venerdì 15 gennaio 2021

IL PUZZLE DEI VANGELIGesù e i Romani

 (segue da qui)

1° Gesù e i Romani

La morte di Gesù è datata, nei vangeli (ma non in Paolo), al tempo del procuratore Pilato, in Palestina  occupata dalle truppe romane. Quali echi di quella situazione troviamo nei testi? 

Ricordiamo brevemente gli eventi, che ho raccontato altrove. [6] La Palestina è restata libera per tutto il regno di Erode il Grande: senza dubbio quella libertà era più apparente che reale, ma Erode, alleato e amico di Roma, ha potuto evitare gli inconvenienti di un'occupazione militare. Alla sua morte, gravi disordini si verificano tra i suoi eredi, e gli ebrei ne approfittano per sollevarsi. In seguito al massacro della piccola guarnigione romana, il governatore di Siria Varo interviene con le sue legioni e fa crocifiggere duemila ebrei. Poi l'imperatore Augusto, confermando il testamento disastroso di Erode, approva la divisione del paese in tre parti. La Galilea viene messa nel lotto di Antipa, che continuerà ad amministrarla fino al 40, data in cui sarà esiliato da Caligola (con sua moglie Erodiade) a beneficio di suo nipote Agrippa.

Alla data in cui è ritenuto svolgersi il processo a Gesù, Erode Antipa regna in Galilea. È quindi plausibile, come minimo, che Pilato gli mandi un accusato galileo, come riporta Luca, [7] secondo il vangelo di Pietro, egualmente conosciuto da Giustino. Ma mal si comprende perché gli altri tre hanno soppresso questo episodio. 

Le cose si svolgono diversamente in Giudea. L'incapace Archelao è deposto da Augusto nel 6, e l'imperatore prende allora una grave decisione collocando la Giudea sotto l'amministrazione di un procuratore romano, Coponio. Quella annessione brutale, e il censimento preliminare all'istituzione del tributo che ne consegue, provocano una rivolta guidata da Giuda il Galileo. Essa fallisce, ma fino al 66, il paese resterà agitato, gli attentati si succederanno. Molti ebrei, tra cui il partito degli Zeloti, non accettano il pagamento del tributo a Roma, segno della servitù. Si attende un Messia che libererà la Giudea dall'occupazione romana. 

È quindi molto probabile che si ponga a Gesù la domanda insidiosa: «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?» [8] Secondo la sua risposta, egli si alienerà sia l'autorità occupante, sia il partito della resistenza. Si conosce la risposta famosa di Gesù: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio». [9] Si è contestata l'autenticità di questo episodio, facendo valere che non esisteva allora in Palestina una moneta coll'effigie dell'imperatore. È possibilissimo, in effetti, che la forma data al racconto, con la rappresentazione della moneta, sia un anacronismo del II° secolo. Ma la sostanza dell'aneddoto concorda benissimo con tutto il resto. 

Con il contenuto dei vangeli, in primo luogo. La risposta di Gesù è logicamente correlata alla tesi: «Il mio regno non è di questo mondo» [10] o «il regno di Dio è dentro di voi». [11] Numerosi passi dei vangeli testimoniano inoltre l'attesa imminente della fine del mondo, dell'avvento imminente del regno di Dio: da allora, a che pro preoccuparsi di questioni puramente temporali, quando tutto scomparirà?

La risposta concorda anche con la tesi essena, come ci è riportata da Giuseppe. Per gli Esseni la rivolta è inutile, poiché «è sempre per la volontà di Dio che il potere spetta ad un uomo», e «nulla accade agli uomini che non sia stato decretato». [12] Cosa importa del resto a chi appartiene il potere? L'essenziale è ottenere la salvezza della propria anima, e si può farlo altrettanto bene sotto la dominazione romana. Così si pensa generalmente che gli Esseni non abbiano preso parte alle rivolte contro l'occupante. [13]

Autentica o no, la risposta sul pagamento del tributo non è quindi una espressione isolata, essa si inserisce in un insieme, di origine probabilmente essena, che raccomanda l'indifferenza ai problemi temporali e il primato dello spirituale.

Purtroppo le cose non sono così semplici, e l'interrogativo non può mancare di porsi: la tesi sulla spiritualità del regno non è stata forse inserita nei vangeli dopo la sconfitta, e sostituita ad una precedente concezione opposta, quella del Messia trionfante e di un regno terreno che presupponeva la cacciata dei Romani? 

Quella tesi è stata sostenuta, e spinta all'estremo, da Daniel Massé, [14] che ha fatto di Gesù un capo zelota ribelle, figlio di Giuda il Galileo, e la cui natura autentica sarebbe stata distorta in tutti i testi. Sotto quella forma, la tesi è indifendibile, poiché suppone troppe complicità nello stravolgimento dei testi; per di più, l'autore può sostenerla solo su interpretazioni audaci o fantasiose. Ma è indiscutibile che la concezione del regno temporale ha lasciato tracce nei vangeli.

