giovedì 11 agosto 2022

L'APOSTOLO DI FRONTE AGLI APOSTOLIENTRATA DI SAN PAOLO

 (segue da qui)

IV

ENTRATA DI SAN PAOLO

Si ricordano gli eventi che hanno seguito la celebrazione del dramma sacro dell'anno 27: dapprima, una rissa nel corso della quale santo Stefano fu messo a morte. Al cui seguito, alcuni tra i seguaci del crocifisso fuggirono lontano da Gerusalemme, mentre gli altri si nascosero in città o nei suoi sobborghi. C'è, poco dopo, la conversione del giudeo di Tarso, Saulo, vale a dire di san Paolo. I testi delle epistole sono espliciti su questo punto, benché molto succinti:

Galati 1:12. — San Paolo non ha ricevuto né appreso da un uomo il vangelo, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

13-14. — Prima di allora egli perseguitava la chiesa di Dio.

15. — Dio ha rivelato in lui suo figlio perché lo annunci.

16. — Allora non ha consultato né carne né sangue (vale a dire che non ha preso consiglio dagli uomini).

17. — Non è salito a Gerusalemme verso gli apostoli (verso coloro che erano stati apostoli prima di lui), vale a dire verso i Galilei.

Ma è partito in Arabia, da dove è ritornato a Damasco. 

18. — Solo tre anni più tardi è salito a Gerusalemme per conoscere san Pietro ed è restato quindici giorni da lui. 

19. — Senza vedere nessun altro degli Apostoli, salvo san Giacomo il fratello del Signore e probabilmente san Giovanni. 

Dopodiché resta quattordici anni senza ritornare a Gerusalemme né vedere alcuno degli uomini di Gerusalemme.


San Paolo non ha nulla da apprendere dalle Tre Colonne. — Che si accetti la tesi evemerista tradizionale dell'esistenza umana di Gesù, oppure la tesi mitica che la nega, la stessa domanda si pone: perché san Paolo, all'indomani della sua conversione, non è stato a vedere «coloro che erano apostoli prima di lui», al fine di istruirsi sulla religione che abbracciava? 

Alcune piccole ragioni di ordine modestamente storico possono essere addotte.

Se san Paolo ha perseguitato prima della sua conversione il cristianesimo neonato, è apparentemente perché ne conosceva qualcosa.

In aggiunta, gli studiosi sono generalmente d'accordo sul fatto che egli avesse conosciuto il cristianesimo del gruppo di Antiochia. 

Non è meno certo che i fedeli del gruppo di Damasco, da cui si recò appena convertito, dovettero insegnargli ciò che sapevano loro stessi.

A queste piccole ragioni, modestamente umane e di cui San Paolo non parla evidentemente, si aggiunge la grande ragione, la ragione di ordine teologico, vale a dire di ordine divino, che San Paolo espone al contrario e con insistenza. Tutto ciò che aveva bisogno di sapere, Dio glielo ha insegnato per rivelazione; avendo ricevuto il suo vangelo, vale a dire la fede, direttamente da Gesù Cristo, non aveva nulla da apprendere dagli apostoli che lo avevano preceduto. 

Si esamini la plausibilità del fatto, non dal punto di vista libresco delle «fonti» della teologia paolina, ma dal punto di vista realistico dell'uomo vivente.

Nell'ipotesi mitica, queste ragioni sono non solo accettabili, ma perfettamente sufficienti; se il cristianesimo è il revival del culto di un antico dio adorato da secoli come figlio del Dio padre, non si vede come la comunità galilea di Gerusalemme abbia potuto fornire al nuovo convertito molto di più di quanto già sapesse e potesse apprendere da quella di Damasco, salvo, beninteso, il fatto dell'apparizione.

Né si vede neppure che la comunità galilea di Gerusalemme abbia avuto su quelle di Antiochia e di Damasco un primato tale che un nuovo convertito si credesse obbligato ad una fedeltà qualunque... Mi spiego. I Galilei, è vero, si vantano di un privilegio: il Signore è apparso loro, e su questo fatto riusciranno a fondare un primato che non esisteva prima dell'apparizione, primato che arriveranno a far accettare e che non sopravvivrà alle loro persone.

