venerdì 27 aprile 2018

Del cristianesimo come culto dell'Asino

ASINI: Animali dalle lunghe orecchie, pazienti e furbi, veri modelli dei cristiani che devono lasciarsi mettere il basto e portare croci.
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768) 
In un particolare del Trittico dell'Adorazione dei Magi di Hieronymus Bosch un viaggiatore passa davanti a un asino con una scimmia montata sul dorso. Ciò potrebbe benissimo parodiare il motivo della fuga in Egitto, con il suo motivo associato alla caduta degli idoli pagani.



Nel Graffito di Alessameno, un cristiano di nome Alessameno viene deriso da pagani per adorare un uomo crocifisso dalla testa d'asino

Una riproposizione moderna del medesimo graffito è la seguente:



Non avrei mai pensato di scoprire il significato esoterico associato all'ASINO in relazione al cristianesimo. Sono indebitato a Julius Evola per questa suggestiva conoscenza.



Il cristianesimo delle origini

Questo è il punto dopo il quale avviene la discesa.
In quanto precede, si è sottolineato ciò che in Roma ebbe significato di forza centrale, in uno sviluppo complesso, ove influenze eterogenee poterono agire solo frammentariamente di fronte a ciò che, da dietro le quinte dell’umano, diede a Roma la sua fisionomia specifica.
Ora, quella Roma che si era emancipata dalle sue radici aborigene-atlantiche e etrusco-pelasgiche, che aveva distrutto ad uno ad uno i grandi centri della civiltà meridionale più recente, che aveva disprezzato i filosofi greci e messo al bando i Pitagorici, che, infine, aveva proscritto i baccanali reagendo contro le prime avanguardie delle stesse divinità alessandrine (persecuzioni del 59, 58, 53, 50 e 40 a.C.), la Roma sacrale, patrizia e virile dello jus, del fas e del mos soggiace in misura crescente all’invasione di culti asiatici incomposti, che si insinuano rapidamente nella vita dell’impero alterandone la compagine. E vi tornano i simboli della Madre, le varietà delle divinità mistico-panteistiche del Sud nelle forme più spurie, ben lontane dalla stessa chiarità demetrica delle origini, associate alla corruzione dei costumi e dell’intima virtus romana, ancor più a quella delle istituzioni. È un processo di sfaldamento, che finisce col colpire la stessa idea imperiale. Il contenuto sacrale di questa si mantiene, ma come un mero simbolo, portato da una corrente torbida e caotica, come un crisma cui raramente fa riscontro la dignità di coloro che ne sono segnati. Storicamente e politicamente i rappresentanti stessi dell’Impero lavorano ora nel senso opposto di quello che avrebbe richiesto la difesa di esso, la sua riaffermazione di un ordine saldo ed organico. Invece di reagire, di selezionare, di raccogliere gli elementi superstiti della «razza di Roma» al centro dello Stato per far fronte adeguatamente all’èmpito delle forze affluenti nell’Impero, i Cesari si dettero ad un’opera di centralizzazione assolutistica e di livellamento. Desautorato il senato, si finì con l’abolire la distinzione fra cittadini romani, cittadini latini e massa degli altri sudditi, dichiarando tutti cittadini romani. E si pensò che un despotismo poggiato sulla dittatura militare insieme ad una disanimata struttura burocratico-amministrativa potesse tener insieme l’ecumene romano, ridotto effettivamente ad una massa disarticolata e cosmopolita. Figure, che possedettero tratti di grandezza e di antica, romana dignità, che incarnarono alcuni aspetti della natura siderea e della qualità «pietra», che ebbero ancora il senso di ciò che fosse sapienza ricevendo talvolta la stessa consacrazione iniziatica — fino all’imperatore Giuliano — nella loro apparizione sporadica non potettero costituire nulla di decisivo di contro al processo generale di decadenza.