Come sarebbe stato altrimenti, se si tiene conto della diversità delle fonti? All'epoca della stesura dei vangeli, il problema non si pone più, la stessa rivolta di Bar Kochba è stata repressa, la dominazione romana è ben stabilita. Ma che una corrente contraria alla tesi della sottomissione sia esistita in alcune cosiddette sette cristiane, ne abbiamo la prova, in particolare con l'Apocalisse. Senza dubbio l'Apocalisse è, all'origine, un'opera ebraica, scritta durante la guerra e prima della rovina delle speranze ebraiche; ma il fatto che sia stata ripresa da un autore cristiano, e diffusa nelle comunità cristiane (o giudeo-cristiane) d'Asia Minore prova che, verso la fine del I° secolo, questo slancio non era dappertutto estinto. 

In senso inverso, si può far valere: 

— che, nella misura in cui il cristianesimo deriva dall'essenismo, ha dovuto fare sua la dottrina della spiritualità del regno;

— che, nella misura in cui il cristianesimo deriva da dottrine ellenistiche o gnostiche, non doveva avere alcuna ostilità verso i Romani; 

— che non si trovano nelle epistole di Paolo, comunque ben antecedenti, alcuna allusione ad una posizione anti-romana; 

— che i sinottici, anche se utilizzano scritti preesistenti, sono stati scritti a Roma dopo il 150, in un'epoca in cui la comunità cristiana gode della pacifica indifferenza delle autorità; 

— che infine, dopo essere stata attribuita a Pilato, la morte di Gesù è allora imputata agli ebrei. 

Queste varie influenze spiegano perché sussistono nei vangeli correnti contraddittorie; esse non permettono in nessun modo di fare di Gesù un capo di ribelli, precursore della rivolta ebraica. Il dio salvatore dell'ellenismo e della Gnosi, come il Cristo paolino che ne deriva, non ha nulla a che vedere con le speranze ebraiche e il partito degli Zeloti.

PILATO — Resta nondimeno il fatto che, nei nostri quattro testi, la morte di Gesù sarebbe stata ordinata dal procuratore Pilato. Il IV° Vangelo, su questo punto, è il più netto: Gesù è arrestato da una coorte comandata da un tribuno, [15] che può intendersi solo come forze romane di polizia; poi, senza alcuna comparsa davanti al Sinedrio (immaginata più tardi), egli è condotto al pretorio di Pilato, che lo manda alla morte. 

La comparsa davanti a Pilato deriva necessariamente dalla data ammessa per la morte di Gesù, al tempo di Tiberio: bastava consultare le opere di Flavio Giuseppe, ampiamente utilizzate dai nostri scrittori, per sapere che Ponzio Pilato governava la Giudea dal 26 al 36, e che era stato spietato. In seguito, si attenuerà il ruolo di Pilato, se ne farà un essere irresoluto, atteggiamento contrario alle informazioni della storia di questo governatore. Ma non si poteva ignorare che solo il governatore romano aveva il diritto di condannare a morte; non era quindi possibile scartare l'intervento di Pilato, tanto più che la crocifissione, supplizio romano, non poteva essere imputata direttamente alle autorità ebraiche. 

Detto altrimenti, la crocifissione di Gesù, collocata al tempo di Tiberio, imponeva l'intervento di un governatore romano, che non poteva essere che Pilato. Ma il modo in cui lo si fa intervenire nei vangeli è inverosimile, e contrario a tutto ciò che sappiamo di quest'uomo da Giuseppe e da Filone di Alessandria. È quindi molto eccessivo trarre dai testi evangelici la conclusione che «il Nazareno è stato arrestato dalla polizia romana, giudicato e condannato dal procuratore romano, Pilato o un altro». [16] La presentazione del supplizio di un dio è, per sua stessa essenza, estranea alle contingenze storiche; ma quando si vuole inserirlo nella storia, bisogna sforzarsi di dargli un minimo di credibilità. 

D'altro canto, sarebbe anche eccessivo fermarci alle difficoltà giuridiche, domandarci in virtù di quale testo Pilato avrebbe potuto condannare: in un paese in piena agitazione, l'esecuzione sommaria di un eventuale agitatore non sarebbe stata soggetta alle forme rigorose del diritto romano, e Pilato non era abbastanza formale, secondo quel che ce ne dice Giuseppe, per lasciarsi fermare da tali scrupoli, se si trattava di mantenere l'ordine nella città. 

Ma da una verosimiglianza superficiale, non si deve concludere la storicità del racconto, smentita da tanti episodi accidentali. Ciò che appare più probabile, è che ci si trovava in presenza di una prima versione, che attribuiva ai Romani e a Pilato la morte di Gesù; quella versione può provenire dagli Zeloti, o dal ricordo di alcuni insorti realmente messi a morte dai procuratori. Essa è di origine ebraica, e riflette ancora l'odio degli ebrei verso l'occupante romano: ecco perché essa si è conservata meglio nel IV° Vangelo, di origine orientale. 

