lunedì 18 aprile 2022

LA PRIMA GENERAZIONE CRISTIANAIL DIO SACRIFICATO

(segue da qui)


IL DIO SACRIFICATO

C'è bisogno di avvertire questa volta ancora che il sacrificio primitivo, che è al centro dei nostri studi, è il sacrificio in senso proprio?

Il sacrificio in senso proprio è una distruzione rituale; consiste più spesso nell'immolazione rituale di una vittima viva. Il significato derivato è quello che dà ad una morte non rituale il valore di un sacrificio propriamente detto; così, secondo i critici razionalisti evemeristi, l'esecuzione giudiziaria di Gesù ordinata da un procuratore romano avrebbe preso per San Paolo il valore di un autentico sacrificio che essa non sarebbe stata affatto. L'accezione figurata corrente è quella in cui si dice di qualcuno che ha fatto il sacrificio della sua vita; Gesù, accettando la morte come conseguenza della sua opera, avrebbe così sacrificato la sua vita.

Il sacrificio in senso proprio è dunque quello alla maniera antica, come è descritto, per esempio, nell'Iliade, nei tragici greci, in Tito Livio, nella Bibbia. Agamennone fa avanzare un bue senza macchia che viene sgozzato; oppure è la sua propria figlia che offre ad Artemide; Mosè immola all'Eterno armenti interi. Così si ottengono i favori divini.

Il signor Homais si stupirà che gli uomini abbiano potuto abbandonarsi in tali stravaganze; anche Voltaire se ne è stupito; e anche Renan.

«Il sacrificio», ha scritto quest'ultimo, «è l'errore più antico, più grave e più difficile da sradicare tra quelli che ci ha lasciato in eredità lo stato di follia che l'umanità attraversò nelle sue prime età». [1

Noi stessi ci stupiremo di riscontrare quella incomprensione in una mente del valore di Renan, se non facessimo, per non adattarci alla mentalità del Secondo Impero, lo sforzo che l'illustre studioso non ha voluto fare per adattarsi a quella degli antichi e dei primitivi.

A Renan, a Voltaire e al signor Homais, non opporremo dunque le risposte che danno gli studiosi cattolici, protestanti o israeliti, le quali appartengono all'apologetica, ma quella della sociologia, e cioè «che un'istituzione umana non può basarsi sull'errore e la menzogna, senza cui non avrebbe potuto durare»; [2] il problema consiste proprio nel comprenderne la ragion d'essere. 

La società sembra essere nata dal sentimento che i membri dei primi gruppi umani hanno avuto di appartenere alla «stessa carne», vale a dire di essere legati tra loro dai vincoli di una parentela che non era la parentela naturale. Chiunque abbia studiato le civiltà primitive sa che, se l'uomo ha sempre potuto conoscere sua madre, è rimasto a lungo senza stabilire una correlazione tra l'atto riproduttivo e la sua nascita, e si è creduto a lungo il figlio di esseri immaginari; è su quella parentela mistica che si è fondato il clan, prima forma della società, e non sulla famiglia naturale, non dispiaccia a tanti scrittori di «sinistra» come pure di «destra». A poco a poco e più tardi, quella parentela mistica si è espressa nella credenza che i membri di ciascun clan fossero discesi da uno stesso antenato (più spesso, un antenato animale) che sembra così essere diventato il loro dio; ma ben prima che gli dèi siano apparsi, e forse fin dagli inizi stessi della società, il sacrificio era praticato.

Di fatto, il sacrificio è stato probabilmente il primo mezzo che gli uomini hanno trovato per mantenere il legame sociale, quando, avendo preso coscienza di essere un gruppo, hanno preso egualmente coscienza delle cause di rovina che pesavano, non solo su ciascuno di loro individualmente, ma sulla collettività, e hanno tentato di reagire. Così, l'uomo usciva dall'animalità e si affermava essere sociale.

Ma quell'opera, è evidente che non la realizza che con i suoi mezzi di primitivo e conformemente alla sua mentalità di primitivo... siamogli indulgenti; non ha frequentato un'Università; non ha nemmeno letto Renan...