Il periodo imperiale ci mostra, nel suo sviluppo, questa duplicità contradittoria: da un lato, prendono forma sempre più precisa una teologia, una metafisica e una liturgia della sovranità. Permangono i riferimenti ad una nuova età dell’oro. Ogni Cesare è acclamato con l’expectate veni, la sua apparizione ha il carattere di un fatto mistico — adventus augusti — contrassegnato da prodigi nell’ordine stesso della natura, così come segni nefasti ne accompagnano il declino. Egli è redditor lucis aeternae (Costanzo Cloro), è, nuovamente, pontifex maximus, è colui che dal dio olimpico, nel simbolo di una sfera, ha ricevuto il dominio universale. Sua è la corona radiata del sole e lo scettro del re del cielo. Come sante o divine sono considerate le sue leggi. Nello stesso senato, il cerimoniale che gli si riferisce ha carattere liturgico. La sua imagine è adorata nei templi delle varie province, come pure al centro dei vari vessilli delle legioni, come supremo punto di riferimento della fides e del culto dei soldati e come simbolo dell’unità dell’Impero. [1]
Ma questa è come una vena dall’alto, un’asse di luce in mezzo ad una demonìa, in cui ogni passione, l’assassinio, la crudeltà, il tradimento si scatenano via via in proporzioni più che umane: sfondo sempre più tragico, sanguinoso e dilacerato man mano che si procede nel basso Impero nonostante l’accennata apparizione, qua e là, di tempre dure di capi che malgrado tutto seppero imporsi in un mondo che ormai vacillava e franava. Per cui, si doveva giungere al punto nel quale la funzione imperiale, in fondo, sopravvisse solo a sé stessa. Roma vi si tenne ancora fedele, quasi disperatamente, in un mondo squassato da convulsioni paurose. Ma, in fondo, il trono era vuoto.
A tutto ciò doveva aggiungersi l’azione soppiantatrice del cristianesimo.
Se non si deve ignorare la complessità e l’eterogeneità degli elementi presenti nel cristianesimo delle origini, pur non si può non disconoscere l’antitesi esistente tra le forze e il pathos in esso predominanti e lo spirito romano originario. Qui — in questa parte della presente opera — non si tratta più di isolare gli elementi tradizionali presenti nell’una o nell’altra civiltà storica: si tratta piuttosto di scoprire in che funzione, secondo quale spirito, le correnti storiche hanno agito complessivamente. Così la presenza di alcuni elementi tradizionali nel cristianesimo (e poi, in maggior misura, nel cattolicesimo) non può pregiudicare il riconoscimento del carattere sovvertitore proprio a queste due correnti.
Circa il cristianesimo, si sa già quale spiritualità equivoca si leghi al particolare tronco dell’ebraismo, da cui esso si è originariamente sviluppato, e così pure ai culti asiatici della decadenza che facilitarono l’espansione della nuova fede di là dal suo focolare di origine.
Per quel che riguarda il primo punto, l’antecedente immediato del cristianesimo non è l’ebraismo tradizionale, bensì il profetismo e correnti analoghe, nelle quali predominano le nozioni di peccato e di espiazione, nelle quali si fa largo una forma disperata di spiritualità, nelle quali al tipo guerriero del Messia quale promanazione del «Dio degli eserciti» si sostituisce il tipo del Messia come il «Figlio dell’Uomo» predestinato a far da vittima espiatoria — il perseguitato, la speranza degli afflitti e dei reietti, l’oggetto di un anelito confuso ed estatico. È noto che appunto in un ambiente saturo di questo pathos messianico, reso pandemico dalla predicazione profetica e dalle varie apocalissi, la figura mistica di Gesù Cristo prese originariamente forma e potenza. Concentrandosi in essa come nel Salvatore, rompendola con la «Legge», cioè con l’ortodossia ebraica, il cristianesimo primitivo, in realtà, doveva riprendere allo stato puro non pochi motivi tipici dell’anima semita in genere, quali a suo luogo sono stati precisati: motivi propri ad un tipo umano dilacerato, atti quanto mai a comporre un virus antitradizionale, specie di fronte ad una tradizione, come quella romana. Col paolinismo tali elementi furono in una certa misura universalizzati, resi atti ad agire senza una diretta relazione con le loro origini.
