domenica 18 marzo 2018

Sulla scomoda verità del cristianesimo: “il Gesù di Paolo” (di Prosper Alfaric)





Il Dio di Coincidenza

Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?


(Kent Murphy)




Come sappiamo di un Gesù storico?

Conosciamo Gesù dai quattro vangeli. L'apostolo Paolo parla spesso di un Cristo Gesù, ma nessuno dei suoi testi ci offre la certezza che esistette veramente come personaggio storico. Al di fuori della Bibbia si parla poco dei cristiani. In parecchi post del mio blog discuto tutte le fonti extra-bibliche che sono state presentate come prove indipendenti di un Gesù storico. Nessuna di loro rimane intatta. Nel migliore dei casi, costituirebbero, se autentiche, solo la conferma, da parte pagana, della rapida diffusione, tra i cristiani loro contemporanei (fine I secolo), dell'idea che Gesù fosse un personaggio storico. Per inciso, non sono l'unico ad arrivare a questa conclusione.

Le uniche fonti di un Gesù storico sono i vangeli. Ogni teologo sa che Luca e Matteo hanno usato il vangelo di Marco per scrivere la propria versione. Hanno, per così dire, “corretto” Marco. Quello che non hanno da Marco proviene — e non è neppure certo — da una fonte sconosciuta chiamata Q. Ma Q, come mera collezione di detti, contiene insegnamenti generali che possono essere incollati praticamente a qualsiasi figura. Questo è ciò che hanno fatto gli evangelisti. Poi abbiamo il vangelo di Giovanni. A voler essere buoni, questo vangelo risale all'anno 100 circa e — perfino la grande maggioranza dei teologi è d'accordo — non può essere preso sul serio in senso storico. Ciò non significa che sia un vangelo fantastico. Questo vale anche per Luca e Matteo. Che non ci rassicurino per nulla sull'esistenza di un Gesù storico non significa che sono la prova della sua non-esistenza. Voglio sbarazzarmi di questo equivoco in anticipo. In realtà, i fatti storici, nella misura in cui sono edulcorati dalla leggenda, diventano pressoché indistinguibili da fatti non-storici. La chiave di volta dell'intera questione sulla storicità di Gesù dev'essere ricercata altrove. Chi vuole scoprire quale sia tale chiave dovrà affidarsi alle uniche fonti che precedono i vangeli. A poco a poco la conoscenza di cui si ha bisogno viene alla luce.

Conclusione: c'è solo una fonte di un Gesù storico. Questa fonte è il più antico vangelo, proto-Marco. È scritto dopo l'anno 70. Se c'è stato un Gesù storico, fu crocifisso — probabilmente da un Romano, probabilmente da Ponzio Pilato — intorno all'anno 30. Quindi i primi dati “storici” su Gesù appaiono solo quarant'anni dopo. Stranamente, Paolo, che visse a Gerusalemme e forse anche nello stesso tempo in cui vi avrebbe predicato un ipotetico Gesù storico (e comunque in quel periodo) non sa nulla di un Gesù storico. La più vecchia lettera di Paolo risale al 50 Era Comune, quindi venti anni più antica del più antico vangelo. Mentre Paolo scriveva le sue lettere, un cristiano anonimo scriveva la “lettera agli Ebrei”.

Se gli autori di quelle lettere avessero creduto ad un Gesù storico, ne avrebbero certamente parlato. Dopo tutto, si trattava di un'idea rilevante per la loro fede. E perfino se per loro un Gesù storico fosse stato insignificante o — peggio ancora, dio non voglia — imbarazzante, semplicemente la banale consapevolezza della sua esistenza storica in un tempo e in un luogo particolari, sarebbe affiorata, prima o poi, da qualche parte, in quelle lettere. Invece no, le loro lettere non tradiscono mai quella consapevolezza. Mai.  

Vorrei sottolineare che queste lettere scritte da Paolo e dall'anonimo autore di Ebrei non tradiscono affatto la concezione di Gesù che in seguito divenne l'insegnamento ortodosso del cristianesimo.

Secondo questa visione successiva, il “cosiddetto Cristo” era una sorta di profeta e taumaturgo che “si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo»” (Marco 1:14). Ma non secondo Paolo ed Ebrei. Se leggi attentamente le loro lettere, vedrai che non hanno nulla a che fare con l'idea che Gesù sia esistito come un profeta o taumaturgo prima di essere stato messo a morte. Nella lettera agli Ebrei, in particolare nel verso 13:12, è detto che Gesù soffrì “fuori della porta”. La “porta” di quale città si trattava ? Il Salmo 23:7-8 della Septuaginta rivela che si tratta di “porte” sorvegliate nientemeno che dagli “arconti”:
“Sollevate, o arconti, le vostre porte,
alzatevi, o porte eterne,
ed entrerà il re della gloria.
Chi è questo re della gloria?
Il Signore forte e potente in battaglia.
Sollevate, arconti, le vostre porte,
alzatevi, o porte eterne
ed entrerà il re della gloria.
Chi è questo re della gloria?
Il Signore delle potenze,
è lui il re della gloria!”.


È lo stesso folle apologeta cattolico Giustino (Dialogo con Trifone 36) a insistere che quelle “porte”, al pari dei loro demoniaci  guardiani — gli arconti — sono celesti: 
Che il Signore delle potenze non sia Salomone è già stato dimostrato. Si tratta invece del nostro Cristo: è quando risorse dai morti e ascese al cielo che i principi a ciò preposti da Dio in cielo ricevono l'ordine di aprire le porte dei cieli perché entri costui che è il re della gloria e asceso si sieda alla destra del Padre finché ponga i nemici come sgabello ai suoi piedi, come è stato mostrato con l'altro salmo.
Ma quando gli arconti celesti lo videro senza bellezza, di aspetto privo di onore e di gloria, non riconoscendolo chiedono: Chi è questo re della gloria? Allora lo Spirito santo risponde loro sia a nome del Padre sia a nome proprio: il Signore delle potenze, questi è il re della gloria. Chiunque converrà che né di Salomone, per quanto sia stato un re glorioso, né della tenda della testimonianza alcuno di quelli che presidiano le porte del tempio di Gerusalemme avrebbe osato chiedere: Chi è questo re della gloria?