Il primitivo non ha alcuna nozione di ciò che chiamiamo le leggi naturali; nulla di ciò che accade, si immagina, accade se non per cause mistiche; la sua freccia ucciderà il nemico solo se il suo mana è più forte del mana del nemico; l'atto utile, mirare al nemico, è per lui secondario ed egli lo esegue solo secondariamente. Il primitivo descritto nei romanzi preistorici, sorta di animale superiore che ignora ogni pratica religiosa e che avrebbe vissuto magnificamente nell'utile, nel concreto, nel ragionevole, è un essere di fantasia; il vero primitivo ha vissuto, al contrario, nell'ossessione di ciò che per noi è il soprannaturale, o piuttosto nella totale incapacità di distinguere tra ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale. Nelle cose della vita quotidiana, l'istinto lo guiderà; la ragione in lui è embrionale; pensa solo nell'irrazionale.

Non solo tutti i fatti appartengono, per il primitivo, all'ordine magico-religioso, ma egli non fa differenza tra i fatti morali e i fatti fisici e li tratta allo stesso modo. Ci vorranno secoli e secoli all'uomo per ammettere che la malattia, per esempio, non è una persona che viene e che se ne va e che si potrebbe cacciare a colpi di bastone; e si oserà dire che quella concezione sia interamente scomparsa dalla nostra Europa del ventesimo secolo? Ciò che per noi è simbolo è per il primitivo realtà. Di fatto, egli pensa in simboli; la psicoanalisi conferma qui la sociologia; le procedure dei primitivi e, fino ad un certo punto, di ogni seguace di una religione, sono simboli in azione. La teologia cattolica non definisce i sacramenti: riti simbolici di un'efficacia soprannaturale? Saremo tanto più «indulgenti» verso il primitivo, poiché la sua mentalità, lo si vede, si è perpetuata (tutte le cose messe al loro posto) non solo nella mentalità popolare, ma anche nella mentalità religiosa come esiste ancora oggi tra i veri credenti.


Al seguito di Durkheim, riconosciamo all'origine [3] tre grandi varietà di sacrificio. Per mezzo del sacrificio della Comunione, il primitivo rafforza e rinnova il legame sociale; questo è ciò che spiegheremo nella penultima sezione di questo capitolo. Per mezzo del sacrificio di Espiazione, [4] sul quale ci soffermeremo innanzitutto, egli annienta le cause di rovina che minacciano il gruppo. Passeremo in seguito al sacrificio d'Offerta.

Tra i sacrifici di Espiazione, il sacrificio di Eliminazione, il più caratteristico e probabilmente il più antico, ha per oggetto, nella sua forma primordiale, l'eliminazione delle trasgressioni che pesano sulla comunità; queste trasgressioni che rovinano l'integrità del gruppo, il primitivo le tratta come tratterebbe gli oggetti materiali. Seguendo un simbolismo materialmente realistico preso alla lettera, egli le trasferisce su una sorta di Capro Espiatorio, come ci si sbarazza di un fardello gettandolo sulle spalle del vicino; ma l'operazione è completa solo se, per meglio sopprimere il fardello, si abbatte nel contempo il vicino. Il sacrificio di Eliminazione, quello a cui, sotto la sua forma modernizzata, si riferiscono quasi esclusivamente le epistole di San Paolo e che governa il cristianesimo, è l'operazione che consiste proprio in questo: scaricare le trasgressioni sulla testa di una vittima; si distruggono le trasgressioni immolando la vittima. San Paolo insegna che Gesù si è caricato dei peccati del mondo, affinché questi morissero con lui sulla croce.

Inconcepibile aberrazione, gridano ad una sola voce Voltaire e Renan, come pure il signor Homais!... Sia! ma quella aberrazione è il primo tentativo che l'uomo ha fatto per non ritornare all'animalità.

Con il sacrificio del dio (e tale è precisamente il caso della messa a morte di Gesù secondo San Paolo) il sacrificio raggiunge il culmine del suo valore.

Nelle religioni che abbiamo in vista, nel cristianesimo stesso, non si immola un animale in onore di un dio; il dio stesso è immolato.

Non ci sono dèi all'origine delle società, e l'uomo ha avuto per molto tempo la nozione solo di forze indeterminate e beninteso impersonali; gli dèi, abbiamo detto pocanzi, sembrano essere nati, a poco a poco e seguendo una lenta evoluzione, sotto le specie di antenati mitici, dalle forme più spesso animali, da cui il clan si è creduto derivato e che presto incarnarono le forze della natura nello stesso momento in cui continuavano a incarnare quest'ultima. [5] Ma non appena sotto queste forme o sotto altre egli ebbe gli dèì, l'uomo comprese che la loro funzione essenziale e magnifica era di essere sacrificati, cioè di morire, di rivivere e di morire ancora, a suo beneficio e indefinitamente, al ritmo della perpetuità.

