(segue da qui)
CONCLUSIONE
PRINCIPALMENTE VI È LO SPIRITO
MA COSA INTENDETE PER SPIRITO?
Ci si permetterà di tentare, a mo' di conclusione, di precisare quale significato crediamo di poter attribuire a questa parola così frequentemente, così abusivamente impiegata oggi? ... Ma forse si giudicherà, tutt'al contrario, che dopo aver tanto parlato di Spirito e di spiritualità, facciamo ben tardi ad illuminare la nostra lanterna... [1] Una conclusione, a dire il vero, non dovrebbe comportare discussioni, e ci scusiamo di obbligare il lettore, che ci avrà pazientemente seguito, ad attraversare ancora una volta la steppa di una mezza dozzina di pagine di esegesi, per quanto accessibili siano. Le considerazioni sociologiche che ne traiamo esigono questo lavoro preparatorio.
Cosa si intende, cosa si può, cosa si deve intendere per Spirito?
Al seguito del venerabile dizionario dell'Accademia del 1694, i lessici concordano generalmente nel definire lo Spirito: una sostanza incorporea. La domanda è sapere cosa si deve intende per «sostanza incorporea».
La filosofia cosiddetta spiritualista non esita. Ispirandosi tanto alle dottrine della teologia cattolica quanto al dualismo cartesiano e conservando alla parola «sostanza» la sua accezione scolastica, essa postula in principio l'opposizione essenziale, irriducibile e categorica tra Spirito e materia, l'una essendo la negazione dell'altra; una sostanza incorporea è una sostanza immateriale. La cosa contro cui protesta evidentemente l'antico materialismo, il quale proclama che non esiste altra sostanza che la materia. Vi è là una disputa in cui non abbiamo da entrare, la scienza non avendo da conoscere, come ha detto Durkheim, «né sostanze né forme pure, che ve ne siano o meno». [2]
Dopo aver scartato la nozione di sostanzialità, il maggior numero di filosofi moderni mantiene l'opposizione delle «cose spirituali» e delle «cose materiali» che insegnava la filosofia cosiddetta spiritualista; fanno della spiritualità un attributo della vita psichica che oppongono alla vita fisica e considerano, tutto sommato, lo Spirito come la sede del pensiero.
Quanto al grande pubblico, esso tende sempre di più ad assimilare lo Spirito all'intelligenza. È in questo senso che si vedono comunemente opporre le «cose spirituali» alle «cose materiali», ad esempio le preoccupazioni scientifiche alla preoccupazione di arricchirsi, il piacere della lettura a quello di fare un buon pasto.
È possibile intendere sotto la nozione di Spirito altra cosa rispetto alla vecchia opposizione più o meno modernizzata di ciò che cade e di ciò che non cade sotto i sensi? Il più sicuro metodo, per determinare il valore contenuto in una nozione e specificarne la portata, è sempre di risalire al significato originario della parola che le corrisponde e di segnare i punti caratteristici della sua evoluzione. Per quel che concerne quello dello Spirito, dopo aver richiamato il significato primitivo delle parole ebraica, greca e latina che lo designano, ci fermeremo di preferenza all'epoca in cui è entrato nella grande Storia, vale a dire ai tempi del cristianesimo primitivo stesso, e all'opera in cui ha preso tutto il suo valore e tutta la sua importanza, vogliamo dire alle epistole di San Paolo; esamineremo in seguito come sia permesso alla sociologia di interpretare i fatti. [3]
Quanto all'accezione originaria, essa non è dubbia. La parola latina Spiritus da cui deriva la parola francese «Esprit» significa etimologicamente «Soffio»; ne è lo stesso degli equivalenti di cui il latino Spiritus è la traduzione: πνεῦμα in greco e Ruah in ebraico. Ma dalla più antica Bibbia, allo stesso tempo in cui conserva la sua accezione primaria e generale, la parola Ruah designa specialmente il soffio degli esseri che chiamiamo soprannaturali e più specialmente il soffio di Dio, di cui esprime diremmo il mana, vale a dire la forza agente.