(Dialogo, 36, mia enfasi)


Che Giustino si stia appellandosi allo stesso originario mito cristiano che risiede dietro Ebrei 13:12, 1 Corinzi 2:6-8 e l'Ascensione di Isaia, è dimostrato dal fatto che, secondo le sue parole, gli “arconti” o demoni riconobbero la vera identità di Gesù solo al momento della sua ascensione alla Gerusalemme celeste, e non quando, sulla terra, esorcizzò i demoni la prima volta (si veda Marco 1:24).
Così, quando Gesù soffrì “fuori della porta”, l'autore di Ebrei 13:8 non può intendere che Gesù fu crocifisso fuori dalle porte di Gerusalemme, dato che la Gerusalemme di questo mondo non ha arconti celesti a custodia delle sue porte. Perciò Gesù fu ucciso per mano degli stessi Arconti celesti, allorché “lo videro senza bellezza, di aspetto privo di onore e di gloria” in un mondo che non è questo mondo. Proprio come non fu in questo mondo, ma nel mitologico Eden, che gli stessi Arconti fecero violenza ad Eva in un mito simile di cui il testo gnostico noto come “Ipostasi degli Arconti” costituisce l'ultima vestigia, nonché la sua correzione in senso docetico (per superare l'imbarazzo di un'Eva violentata veramente a morte dagli Arconti): 
“Poi gli Arconti si avvicinarono ad Adamo, e vedendo la sua controparte femminile divennero molto agitati ed eccitati. Si dissero l’un l’altro: ‘Venite, andiamo a seminare il nostro seme in lei’, e tentarono di catturarla. Tuttavia ella — Madre dei Viventi — derise la loro incoscienza e cecità mutandosi in albero, e lasciò che essi si impadronissero del suo riflesso.”
(Ipostasi degli Arconti 89:15-25)

   
Nessun uomo veramente esistito può soffrire e morire “nei giorni della sua carne” (Ebrei 5:7) per mano di arconti celesti “fuori dalla porta” (Ebrei 5:8) di una città che non è su questo mondo, e per giunta al solo scopo di morirvi ignominiosamente, a meno che non sia stato inventato e/o immaginato da altri uomini per fare proprio quello.

Così: Gesù non è mai esistito storicamente.

Sono debitore al miticista francese Prosper Alfaric per avermi fatto realizzare meglio la dipendenza dal Salmo 23:7-8 (Septuaginta) del famoso passo paolino di 1 Corinzi 2:6-8. Qui di seguito riporto per intero la traduzione in italiano dell'articolo dello stesso Alfaric in merito (« Le Jésus de Paul », in Revue de l'histoire des religions, 1927, vol.48-95, p. 256-286).

Il Gesù di Paolo

La questione più importante che si pone per gli storici del cristianesimo è quella di Gesù. Dobbiamo vedere in lui, come è stato tradizionalmente creduto, il Verbo fatto carne del quarto Vangelo, oppure un figlio di Abramo diventato uguale a Jahvé, come afferma solitamente la critica moderna?
Le due tesi sono ugualmente concepibili, poiché abbondano gli esempi di uomini deificati o di divinità decorate da un'apparenza umana. Soltanto i testi permettono di rispondere.
Tra questi i più antichi sono i più importanti. Per meglio dire, sono gli unici che contano, alla luce della storia. Da qui deriva l'importanza degli scritti paolini. Hanno molto più peso degli stessi vangeli, perché sono molto più vecchi.
La più antica delle Vite di Gesù arrivata fino a noi, quella che porta il nome di Marco, non può essere stata scritta prima della persecuzione di Domiziano. Si colloca intorno all'anno 100. Le grandi Epistole di Paolo ai Galati, ai Corinzi, ai Romani, ai Filippesi, ai Tessalonicesi, sono già utilizzate. Qualunque sia stato il loro sviluppo ulteriore, la loro prima stesura è quindi più antica.
Esse sono veramente dell'apostolo di cui recano il nome? Da parte mia, io non vedo alcun motivo pressante per dubitarne. Possono aver subito alterazioni più o meno gravi. La sostanza dev'essere autentica. Ma il loro autore sostiene di aver acquisito la reputazione di un cristiano militante dal tempo del “Re Areta”, [1] che non può essere che Areta IV, morto nell'anno 40. Qualunque sia la data esatta della loro composizione, esse ci portano una testimonianza di oltre mezzo secolo più antica di quella del nostro vangelo più antico.
Cosa dicono di Gesù? È un Dio umanizzato che mostrano in lui? È un uomo deificato che ci fanno conoscere?

I

Alla domanda così posta Paolo stesso risponde stesso nella maniera più categorica. Per lui Gesù si definisce come un essere divino, che si è abbassato fino a prendere una forma umana, fino a farsi mortale e miserabile. Ricordiamo i termini della Lettera ai Filippesi che formulano questa dottrina. Devono dominare tutto il dibattito:
“Essendo in forma di Dio non riputò rapina l'essere uguale a Dio, ma annichilì se stesso, prendendo forma di servo e divenendo simile agli uomini; ed essendo trovato nell'esteriore come un uomo, abbassò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte della croce. Ed è perciò che Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al disopra d'ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre”. [2]
Di fronte a un tale testo, il problema che si pone è del tutto diverso da quello di un uomo la cui nascita e vita, secondo dei testimoni, viene raccontata e la cui apoteosi viene quindi descritta. Un figlio di Adamo, per essere promosso al rango degli dèi, deve dare dei segni inconfutabili della sua divinità. Un essere divino, per essere annoverato tra gli umani, deve fornire inversamente delle prove materiali della sua umanità.