Quanto all’orfismo, esso in varie aree del mondo antico propiziò l’accettazione del cristianesimo non come l’antica dottrina iniziatica dei Misteri, ma come la sua profanazione, solidale con l’avanzata dei culti della decadenza mediterranea. Qui aveva preso parimenti forma l’idea della «salvazione» in senso ormai semplicemente religioso e si era affermato l’ideale di una religione aperta a tutti, estranea ad ogni concetto di razza, tradizione e casta, quindi, praticamente, andante incontro a coloro che di razza, di tradizione e di casta non ne avevano nessuna. In questa massa, presso l’azione concomitante dei culti universalistici di provenienza orientale, si andò sempre più diffondendo un bisogno confuso — finché nella figura del fondatore del cristianesimo apparve, per così dire, ciò che produsse la precipitazione catalitica, la cristallizzazione di quel che saturava l’atmosfera. Ed allora non si trattò più di uno stato, di una influenza diffusa, bensì di una forza precisa di contro ad un’altra forza.
Dottrinalmente, il cristianesimo si presenta come una forma disperata di dionisismo. Formatosi essenzialmente in vista di un tipo umano spezzato, esso fece leva sulla parte irrazionale dell’essere e al luogo delle vie dell’elevazione «eroica», sapienziale ed iniziatica pose come organo fondamentale la fede, l’èmpito di un’anima agitata e sconvolta spinta confusamente verso il sovrannaturale. Con le sue suggestioni circa l’imminente venuta del Regno, con le sue imagini circa una alternativa di eterna salvazione o di eterna dannazione, il cristianesimo delle origini volse ad esasperare la crisi di un tale tipo umano e a potenziare lo slancio della fede sino a che, presso al simbolo della salvazione e del riscatto nel Cristo crocifisso, una problematica via di liberazione fosse aperta. Se nel simbolo cristico vi sono tracce di uno schema misterico, con nuovi riferimenti all’orfismo e a correnti analoghe, il proprio della nuova religione è però l’utilizzazione di un tale schema su di un piano non più iniziatico, ma essenzialmente di sentimento e, al più, confusamente mistico, per cui, da un certo punto di vista, può ben dirsi che col cristianesimo il dio si fece uomo. Non si ebbe più né una pura religione della Legge come nell’ebraismo ortodosso, né un vero Mistero iniziatico, ma qualcosa di intermedio, un surrogato del secondo nella formulazione adatta all’anzidetto tipo umano spezzato, che si sentì rielevato dalla sua abiezione, redento nella sensazione pandemica della «grazia», animato da una nuova speranza, giustificato, riscattato dal mondo, dalla carne e dalla morte. [2] Ora, tutto ciò rappresentò qualcosa di fondamentalmente estraneo allo spirito romano e classico, anzi, in genere, indo-europeo. Storicamente, ciò significò quel predominio del pathos sull’ethos, di quella equivoca, anelante soteriologia che l’alta tenuta del patriziato sacrale romano, lo stile severo dei giuristi, dei Capi e saggi pagani aveva sempre avversato. Il Dio non fu più il simbolo di una essenza priva di passione e di mutamento che crea distanza rispetto a tutto ciò che è soltanto umano, né fu il Dio dei patrizi che si invoca in piedi, che si porta alla testa delle legioni e s’incarna nel vincitore; al primo piano stette piuttosto una figura che nella sua «passione» riprende e afferma in termini esclusivistici («Nessuno va al Padre se non per me», «Io sono la via, la verità, la vita») il motivo pelasgico-dionisiaco degli dèi sacrificati, degli dèi che muoiono e risorgono all’ombra delle Grandi Madri. [3] Lo stesso mito della nascita da Vergine risente di una influenza analoga, ricorda le dee che, come la Gaia esiodea, generano senza consorte e, in relazione a ciò, è significativa la parte di rilievo che nello sviluppo del cristianesimo doveva avere il culto della «Madre di Dio», della «Vergine divina». Nel cattolicesimo Maria, la «Madre di Dio», è la regina degli angeli, di tutti i santi, del mondo