Passando immediatamente dall'Antico al Nuovo Testamento, vediamo la parola prendere tutta la sua portata nelle epistole di san Paolo; lo Spirito vi è, in principio, il soffio di Dio e la sua prima funzione è di stabilire una comunicazione tra Dio e i fedeli. Comunicazione indiretta in quanto si opera per mezzo del Cristo, è diretta poiché tra il Cristo e il fedele alcun intermediario si interpone. Quando San Paolo scrive: il Signore (il Signore Gesù) è lo Spirito, [4] dobbiamo comprendere che il Signore è l'organo per mezzo del quale il dio padre si manifesta ai fedeli, o, più esattamente, che è per il tramite del Signore che il soffio del dio padre agisce.
Conseguenza. Per il fatto stesso che ha ricevuto il soffio, vale a dire che è stato «insufflato», vale a dire «ispirato» nel senso etimologico del termine, il fedele diviene «spirituale»; San Paolo dice πνευματικός. Non si poteva in latino tradurre altrimenti che con spiritualis. Ricolmo dello Spirito, dicono i teologi, vale a dire ricolmo del soffio divino.
Altra conseguenza. Il soffio tramite il quale Dio va al fedele diventa il mezzo grazie a cui il fedele va a Dio; nello stesso tempo in cui lo Spirito è lo strumento di cui Dio si serve per manifestarsi, è quello grazie a cui il fedele entra in comunicazione con Dio. Così lo Spirito è una sorta di veicolo che va da Dio all'uomo e dall'uomo a Dio, il che permetterà ai teologi di professare che lo Spirito è la facoltà che Dio ha dato agli uomini per elevarsi fino a lui. La «spiritualità» è lo stato dove si trovano gli uomini in cui si verifica questo supremo movimento avanti e indietro. Gli «spirituali» sono gli uomini che sono pervenuti a questo stato.
Fin dove può spingersi quella spiritualità? Ogni sorta di grado è possibile, a seconda che la comunicazione tra Dio e il fedele sia più o meno completa, più o meno duratura. Quando lo stato raggiunge la sua pienezza, egli realizza una tale comunione con Dio che diviene una sorta di divinizzazione. Quando San Paolo parla dello stato in cui saranno intronizzati i fedeli dopo la resurrezione, dice che diventeranno «spirituali». Un pagano avrebbe scritto senza esitare «divini», θεῖοι; un ebreo, anche se cristianizzato, è riluttante ad applicare ad altri un termine che conviene solo al dio padre; san Paolo scrive πνευματικοὶ. [5] In realtà, i fedeli, passando dopo la resurrezione alla pienezza dello stato spirituale, passano dallo statuto umano allo statuto divino. Da questo punto di vista, la spiritualità incompleta alla quale l'uomo può giungere nel corso della sua vita terrena appare come una sorta di anticipazione di quella, completa e definitiva, alla quale perverrà dopo la sua morte; così, San Paolo espone, in una metafora geniale, che Dio ci dona quaggiù la «caparra dello Spirito». [6]
È beninteso che lo Spirito, allo stesso tempo in cui diveniva lo strumento di intercomunicazione tra Dio e gli uomini, conservava nel greco corrente del primo secolo, come lo aveva conservato nell'ebraico biblico, il suo senso antico di «soffio» in generale e poteva altrettanto bene designare il soffio degli uomini, degli angeli o dei demoni come il soffio di Dio. Ma, per quanto diffuso l'uso ne sia stato attorno a San Paolo, quest'ultimo pare essersi rifiutato di conformarsi e di associare sotto la stessa etichetta lo strumento divino della salvezza e qualsiasi altra cosa. Infatti, la parola «spirituale», che si applichi agli uomini o alle cose, è sempre e senza eccezione presa da lui nell'accezione che appartiene a quella nozione; quanto alla parola «Spirito», su più di cento impieghi, se ne conterebbero solo un numero infimo in cui le attribuisce il senso antico di soffio in generale, e forse questo è l'effetto di una scrittura corsiva. Lo vedremo addirittura opporre tra poco, sotto un'altra denominazione, il soffio animale e terreno al soffio divino.