Si sa in cosa il fatto consisteva nelle società primitive. Fintantoché il dio ha la forma di un animale, si sacrifica il dio sacrificando l'animale; allorché il dio è il re o il sacerdote del clan, tanto peggio per il re o il sacerdote! immolandoli, si immola il dio, fino al giorno in cui la benedetta legge di Sostituzione fornisce dei surrogati. 

In cosa dunque l'immolazione del dio risponde meglio dell'immolazione di una vittima qualunque alle necessità sociali della società primitiva? Ammiriamo con quale sicurezza il pensiero irrazionale ha fatto la sua opera e come, per parlare un altro linguaggio, l'inconscio umano ha risolto un problema che la ragione, in queste epoche della preistoria, non sarebbe nemmeno stata capace di porre. Ma ciò stesso non può essere compreso se non si è afferrato nella propria intelligenza e sentito nel proprio cuore come il dio-antenato, nello stesso tempo in cui è diventato la ragion d'essere e il simbolo della parentela che è alla base del clan, sia diventato la personificazione, come dire l'anima del clan.

Il dio, ha insegnato Durkheim, è la società stessa personificata. 

Tramite il sacrificio del suo dio, il gruppo si libera sé stesso e da sé stesso dalle cause di rovina che lo minacciano, poiché la persona che ha incaricato del compito non è in ultima analisi che la sua stessa personificazione. Ma quel significato, quella immensa portata del sacrificio del dio, si intende solo se, come si spiegherà, la messa a morte ha per scopo e per effetto la resurrezione.

Riconosciamo in ogni caso sin d'ora una prima giustificazione del principio che è alla base del sacrificio primitivo: ciò che accade al dio accade ai fedeli. Il cristianesimo non ha altro fondamento, e San Paolo lo ha espresso nel modo più esplicito, più chiaro e più categorico. Gesù è stato messo a morte, è stato sepolto ed è risorto, affinché con lui e come lui i cristiani morissero, dormissero nella tomba e risorgessero.

I primitivi operano sul dio ciò che inconsciamente vogliono operare sul clan.

Lo scopo profondamente, essenzialmente sociale del sacrificio mal si spiegherebbe, se sin d'ora però non si percepisca l'efficacia di quest'ultimo. Queste «ignobili e stupide» pratiche, come parla Frazer, queste «stravaganti» pratiche, come parla il signor Homais, erano così eminentemente sociali che riuscirono... Esse riuscirono, altrimenti non avrebbero persistito per tanti secoli... Riuscirono, non producendo il risultato materiale che ci si aspettava a volte, ma quello, tutto morale, che era precisamente il loro scopo profondo. Il clan era rinnovato dal fatto che si credevano le trasgressioni abolite, — allo stesso modo in cui il pagano convertito doveva sentirsi e di conseguenza era rigenerato quando riceveva il battesimo, — allo stesso modo in cui oggi il credente si sente e di conseguenza è rigenerato quando riceve l'assoluzione.


La resurrezione. — Il termine «resurrezione» si intende oggi del ritorno di un morto alla vita. Alcune leggende rappresentano persone che hanno la fortuna (Léon Dierx diceva: che hanno la sfortuna) di uscire dalla loro tomba e di riprendere il corso dell'esistenza; così il quarto vangelo racconta la resurrezione di Lazzaro. Lazzaro è morto; da quattro giorni giace nella tomba; jam foetet, accentua il testo; alla voce del possente taumaturgo, «egli uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. E Gesù disse: scioglietelo e lasciatelo andare». [6

La buona gente non intende altrimenti una resurrezione, e i signori e le signore che sono passati per qualche scuola ridono di queste storielle di vecchie donne.

Ora, bisogna sapere che la resurrezione non ha affatto quel significato nelle religioni primitive, né nelle religioni misteriose dell'antichità, [7] né nel cristianesimo primitivo stesso. Tutte queste religioni sono ricolme dell'idea di sopravvivenza; ma mai la resurrezione dei loro dèi vi assume l'aspetto di un semplice ritorno alla vita, tipo Lazzaro.

