pura sapienza. Occorreva loro dare di lui un'immagine viva che fosse alla loro portata e che, pur facendo emergere la sua natura divina, rendesse comprensibile la sua umanità.

È da questo bisogno collettivo che procede il Vangelo secondo Marco, [10] il più antico dei sinottici. Esso sfrutta ampiamente la tradizione dei giudeo-cristiani, che si rappresentavano la vita del Cristo secondo un certo numero di oracoli messianici, o presunti tali, da cui questi credenti dall'anima semplice si erano fatti una sorta di proto-vangelo. Esso utilizza anche in una maniera liberissima il dramma gnostico del Dio Salvatore, andato alla ricerca dell'anima peccatrice, e si mostra al suo seguito nettamente antigiudaico. Ma giudaismo e antigiudaismo passano in esso in secondo piano. Il suo scopo è di offrire ai pagani convertiti, a cui le dispute teologiche interessano pochissimo, ciò che fino ad allora faceva difetto e di cui la necessità urgente si imponeva, una vita di Gesù concreta e precisa, piena di fatti miracolosi e di saggi detti, dove si rivela sotto apparenze umane un essere trascendente, un vero Figlio di Dio venuto quaggiù per risollevare l'umanità decaduta.

È da questa stessa preoccupazione che si ispirava in una maniera ancor più netta e più accentuata il Vangelo secondo Luca, nella sua prima forma, quella che ha conosciuto Marcione. Esso attenuò molti dettagli della polemica antigiudaica che sussisteva ancora nel Vangelo secondo Marco. Eliminò alcune inverosimiglianze, colmò alcune lacune, fornì una biografia più coerente e più completa. Ebbe così tanto successo che fu adottato dai più grandi gnostici. Basilide se ne servì ad Alessandria per stabilire la sua dottrina e Marcione fece lo stesso a Roma. 


IV

Basilidiani, Marcioniti e altri adepti della gnosi interpretarono questi racconti popolari come l'espressione ingenua di una sapienza nascosta, sulle modalità della quale erano peraltro lontani dall'intendersi. Quali che fossero le loro differenze, tutti concordavano nel vedere in Gesù, come lo Pseudo-Paolo, come il primo scrittore del Vangelo giovanneo, un essere divino che aveva assunto un'apparenza umana, che era apparso quaggiù come un fantasma per insegnare agli uomini a liberarsi dai loro mali per esservi stato lui stesso soggetto. Ma la massa dei credenti prese alla lettera ciò che le era raccontato sul suo conto. Pur considerandolo un autentico Figlio di Dio, se lo rappresentava come un uomo vero in carne e ossa, che aveva mangiato e bevuto e partecipato a tutte le miserie umane. Il malinteso che divideva la Chiesa aveva cause sociali. Gli gnostici appartenevano alle classi colte, dove si potevano frequentare le scuole e farsi iniziare alla sapienza,  dove, d'altra parte non si avrebbe affatto voluto mescolarsi alla folla dei lavoratori, se non di passaggio e per dirigerla, per renderla consapevole dei suoi doveri. Si facevano un Salvatore a loro immagine, che recitava bene il dramma della salvezza, ma senza compromettersi. La gente del popolo, al contrario, amava sentirlo grandissimo e buonissimo, vicinissimo a loro, similissimo a loro. Non avendo affatto discusso sulla natura di Dio, né su quella dell'uomo, non si preoccupavano affatto dalle difficoltà che poteva sollevare l'idea della loro unione; li vedevano intimamente fusi nella persona di Gesù. 

Un vero conflitto si verificò tra queste due tendenze. Esso prese a Roma una forma particolarmente acuta perché la differenza delle condizioni vi era più marcata che altrove. Per poche menti raffinate si contava una massa enorme di gente sprovvista di cultura. Erano loro che decidevano in ultima istanza sui temi controversi, perché la Chiesa era allora una democrazia mistica in cui la maggioranza faceva la legge. La concezione popolare del cristianesimo prevalse quindi su quella degli gnostici. Nell'anno 144, Marcione fu espulso dalla comunità, benché le avesse portato entrando una grandissima somma.

I disordini provocati da quella controversia avevano mostrato la necessità di una direzione più solida e più centralizzata. Il bisogno si fece tanto più sentire in quanto i Romani avevano per tradizione un gusto fortissimo per la disciplina e per la gerarchia. Fin lì, era l'insieme degli anziani, dei presbuteroi, a parlare e ad agire in nome dell'Assemblea. Essi facevano funzione di sorveglianti, di episcopoi; a partire da quel momento, li vediamo subordinarsi gradualmente a uno di loro che funge da capo. Il presbiterio si sottomette all'episcopato. Ora il primo compito dei vescovi consiste nel mantenere intatta, come un deposito sacro, la tradizione religiosa delle masse, nel difenderla dalla falsa scienza dei dotti. 