Lo Spirito, che in origine significa solo il soffio arriverà a designare gli esseri che possiedono questo soffio? La forza agente che esprimeva primitivamente lo Spirito sarà ipostatizzata negli esseri che ne sono dotati? Senza risalire ad epoche precedenti, vediamo nel primo secolo la parola designare Dio stesso e altrettanto bene gli angeli e altrettanto bene i demoni. È in questo senso che si continua a dire gli «spiriti». Siccome non è sempre possibile distinguere una metafora da un'espressione propria, si può a rigore, in certi passi delle epistole, comprendere lo Spirito non come il soffio di Dio, ma come Dio stesso; ma non vi si troverà un solo caso in cui ci si riferisca ad angeli o a demoni, così come è fatto nei vangeli. Vi riconosciamo una prova nuova del rispetto che San Paolo accorda a una parola che vuole prendere solo nella sua accezione più elevata. Quanto alla personificazione dello Spirito sotto le specie della terza persona della Santa Trinità, non ve n'è traccia nelle epistole. La teologia cattolica sembra su questo punto essersi allontanata tanto dalle concezioni originarie quanto da quelle del cristianesimo primitivo.
Per contro, se lo Spirito, nel suo significato originario e in quello che ha precisato San Paolo, è uno strumento ad uso di Dio e degli uomini, si deve riconoscere che le opinioni attualmente in voga, che ne fanno una sorta di organo della vita psichica o semplicemente una facoltà mentale, rimarrebbero fino ad un certo punto nella tradizione originaria, se non mutassero una facoltà il cui unico obiettivo è di comunicare con il divino in una facoltà il cui obiettivo è la conoscenza razionale. La funzione dello Spirito per San Paolo, che dà così tutto il suo valore al significato primitivo, è proprio di rivelare ciò che non può raggiungere la sapienza degli uomini conformemente alle parole di Isaia: «Io distruggerò la sapienza dei sapienti e distruggerò l'intelligenza degli intelligenti». [7]
Ci resta da sapere se lo status divino si opponga allo status umano come lo status immateriale ad uno status materiale, vale a dire se nel cristianesimo primitivo le cose spirituali si oppongano alle cose non spirituali come le cose immateriali a cose materiali, come si dice oggi che l'anima si oppone al corpo, se infine la spiritualità sia, nel cristianesimo primitivo, la negazione della materialità.
Non è utile ricercare qui quali idee gli scrittori dell'antica Bibbia si facessero della corporalità di Jahvé, degli dèi pagani, degli angeli o dei demoni. Atteniamoci al cristianesimo primitivo. Abbiamo visto San Paolo esporre ciò che diventeranno i fedeli dopo la resurrezione. Essi saranno spiritualizzati. Ma in che consisterà la cosa? A perdere il loro corpo per diventare esseri immateriali? Per nulla. I loro corpi saranno semplicemente trasformati; da corruttibili e mortali, diventeranno incorruttibili e immortali; da terreni, diventeranno celesti. [8] Ciò che chiamiamo materia non perisce; si purifica. Più esattamente, passa dallo stato corruttibile e mortale che è distrutto allo stato incorruttibile e immortale che non perirà. La spiritualizzazione consisterà nel fatto che dopo essere stata (nel suo stato corruttibile) animata dal soffio animale che è l'anima, sarà (nel suo stato incorruttibile) animata dal soffio divino che è lo Spirito.
Soffermiamoci su questo fatto, che non è minimamente conosciuto se non dagli specialisti e che sembra essere profondamente ignorato tanto dal pubblico letterato quanto dalla maggior parte delle persone, anche istruite, che sono rimaste attaccate al cristianesimo.