Ma quando si scrivono i sinottici a Roma, i cristiani vivono in pace con le autorità romane. Se ci sono alcuni incidenti (e forse anche qualche martire?) in Oriente, la Chiesa di Roma gode della più ampia tolleranza; non ha alcun interesse ad alienarsi le autorità, riprendendo per suo conto una ribellione superata dagli eventi. Proprio al contrario, i cristiani parteciperanno all'anti-giudaismo, sorto dal conflitto in Palestina. In quella nuova prospettiva, era logico attenuare il ruolo di Pilato, e trasferire sulle autorità ebraiche la responsabilità della morte di Gesù. Questo capovolgimento artificiale si traduce con l'aggiunta di un impossibile processo davanti al Sinedrio (sconosciuto al IV° Vangelo), e coll'inserzione di una maledizione di tutta la discendenza ebraica, scagionando il procuratore. 

Nel loro desiderio di compiacere al potere e di attenuare il ruolo di Pilato, i nostri scrittori si spingeranno troppo lontano, fino all'inverosimile. In effetti, essi non fanno pronunciare da Pilato alcuna condanna. Con una commovente unanimità, l'armonizzazione dei vangeli dice soltanto che Pilato «consegnò Gesù perché fosse crocifisso». [17] Non si osa nemmeno sostenere che Pilato avrebbe dato un ordine di condanna, comunque necessario per legge, perfino in un processo sommario!

In Marco e Matteo, vediamo allora i soldati romani abbandonarsi a sevizie su colui che si ucciderà senza giudizio. Luca ha probabilmente giudicato troppo audace prestare una tale condotta alle truppe romane: egli sopprime quindi tutto l'episodio, e lo trasferisce, più su, alla guardia ebraica di Erode. [18] Non si deve fare alcuna spiacevole allusione al comportamento delle truppe romane!

Logicamente, si sarebbe dovuto arrivare fino alla scomparsa totale del ruolo di Pilato. Se ci si è limitati a trasformare il procuratore crudele, descritto da Giuseppe e da Filone, in un vigliacco, ansioso di conservare il suo impiego, senza renderlo responsabile del sangue dell'innocente, — se Matteo si spinge fino ad immaginare la scena grottesca del lavaggio delle mani, [19] è probabilmente perché non si poteva fare di più. Da una parte, così come il IV° Vangelo lo testimonia ancora, il ruolo di Pilato doveva far parte di racconti troppo conosciuti, di una tradizione o leggenda troppo popolare; d'altra parte, essendo la crocifissione un supplizio romano, era impossibile imputarla al Sinedrio, o persino ad Erode Antipa come si tenterà di fare.

Vi sono quindi, nei racconti della condanna di Gesù, due strati sovrapposti: nel più antico, Gesù era condotto davanti a Pilato, e condannato da lui; nel secondo, ci si sforza di trasferire la responsabilità del procuratore, dapprima su Erode Antipa (in una versione di cui resta una traccia in Luca) poi più logicamente sul Sinedrio. Questo arrangiamento finale testimonia, tra le altre cose, la preoccupazione della Chiesa romana di restare in buoni rapporti con l'autorità imperiale. 

Non ci si stupirà quindi di non trovare nei vangeli alcuna ostilità verso Roma: su questo punto gli evangelisti hanno rinnegato l'Apocalisse per fare alleanza con «la grande prostituta», la cui caduta appare molto meno certa e imminente dopo che Traiano ha contenuto i Parti. 

NOTE

[6] Si veda il mio Dossier juif, Ed. Ration., maggio 1967.

[7] Luca 23:6-12.

[8] Marco 12:14, Matteo 22:17, Luca 20:22.

[9] Marco 12:17, Matteo 22:21, Luca 20:25. Si veda anche Romani 13:7, Giustino, Apologia 17:2, e il vangelo di Tommaso (logion 99).

[10] Giovanni 18:36.

[11] Luca 17:21.

[12] Guerra Giudaica 2:8:2-13.

[13] Si veda DUPONT-SOMMER, Aperçus préliminaires sur les manuscrits de la mer Morte, pag. 112. Alcuni testi permettono di supporre che certi Esseni avrebbero preso parte alla lotta: la questione è mal risolta, ma non influenza la dottrina essena.

[14] L'énigme de Jésus-Christ, 1926.

[15] Giovanni 18:12.

[16] GUIGNEBERT, Jésus, pag. 573.

[17] Marco 15:15, Matteo 27:26, Giovanni 19:16. Luca (23:25) dice soltanto: «egli lo consegnò alla loro volontà», il che accentua l'inverosimiglianza.

[18] Luca 23:11.

[19] Matteo 27:24.

Nessun commento: