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2 — Il silenzio prima del 150
Sembra naturale tentare di datare i vangeli sulla base delle menzioni che ne farebbero gli autori antichi. Ma una grande sorpresa attende il ricercatore: nessun autore prima del 155-160 conosce i nomi degli evangelisti e cita direttamente le loro opere.
Parlerò solo a titolo di promemoria dell'ignoranza di autori pagani, come Flavio Giuseppe (intorno al 90), Svetonio o Tacito all'inizio del II° secolo. Perfino se si volesse che questi ultimi abbiano conosciuto e menzionato i cristiani, questi storici non conoscono i testi del cristianesimo. Allo stesso modo, la famosa lettera di Plinio all'imperatore Traiano, scritta intorno al 112, — se è autentica —, [7] non menziona alcun scritto cristiano. Ma l'ignoranza degli autori pagani può spiegarsi per l'indifferenza.
È molto più importante rilevare il silenzio degli autori cristiani. Beninteso, l'argomento non riguarda le epistole attribuite all'apostolo Paolo, che sarebbero state scritte prima dei vangeli. Ma ci si può stupire del fatto che l'autore cristiano che, intorno al 95, rimaneggiò l'Apocalisse, [8] rivolta alle comunità dell'Asia Minore, annunci loro ancora la venuta del Messia come prossima o imminente: [9] evidentemente questo autore ignora ancora tutto dei racconti della vita di Gesù.
EPISTOLE CANONICHE — La stessa lezione emerge da una lunga epistola che la Chiesa attribuisce all'apostolo Giacomo il Minore, e che sembra essere uno dei rari testi risalenti alla fine del I° secolo. Non si è che più sorpresi di vedere un discepolo di Gesù ignorare tutto della vita del suo maestro: egli predica agli ebrei della diaspora la pazienza, [10] e annuncia loro che «l'avvento del Signore è vicino» [11] ma non sa ancora che questi sarebbe venuto. Non vi è menzione di Gesù che una sola volta, ed egli vi è qualificato come «Signore della gloria», [12] che è forse un richiamo a Paolo, [13] o semplicemente al Salmo 24, — a meno che l'allusione a Gesù non sia un'interpolazione. Il fatto che Giacomo, se è l'autore dell'epistola, ignora ancora i vangeli che non sono scritti, ciò non ha nulla di sorprendente; il fatto che ignora tutto della vita di Gesù sembra molto più grave.
La situazione è diversa, certo, per due epistole attribuite all'apostolo Pietro: il loro autore conosce la morte e la resurrezione di Gesù. Ma nessuno sostiene più seriamente l'attribuzione di questi due testi a Pietro: «inautentici e di data successiva», [14] essi contengono allusioni molto vaghe al sacrificio di Gesù, ma non conoscono ancora i dettagli della Passione. Ben più, lo pseudo-Pietro non conosce il famoso gioco di parole fatto sul suo nome: quando parla di una pietra, è soltanto a proposito di Gesù, che egli paragona ad una pietra angolare. [15] L'unica informazione precisa che ci dà non figura nei canonici: tra la sua morte e la sua resurrezione, Gesù sarebbe disceso agli inferi per predicare la buona novella ai morti; [16] egli conosce quindi forse il vangelo di Nicodemo, che è l'unico a trattare di questa visita agli inferi. Per contro, egli ignora il senso del battesimo, e vi vede un simbolo in relazione con l'arca di Noè. [17] È chiaro che l'autore, chiunque egli sia, di queste opere insignificanti, non ha letto i vangeli.
Non è più quasi sostenuto oggi che l'epistola agli Ebrei possa essere attribuita all'apostolo Paolo, ma l'autore e la data di questo testo rimangono incerti. Quel che ne sia, si tratta di uno dei testi più antichi del cristianesimo, forse anche (salvo rimaneggiamento) precedente al 70. Non saremo quindi sorpresi di non trovarvi alcun riferimento ai vangeli. Non soltanto «non esiste alcun rapporto diretto tra i testi», [18] a parte i riferimenti all'Antico Testamento, ma il personaggio del Cristo è concepito, nell'epistola, in maniera assolutamente opposta a quella dei vangeli: personaggio analogo a Melchisedec, non ha generazione terrena. L'autore non fa alcuna allusione precisa alla vita di Gesù, alla sua condanna, alla sua crocifissione.
Ho così terminato con i pochi testi che possono essere datati, a rigore, al I° secolo. Passerò quindi a quelli del II° secolo, facendo osservare che, più un testo è tardivo, più la sua ignoranza dei vangeli testimonia il ritardo della loro stesura.