La serie Nefes, ψυχή Anima e Anima, parallelamente alla serie Ruah, πνεῦμα, Spiritus e Spirito, ha per punto di partenza, altrettanto bene come quest'ultima, l'idea di soffio; e, infatti, vediamo frequentemente, nei vari libri della Bibbia ebraica e della Bibbia greca, Ruah e Nefes, πνεῦμα e ψυχή, prendersi l'uno per l'altro con sfumature difficili da discernere. Una tendenza però si fa luce, [9] che porta, negli scritti del cristianesimo primitivo, a comprendere la ψυχή come il «soffio animale», si potrebbe quasi dire: il soffio vitale, vale a dire semplicemente la vita. Quando Gesù dice che colui che vuole salvare la propria anima (la sua ψυχή) la perderà, [10] egli parla di chi vuole salvare la propria vita. È in quell'accezione di «soffio animale» che San Paolo impiega comunemente ed esplicitamente il termine ψυχή e, da grande scrittore quale è sempre, gli conferisce ogni sua portata opponendolo nettamente e categoricamente al πνεῦμα. Esistono, per lui, due soffi: il soffio animale che anima i corpi durante la vita e perisce nella morte, e questo è l'anima; e il soffio divino che animerà i corpi risorti ed è immortale, e questo è lo Spirito di cui prima della resurrezione riceviamo solo la «caparra». I testi sono espliciti. Paragonando il corpo che muore al grano che si semina nella terra:
«Esso è seminato in corruzione e risorge incorruttibile», scrive; «è seminato corpo psichico (animato dall'anima) e risorge corpo spirituale (animato dallo Spirito); vi è un corpo psichico e vi è un corpo spirituale». [11]
Così sarà possibile comprendere la frase famosa: «La carne e il sangue non erediteranno il regno di Dio, né la corruzione erediterà l'incorruttibilità». [12] Cosa intende per la «carne»? Cosa intende per il «sangue»?
Per quel che è della carne, nessun dubbio: è il corpo nello stato in cui lo conosciamo quaggiù; è il corpo nel suo stato perituro.
Per quel che è del sangue, si deve credere, come si fa generalmente, che San Paolo dia al termine lo stesso significato che ha quello di carne, vale a dire che l'espressione «la carne e il sangue» sia un brutto pleonasmo? San Paolo era troppo scrittore per cadere in questa verbosità, anche se l'uso ne era comune attorno a lui. In cosa dunque il sangue sarebbe, in quella espressione, altra cosa rispetto alla carne? Non ignoro che il termine è generalmente impiegato, nelle epistole come in tutto il Nuovo Testamento, nella sua accezione esatta e concreta; ma San Paolo non gli darebbe qui un tutt'altro valore?
Secondo una credenza diffusissima nell'antichità, non solo il sangue è la sede dell'anima che anima il corpo, ma è assimilato all'anima stessa. L'antica Bibbia è al riguardo esplicita; l'anima (la Nefes) di una carne, vi è detto, è la stessa cosa del suo sangue; il vostro sangue è la stessa cosa delle vostre anime; [13] altrove, c'è una definizione esplicita: «l'anima (la Nefes) della carne è il suo sangue». [14]
San Paolo ha dunque potuto dare qui al termine «sangue» il significato biblico che doveva sollecitare il suo genio di scrittore molto più del significato usuale, e con l'espressione «la carne e il sangue», invece di cadere in un grossolano pleonasmo, ha potuto intendere «la carne e l'anima», — quella carne e quell'anima che non erediteranno il regno di Dio.
Qualunque sia il significato che occorre dare all'espressione, l'idea è chiara. Al momento della morte, l'anima muore allo stesso tempo della carne che essa animava. Al momento della resurrezione, la carne risorge trasfigurata; ma l'anima non risorge, essa è sostituita dallo Spirito che d'ora in poi la animerà. Esattamente parlando, la spiritualizzazione consiste nell'annientamento dell'anima... Siamo abbastanza lontani dall'«anima immortale» in cui Alfred de Musset seppelliva il suo tesoro per portarlo a Dio!