***

Come, allora, Paolo sa che il “Signore” è apparso in forma umana? Lo vide nella carne?
Ciò è stato sovente affermato, appoggiandosi su un testo della seconda lettera ai Corinzi. Qui leggiamo, a proposito del destino del Salvatore:
“Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così”. [3]
In realtà, quest'ultima frase non ha il significato preciso che gli attribuiscono i difensori della tesi storica. Paolo non vuol dire di aver visto Gesù nella sua carne, altrimenti direbbe anche nella frase precedente di non vedere più alcun cristiano in carne e ossa. Quando scrive sui cristiani: “ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne”, egli vuole certamente dare a intendere che egli non li considera più secondo un aspetto carnale, che egli non guarda più in loro ciò che appare agli occhi del mondo, la purezza, la ricchezza , il prestigio sociale, ma solamente, secondo il proprio contesto definito, la “nuova creatura” che vive per il Cristo, o piuttosto che è morto e risorto spiritualmente con lui. Allo stesso modo, quando parla della conoscenza che può aver avuto, e che d'ora in avanti ripudia, di Cristo stesso “secondo la carne”, indica abbastanza chiaramente che una volta vide in lui, con la massa degli ebrei educati nelle idee rabbiniche, un re glorioso e trionfante, a cui sarà sottomesso il mondo intero, ma che egli desidera contemplarlo, con tutti i cristiani, solo come il servo di Dio, che soffre e muore per i peccati degli uomini. Così la sua conversione cristiana fu il passaggio da un messianismo materiale, atteso per un futuro prossimo ma indeterminato, a un messianismo morale già realizzato, almeno in parte, nella Chiesa.
Ma se ha venduto un'idea carnale di Cristo, nulla  mostra che l'avesse mai incontrato in carne e ossa. Tutto prova piuttosto il contrario. Se ad un qualsiasi momento avesse visto veramente coi suoi occhi e sentito con le sue orecchie quello che sarebbe diventato il centro dei suoi pensieri, una scena del genere sarebbe stata indimenticabile per lui. Non avrebbe mancato di farne qualche allusione, di ricordare dove, quando e come gli era apparso il Maestro, quale visione gli era rimasta, quale eco lontana delle sue parole continuava a risuonare in lui. Non dice mai nulla a riguardo. In nessun momento riporta il minimo dettaglio che dà l'impressione di una scena vissuta. Da nessuna parte ne parla di lui in qualità di testimone.

***

Almeno conosceva le persone che videro e udirono il Cristo?
1) Ciò è comunemente ammesso, e non è neppure concepibile che sia possibile dubitarne. Paolo non disse nell'epistola ai Galati (2:9) di aver visto a Gerusalemme “Giacomo, Cefa e Giovanni, che sono reputati le colonne”? D'altra parte, questi personaggi non sono presentati da Marco e da tutti gli altri evangelisti come i primi discepoli di Gesù, come i suoi compagni abituali e i suoi successori designati?
Tutto questo è vero. Ma dobbiamo guardarci dallo spiegare le epistole paoline mediante i nostri vangeli, perché il più antico di loro rappresenta già una fase successiva del pensiero cristiano. Sicuramente, Marco considera Pietro, Giacomo e Giovanni come i primi e principali seguaci di Gesù. Soltanto che ciò potrebbe essere dovuto a una deduzione altamente discutibile a causa del ruolo preminente svolto da loro al tempo di Paolo nella Chiesa di Gerusalemme. L'ipotesi sembra tanto più naturale in quanto l'evangelista dipende ovviamente dall'apostolo, attraverso tutta la sua opera. È soprattutto in ciò che riguarda queste tre “colonne” della cristianità ebraica che sembra essere stato ispirato da lui. Come lui, li associa strettamente e ripetutamente. Come lui, in particolare, li presenta in una luce piuttosto negativa e li mette in scena solo per criticare il loro atteggiamento troppo poco cristiano. Egli non sembra vederli se non attraverso i testi paolini. Storicamente, la testimonianza dell'apostolo rimane perciò isolata. Ci deve essere di per sé sufficiente. Tuttavia, egli non fornisce alcun dettaglio che ci permetta di affermare che i tre personaggi, che passavano per le “colonne” nella Chiesa di Gerusalemme, fossero i compagni di Gesù durante la sua vita terrena.