CLEMENTO IL ROMANO — La tradizione attribuisce ad un certo Clemente, di cui si farà in seguito un vescovo, una lunga epistola rivolta dalla comunità di Roma a quella di Corinto. La Chiesa si sforza di retrodatare quell'epistola nel tempo, ma gli storici non cattolici sono d'accordo nel ritardarla fino a circa il 140. [19] È tanto più significativo il fatto che l'autore, che conosce l'insegnamento attribuito a Gesù e la resurrezione, si appoggia esclusivamente sull'Antico Testamento. La passione del Signore in particolare non è evocata che «come lo Spirito Santo ebbe a dire di lui», mediante una lunga citazione del testo di Isaia, che sarà, in effetti, utilizzata nei vangeli per la composizione del racconto della passione. L'autore dell'epistola non conosce quindi ancora che il testo di Isaia. [20] Egli sa che «gli apostoli ci hanno annunciato la buona novella da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio», [21] e si attiene a «la norma gloriosa e veneranda della tradizione», [22] senza mai citare alcun anello di quella tradizione. Egli conosce le «parole» del Signore, [23] ma, se gli capita di paragonare queste parole ad un seme che «il Signore fa rinascere, e da uno solo crescono molti e portano frutto», [24] ignora la parabola che farà cadere questo seme su terreni diversi. [25] È ben evidente che, se l'autore avesse conosciuto Marco o Matteo, egli non avrebbe mancato di appoggiarsi sulle loro testimonianze. Se avesse conosciuto il Discorso della Montagna, non sarebbe andato a cercare nei Proverbi e nei Salmi insegnamenti come: «I buoni abiteranno la terra, e gli innocenti resteranno su di essa»; [26] non avrebbe citato a memoria la frase di Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra e il suo cuore è lontano da me», facendola precedere dall'espressione: «È detto da qualche parte», [27] invece di menzionare che Marco mette quella citazione in bocca a Gesù stesso. [28]
Solo una volta Clemente cita una parola attribuita a Gesù e tramandata nei vangeli, senza che gli sia nota l'origine biblica: cita la condanna dell'uomo per mezzo di cui lo scandalo accade, [29] ma nel suo caso non intende ancora che colui che scandalizza «gli eletti», e non i piccoli.
L'autore dell'epistola conosce quindi una parte dei materiali che saranno utilizzati nella stesura dei vangeli, ma non vediamo da nessuna parte che ne conosca l'elaborazione nei testi recenti. Quell'ignoranza è molto significativa, se dobbiamo datare l'epistola al 140, soprattutto per il fatto che fu scritta a Roma.
LA DIDACHÉ — Ancora un testo ben difficile da datare, quella Didaché o «Dottrina del Signore trasmessa alle nazioni dai dodici apostoli». Si è d'accordo in generale nel situarlo intorno alla metà del secondo secolo, e nel riconoscergli una natura un po' eterodossa; ma la dottrina delle due vie presenta grandi analogie con quella del Manuale di Disciplina scoperto a Qumran. [30] Non si sarà quindi sorpresi di scoprirvi espressioni vicine a quelle che Matteo metterà in bocca a Gesù, come se l'autore conoscesse il materiale del discorso della montagna, ma nient'altro. Egli cita la preghiera del «Pater», facendola precedere da un avvertimento simile a quello di Matteo: [31] «Non pregate come gli ipocriti».
Ma se l'autore impiega la parola «Vangelo», è ancora nel senso iniziale di «buona novella»; ignora tutto di una stesura scritta in quell'annuncio.
ERMA — Le strane visioni riportate da Erma ne Il Pastore sono attribuite dal canone di Muratori a un fratello del vescovo Pio I°, che diresse la comunità di Roma dal 144 al 151. Si tratta quindi ancora di uno scritto della metà del II° secolo. È tanto più sorprendente il fatto che l'autore romano abbia bisogno di ricevere il suo insegnamento da un angelo, e non sembra nemmeno conoscere quello che si attribuisce a Gesù. Non fa alcuna allusione ai vangeli.
EPISTOLA DI BARNABA — La Chiesa stessa rifiuta l'attribuzione a Barnaba, compagno di Paolo, di un'epistola che si collocò sotto il suo nome, e che risale al II° secolo, senza che si possa precisare di più. [32]
L'autore sa che il Messia, predetto dall'Antico Testamento, è venuto «nella carne», [33] e che ha «sopportato di soffrire per le nostre anime», [34] ma tutta la sua conoscenza dell'evento è ricavata dalla Bibbia, e più particolarmente da Isaia che cita abbondantemente. Le influenze essene sono manifeste, [35] ma in quella lunga istruzione morale e rituale, non si trova una parola che rinvii ai vangeli.