Nella concezione che San Paolo e il cristianesimo primitivo hanno del corpo, dell'anima e dello Spirito, va vista una giustizia resa al corpo, la quale appare singolarmente significativa allorché si ricorda il disprezzo o piuttosto l'ostilità che ha testimoniato a riguardo di quest'ultimo il cristianesimo evoluto. In realtà, il cristianesimo primitivo non sembra concepire la possibilità di un'esistenza immateriale; se San Paolo geme per il suo involucro mortale, è perché attenda che si trasformi e non che sia annientato; [15] non più di quanto immagini l'anima animale al di fuori del corpo, non immagina che l'uomo possa ricevere lo Spirito se non nel suo corpo; il cosiddetto stato incorporeo in cui si troveranno gli eletti sarà semplicemente uno stato corporeo rinnovato. Se, riconciliandoci con la nozione scolastica di sostanza, ci ingaggiassimo nella vecchia disputa tra materialismo e spiritualismo, sembra che saremmo costretti a vedere in San Paolo, come in tutti i cristiani del primo secolo, un adepto del materialismo piuttosto che della dottrina contraria!
Il cristianesimo primitivo ignora l'opposizione tra ciò che è materia e ciò che è immateriale, perché non concepisce nulla al di fuori delle cose materiali, per quanto purificate, per quanto «pneumatizzate» possano diventare.
Fu solo nel secondo secolo, sotto l'influenza dell'ellenismo, che la dottrina dell'incorporeità degli eletti fu professata per la prima volta; e anche allora i tradizionalisti vi videro un'eresia e un'assurda eresia! [16]
La Chiesa doveva tentare di conciliare le nozioni contraddittorie dell'incorporeità e della corporalità degli eletti. Ma confondendo «anima» e «spirito», faceva cadere i versi 44-45 e la dottrina intera di San Paolo sulla deperibilità della prima e l'immortalità del secondo, il che permise ai teologi di dare soddisfazione ad Alfred de Musset e alla cosiddetta filosofia spiritualista.
Lasciando da parte un punto che non interessa direttamente il nostro argomento, constatiamo che, per San Paolo e il cristianesimo primitivo, la spiritualizzazione non è affatto la decorporalizzazione e, di conseguenza, che la spiritualità non implica affatto l'immaterialità. San Paolo conosce i corpi animati dalle anime e i corpi animati dallo Spirito; corruttibili o incorruttibili, avente anima o avente Spirito, riconosce sempre i corpi.
Per quel che è dello Spirito stesso, in quanto mezzo di comunicazione e di comunione tra Dio e i fedeli, senza dubbio non è più minimamente concepito nel primo secolo come un soffio fisico, e le rappresentazioni materiali che ne sono date sono il più spesso comprese come simboli, ma equivale ad andare contro le affermazioni più categoriche delle epistole identificare le cose spirituali alle cose incorporee e opporle alle cose corporee. Le sole cose alle quali la dottrina paolina identifica le cose spirituali sono le cose divine; le sole alle quali le oppone sono le cose che non sono di Dio.
Concludiamo. I fatti della storia delle religioni mostrano che la sostanzialità e altrettanto bene l'assimilazione dello Spirito a una facoltà della vita intellettuale, e altrettanto bene l'opposizione fondamentale stabilita dai filosofi antichi e moderni tra le cose spirituali e le cose materiali, sono dati estranei alle nozioni primitive espresse dalla parola ebraica, greca e latina che traduce la parola «Spirito», tanto quanto alle nozioni che sono state enfatizzate con l'instaurazione del cristianesimo e che ne hanno fatto la fortuna e la gloria.
Il significato si è evoluto, si risponderà. Se il significato di una parola si evolve, questo non dovrebbe essere in una direzione contraria al suo significato originario. Non si può che condannare un'evoluzione che trasforma la corporalità in incorporeità, la comunione con il mistero in conoscenza razionale.
Non abbiamo la pretesa di riformare un uso che, per essere errato, è consacrato da secoli. Vogliamo solo, dopo aver dimostrato che questo uso è errato, mostrare che un altro ne è possibile e oso dire più legittimo.