Nelle religioni primitive, la resurrezione esprime semplicemente un nuovo inizio analogo a quello della natura in primavera, e concerne più spesso il rinnovamento della vegetazione e delle specie; ma, allo stesso tempo che nuovo inizio, essa è un rinnovamento. Nel sacrificio di Eliminazione, il dio resuscita liberato dalle cause di rovina che pesavano sul gruppo e di cui era stato caricato. Indebolito, invecchiato, minacciato di decadenza, resuscita ringiovanito. Così la resurrezione è il complemento o piuttosto l'oggetto del sacrificio; il dio è messo a morte al solo fine che resusciti, ma che resusciti liberato, ringiovanito, rigenerato.

Allorché il dio ha forma animale, la resurrezione si opera, non evidentemente con il ritorno alla vita dell'animale immolato né con un simulacro di questo ritorno, ma in quanto lo stesso animale rivive nei suoi simili, ma rivive ringiovanito, rinnovato, rivificato. La stessa cosa allorché il dio ha forma umana; l'uomo-dio sacrificato rivive, rinnovato, in un altro uomo-dio che lo sostituisce; così, la messa a morte del re-sacerdote di Nemi aveva per scopo di sostituire un re-sacerdote invecchiato e indebolito con un altro pieno di giovinezza e di forza. In realtà, è il dio stesso che ottiene il rinnovamento della sua giovinezza e della sua forza.

L'idea di rinnovamento doveva condurre a quella di glorificazione, che si trova più o meno nelle religioni misteriche. Dioniso e Osiride, per citare solo certi casi, rinascono, non solo rinnovati, ma glorificati; morti alla vita terrena, risorgono nella vita divina; morti con corpi terreni, risorgono con corpi celesti. Questo è esattamente ciò che San Paolo esporrà di Gesù, il dio che ritrova nella resurrezione la forma divina che aveva momentaneamente abbandonato per farsi crocifiggere sotto forma umana. Non vi è là altra cosa che l'antico rinnovamento più perfetto, una rigenerazione definitiva. La glorificazione è l'ultimo stadio del processo che comincia con il rinnovamento. 

Morire e risorgere, ma morire al fine di risorgere, tale è dunque il ciclo che percorrono gli innumerevoli dèi «morti e risorti» che presenta la storia delle religioni. Non dimentichiamo però che l'avventura divina è il simbolo e il pegno dell'avventura umana; ciò che accade al dio accade ai fedeli; il dio conduce i fedeli con sé nelle peripezie per le quali passa;  i fedeli partecipano al divino viaggio; essi muoiono con il dio e risorgono con lui, e risorgono ringiovaniti, liberati, rinnovati, rigenerati. 

Non si tratta dunque, nella resurrezione così concepita, di  una leggenda che racconta che il dio, dopo aver avuto la sfortuna di morire, ha avuto la possibilità di rinvenire alla vita. Si tratta di due riti sacrificali; un rito di messa a morte, un rito di resurrezione; la messa a morte è praticata solo in vista della resurrezione; la resurrezione del dio è al contempo la condizione, l'immagine e lo strumento della resurrezione dei suoi fedeli; il dio muore e risorge solo affinché in lui, con lui e per mezzo di lui, la società umana si rinnovi. Così gli dèi fanno il loro mestiere di dèi; e così Gesù ha fatto il suo al cento per cento.


Anticipando il seguito di questi studi, tenteremo di vedere da ora in che modo è sociologicamente possibile intendere la risurrezione di Gesù, come la implicano le epistole di San Paolo, nonché alcune delle tradizioni riprese nei vangeli. Allo stesso modo penetriamo così più profondamente il significato della risurrezione in sé stessa.

Gli studiosi evemeristi e, mediante certe sfumature, gli studiosi cattolici professano che la messa a morte di Gesù sia stata l'esecuzione di un fermo giudiziario pronunciato dalle autorità romane contro un uomo accusato di fomentare disordini; gli studiosi razionalisti aggiungono che i caratteri sacrificali che presenta in ogni evidenza quella cosiddetta esecuzione giudiziaria sono aggiunte. Abbiamo dedicato un'importante parte del nostro primo volume [8] a spiegare che, tutt'al contrario, la tradizione dell'esecuzione giudiziaria è aggiunta e che la tradizione sacrificale è primitiva, detto altrimenti, che la messa a morte di Gesù è all'origine un sacrificio cultuale in senso proprio.