ed anche degli inferni; è altresì concepita come madre, per adozione, di tutti gli uomini, come la «Regina del mondo», «dispensatrice d’ogni grazia»; sproporzionate rispetto al ruolo effettivo di Maria nel mito dei Vangeli sinottici, queste espressioni ripetono gli attributi delle Madri divine sovrane del Sud pre-indoeuropeo. [4] In effetti, se il cristianesimo è essenzialmente una religione del Cristo, più che non del Padre, in esso le figurazioni sia del bambino Gesù che del corpo del Cristo crocifisso fra le braccia della Madre divinificata ricordano decisamente quelle dei culti del Mediterraneo orientale, [5] dando nuovo risalto ad una antitesi rispetto all’ideale delle divinità puramente olimpiche, esenti da passione, disgiunte dall’elemento tellurico-materno. Il simbolo che la stessa Chiesa doveva far proprio fu quello della Madre (la Madre Chiesa). E come religiosità in senso eminente fu concepita quella dell’anima implorante e pregante, conscia della sua indegnità, peccaminosità ed impotenza, di fronte al Crocifisso. [6] L’odio del cristianesimo delle origini per ogni forma di spiritualità virile, il suo stigmatizzare come follia e peccato d’orgoglio tutto ciò che può propiziare un superamento attivo della condizione umana esprimono in modo netto l’incomprensione pel simbolo «eroico». Il potenziale che la nuova fede seppe generare fra coloro che sentivano il mistero vivo del Cristo, del Salvatore, e da ciò trassero la forza per una frenesia del martirio, non impedisce che l’avvento del cristianesimo significhi una caduta; con esso, nel complesso, si realizzo una speciale forma di quella devirilizzazione che è propria ai cicli di tipo lunare-sacerdotale.
Anche nella morale cristiana la parte avuta da influenze meridionali e non-arie è abbastanza visibile. Che sia di fronte a un Dio, e non ad una dea, che non si riconosce spiritualmente alcuna differenza fra uomo ed uomo e si elegge per supremo principio l’amore, è di poco momento. Questa eguaglianza appartiene essenzialmente ad una concezione generale, una variante della quale è quel «diritto naturale», che aveva trovato modo di insinuarsi nel diritto romano della decadenza: è in funzione antitetica rispetto all’ideale eroico della personalità, al valore dato a tutto ciò che un essere differenziandosi, dando a sè stesso una forma, conquista per sé in un ordine gerarchico. Così, praticamente, l’egualitarismo cristiano coi principi di fratellanza, di amore, di comunitarietà finì con l’essere la base mistico-religiosa per un ideale sociale opposto alla pura idea romana. Al luogo della universalità, che è vera solo in funzione di un àpice gerarchico il quale non abolisce, ma presuppone e statuisce la differenza, sorgeva in realtà l’ideale della collettività, riaffermantesi nello stesso simbolo del corpo mistico del Cristo, ma contenente, in germe, una ulteriore influenza regressiva ed involutiva, che lo stesso cattolicesimo, malgrado la sua romanizzazione, mai seppe e volle interamente superare.
Si vuole valorizzare il cristianesimo come dottrina, per l’idea del sovrannaturale e pel dualismo da esso affermato. Qui, tuttavia, si incontra un caso tipico dell’azione diversa che può esercitare uno stesso principio a seconda della funzione in cui viene assunto. Il dualismo cristiano deriva essenzialmente dal dualismo proprio allo spirito semita e va ad agire in modo affatto opposto a quello per cui, come si è visto, la dottrina delle due nature costituì la base di ogni realizzazione dell’umanità tradizionale. Nel cristianesimo delle origini la rigida contrapposizione dell’ordine sovrannaturale a quello naturale può aver avuto una giustificazione pragmatica, legata alla speciale situazione storica e esistenziale di un dato tipo umano.
Ma un tale dualismo, in sé, resta ben distinto da quello tradizionale per non esser subordinato ad un principio superiore, ad una superiore verità, per rivendicare un carattere assoluto ed ontologico, anziché relativo e funzionale. I due ordini, naturale e sovrannaturale, così come la distanza fra l’uno e l’altro, vengono ipostatizzati,