Un modo per riuscirvi era di lasciar leggere ai fedeli solo libri di dottrina sicurissima, esente da ogni errore. Marcione aveva utilizzato il testo originale del Vangelo secondo Luca e l'edizione gnostica delle Epistole di Paolo. Il Proto-Luca fu corretto e completato in un senso anti-marcionita, o per meglio dire anti-gnostico, come il racconto di Marco doveva esserlo presto in una maniera ancora più radicale nel Vangelo secondo Matteo, come anche quello di Giovanni lo fu nel nostro Quarto Vangelo. Vi fu raccontato come Gesù era stato concepito, come era nato, come era cresciuto a Nazaret, per mostrare meglio che non era un puro fantasma ma un uomo simile a noi. Un breve schizzo delle missioni di Paolo, che metteva in risalto il ruolo di questo apostolo, subì  modifiche e aggiunte analoghe, che tendevano a riconciliare l'apostolo dei Gentili con Pietro, suo antico avversario in questo dittico, analogo alle vite parallele di Plutarco, che si chiama Atti degli Apostoli. Le Epistole paoline ebbero una terza edizione tanto diversa dalla seconda quanto quest'ultima lo era dalla prima. Alle dieci lettere che aveva conosciuto Marcione, altre tre furono aggiunte, che si indirizzavano non più alle chiese, ma ai Vescovi Timoteo e Tito, e che esponevano la nuova concezione della Chiesa. La Missiva «agli Ebrei» ebbe la stessa sorte e la gnosi arcaica che esponeva a proposito del «Sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec» portò ad un elogio entusiasta della fede cattolica. Così si preparava una nuova raccolta delle Scritture che doveva far da controparte a quella degli ebrei e costituire la regola autentica, il «canone» della nuova fede.

La Bibbia ebraica era stata energicamente ripudiata e violentemente combattuta da Marcione. Questo rigurgito di antigiudaismo era dovuto senza dubbio in gran parte alla reazione provocata dagli scoppi di rivolta che si erano verificati in Israele alla fine del regno di Traiano e sotto quello di Adriano, e che avevano provocato repressioni sanguinose. Ma la calma era ritornata. Il giudaismo, esausto, affranto, sembrava agonizzante e non poteva più destare inquietudine. D'altra parte, la Chiesa di Roma, essendosi costituita di buon'ora, doveva contenere una grande percentuale di ebrei e di proseliti, abituati a leggere con rispetto la Legge e i profeti, come pure i libri pii che li accompagnavano. Per loro, l'antica Alleanza e la nuova non si opponevano affatto, ma si completavano. I libri sacri del giudaismo erano come la prefazione del Vangelo e meritavano di essere letti con un rispetto religioso. Con la sconfitta del marcionismo, fu quell'opinione che si impose. 

Il programma generale del cristianesimo si trovò grandemente modificato. Si avvicinò di più all'ordine stabilito. La povertà volontaria e il celibato furono ben mantenuti, ma come un ideale lontano, accessibile solo ad un piccolo numero di eletti. Fu ufficialmente ammesso che il cristiano comune poteva avere case, terreni, schiavi, sposarsi e avere figli. Licenza gli fu data di mangiare carne e bere vino. In compenso, gli fu strettamente raccomandato di obbedire in tutto ai poteri costituiti come a Dio stesso. Questo conformismo sociale contrastava stranamente con il messianismo rivoluzionario del Veggente dell'Apocalisse e con lo gnosticismo antilegale dello Pseudo-Paolo. Rese il cristianesimo più flessibile e più praticabile. Ora la Chiesa romana era in una posizione privilegiata che le permetteva di farlo prevalere. Collocata al centro dell'Impero, poteva intrattenere relazioni costanti con tutte le regioni in cui era penetrato il Vangelo. Godeva di un prestigio e di un credito eccezionali dovute alla sua situazione, alla sua fortuna, alla sua influenza ai servizi resi. Essa tese ben presto a porsi come custode suprema della fede e dei costumi. La Roma pagana aveva l'amore del comando e aspirava tradizionalmente alla conquista del mondo. Quella dei cristiani aveva lo stesso gusto e la stessa ambizione. Si presentò come la figlia e l'erede del primo degli apostoli e a questo titolo come la patrona di tutte le Chiese. Sotto il suo impulso e la sua saggia direzione, le comunità di credenti disseminate un po' dappertutto, che non avevano tra loro altri legami se non quelli della fede e della carità, si sarebbero raggruppate in una sorta di Impero mistico, modellato su quello dei Cesari e destinato a sopravvivergli. 


NOTE DEL CAPITOLO 1

[1] FLAVIO GIUSEPPE, Antichità Giudiache 18:4-1.

[2] ID., ibidem, 20:5-1.

[3] Apocalisse 14:14-20.

[4] Genesi 49:26.

[5] Prosper Alfaric fa allusione qui allo «Scritto di Damasco». Va ricordato che queste pagine sono state scritte almeno dieci anni prima della scoperta delle grotte di Qumran e dei famosi manoscritti detti del Mar Morto. Cfr. volume 2, pag. 389 (J.M.).

[6] Onomasticon, ed. Klostermann, pag. 172-173.

[7] Cfr. volume 2, pag. 183 e seguenti.

[8] 1 Corinzi 1-5.

[9] 1 Corinzi 1:26-28. 

[10] Cfr. Prosper Alfaric, La plus ancienne vie de Jésus, l'évangile selon Marc, Parigi, Rieder, 1929. Pour comprendre la vie de Jésus, examen critique de l'évangile selon Marc, Parigi, Rieder, 1930 (J.M.). 

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