Ma questo privilegio, san Paolo si vanta di averlo egualmente ottenuto, ed è proprio su questo che baserà la sua pretesa di essere loro eguale, si sa con quale insistenza!

In alcun modo, non ha quindi nulla da apprendere da loro, né quanto alla religione, quelli di Antiochia e di Damasco bastano, né quanto alla persona del dio. E quanto a farsi intronizzare da loro, la cosa non può essere in discussione. Nessun bisogno, di conseguenza, di fare un viaggio di più di duecento chilometri per andare a Gerusalemme. E così si comprende che questo viaggio egli non lo ha fatto.

Al contrario, nell'ipotesi evemerista, l'astensione di san Paolo è poco comprensibile. Se il cristianesimo è una religione predicata da Gesù, e anche se già i cristiani di Antiochia professano che Gesù è il figlio di Dio che si è manifestato per portare la salvezza, la prima preoccupazione del neofita sarà di andare ad ascoltare gli uomini tra i quali ha avuto luogo quella manifestazione.

I razionalisti rispondono che san Paolo stesso dichiara, ed è vero, che non vuole sapere nulla di ciò che Gesù ha detto e fatto nella sua carriera umana e che solo gli interessa il Gesù divino che si è rivelato in lui.

È sempre la stessa canzone; ce la si è cantata per gli eventi della Passione; ce la si canta daccapo per gli eventi della sua carriera umana; vorremmo che l'orchestra ci suonasse qualcos'altro. Ancora una volta, infatti, constatiamo che quando un fatto disturba la tesi degli evemeristi, anche se questo fatto è di ordine spirituale, vale a dire secondo lo spirito, essi pretendono che san Paolo lo conosceva ma ha voluto ignorarlo; ma, se un fatto favorisce la loro tesi, anche se è un fatto secondo la carne, essi dichiarano che san Paolo lo ha conosciuto, anche se non ne ha parlato, come il ruolo di Ponzio Pilato.

Abbiamo trattato in un precedente volume [1] la questione delle cose secondo la carne e delle cose secondo lo spirito; ritorniamo al nostro punto di vista delle semplici probabilità storiche. 

Ammettiamo che, conformemente alla tesi evemerista, san Paolo si sia più tardi allontanato sempre di più dal Gesù umano; poteva egli, al primo colpo, rifiutarsi di sapere qualcosa della manifestazione sotto la quale il Signore si era appena rivelato?

L'improbabilità scompare qui, come spesso altrove, nella tesi cattolica. Ancora una volta, l'azione dello Spirito Santo (a condizione di concepire quest'ultimo come un essere personale) giustifica tutto; l'illuminazione soprannaturale basta fin troppo ampiamente, a colui che ne è favorito, perché abbia bisogno di altre informazioni. E io ridico qui ciò che ho detto precedentemente: se fosse provato che Gesù ha avuto una carriera umana storica, mi sembrerebbe più «ragionevole» aderire alla dottrina cattolica che a quella del razionalismo evemerista.

I rapporti tra san Paolo e i Dodici sono sempre stati studiati dal punto di vista del dogma, delle pratiche, della cristologia, ma pochissimo, o almeno molto superficialmente, dal punto di vista puramente umano: un uomo di fronte ad altri uomini.

Si dirà che cado io stesso nel difetto che rimprovero altrove ai critici che attribuiscono la loro propria mentalità ai personaggi della Storia per decidere cosa costoro hanno potuto fare o non fare, scrivere o non scrivere, e che san Paolo, anche nell'ipotesi evemerista, ha potuto avere ragioni particolari per non salire a Gerusalemme...? No; san Paolo dice molto chiaramente che non ha avuto altra ragione per astenersi che questa: egli non aveva nulla da sapere, nulla da apprendere dagli uomini di Gerusalemme...