tanto da pregiudicare ogni contatto reale ed attivo. Onde, nei riguardi dell’uomo (ed anche qui pel simultaneo agire di un tema ebraico), prende forma la nozione della «creatura» separata da Dio quale «creatore» ed essere personale da una distanza essenziale; in più, l’esasperazione di questa distanza per via della ripresa e dell’accentuazione dell’idea, parimenti ebraica, del «peccato originale».
In via particolare, segue da questo dualismo il concepire sotto forma passiva di «grazia», «elezione» e «salvazione» ogni manifestazione di influenze sovrasensibili, il disconoscimento, già segnalato e spesso legato ad una vera e proprio animosità, di ogni possibilità «eroica» dell’uomo, con la sua controparte: umiltà, timor di Dio, mortificazione, preghiera. Il detto dei Vangeli, circa la violenza, che la porta dei Cieli può subire, e la ripresa del «Voi siete dèi» davidico appartengono agli elementi che praticamente restarono senza influenza sul pathos predominante nel cristianesimo delle origini. Ma anche nel cristianesimo in genere è evidente che sono state universalizzate, rese esclusive e esaltate la via, la verità e l’atteggiamento che convengono soltanto ad un tipo umano inferiore o a quegli strati bassi di una società pel quale furono concepite le forme exoteriche della Tradizione: il che è uno dei segni caratteristici del clima dell’ «età oscura», del kali-yuga.
Ciò, quanto ai rapporti dell’uomo col divino. La seconda conseguenza del dualismo cristiano fu la sconsacrazione e la disanimazione della natura. Il «sovrannaturalismo» cristiano fece sì che i miti naturali dell’antichità fossero, una volta per tutte, non più compresi. La natura cessa di esser qualcosa di vivente, viene rigettata e bollata come «pagana» quella assunzione magico-simbolica di essa che faceva da base alle scienze sacerdotali, le quali, infatti, dopo che il cristianesimo trionfò, entrarono in un rapido processo di degenerescenza, salvo un residuo depotenziato costituito dalla successiva tradizione cattolica dei riti. La natura divenne qualcosa di estraneo, se non pure di diabolico. E ciò, di nuovo, servì da base per la formazione di un’ascesi di tipo monastico, mortificatorio, nemico del mondo e della vita quale ascesi tipicamente cristiana, recisamente antitetica, peraltro, al modo di sentire classico e romano.
La terza conseguenza concerne il dominio politico. I principi «Il mio regno non è di questo mondo» e «Date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio» attaccavano direttamente il concetto della sovranità tradizionale e quell’unità dei due poteri che, formalmente, in Roma imperiale si era ricostituita. Dopo il Cristo — afferma Gelasio I — nessun uomo può esser re e sacerdote; l’unità di sacerdotium e regnum, in quanto rivendicata da un monarca, è un inganno diabolico, una contraffazione della vera regalità sacerdotale che compete solo al Cristo. [7] Proprio in questo punto il contrasto fra idea cristiana e idea romana sboccò in un aperto conflitto. Al tempo in cui il cristianesimo si sviluppò il Pantheon romano era ben tale, che anche il culto del Salvatore cristiano avrebbe potuto, alla fine, trovarvi posto fra gli altri, al titolo di un culto particolare sorto per scisma dall’ebraismo. Come si è detto, era proprio all’universalità imperiale svolgere una superiore funzione unificatrice ed ordinatrice, di là da ogni speciale culto, che essa non aveva bisogno di negare. Si chiedeva però un atto che testimoniasse una fides sovraordinata, riferentesi appunto al principio dall’alto incarnato dal rappresentante dell’Impero, dall’Augustus. Proprio quest’atto — il rito dell’offerta sacrificale dinanzi al simbolo imperiale — i cristiani si rifiutarono di compierlo dichiarandolo incompatibile con la loro fede; e solo per questo si ebbe una epidemia di martiri, che al magistrato romano doveva apparire come follia pura.