IGNAZIO E POLICARPO — In presenza del silenzio totale della letteratura cristiana anteriore a Giustino sui vangeli, sarebbe necessario esaminare le allusioni, a dire il vero molto vaghe, che si pretende di trovare nelle epistole di Ignazio di Antiochia e in quella di Policarpo, se questi testi fossero autentici. Se risultasse in effetti che un vescovo di Antiochia, martirizzato intorno al 112, abbia conosciuto il Vangelo di Giovanni, questo sarebbe un argomento significativo a favore dell'antichità di questo vangelo, e indirettamente degli altri tre che lo hanno preceduto. La Chiesa non manca di invocare quella prova; come ha scritto Turmel, la letteratura ignaziana è, specialmente per i vangeli, «quello che è in un giardino il muro di contenimento che trattiene la terra e le impedisce di scivolare». [36]
Ma quella analisi diventa inutile, dal momento che è ben stabilito oggi che le sette epistole attribuite a Ignazio di Antiochia sono apocrife, e che sono state composte tra il 160 e il 170, [37] in piena polemica contro Marcione. Io non ritornerò quindi qui sulla dimostrazione della natura fittizia di quella attribuzione. Se le lettere sono state scritte dopo il 160, non vi è più motivo di stupirsi del fatto che esse si riferiscono abbondantemente alle epistole di Paolo, rivelate da Marcione intorno al 140, — nemmeno del fatto che possono contenere alcune allusioni ad un testo che era stato incorporato nel IV° vangelo.
Si deve, al contrario, stupirsi che lo pseudo-Ignazio, nella sua lettera agli Efesini, parli soltanto del soggiorno di Paolo a Efeso, e non faccia alcuna allusione all'apostolo Giovanni, che vi avrebbe la sua tomba. Ma la leggenda della morte di Giovanni a Efeso è dubbia, poiché Papia lo fa morire in Giudea. Ciò che non è dubbio, per contro, è il silenzio dello pseudo-Ignazio su Giovanni e il IV° Vangelo.
Le stesse obiezioni si sollevano contro la cosiddetta Epistola di Policarpo, in cui Renan scorge la mano dello stesso falsario, e che non ha per scopo che di sostenere l'attribuzione a Ignazio delle altre epistole. Per di più, Policarpo è morto nel 166.
Aggiungiamo che ci vuole molta buona volontà per trovare riferimenti al IV° Vangelo in vaghe espressioni, come quella dello spirito «che sa da dove viene e dove va», [38] o in un'allusione a «l'acqua viva» della fede. [39] Se lo pseudo-Ignazio avesse conosciuto il Vangelo di Giovanni, allora del tutto nuovo, non avrebbe avuto altri insegnamenti da trarne?
NOTE
[7] Questione controversa. L'argomentazione principale in favore dell'autenticità risiede nel riassunto che ne fa Tertulliano (Apologetico 2:6).
[8] Si veda G. FAU, L'apocalypse de Jean, Cahier du Cercle E. Renan, 1962.
[9] Si veda Apocalisse 3:11, 3:20 ecc.
[10] 1:3 e 5:7.
[11] 5:8.
[12] 2:1.
[13] 1 Corinzi 2:8.
[14] GUIGNEBERT, Jésus, pag. 27.
[15] 1 Pietro 2:6-8. Allusione al Salmo 118:22, egualmente citato da Marco 12:10, Matteo 21:42, Luca 20:17.
[16] 4:6.
[17] 3:21.
[18] J.-K. WATSON, L'épître aux Hébreux, Cahier du Cercle E. Renan, 1965.
[19] È l'avviso di Renan, e anche di Alfaric (Origines sociales du christianisme, pag. 297).
[20] Epistola di Clemente, § 16.
[21] § 52:1.
[22] § 7:2.
[23] § 13:1.
[24] § 24:5.
[25] Marco 4:3-9, Matteo 13:3-9, Luca 8:5-8.
[26] Epistola di Clemente, § 14:4.
[27] § 15:2.
[28] Marco 7:6.
[29] Clemente, § 46:8.
[30] Gli Esseni l'hanno probabilmente attinta a loro volta dai Pitagorici.
[31] Matteo 6:5.
[32] Alfaric la situa ai primi tempi del regno di Adriano, dunque intorno al 120.
[33] 5:10.
[34] 5:5.
[35] Ripudio dei sacrifici, profumo di buon odore che è la preghiera del cuore, riferimenti al libro di Enoc, opposizione tra la luce e le tenebre, ecc.
[36] DELAFOSSE (Turmel), Lettres d'Ignace d'Antioche, Ed. Rieder, introduzione pag. 23.
[37] Intorno al 170, secondo Renan («I vangeli», pag. 495), dopo il 160 secondo Turmel (op. cit., pag. 88).
[38] Ignazio, Filippesi 7:1, riferimento vago a Giovanni 3:8.
[39] Ignazio, Romani 7:2, riferimento ancor più vago a Giovanni 4:10, o 7:32. L'immagine dell'acqua viva figura in un inno di Qumran (Inno 0:8:6-7).
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