Ora, quella enorme pretesa, vediamo non solo che san Paolo ha potuto formularla, ma che è stata accettata, poiché, malgrado scontri passeggeri, l'intesa quanto all'essenziale non cessa mai tra loro: visita a san Pietro tre anni dopo la conversione, viaggio a Gerusalemme quattordici anni più tardi e conferenza in cui sembrano essersi messi d'accordo su tutti i punti; [2] colletta organizzata da lui a favore della comunità galilea; ultimo viaggio a Gerusalemme nel corso del quale fraternizza con il terribile san Giacomo, ecc...

Che san Paolo abbia avuto la pretesa di non avere nulla da apprendere dai Galilei, e che quella pretesa sia stata ammessa da loro, se fossero stati i discepoli e i compagni di Gesù, ecco che supererebbe i limiti dell'improbabilità. Ne è altrimenti nella tesi mitica, dove il primato dei Galilei si limita al fatto che essi sono stati i primi a vedere il Risorto.

 

San Paolo è l'eguale delle Tre Colonne. — Dunque, san Paolo è restato tre anni in Arabia; dopodiché sale a Gerusalemme, dove è restato quindici giorni e vede solo san Pietro e san Giacomo, dopodiché se ne va ad Antiochia ed in Cilicia, dove resta quattordici anni.

Nel corso di questi diciassette anni, ha preso coscienza di sé nello stesso tempo in cui ha cominciato ad imporsi nella comunità di Antiochia. Quando ritorna a Gerusalemme per prendere parte alla conferenza che deve esaminare la questione delle osservanze mosaiche, egli è «qualcuno». 

Prima che scriva le sue prime epistole, otto o dieci anni passano; a quell'epoca è un uomo maturo; probabilmente si avvicina alla cinquantina; ha alle spalle la fondazione di più comunità; è, e in ogni caso si crede in tutta certezza un personaggio di primo piano; è un capo; è un fondatore di chiese; è decisamente colui che è stato incaricato da Dio, dal Signore e dallo Spirito (le tre cose si equivalgono pressappoco); e questo è ciò che esprime rivendicando il titolo di apostolo di Dio, o di apostolo del Cristo, o semplicemente di apostolo, e proclamandosi incaricato dallo Spirito, ciò al pari di quelli di Gerusalemme.

Che cos'era dunque, nella prima metà del primo secolo, un apostolo?

Gli studiosi sono pressappoco d'accordo (persino fino ad un certo punto gli studiosi cattolici) nel riconoscere che l'apostolo in origine è semplicemente un messaggero inviato e mandato dalla comunità. Questa fase ha lasciato tracce nelle epistole; [3] ma il significato più usuale vi è quello, non più di inviato dalle comunità, ma di inviato da Dio o di inviato dal Cristo, vale a dire che il semplice messaggero di un tempo è diventato un personaggio considerevole, e così considerevole da essere superiore ai profeti e a tutta la gerarchia, ed è qualcosa come il rappresentante di Gesù. [4

Prima di san Paolo, e durante i primi anni della sua carriera, gli apostoli sono ancora solo i modesti messaggeri delle comunità. All'epoca in cui le epistole sono scritte, un quarto di secolo dopo la Conversione, gli apostoli sono gli inviati di Dio, i rappresentanti del Cristo: sono incaricati e mandati dallo Spirito, e ricevono i loro poteri (su questo san Paolo è esplicito) da Gesù, ma da Gesù risorto, da Gesù apparso nella sua gloria, come si è manifestato il giorno di Pasqua a san Pietro e ai suoi compagni, e come si è manifestato a lui stesso sulla via di Damasco.

San Paolo ha introdotto nella Chiesa non il titolo di apostolo, ma il significato nobiliare del titolo, al fine di farsi, consapevolmente o inconsapevolmente, l'eguale alle Tre Colonne: ha concesso loro il privilegio, al fine di concederlo, allo stesso colpo, a sé stesso. 

Una tale audacia è immaginabile, da parte di san Paolo, se gli apostoli galilei fossero stati scelti e investiti da un Gesù storico? Una tale abdicazione è immaginabile, da parte dei Galilei, se essi avessero ricevuto il loro titolo dalla bocca del dio stesso allorché, parlando alle loro persone, egli li avrebbe intronizzati, in modo che l'apparizione del Risorto non sarebbe stata più che una conferma del folgorante privilegio?