Non si tratta solo in effetti di definire correttamente la nozione che San Paolo si è fatta dello Spirito; su questo la maggior parte degli studiosi sarà d'accordo, salvo delle sfumature, e ci si potrebbe rimproverare solo di aver troppo insistito su questo punto e non su quest'altro. Si tratta di stabilire come sia permesso comprendere, definire lo Spirito dal punto di vista moderno, vale a dire interpretare sociologicamente i dati del cristianesimo primitivo. L'obiettivo della sociologia è di tradurre in termini moderni e laici le nozioni che sono state formulate un tempo in termini religiosi, e l'interesse ne sarà tanto più grande quanto queste nozioni hanno giocato nella Storia e continuano a giocare un ruolo più importante. L'uomo esprime i suoi bisogni con il linguaggio, con le idee, con le credenze del suo tempo; sotto un linguaggio, sotto le idee, sotto le credenze che non sono più le nostre, il nostro dovere è riconoscere ciò che questi bisogni hanno avuto di essenziale, vale a dire ciò che avevano di veramente umano, e in cosa corrispondono ai nostri, con qualsiasi diverso simbolo si rivestano. A quale nozione secolare, a quale nozione moderna, a quale nozione contemporanea corrisponde la nozione che il cristianesimo primitivo ha avuto dello Spirito?
Quella questione, Durkheim non l'ha trattata; benché abbia a più riprese [17] intravisto una certa «iper-spiritualità» rilevante specialmente per la vita sociale, egli ha lasciato alla parola «Spirito» il significato di organo della vita psichica comunemente usato nella filosofia moderna. Seguendo il metodo che è riuscito a imporre alla sociologia, noi tenteremo di risolvere il problema traducendo «in termini moderni e laici» le formule del cristianesimo primitivo.
L'interpretazione sociologica che proponiamo della nozione di Spirito si deduce da alcune delle tesi che sono alla base della sociologia e che i nostri lettori ci hanno visto enunciare più volte nel corso della presente opera. È evidente che sarà impossibile per chiunque non li accetti seguirci nelle conseguenze che ne deduciamo; ma non è forse lo stesso ogni volta che i principi sui quali ci si basa sono materia di discussione, cioè pressappoco in tutti i casi?
La prima di queste tesi, che non è minimamente contestata oggi, vuole che una società, lungi dall'essere la somma degli individui che la compongono, sia una realtà specifica, un essere morale avente in quanto tale la sua esistenza propria.
La seconda, che sarà evidentemente contestata ma che sembra essere stata stabilita da Durkheim, vuole che il dio di un gruppo sia il simbolo sotto il quale il gruppo si è concepito in quanto essere collettivo, detto altrimenti che le parole «Dio» e «Società» si corrispondono sociologicamente, altrettanto bene come quelle di «Sacro» e di «Sociale».
Posto ciò, basterà sostituire la parola «Dio», nell'esposizione della dottrina del cristianesimo primitivo, con la parola «società». Lo Spirito apparirà subito come il soffio, non più di una potenza personale, ma della Società stessa, vale a dire come il mezzo per cui quest'ultima si comunica in quanto essere collettivo a ciascuno degli individui che la compongono; dopo essere stato l'organo con cui il dio si manifesta ai suoi fedeli, sarà quello con cui la Società si fa sentire dai suoi membri; e sarà allo stesso tempo non più il veicolo che conduce da Dio ai fedeli e dai fedeli a Dio, ma quello che, con lo stesso movimento di andata e ritorno, sale e scende dalla coscienza collettiva a ciascuna delle coscienze individuali, oppure, se si preferisce, a ciascuna delle «persone» che compongono la collettività. Quanto alle cose spirituali, esse non si opporranno più come cose divine a cose umane, ma come cose sociali a cose individuali, e in nessun caso a cose materiali.
L'interpretazione che presentiamo smentisce quindi categoricamente le definizioni dello Spirito e della spiritualità correnti nella cosiddetta filosofia spiritualista, nella maggior parte dei filosofi moderni e nell'uso comune.