Con ciò, la nuova credenza dichiarava invece sé stessa. Di contro ad una universalità, si affermava un’altra, opposta universalità, basata sulla frattura dualistica. La concezione gerarchica tradizionale secondo la quale, ogni potere venendo dall’alto, il lealismo aveva una sanzione sovrannaturale e un valore religioso, veniva attaccata alla base. In questo mondo del peccato non vi è posto che per una civitas diaboli; la civitas Dei, lo Stato divino, si trova su di un piano staccato, si risolve nell’unità di coloro che un anelito confuso spinge verso l’aldilà, che come cristiani hanno solo il Cristo per capo e che attendono che l’ultimo dei giorni venga. E là dove questa idea non si risolse in un virus direttamente sovvertitore e disfattistico, là dove si dette ancora al Cesare «ciò che è di Cesare», la fides restò sconsacrata e secolarizzata: essa non ebbe più che il valore di una contingente obbedienza rispetto ad un mero potere temporale. Il detto paolino, che «ogni potestà viene da Dio», doveva restare privo di ogni vero significato.
Se dunque il cristianesimo affermò il principio spirituale e sovrannaturale, pure questo principio, storicamente, doveva agire nel senso di una dissociazione, se non pure di una distruzione. Non rappresentò qualcosa di atto a galvanizzare ciò che nella romanità si era materializzato e sfaldato, ma qualcosa di eterogeneo, una corrente diversa, che andò incontro a ciò che in Roma ormai non era più romano e a forze che la Luce del Nord aveva saputo tenere in freno per un ciclo intero. Esso valse a troncare gli ultimi contatti, ad accelerare la fine di una grande tradizione. Non a torto un Rutilio Namaziano accomunò ebrei e cristiani per esser entrambi nemici dell’autorità di Roma, per aver diffuso, i primi, fuor dalla Giudea soggiogata dalle legioni, fra le genti dell’Urbe, un contagio esiziale — excisae pestis contagia — , gli altri un veleno alterante sia lo spirito, sia la razza — tunc mutabantur corpora, nunc animi. [8]
Chi considera le testimonianze enigmatiche dei simboli, non può non esser colpito dalla parte che nel mito di Gesù ha il motivo dell’asino. Non solo l’asino figura presso la nascita di Gesù, ma è su di un asino che la Vergine e il fanciullo divino fuggono e, soprattutto, l’asino è la cavalcatura del Cristo nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme. Ora, l’asino è un simbolo tradizionale per una forza «infera» di dissoluzione. È, in Egitto, l’animale di Set, il quale incarna appunto tale forza, ha carattere antisolare e si connette ai «figli della rivolta impotente»; è, in India, la cavalcatura di Mudevî, che raffigura l’aspetto infero della divinità feminile; come si è visto, nel mito ellenico esso è l’animale simbolico che, nella pianura di Lete, rode perennemente il lavoro di Oknos, mentre ha relazione con una divinità ctonico-infernale feminile, Ecate. [10]
È così che questo simbolo potrebbe valere come un segno segreto della forza che si associò al cristianesimo delle origini e alla quale esso dovette, in parte, il suo trionfo: è la forza che emerge ed assume una parte attiva dovunque ciò che in una struttura tradizionale corrisponde al principio «cosmos» vacilla, si sfalda, sopravvive alla sua originaria potenza. L’avvento del cristianesimo, in realtà, non sarebbe stato possibile se le possibilità vitali del ciclo eroico romano non fossero già esaurite, se la «razza di Roma» non fosse già prostrata nel suo spirito e nei suoi uomini (e una controprova di ciò fu il fallimento del tentativo di restaurazione da parte dell’imperatore Giuliano), se le tradizioni del tempo antico non si fossero offuscate e, presso ad un caos etnico e ad uno sfaldamento cosmopolitico, il simbolo imperiale non fosse stato contaminato riducendosi, come si disse, ad una mera sopravvivenza in mezzo ad un mondo di rovine.
(Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, pag. 339-349)