2) Altri testi, è vero, hanno fatto credere che Paolo conoscesse membri della stessa famiglia di Cristo. Nella prima lettera ai Corinzi (9:5), scrive a proposito di critiche recenti: “Non abbiamo il diritto di condurre con noi una moglie, sorella in fede, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore... ?” Nessuno di questi è nominato qui. Ma altrove, nella lettera ai Galati (1:18), Paolo ne menziona uno, col quale si è trovato faccia a faccia. Scrive, a proposito dei rapporti che ebbe, dopo la sua conversione con la Chiesa madre: “Poi, dopo tre anni, salii a Gerusalemme per visitare Cefa, e stetti da lui quindici giorni; e non vidi alcuno degli apostoli, ma solo Giacomo, il fratello del Signore”. Questo “fratello” non testimonia, e già per la sua stessa presenza, tutti gli altri non testimoniano con lui, nella prima Lettera ai Corinzi, l'umanità di Cristo?
Non ci si affretti a dirlo. Facciamo notare, prima di tutto, a proposito di quest'ultimo personaggio, che la frase nella quale è menzionato non doveva essere letta nell'edizione più antica che conoscevamo di Paolo, in quella di Marcione. Non c'è dubbio che potrebbe essere stata soppressa dall'eresiarca, il quale non avrebbe ammesso che Paolo fosse salito Gerusalemme per vedere Pietro. Ma si osserverà altrettanto facilmente che essa è stata aggiunta da un interessato editore cattolico come Luca per stabilire una stretta relazione tra l'Apostolo dei Gentili e il capo della Chiesa ebraica.
In realtà, il testo in questione non è imposto o richiamato in alcun modo dal contesto. Senza di esso la sequenza di idee rimane molto naturale. Con esso, al contrario, diventa più difficile. Immediatamente dopo questo passo, secondo il quale Paolo, alla fine dei tre anni, sarebbe salito a Gerusalemme, per vedere Pietro, e avrebbe incontrato Giacomo, leggiamo che, negli anni seguenti, era ancora “sconosciuto di persona” alle chiese della Giudea (1:22). Il seguito racconta che, quattordici anni dopo, Paolo salì “di nuovo” a Gerusalemme (2:1). Ma “di nuovo” è mancante in manoscritti importanti ed era mancante in quello di Ireneo. [4] In occasione di questo secondo viaggio, Pietro viene menzionato solamente dopo Giacomo, tra i “pilastri” della Chiesa (2:9). Poco più avanti, riguardo agli incidenti accaduti ad Antiochia, lo vediamo scomparire alla presenza degli inviati di questo stesso Giacomo, il cui solo arrivo è sufficiente a farlo abbandonare pietosamente il suo atteggiamento precedente (2:12). Il ruolo secondario che interpreta di fronte a questo personaggio si concilia a malapena con la precedenza che sembra attribuirgli il passo riguardante la prima visita di Paolo a Gerusalemme.
Ma ammettiamo che il testo sia perfettamente autentico. Esso non prova che l'Apostolo abbia conosciuto un vero parente di Gesù. La presunta parentela può essere tutta spirituale. Paolo stesso scrisse, nella lettera ai Romani (8:29), che Dio ha predestinato coloro che egli ama a diventare come suo figlio, per fare di lui “il primogenito tra molti fratelli”. Evidentemente è ispirato qui da una frase di un salmo messianico, in cui Dio dice del suo “Unto”: “Lo costituirò mio primogenito” (89:28). Ma è nella Chiesa che vede finalmente realizzata questa primogenitura. Aggiungendo: “tra molti fratelli” egli ha certamente in vista i molti cristiani che il Padre celeste rende “conformi all'immagine del suo Figlio”. Dal momento che egli rappresenta come “fratelli” del Signore i fedeli provvidenzialmente legati a Cristo, a maggior ragione egli può dare quel nome a quelli di loro che sono a capo delle diverse chiese e che pertanto si trovano in un rapporto particolarmente stretto con il Maestro.
Effettivamente, questi sono i leader delle comunità che sembrano essere intesi nel presunto testo della prima epistola ai Corinzi, perché egli li unisce strettamente agli apostoli, e in tutto il contesto, si tratta di persone che si prestano al servizio della cristianità.
Il titolo dato a Giacomo nella lettera ai Galati, se è autentico, può essere spiegato allo stesso modo. In questo senso spirituale, è concepito tanto meglio in quanto, secondo una tradizione riportata nel libro degli Atti (12:1-2) e già supposta nel vangelo secondo Marco (10:39), Giacomo fu martirizzato a Gerusalemme per la causa della fede. Nell'opinione  dell'Apostolo, che non vuole conoscere che il Cristo crocifisso, nessun cristiano merita di essere chiamato suo “fratello” più di colui che si è legato così alla sua Passione.