Non più di quanto non sia una sostanza in possesso di un'esistenza indipendente da quella del corpo, al quale sarebbe momentaneamente unita, esso non è un organo della vita psichica funzionante nell'individuo indipendentemente dalla Società. Dei tre regni che distingue la sociologia, il regno biologico, il regno psicologico e il regno sociale, appartiene al terzo.
San Paolo opponeva allo Spirito, venuto da Dio, la scienza tutta umana dei sapienti; io vedo nello Spirito lo strumento della conoscenza intuitiva, in opposizione alla Ragione, strumento della conoscenza razionale. Così, lo Spirito sarebbe perfettamente lo strumento che si è creato il Sociale. Per mezzo dello Spirito, i primi cristiani entravano nella comunione divina; traduciamo; per mezzo dello Spirito, i membri del gruppo prendono coscienza di far parte di una società, vale a dire di essere altra cosa rispetto ad animali ammassati, in opposizione alla consapevolezza che prendono ciascuno della propria individualità. Penetrazione dell'uomo da parte del soffio di Dio; traduciamo; manifestazione, in ciascuno dei membri del gruppo, dell'inconscio collettivo, o piuttosto, risalita dell'inconscio collettivo alla coscienza di alcuni e di là al resto del gruppo.
Non opponiamo le cose dello Spirito alle cose materiali; opponiamo gli interessi dello Spirito, in quanto interessi universali, agli interessi individuali. Interessi materiali come pure interessi immateriali, basta, perché rientrino nella competenza dello Spirito, che siano quelli del grande essere morale che è la Società. Nell'opposizione tra ciò che è e ciò che non è spirituale, percepiamo solo un aspetto del conflitto che rinasce a tutte le epoche tra il Sociale e l'individuo in cui è scomparso il sentimento della parentela collettiva e che quindi ritorna all'animalità, fosse anche ad un'animalità civilizzata... telefono, aviazione, guerra chimica, non temiamo di ripetere la formula.
La spiritualizzazione, che per San Paolo era al suo supremo grado il passaggio dallo status umano allo statuto divino, è quindi, per il sociologo, il passaggio dallo status animale e individuale allo statuto sociale. Spiritualizzare gli uomini non equivale a far loro dimenticare che hanno un corpo o invitarli a disprezzarlo, equivale a ricordare loro che fanno parte della Società, vale a dire che sono uniti tra loro dai legami di una parentela che non è la parentela fisica. La famiglia naturale, cara a Paul Bourget, non appartiene all'ordine della spiritualità; sola vi appartiene l'istituzione nata con il clan preistorico per mezzo del quale i primi uomini si sono riconosciuti della stessa carne. Se la rigenerazione di una società decaduta deve consistere in una reintegrazione della parentela tra gli uomini, la società condannata a morte che risorge diventa la società rigenerata in cui gli uomini si ritrovano parenti; la spiritualizzazione degli uomini è la reintegrazione del Sociale.
Queste nozioni ci permetteranno di precisare cosa si può intendere per vita nello Spirito e per ministero dello Spirito.
La vita nello Spirito è, per San Paolo, l'identificazione dei santi con il Signore; essa è, per il sociologo, l'identificazione dei grandi rivoluzionari con la Società che incarnano. Il ministero dello Spirito si esercita, secondo San Paolo, quando l'uomo si consacra al servizio del Signore; esso si esercita, secondo la sociologia, quando, non contento di incarnare il Sociale, l'uomo si consacra a reintegrarlo attorno a sé, vale a dire a reintegrare attorno a sé la parentela primitiva che è il fondamento e la ragion d'essere della Società.
Lo Spirito che anima i primi cristiani è sociologicamente la stessa cosa dello Spirito come lo concepiamo oggi che anima i grandi rivoluzionari, poiché, derivato da Dio secondo San Paolo, e secondo noi derivato dal Sociale, è l'organo per mezzo di cui, secondo San Paolo, Dio si fa sentire dai suoi eletti, e per mezzo di cui, secondo noi, l'inconscio della Società si fa sentire dai grandi rivoluzionari, e che va fino a divinizzare quest'ultimi, proclama San Paolo, e, diremmo allo stesso modo, fino a incarnarsi in quest'ultimi, cosa che è la definizione qui data della grandezza.