L'origine dei poteri di San Paolo è altrettanto legittima come quella delle Tre Colonne. — Ampliando la questione, domando se la dottrina espressa nelle epistole sull'origine del mandato sia compatibile con la tradizione dell'istituzione degli apostoli da parte di Gesù nel corso della sua carriera umana.

Gli Apostoli sono stati istituiti personalmente da Gesù? Gli Apostoli sono mandati direttamente dallo Spirito? I teologi diranno che sono stati nel contempo scelti e istituiti da Gesù e che hanno ricevuto lo Spirito; ma converranno sul fatto che non esiste, nelle epistole, l'ombra di un'allusione a quella istituzione.

Non intraprenderei una discussione che sarebbe lunghissima; altrettanto bene, non voglio trarre da quella incompatibilità che un argomento di semplice probabilità.


L'argomento d'autorità. — Se si fosse trattato solo di una questione di prestigio, si potrebbe immaginare i Galilei, da bravi bambini, lasciare, con un sorriso ironico (che si immagina molto malamente), il compagno Saulo inebriarsi del titolo che si è affibbiato. Ma c'è dell'altro. C'è una grave questione pratica sulla quale non si è d'accordo: si deve  continuare a osservare le ordinanze mosaiche?

I Galilei dicono sì; san Paolo dice no.

Quali saranno gli argomenti? Primo, tutte le argomentazioni teologiche, e queste sono discussioni senza fine. Secondo, gli argomenti di autorità che abbiamo appena visto: io sono apostolo, e vostro eguale...

Vi sono di meglio.

La questione è sapere se bisogna o no osservare le leggi mosaiche.

I Galilei non diranno forse:

— Queste leggi le ha lui stesso, con la sua bocca, ordinato di osservarle.

E questa volta, ecco l'argomento cruciale:

— Queste leggi lui stesso le ha osservate.

Quale sarebbe stata la risposta di san Paolo? Nessun dubbio è possibile:

— Non comprendete voi dunque, avrebbe affermato, che era un comandamento secondo la carne, un insegnamento secondo la carne; egli praticava secondo la carne; l'esempio che dava era un esempio secondo la carne.

Detto altrimenti, tutta la querela sull'osservanza mosaica, nell'ipotesi evemerista, avrebbe dovuto giocarsi sul terreno dell'insegnamento di Gesù.

Ora, di una tale posizione della questione non vi è l'ombra più lontana nelle epistole. E noi ne abbiamo diverse prove:

primo, il fatto che il conflitto non è collocato da nessuna parte, nelle epistole, su questo terreno;

secundo, il fatto che i Dodici non abbiano cacciato, vale a dire scomunicato, il folle sacrilego;

tertio, il buon accordo di san Paolo, al momento del suo terzo viaggio, con san Giacomo e i capi della Chiesa. 


La questione sentimentale e conclusione. — A questi conflitti di dottrina, di posizione, di autorità, che, nell'ipotesi evemerista, non avrebbero potuto mancare di verificarsi e non si sono verificati, è impossibile non aggiungere il conflitto sentimentale che gli studiosi non hanno mai evocato, tanto costoro sono attirati, dalle loro investigazioni sulle fonti testuali, lontano dalla realtà umana! 

Da un lato, l'uomo che avrebbe di Gesù solo una visione gloriosa, e dall'altro, coloro che porterebbero nel loro cuore un ricordo vivo, un ricordo del maestro amato, del maestro partito senza dubbio verso il cielo ma partito lo stesso... domandate alla madre cristiana che sa che suo figlio morto è ora presso il trono di Dio, se ciò basti ad arrestare le sue lacrime.

Immaginiamo la scena. Il nuovo venuto, l'antico persecutore, colui che non aveva nemmeno visto il maestro, che si erge di fronte ai Dodici, pretendendo di insegnare loro che cos'è Gesù e, insomma, di rimostrarglielo? Non sentiamo gli altri, le Tre Colonne, san Pietro, san Giovanni, san Giacomo, la voce tremante di singhiozzi:

«Ma noi abbiamo ricevuto dalla sua bocca il suo insegnamento; se noi siamo suoi apostoli, è perché egli ci ha scelti...»