***

1) Il passo a cui si fa riferimento per stabilire che Paolo conobbe Gesù dai suoi principali discepoli e dai suoi parenti attesta piuttosto che egli non possiede su di lui che delle informazioni prive di qualsiasi carattere storico. Lo dice lui stesso, nei termini più chiari, e se ne vanta:
“Ora, fratelli, vi faccio sapere che il vangelo, che è stato da me annunciato, non è secondo l'uomo, poiché io non l'ho ricevuto né imparato da nessun uomo, ma l'ho ricevuto per una rivelazione di Gesù Cristo... Ma quando piacque a Dio, che mi aveva appartato fin dal grembo di mia madre e mi ha chiamato per la sua grazia, di rivelare in me suo Figlio, ... io non mi consultai subito con carne e sangue,  né salii a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me”. [5]
Tale disprezzo per qualsiasi consultazione, anche delle stesse autorità più famose, di un uomo che, tuttavia, non si presenta come un testimone diretto del dramma evangelico, sarebbe sufficiente a mostrare quanto ciò che dice a riguardo sia inaffidabile. Una tale indifferenza, del resto, non si comprenderebbe se Paolo avesse giudicato i suoi predecessori meglio informati di lui, se egli avesse detto che si era imposto qualche giorno di cammino, lui, il grande viaggiatore, pur di ritrovarsi faccia a faccia con le persone che avevano visto il Maestro, che potevano descrivergli la sua vita, portargli le sue parole, fargli il suo ritratto. La loro testimonianza gli sembra trascurabile solo perché la considera assolutamente uguale alla sua. Egli stesso dice che anche loro conoscono il Maestro solo per rivelazione. Ascoltiamo lui stesso:
“Poiché molti si vantano secondo la carne, anch'io mi vanterò... Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi... oso vantarmi anch'io... Sono essi Israeliti? Lo sono anch'io... Sono ministri di Cristo? ...Io lo sono più di loro... Verrò quindi alle visioni e rivelazioni del Signore. Io conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa... fu rapito fino al terzo cielo... E so che quell'uomo... udì parole ineffabili, che non è lecito ad alcun uomo di proferire... Io non sono stato per nulla inferiore ai sommi apostoli”.
[6]
Se Paolo non è inferiore in nulla rispetto ai più grandi apostoli, anche per quanto riguarda la conoscenza di Cristo, non c'è evidentemente nessuno che lo conobbe meglio di lui. Le loro informazioni sono della stessa natura delle sue. Sono state ottenute per rivelazione. È solamente nello spirito che tutte queste persone hanno visto il Cristo.
2) Come si è formata questa visione intellettuale? Da dove Paolo trae il materiale dello spettacolo interiore il cui improvviso bagliore ha determinato la sua conversione e trasformato la sua vita?
Lui stesso lo dà a intendere abbastanza chiaramente. A questo riguardo il titolo di “Cristo”, da lui associato al nome di Gesù, è molto significativo. Proviene, infatti, dalla Bibbia ebraica. Esso riassume la promessa degli antichi profeti, che nei giorni peggiori, si compiacquero di predire un futuro migliore e annunciarono, con dovizia di particolari, l'avvento imminente di un “Unto” del Signore chiamato a stabilire la giustizia e la pace sulla terra. Paolo identifica il suo Maestro con questo Salvatore ideale, del quale trova anticipata l'immagine in molte pagine dei Testi Sacri. È quindi, soprattutto, a partire da questi testi che egli se lo rappresenta.
Siccome egli non vuole più conoscere Cristo “secondo la carne”, ma solamente secondo lo spirito, egli si concentra preferibilmente sui passi delle scritture dove egli lo vede prefigurato nell'aspetto di un giusto ideale. Egli si ispira soprattutto al Secondo Isaia, su alcuni Salmi, sul libro della Sapienza. Ma sfrutta anche altre fonti bibliche. Per meglio dire, egli rivela in tutto l'Antico Testamento la proclamazione profetica del regno di giustizia instaurato da Gesù.
Egli non ha da ricercarlo a caso nelle sue letture. La tradizione ha già provveduto. In precedenza, i messianisti ebrei si erano applicati a districare e raggruppare i testi relativi alla grande promessa. I cristiani hanno beneficiato di questa lunga inchiesta e l'hanno continuata da un nuovo punto di vista. [7] Dagli uni e dagli altri, Paolo doveva ricavare raccolte più o meno compatte di oracoli del Signore riguardanti la venuta del Salvatore. Egli non poteva che ispirarsi largamente su di essi. Questo spiega le citazioni frequenti che fa dai testi biblici, senza sentire il bisogno di stabilire che questo è circa il Cristo, e anche le combinazioni che stabilisce tra di loro, come se tutto fossero legate senza contesto allo stesso soggetto. [8]
Queste reminiscenze scritturali appaiono numerose nell'edizione ricevuta delle sue epistole. Non si sollevi l'obiezione che l'edizione marcionita ne contava assai meno. Essa stessa, infatti, conteneva alcuni riferimenti molto chiari alla Bibbia ebraica. [9] C'erano molte citazioni implicite, molte asserzioni che potevano essere spiegate solo dall'influenza diretta dei vecchi oracoli. Gesù è stato sempre identificato con il “Cristo”. Qualunque cosa avesse detto Marcione, Paolo si era ampiamente ispirato all'Antico Testamento.
Non possiamo essere veramente sorpresi, saremmo piuttosto sorpresi del contrario. Lui stesso si presenta, in due passi ammessi certamente dai Marcioniti, [10] come “ebreo da ebrei, della tribù di Beniamino, fariseo”, [11] che precedentemente si “distingueva nel giudaismo più di molti coetanei tra i miei connazionali, più zelante nelle tradizioni dei miei padri”. [12] Dove un ebreo, un fariseo, un settario particolarmente zelante delle tradizioni ancestrali, ricaverebbe la regola della sua fede, se non dai testi biblici? In assenza di informazioni personali riguardanti il Cristo tanto atteso, di cui molti credenti annunciarono la venuta, dove poteva cercare di documentarsi, se non dagli oracoli canonici attraverso i quali vedeva la sua immagine abbozzata in anticipo?



II



Un rapido esame dei passi paolini dove si pensa di vedere i ricordi viventi di un Gesù storico mostrerà che tutti si collocano su un piano ideale, completamente estraneo alla storia, che le loro affermazioni si basano sulla sola Scrittura, non su una tradizione autentica. In effetti, sono pochissimi. Tuttavia alcuni di loro senza dubbio non provengono da Paolo oppure non si applicano direttamente a Cristo.


***

1) Si potrebbe pensare che il nome di Gesù, che precede o segue regolarmente il titolo di Cristo, sia sufficiente da solo a dimostrare che l'apostolo ha in vista un personaggio reale, non una figura puramente ideale.
Ma l'argomento è molto inconcludente. Esso si ritorce piuttosto contro la tesi tradizionale. Questo nome, in effetti, sembra essere il nome del successore di Mosè nella Bibbia dei Settanta, la sola che era stata utilizzata dall'Apostolo e apparentemente dai primi cristiani. Il Messia non avrebbe potuto recare un altro titolo che meglio si confaceva al suo ruolo. Non sarebbe stato, in senso spirituale, il vero erede di Mosè? Non era lui che aveva la missione di introdurre il popolo eletto nella terra promessa? Non era comunemente chiamato Salvatore, e non è esattamente ciò che significa il nome di Iehoschua o Ieschua? Paolo stesso ci invita a queste associazioni perché insegna con insistenza che la salvezza è stata procurata agli uomini da Gesù e che il vangelo è il completamento provvidenziale dell'opera mosaica. Queste idee appaiono in lui come il fondamento comune delle credenze cristiane. Vale a dire, devono aver svolto un ruolo di primo piano nella formazione della Chiesa.
2) Un testo, è vero, menziona espressamente la nascita di Cristo. Leggiamo nella lettera ai Galati (4:4): “Finché l'erede è minorenne,... è sotto tutori e amministratori fino al tempo prestabilito dal padre. Così anche noi, quando eravamo bambini, eravamo tenuti in schiavitù dagli elementi del mondo. Ma quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge... ”.
Notiamo, tuttavia, che le ultime parole, riguardanti questa nascita, mancavano nella collezione di Marcione. [13] Invece di essere soppresse da lui, potrebbero benissimo essere state aggiunte da un editore cattolico, che voleva stabilire così la realtà della carne di Cristo, contro le negazioni gnostiche. Si sommano alla frase e arrivano in eccesso. La loro soppressione trattiene solamente la lezione di Marcione, e avremo un testo molto coerente.
“Finché l'erede è minorenne,... è sotto tutori e amministratori fino al tempo prestabilito dal padre. Così anche noi, quando eravamo bambini, eravamo tenuti in schiavitù dagli elementi del mondo. Ma quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio per riscattare quelli che erano sotto la legge, affinché noi ricevessimo l'adozione”.
Ammettiamo, dopotutto, se si vuole, che le parole incriminate siano autentiche. Possiamo vederle come una attestazione storica della nascita di Cristo? No, perché il loro contesto richiede altrimenti. Paolo non riporta alcun dettaglio concreto che dia l'impressione di una scena reale. Non dice dove è nato Gesù, chi fosse suo padre, o almeno sua madre. Non ci dà alcuna idea di quando accadde questo fatto importante tra tutti. Si accontenta di dire che questo fu al “tempo prestabilito” dal Padre, quando arrivò la pienezza del tempo. A mia conoscenza, il significato di queste parole non è stato sufficientemente enfatizzato. Esse evidentemente fanno allusione alle antiche profezie che annunciavano l'avvento di un leader ideale preposto da Dio al suo regno. Più precisamente, sono mirate a quelle che fornivano, o sembravano fornire, qualche indicazione sul tempo presunto di questo avvenimento decisivo.
Pensa, ad esempio, alla famosa benedizione di Giacobbe:
“Un dominatore non mancherà da Giuda né un sovrano dai suoi fianchi, fino a quando verrà ciò che è in serbo per lui, e lui è l'attesa delle nazioni'”. [14]
Paolo deve essere stato colpito da quest'ultima riflessione, poiché egli menziona “l'attesa impaziente della creazione” che, vivendo in uno stato di schiavitù, aspira alla libertà dei figli di Dio. [15] Ora, in questo momento, nessun ebreo esercita più il potere. L'ultimo re di Gerusalemme era un idumeo e lui non fu sostituito. I romani sono gli unici padroni. Non dobbiamo concludere che il misterioso evento riservato alla fine è arrivato? E cosa può essere, se non la venuta del Salvatore atteso?
Ricordiamo ancora la profezia comunicata da un angelo a Daniele:
“Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la città di Sion per mettere fine all'empietà e per espiare l'iniquità,... per portare una giustizia eterna, per terminare le visioni,.... e per ungere il Santo dei santi”. [16]
Il seguito, visibilmente alterato, è molto confuso e poco comprensibile. Dovrebbe essere stato solo più attraente per i credenti. Mostra che, quando saranno trascorse le settanta settimane, il “Cristo” sarà colpito, e che un grande disastro colpirà la città e il santuario. In quest'occasione si parla del “compimento dei tempi” e, in un importante manoscritto, della “scadenza” (προθεσμία). [17]
Per i credenti che hanno vissuto nell'attesa del Messia predetto da Dio, una tale profezia non si poteva intendere che su di lui e sugli eventi che dovevano seguire la sua venuta. Viene presentata come data a Daniele verso la fine dell'esilio. In queste condizioni le settimane di cui si parlava non potrebbero essere semplicemente di sette giorni, perché allora avrebbero dato solo un totale di circa sedici mesi e il Cristo sarebbe dovuto apparire dal tempo di Ciro. Intendendole di sette anni, come hanno sempre fatto i cristiani, si era indotti a pensare che il Salvatore atteso fosse dovuto arrivare, in conformità alla profezia di Giacobbe, al tempo in cui il potere era sfuggito a Giuda. [18]
Dev'essere soprattutto a questo testo che pensa Paolo, quando dice che il Figlio di Dio è venuto al  “tempo prestabilito” dal Padre, quando “giunse la pienezza del tempo”. Niente è più naturale, perché si basa, in altri punti, sul contesto. È secondo l'oracolo delle settanta settimane, e quello che lo segue, che rappresenta l'Anticristo, “l'uomo del peccato, il figlio della perdizione, l'avversario, colui che s'innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando sé stesso e proclamandosi Dio”. [19] È anche dalla stessa fonte che egli vede il Cristo giungere poco dopo sulle nubi del cielo, per trionfare su tutti i suoi nemici e per associare i suoi eletti alla sua gloria. [20
Il metodo che utilizza per stabilire l'imminenza del secondo avvento ci aiuta a capire come è arrivato a pensare che il primo sia già stato realizzato. In un caso come nell'altro, la sua mente è dominata dal Libro di Daniele, dove il calcolo dei tempi occupa un posto così considerevole. Questa osservazione è di estremo interesse, perché ci permette di intravedere come si è costituito il cristianesimo stesso, come potrebbe essere sorta la sua prima fede tra ebrei devoti ossessionati dal pensiero del Messia.
3) Un ultimo testo riguardante la nascita di Cristo sembra presentarlo più chiaramente come fatto storico. Leggiamo nella Lettera ai Romani (1:3) che Gesù “è nato dal seme di Davide secondo la carne”.
Ma prima bisogna notare che queste ultime parole non si leggevano nella collezione di Marcione. [21] Secondo Origene, erano state soppresse dall'eresiarca. [22] Solo che potrebbero benissimo essere state introdotte, al contrario, da un editore successivo. Fanno parte di una parentesi molto pesante che il contesto non richiede e che ha tutta l'aria di una semplice glossa (3b 4a).
Inoltre, la formula in questione qui è puramente messianica. Equivale a dire che Gesù è il figlio di Davide. Questo è uno dei titoli tradizionali dell'Unto di Jahvé annunciato dagli antichi profeti. [23] Il contesto invita e persino obbliga a intenderlo in questo senso, Paolo declina i suoi titoli apostolici e si presenta lì come provvidenzialmente chiamato e “prescelto per annunciare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo suo Figlio.... Gesù Cristo, nostro Signore” (1:1-5). È chiaro che la storia evangelica è concepita qui come la normale realizzazione degli antichi oracoli messianici.

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Si obietterà che Paolo ha altre informazioni su Gesù di una natura più positiva. Cita alcune delle sue dichiarazioni, che egli presenta come le “parole del Signore” e che egli suppone siano perfettamente note ai suoi lettori.
L'osservazione sarebbe decisiva, se fosse ben stabilita. Ma rimane altamente discutibile. Nel menzionare queste “parole del Signore”, non viene dato alcun dettaglio che permetta di associarle ad un episodio specifico della vita di Cristo. Dovrebbero, quindi, essere introdotte solo se non possono essere comprese diversamente. Questa cautela è tanto più necessaria perché Paolo stesso si vanta, come abbiamo visto, di non predicare un vangelo che viene dagli uomini. Dichiara di attenersi a ciò che sa solo da Dio. Di fatto, tutte le “parole del Signore” che egli propone sono ridotte a citazioni tratte dalle scritture ebraiche. Sono oracoli del “Kyrios” della Septuaginta che non è altro che l'antico Jahvé.
“Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell'aria, e così saremo sempre con il Signore”. [24]
Il testo spiega molto bene che non si vede lì la minima reminiscenza delle parole pronunciate da Gesù. L'accento qui è sulla resurrezione dei cristiani che precederà il ritorno trionfale di Cristo. I fedeli che dormono si sveglieranno al suono della tromba divina. Torneranno per prendere il loro posto tra quelli che sopravvivono per unirsi al loro glorioso destino. Questa è l'idea fondamentale di Paolo. Ma la stessa affermazione è già formulata, riguardo allo stesso giudizio finale, nell'ultimo capitolo del libro di Daniele: “Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno... per la vita eterna” (12:2). Questo oracolo viene presentato come proveniente dal Signore Dio, con l'ordine al profeta di tenerlo nascosto fino al momento della fine, dove molti lo leggeranno e aumenteranno così la loro conoscenza (12:4). Paolo, vedendosi in quest'ultimo periodo, lo prende in parola e ne fa la base del suo insegnamento.
2) Più conclusivo, a prima vista, è un altro testo che viene letto nella prima lettera ai Corinzi (7:10). Paolo scrive a proposito del legame coniugale:
“Ai coniugi poi ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito... e che il marito non mandi via la moglie”.
Secondo gli esegeti, qui l'apostolo si riferisce a una risposta che, in Marco (10:11-12), Gesù fece ai suoi discepoli in Transgiordania mentre stava salendo a Gerusalemme: “Chiunque manda via sua moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio verso di lei; e se la moglie ripudia suo marito e ne sposa un altro, commette adulterio”.
Ma non bisogna dimenticare che il vangelo secondo Marco, pur essendo il più antico tra quelli che ci sono stati preservati, fu scritto molto tempo dopo le epistole di Paolo. Si spiega grazie a loro, piuttosto che servire a spiegare loro. Non c'è nulla che mostri, d'altra parte, che l'Apostolo sia dipendente da una tradizione orale, da cui procedano anche i nostri testi evangelici, poiché non viene data alcuna indicazione delle circostanze in cui erano state pronunciate le parole di Gesù.
Tutto si spiega molto bene, al contrario, se ammettiamo che Paolo è ispirato qui dalla Bibbia ebraica. Dall'inizio della Genesi (2:24), Dio stesso dice dell'uomo e della donna che i due saranno uno. Ora questa parola è ricordata, a proposito del matrimonio cristiano, in un celebre passo della lettera agli Efesini (5:28-31), come più avanti nello stesso senso, perché permette il divorzio solo al marito, e solamente per una ragione seria (24:1-2). È così, almeno, che la pensava da una scuola rabbinica molto importante, quella di Schammai, [25] la cui interpretazione non poteva essere ignorata da Paolo, e doveva essere attribuita a Cristo stesso dal vangelo secondo Matteo (5:32) — Molti profeti sembrano andare oltre e reprimere ogni allentamento del vincolo coniugale, poiché confrontano l'unione di Jahvé e del suo popolo con quella del marito e della moglie, per concludere che essa deve essere a sua volta indissolubile. [26] Questa idea, infatti, riappare nella lettera agli Efesini, che paragona i rapporti degli sposi a quelli di Cristo e della Chiesa. [27] — Ancora più decisivo è un oracolo che può essere letto in Malachia (2:15-16): “Che nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore.” Indubbiamente è alla parola del “Kyrios” a cui fa allusione l'Apostolo, quando scrive su questo argomento ai Corinzi. E si spiega così che egli non sente il bisogno di precisare le circostanze. Si suppone che tutti i suoi lettori avessero una conoscenza precisa della Bibbia.
3) Un ultimo brano della stessa epistola è presentato a proposito di Gesù. Paolo dice ai Corinzi, parlando del diritto degli apostoli di farsi nutrire dai credenti:
“Il Signore ha disposto che quelli che annunciano il vangelo vivano del vangelo” (9:14).
Abbiamo visto qui un'allusione a una parola di Cristo che si legge in Luca (10:7): “Rimanete in quella stessa casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno del suo salario”.
Ma Paolo scrive prima di Luca, che conosce e sfrutta le sue epistole, che può essere stato ispirato da lui in questo punto. Non fornisce alcun dettaglio che permetta di associare la dichiarazione ad un momento qualsiasi della vita di Cristo. La parola del Signore a cui allude deve venire piuttosto dal “Kyrios” della Septuaginta, dal Dio degli ebrei. In realtà, si presenta anche nella collezione di Marcione [28] come la conclusione di una lunga dimostrazione i cui argomenti, prima mutuati dalla vita comune, furono successivamente confermati dall'Antico Testamento:
“Io non dico questo da un punto di vista umano; è la Legge che dice così. Sta scritto infatti nella legge di Mosè: Non metterai la museruola al bue che trebbia. [29] Forse Dio si dà pensiero dei buoi? Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi. Poiché colui che ara deve arare nella speranza di avere la sua parte.  Non sapete che quelli che fanno il servizio sacro mangiano ciò che è offerto nel tempio? E che coloro che attendono all'altare, hanno parte all'altare? [30] Similmente, il Signore ha ordinato che coloro che annunciano il vangelo vivano del vangelo”. [31] Così vicina al suo contesto, l'ultima frase si può spiegare senza difficoltà grazie all'Antico Testamento. Paolo non fa che applicare ai messaggeri della buona novella solo ciò che legge nella Legge sul tema dei sacerdoti, dei leviti e degli animali stessi consacrati al servizio degli ebrei. È perché crede che tutte le lezioni rivolte ai figli di Abramo siano figure destinate all'istruzione futura dei cristiani.
In breve, l'Apostolo non cita una sola parola, non riferisce un singolo fatto che si collega alla predicazione di Gesù. L'opportunità, tuttavia, gli sarebbe stata offerta in qualsiasi momento, se avesse avuto una tradizione analoga a quella che è pretesa nei nostri vangeli. Avrebbe così stabilito la sua dottrina su prove molto più dirette e convincenti di quelle che deduce penosamente da testi arcaici.
Secondo un resoconto molto dettagliato di Marco, il Maestro, come lui, non ha portato la buona notizia a Greci, fuori dalla terra ebraica? [32] Non aveva insegnato, come lui, che è la fede che salva e che le opere della legge non possono bastare, [33] che il Sabato è stato fatto per l'uomo, non l'uomo per il Sabato, [34] che non sono i cibi impuri, ma i cattivi pensieri e i cattivi desideri che contaminano l'anima, [35] che è necessario rendere a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio? [36] Paolo non fa la minima allusione a queste varie dichiarazioni di Gesù, né alle circostanze che le hanno provocate. È evidente che lui non le conosce. Diciamo meglio. Era perché, nel suo ambiente, nessuno ne sapeva di più su questo argomento. Quale che fosse il suo disprezzo di ogni tradizione umana, sarebbe davvero molto strano e del tutto inesplicabile che lui, che aveva consacrato la sua vita alla diffusione del vangelo, che si trovava in contatto incessante con ogni sorta di credenti ed apostoli, non avrebbe  saputo cosa si diceva tra loro sui temi che gli erano più cari e su cui s'intratteneva costantemente con loro. Se egli non conosce alcun dettaglio preciso e positivo della predicazione di Cristo, questa ignoranza deve essere stata comune a tutti i cristiani del suo tempo coi quali si trovava a contatto.