Ho il diritto di pensare che quella interpretazione sociologica della nozione di Spirito illumini e riassuma la dottrina che mi sforzo di esprimere in termini intelligibili?
Principalmente, vi è lo Spirito, vale a dire che l'uomo è uomo solo in quanto essere sociale, ed è sociale solo per la sua coscienza che prende di esserlo, — cosa che è opera dello Spirito. All'inizio dell'uomo vi è la coscienza che prende di essere della stessa carne dell'uomo.
In seguito, quando quella coscienza si estingue, quando l'individualismo (vale a dire l'insubordinazione dell'animale contro la collettività) ha dissolto il legame sociale, chiamo Rivoluzione l'atto categorico con cui l'uomo distrugge la società da cui la parentela scompare e ne crea una nuova dove la parentela rifiorisce, — cosa che è ancora l'opera dello Spirito, dello Spirito con cui l'uomo riprende coscienza che egli è della stessa carne dell'uomo.
È tale è l'operazione di cui la prima generazione cristiana ha formulato il programma sotto le specie del mito rivoluzionario del dio che muore al fine di risorgere.
NOTE
[1] Si vedano, comunque, le indicazioni sommate date a questo tema nelle nostre precedenti opere e in particolare Demain, ici, ainsi, la Révolution, pagine 8 e seguenti.
[2] Représentations individuelles et représentations collectives, in Sociologie et Philosophie, 13.
[3] Non avendo affatto per scopo di studiare la nozione di spiritualità attraverso le età, ci asterremo dal riunire e dal discutere riferimenti relativi a punti generalmente accettati che non sono l'oggetto diretto della nostra ricerca. Ci asterremo anche dal ricercare l'influenza che le concezioni che si riscontrano nelle religioni pagane e nella filosofia greca hanno potuto esercitare sul cristianesimo primitivo, e in particolare su San Paolo, e ci limiteremo a prendere la nozione di spiritualità così come si presenta in quest'ultimo, a rischio di dare a quest'ultimo capitolo dimensioni che esso non comporta.
[4] 2 Corinzi 3:17.
[5] In un dramma che ha voluto essere un'interpretazione piuttosto che una ricostruzione, ho azzardato i termini «divinizzato» e «divinità» per esprimere queste nozioni di spiritualizzazione e di spiritualità. Si veda la prefazione al Mystère du dieu mort et ressuscité, pagina 14.
[6] 2 Corinzi 5:5; ripreso dallo Pseudo-Paolo da 1:22.
[7] 1 Corinzi 1:18 e seguito.
[8] 1 Corinzi 15:40 e 52-53.
[9] Il signor René Dussaud ritiene antica la discriminazione: secondo l'eminente studioso, la Nefes sarebbe stata primitivamente «l'anima vegetativa» e la Ruah «l'anima spirituale».
[10] Matteo 16:25 e paralleli.
[11] 1 Corinzi 15:44-45.
[12] 1 Corinzi 15:50.
[13] Genesi 9:4 e 5.
[14] Levitico 17:14; il testo ebraico di 11 recita «è nel suo sangue», ma avendo la Septuaginta tradotto «è suo sangue» come per il verso 14, non c'è motivo di credere che il verso 14 sia primitivo; è in ogni caso il testo che conosceva San Paolo, poiché leggeva la Bibbia in greco e non in ebraico.
[15] 2 Corinzi 5:1-4
[16] San Giustino, Dialogo 80:4; Sant'Ireneo, Haer. 5 quasi per intero.
Ritornando alla dottrina primitiva, un giovane scrittore protestante appartenente al gruppo personalista, il signor Denis de Rougemont, professa che l'anima muore con il corpo, Esprit, dicembre 1934, pagina 380. Si leggeranno, in un successivo numero della stessa rivista, le ragioni di ordine teologico su cui poggia la sua opinione.
[17] In particolare, Représentations individuelles, ibidem, pagina 48.
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