NOTE

[1] Cfr. E. Staufer, Christus und die Caesaren, Hamburg, 1948.

[2] Così, di fronte all’ebraismo ortodosso, per il cristianesimo delle origini si può rivendicare al massimo un carattere mistico sulla stessa linea del profetismo, in nessun modo, però, iniziatico, come vorrebbe F. Schuon (De L'unité transcendante des relìgìons, Paris, 1937), che si basa su elementi sporadici presenti soprattutto nella Chiesa Orientale. Non si dovrebbe poi mai dimenticare che se il cristianesimo si è appropriato dell’antica tradizione ebraica, l’ebraismo ortodosso si è continuato come una direzione indipendente, e non riconoscente il cristianesimo, col Talmud, ed ha avuto, nella Kabbala una tradizione propriamente iniziatica, che il cristianesimo mai ha posseduto. È così che più tardi dovunque in Occidente prese forma un vero esoterismo, ciò avvenne essenzialmente fuor dal cristianesimo, con ausilio di correnti non cristiane, quali appunto la Kabbala ebraica, l’ermetismo o vene di remota origine nordica.

[3] Cfr. L. Rougier, Celse, Paris, 1925.

[4] È parimenti significativo che secondo molti teologi cattolici ogni segno di predestinazione e di elezione è dubbio; sarebbe certo soltanto quello dato dalla devozione per la Vergine, e il «vero servo di Maria» avrà la vita eterna. Su tutto ciò cfr. per es. J. Berthier, Sommario dì teologia dogmatica e morale, Torino, 2 1933, §§ 1791-1792.

[5] Ieronimo (Epist. ad Paulin., 49) poteva rilevare significativamente che Bethlem «fu un tempo ombreggiata dal bosco di Tammuz-Adonis e in questa grotta, ove vagisce il bambino Gesù, una volta veniva pianto il prediletto di Venere». Cfr. anche A. Drews, Marienmythen (Jena, 1928) per la connessione generale della figura di Maria con quella delle preesistenti dee del ciclo meridionale. Circa l’elemento femminile nel cristianesimo, lo stesso J. De Maistre (Soirées, cit., append., II, 323-324) rileva: «Vediamo che la salvezza (salut) si inizia per mezzo di una donna annunciata fin dalle origini. In tutta la storia evangelica le donne hanno una parte assai notevole. E in tutte le conquiste celebri del cristianesimo [come già nella diffusione della religione dionisiaca], sia su individui che su nazioni, sempre si vede figurare una donna».

[6] Nella Roma precristiana i Libri Sibillini, che introdussero il culto della Grande Dea, introdussero anche la supplicatio, cioè il rito di avvilimento dinanzi alla statua divina, a cui si abbracciavano le ginocchia e si baciavano le mani e i piedi.

[7] De anathematis vinculo, 18.

[8] De red. suo, I, 395-398; I, 525-526.

[9] Cfr. anche R. Guénon, Seth . cit. , p. 593. Nel Rg-Veda l’asino ha spesso il nome di râsaba, ove in râsa è compresa l’idea di tumulto, rumore ed anche di ebrezza. Apollo, nel mito, cambia in asinine le orecchie del re Mida per aver preferita alla sua la musica di Pan, cioè per aver preferito al culto iperboreo il culto panteistico-dionisiaco — e l’uccisione di asini era il sacrificio più gradito allo stesso Apollo fra gli Iperborei (cfr. Pindaro, Pyth., X, 33-56). Tifone — Set (corrispondente a Pitone, il nemico di Apollo), vinto da Horo, fugge nel deserto montando un asino (cfr. Plutarco, De Is. et Os., XXIX-XXXII) e Apep, la serpe, personificazione del principio tenebroso, figura spesso associata ad un asino o portata da un asino (cfr. Budge, Book of the Dead, cit., p. 248). Anche Dioniso sarebbe stato portato a Tebe da un asino, animale che per questo gli veniva riferito. Peraltro, è interessante rilevare, circa qualcosa che deve essersi conservato sotterraneamente, che in alcune feste medievali ove figurava la Vergine col bambino sull’asino condotto da Giuseppe, gli onori principali venivano resi all’asino. 

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