Supponiamo un istante, come vorrebbero le tesi tradizionali o razionaliste, che Gesù sia stato un agitatore religioso che le autorità avrebbero condannato al supplizio della crocifissione e che sarebbe morto sulla croce. Si tratta pertanto di spiegare come i suoi discepoli hanno creduto alla sua resurrezione. La cosa, a dire il vero, non presentava alcuna difficoltà per gli studiosi cattolici; essendo Gesù realmente uscito dalla tomba, era del tutto naturale che i suoi discepoli credessero alla realtà di un evento che si era veramente verificato.

Va del tutto diversamente per i razionalisti evemeristi che, senza ammettere la storicità di tutti i dettagli dei racconti evangelici, ammettono la storicità della sostanza. Come, dal loro punto di vista, i discepoli hanno potuto credere nella resurrezione del loro maestro, se quella resurrezione non è stata una realtà? E gli studiosi cattolici trionfano nel provare l'improbabilità delle spiegazioni che si presentano loro.

Renan, che sapeva così bene, quando la cosa lo divertiva, beffarsi del suo pubblico, ha professato che la credenza nella resurrezione è stata opera dell'amante disperata che si immaginò di rivedere colui che aveva amato. Si ricordi il brano dove l'illustre maestro spiega come «la gloria della resurrezione appartiene a Maria di Magdala», [9] e l'incredibile frase che sembra una sfida:

Potenza divina dell'amore! Momenti sacri in cui la passione di una allucinata dà al mondo un Dio risorto! [10]

È deplorevole, per la tesi di Renan, che San Paolo, nella lista che presenta dei testimoni della resurrezione, abbia dimenticato la bella peccatrice; ma accettiamo la leggenda... Il cristianesimo, quella immensità, non sarebbe nato se Maria Maddalena fosse stata meno innamorata. Si pensi al dramma di Maurice Maeterlinck che espone che, essendo Maria Maddalena innamorata del nipote di Pilato, questi le avrebbe accordato la grazia del condannato, se lei avesse acconsentito a coronare la sua fiamma. A cosa sarebbe servita la rivoluzione che rovesciò da cima a fondo la società antica!

Quando i razionalisti evemeristi spiegano la fede nella risurrezione di Gesù con la fede che i suoi discepoli avrebbero avuto in lui, contraddicono i racconti stessi di cui proclamano la storicità. Questi racconti, in effetti, ci ritraggono i discepoli di Gesù come se avessero in lui solo una fede delle più mediocri e l'abbandonassero al momento del pericolo: la sua morte sulla croce non smentiva, i nostri studiosi lo ripetono alla nausea, le speranze che avevano riposto in lui? Una fede così traballante è, per dirla tutta, ancora più incapace della passione di una donna innamorata a produrre un miracolo.

Nelle loro più recenti opere, i signori Guignebert, Goguel e Loisy, sentendo la difficoltà, hanno tentato, con la loro ordinaria maestria, di risolverla per mezzo del metodo psicologico. Per il signor Guignebert, «la fede nella risurrezione è risultata da una reazione, nella coscienza di Pietro e dei suoi compagni, della loro fiducia in Gesù, un momento repressa dal colpo inatteso dell'arresto e del supplizio del Maestro». [11] Per il signor Goguel, il «miracolo dell'amore» che adduce Renan è «il miracolo della fede che non ha potuto rassegnarsi ad accettare che un'immensa speranza fosse strappata a coloro che per qualche mese ne avevano vissuto». [12] Per il signor Loisy, «è il lavoro intimo della fede che ha resuscitato Gesù per coloro che dapprima avevano creduto in lui»; «la fede dei suoi discepoli nel suo avvenire messianico», spiega, «fu abbastanza forte da non smentire sé stessa, da non accettare la negazione che le aveva dato l'ignominia della croce». [13]

D'accordo sui princìpi, i tre eminenti studiosi arrivano a conclusioni analoghe passando per delle strade un po' divergenti... Ma, per essere sostenute da discussioni erudite e spesso penetranti, queste conclusioni rinvengono nondimeno a dare alla resurrezione la stessa base traballante di una fede di seconda, se non di terza categoria.