«Tu vuoi spezzare il giogo delle osservanze mosaiche; ma egli le praticava; egli ci ha ordinato di osservarle...»

«Mentre tu vivevi con i tuoi farisei, noi l'abbiamo amato, servito, seguito»

Non voglio far qui del teatro, ma non posso però trattenermi dal pensare che di fronte all'uomo che non avrebbe voluto sapere nulla del Gesù che era vissuto, c'erano a Gerusalemme non solo i suoi ex discepoli, Pietro loro capo, Giovanni l'amato, Giacomo il suo fratello, si afferma, ma anche sua madre, sua madre secondo la carne e secondo la tenerezza di carne che ogni madre ha per i suoi piccoli, e che viveva tra loro, ci viene detto, e le Pie Donne che lo avevano seguito fino alla tomba, e forse anche. ... evidentemente, io faccio del teatro... quella, cara a Renan, e che lo aveva talmente amato che non aveva potuto credere alla sua morte... Ma lasciamo questi fantasmi alla pace della loro idealità; restano quei discepoli che i vincoli dell'amore legano al crocifisso tanto quanto i vincoli del culto... È a loro che san Paolo avrebbe rivolto il suo discorso:

— Che voi siate stati i discepoli di Gesù, che voi abbiate ricevuto il suo insegnamento dalla sua bocca, che vi abbia istituito suoi apostoli, che abbia ordinato, che abbia praticato o no le osservanze mosaiche, che si sia creduto o no il messia di Israele, che vi abbia amato o no, — tutto ciò non ha alcuna importanza. Una sola cosa conta, è che mi sia apparso dopo la sua resurrezione. Colui che vi ha parlato e vi ha amato, che ha sofferto, il Cristo secondo la carne, — ciò non conta, miei cari!

Dinanzi a cui l'umile gruppo dei Galilei, intimiditi e balbettanti, avrebbero annuito, come siamo sempre più obbligati a immaginare:

— Sì, siamo forse ben stati scelti dal maestro, ma era il maestro secondo la carne... Divina, la nostra istituzione? Andiamo dunque! Una semplice istituzione secondo la carne... Abbiamo ascoltato il suo insegnamento, abbiamo ricevuto i suoi comandamenti... comandamenti secondo la carne, insegnamenti secondo la carne... non parliamone più! È il nuovo venuto che ha ragione.

E le povere Tre Colonne, san Pietro l'estasi, san Giovanni l'amore, san Giacomo l'ascesi, e i loro compagni, confusi di aver conosciuto solo un miserabile cristo secondo la carne, avrebbero chiesto perdono al compagno!

Tali sono le assurdità alle quali si giunge con la tesi evemerista, per restare nel libresco, al posto di tentare di rivivere la realtà dei fatti. 


Si trova ne Il Rosso e il Nero (capitolo 44 della seconda parte) la frase seguente, che Stendhal presta al suo eroe Julien Sorel:

«Dov'è la verità? ... Forse nel vero cristianesimo, i cui preti non fossero pagati più di quanto non lo furono gli apostoli?... Ma san Paolo fu ripagato dal piacere di comandare, di parlare, di far parlare di sé...».

NOTE

[1] La Première génération chrétienne, conclusione.

[2]  San Paolo lo afferma positivamente, Galati 1:9.

[3] Io offro questo esempio dell'errore di metodo che consiste nel classificare e datare i testi secondo il significato di certe designazioni, come se, in un libro scritto oggi, si attribuissero a epoche e ad autori diversi le pagine dove la parola abate significa ancora il capo di un'abbazia e quelle dove essa designa i modesti curati, ministri e vicari delle nostre parrocchie!

[4] Si veda Première génération chrétienne, «Quindici giorni quando si è decisa la storia del mondo», pagine 319 e seguenti.

Nessun commento: