L'epistola di Giacomo
Documento canonico in cinque capitoli, l'epistola di Giacomo dà consigli ed esortazioni concernenti la ricchezza e la povertà, la fede e le opere, l'uso della lingua, le malvagie inclinazioni, la pazienza, ecc.
Molti esegeti la situano in un ambiente soggetto alle influenze ebraiche; Massebieau (1895) e Spitta (1896) la attribuiscono ad un autore ebreo.
Però non si può dubitare della sua appartenenza cristiana: le imprecazioni scagliate contro i ricchi, l'impossibilità della loro salvezza sono al di fuori del giudaismo; e, altrettanto bene, le allusioni all'avvento del Signore e la menzione dei «pastori» della Chiesa. In aggiunta, essendo lo scopo dell'epistola di mostrare la superiorità delle buone opere sulla «fede morta», quell'attacco a malapena velato contro le idee paoline svela un aspetto del cristianesimo nascente.
Chi è l'autore del documento? La critica non ha potuto identificarlo al preteso «fratello» del Signore. [25] Egli non ha letto i Vangeli; altrimenti, osserva il teologo Marty, «non si vede perché non avrebbe trovato nulla da estrarre dai loro episodi narrativi». [26]
Alcuni passi richiamano le parole di Gesù secondo i sinottici, ma indirettamente: si tratta di temi di moralità in onore nelle comunità. D'altra parte, se l'autore conosce l'opposizione tra fede e opere, non si è potuto dimostrare alcun contatto letterario tra la sua epistola e quelle di Paolo. [27] Non ha nemmeno una parentela definita con l'Apocalisse, l'epistola agli Ebrei e la letteratura giovannea. Si avvicina piuttosto a Pietro, al Pastore e alla Didachè.
In base al suo contenuto, lo scritto è di un ebreo per razza [28] legato vagamente alla religione dei suoi antenati: egli non impone la circoncisione né il regime delle osservanze legali. Il nome dell'autore è fittizio.
Il messaggio presuppone una chiesa già antica, che contava ricchi e poveri, e dove degli abusi si sono insinuati; Giacomo 2:6; 4:1. Il momento della sua stesura è difficile da precisare. Marty esita tra il 75 e il 125 e finisce per adottare l'anno 85; Van den Bergh lo colloca «intorno al 130 o 140». Quella datazione ci pare un po' tardiva a causa della teologia rudimentale dell'epistola; la prima un po' precoce a causa dell'esperienza della vita comunitaria. Sembra che abbiamo un mandato adattato in forma di lettera, e scritto quando i vescovi poterono manifestare la loro autorità senza rivendicarsi ancora di una qualche gerarchia. Può risalire agli anni 100.
Per quanto canonico possa essere, il nostro pseudepigrafo è avaro di cristianesimo. Del Signore conosce la glorificazione (2:1), ma non sa nulla del Gesù terreno. Non lo evoca nemmeno per predicare la pazienza in mezzo alle prove. [29] Egli prende per esempi di rassegnazione i profeti, in particolare Giobbe (5:10-11), ma dimentica Gesù Cristo!
Ben di più, i grandi tratti dei Vangeli sono omessi: «Non soltanto», constata Marty, «il nostro autore ignora o passa sotto silenzio ogni tradizione sulla preesistenza o sulla nascita miracolosa, ma i numerosi echi del messaggio evangelico che fa intendere sono appena stati esposti senza che egli senta il bisogno di presentarli come parole del Signore». Da nessuna parte [...] egli menziona la morte di Gesù sulla croce, cosicché non si può minimamente dubitare che egli si fosse astenuto dal vedere in essa un elemento costitutivo dell'opera di salvezza. [30] Egli non ne ha mai sentito parlare.
Così, in quella epistola scritta per l'edificazione dei fedeli, non troviamo nulla che richiami la vita di Gesù o il suo insegnamento o la sua Passione; i riferimenti sono fatti alle Scritture. Siamo costretti ad ammettere che il messaggio di Giacomo è stranamente lacunoso.
NOTE
[25] MARTY, L'épître de Jacques, 243-8.
[26] MARTY, ibid., 259.
[27] MARTY, o.c., 260.
[28] «Abramo, nostro padre...»; Giacomo 2:21.
[29] MARTY, ibid., 280.
[30] MARTY, ibid., 269.
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