Accanto a queste spiegazioni psicologiche, e pur mantenendo la storicità della messa a morte di Gesù per ordine di Ponzio Pilato, certi studiosi hanno creduto di trovare nella credenza nella sua resurrezione l'influenza dei miti degli dèi morti e risorti delle religioni misteriche pagane. È stato riconosciuto, lo vedremo più oltre, che quella ipotesi, almeno sotto la forma in cui la presentava la scuola della Religionsgeschichte, era inammissibile. 

Se la credenza nella resurrezione di Gesù non può spiegarsi né con «la passione di una allucinata», né con la fede di discepoli così poco sani di mente, né con l'influenza veramente troppo sfuggente delle religioni pagane, non si spiega essa, al contrario, con la più manifesta facilità, se la resurrezione è il semplice complemento di un sacrificio espiatorio?

Supponiamo che gli uomini che dovevano essere, e che chiameremo per anticipazione i primi cristiani, abbiano visto un sacrificio espiatorio nella messa a morte di Gesù: crederanno nella sua resurrezione perché senza la resurrezione il sacrificio del dio è una vana pratica, perché il dio è stato messo a morte solo al fine di risorgere implicitamente o esplicitamente, perché infine Gesù non poteva non risorgere.

Di fatto, ad avviso degli studiosi cattolici e degli stessi studiosi razionalisti, Gesù risorto si manifesta nei vangeli, non sotto la forma di un cadavere rianimato che avvolge ancora il suo sudario, ma trasfigurato così com'è nella sua gloria; e nelle epistole, crocifisso «in forma d'uomo», risorge «in forma di dio».

Vedremo, in un successivo capitolo, che l'apparizione è tutt'altra cosa rispetto alla resurrezione; nulla impediva al dio di risorgere senza manifestarsi ai suoi; nulla impediva a costoro di crederlo risorto senza che sia loro apparso. Nella nostra ipotesi, i primi cristiani non crederanno alla resurrezione perché hanno visto (o creduto di vedere) Gesù risorto; lo avranno visto (o avranno creduto di vederlo) perché in anticipo lo hanno creduto risorto. Tutt'al più si potrà dire che, per un contraccolpo, l'apparizione ha conferito alla resurrezione la certezza di un fatto debitamente verificato.

Prendendo ancora una volta il punto di vista opposto alle asserzioni evemeriste, noi saremo indotti a concludere che essi non potevano non credere alla resurrezione di Gesù, vale a dire attenderla, vale a dire volerla, vale a dire crearla, dal momento che credevano che egli non fosse morto se non al fine di risorgere.

La questione è sapere come avevano potuto mantenere o ritrovare quella credenza. 


NOTE

[1] Histoire du peuple d'Israël, 1, pagina 52.

[2] Formes élémentaires de la vie religieuse, pagina 3. Più avanti (pagina 596), Durkheim spiega che la sociologia si basa su questo postulato, che è inammissibile che l'umanità abbia vissuto fino ai nostri giorni nell'aberrazione... il che, tradotto in linguaggio corrente, significa che la saggezza, il buon senso, la rettitudine delle idee, non è l'appannaggio esclusivo dei nostri contemporanei, come si sarebbe tentati di credere a giudicarne secondo quel che si svolge dal 1914 nel mondo civilizzato.

[3] Ricordo, per non aver da ritornarvi, la nota della pagina 18.

[4] Prendendo l'espressione nella sua accezione più generale e non in quella ristretta usata nel giudaismo: che la cosa sia egualmente detta una volta per tutte.

[5] La denominazione di «dèi» è riservata dal maggior numero degli studiosi per una fase ulteriore; abbiamo creduto di poter semplificare senza inconvenienti un po' le cose.

[6] Giovanni 11:17-44.

[7] Diamo, a pagina 34 e seguenti, ad uso dei lettori non specialisti, alcune precisazioni sulle religioni misteriche.

[8] Dieu Jésus, l'Albero della Croce; si veda sopra, pagina 6.

[9] Apôtres, pagina 13.

[10] Vie de Jésus, pagine 449-450 della 13° edizione.

[11] Charles Guignebert, Jésus, 1933, pagina 661.

[12] Maurice Goguel: La Foi à la résurrection de Jésus dans le christianisme primitif, 1933, pagina 394.

[13] Alfred Loisy: Naissance du christianisme, 1933, pagine 120 e 123.

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