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Paolo sembra meglio istruito sulla fine del suo Maestro. Nella prima lettera ai Corinzi (11:23-26), ricorda, di passaggio, un episodio iniziale del grande dramma:
“Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu consegnato, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»”.
Questa storia è la più antica e meglio attestata di quelle che ci sono state trasmesse sulla vita di Cristo. Ma si dimostra singolarmente incoerente, perché deriva da una visione puramente ideale.
Le prime parole attestano che qui risaliamo alla sua fonte. Paolo non l'ha ricavata dalla tradizione cristiana. È lui che ve l'ha introdotta. Dichiara espressamente di averla “ricevuto dal Signore”.
Mostra immediatamente come la ha ricevuto, ricordando “la notte in cui Gesù fu consegnato”. Lasciamo da parte il dettaglio della “notte”. È subordinato al dettaglio seguente, a quello della consegna, ed è spiegato da esso. La consegna di Cristo è un'opera delle tenebre. Non poteva accadere che nella notte. Ma perché Gesù fu “consegnato”? La parola sembra strana. È tanto più rivelatrice. La sua stessa originalità ne tradisce l'origine. Se Paolo parla della consegna di Cristo come qualcosa che è evidente, sul quale non c'è bisogno di insistere, è perché tutti i suoi lettori conoscono, o dovrebbero sapere, il celebre passo del Secondo Isaia che mostra il servo di Dio, il suo “figlio” secondo la versione della Septuaginta, “consegnato” alla morte per i peccati degli uomini (53:6, si veda 12).
Il resto del testo profetico ci aiuta a comprendere come si è formata la visione dell'Apostolo. È detto che questo giusto, immolato per i peccatori, fu “come un agnello condotto al macello” (53:7). Abituato a rappresentarsi la storia degli ebrei come una figura anticipata di quella dei cristiani, Paolo identificò quest'agnello con quello della liturgia pasquale descritta nell'Esodo (12:1-28). Egli stesso scrisse, nella stessa epistola ai Corinzi: “E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!” (5:7). Come l'agnello pasquale viene consumato dagli ebrei in un pasto sacro, Paolo si trova indotto a pensare che la grande vittima simboleggiata da lui doveva servire da nutrimento per i cristiani. Questo, ovviamente, poteva essere fatto solo in senso figurato. Così si impone logicamente l'idea di un banchetto mistico, i cui alimenti rappresentano il Cristo. Ne esiste solo uno che riunisce tutti i discepoli di Gesù. Questo è l'agape tradizionale, dove i credenti spezzano lo stesso pane e bevono in una coppa comune. Consisteva prima di Paolo, persino il suo testo ce lo mostra, in un pasto comunitario dove si affermava e dove si fortificava lo spirito del gruppo. Egli vi vede una liturgia mistica, analoga a quella praticata in alcune religioni del mondo ellenistico, quando i fedeli, riuniti attorno a una tavola sacra, si nutrono della figura del loro dio. [37] Lo dice in termini molto chiari ai Corinzi: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?”. [38]
Così inteso, il sacro pasto dei cristiani non poteva che essere istituito da Gesù. Lui solo aveva il diritto di offrire il suo corpo da mangiare, il suo sangue da bere. Quando l'avrebbe fatto se non quando sarebbe stato “consegnato” alla morte, “come un agnello”, per l'istituzione della Pasqua cristiana? Il suo ruolo, in questo caso, corrisponde a quello del fondatore della Pasqua ebraica. Paolo ne è talmente convinto che fa parlare Gesù come Mosè. Costui aveva detto agli israeliti della vittima che doveva suggellare l'alleanza conclusa da loro con Jahvé: “Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi”. [39] È una traduzione cristiana di queste parole che l'Apostolo ci presenta quando fa dire da Gesù: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue”. D'altra parte, per l'equilibrio della scena, la formula riguardante la bevanda mistica esige un'altra, dello stesso genere, pronunciata in precedenza sul pane. È per questo che Paolo gli fa dire prima: “Questo è il mio corpo che è dato per voi”. Per quanto riguarda le parole finali, “Fate questo in memoria di me”, egli senza dubbio si è ispirato alla recitazione mosaica, poiché l'antica Pasqua era già stata data come un grande memoriale, che i figli di Abramo dovevano custodire con cura e poi trasmetterlo ai loro figli. [40]
Così, dalle prime parole fino all'ultima, l'istituzione della cena eucaristica ci appare in Paolo come una mera trasposizione di temi biblici.

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Tale osservazione deve metterci in guardia contro le allusioni fatte nelle epistole alla tragica fine di Gesù. Abbiamo creduto nel passato, noi crediamo ancora comunemente che l'Apostolo qui dipenda da una vera tradizione. Solo che questa tradizione gli si presenta in condizioni molto vaghe e inquietanti, che sarebbero sufficienti a renderla sospetta persino ai lettori più fiduciosi se fosse un argomento meno vitale per la fede.
1) Paolo dice chiaramente, e con insistenza, che Gesù è morto. Ma lui non spiega dove o quando si è verificato il fatto. Egli nota, d'altra parte, che se ne trova l'annuncio tra i profeti. Verso la fine della prima lettera ai Corinzi (15:3), richiamando a grandi linee la sua dottrina ai fedeli, la riassume così: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture”.
È vero che queste ultime parole non si leggevano nell'Apostolikon marcionita. Ma è facile spiegare perché sono state soppresse da Marcione, la cui dottrina contraddicevano. Anche se rappresentassero un'aggiunta piuttosto tardiva, avrebbero senza dubbio corrisposto al pensiero di Paolo. Figurano implicitamente nel contesto. Nel dire che Cristo è morto “per i nostri peccati”, l'apostolo mira apparentemente al già citato testo della raccolta di Isaia del servo (o “figlio”) di Dio “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità,... era come agnello condotto al macello”. [41]
2) A questo fatto tradizionale Paolo aggiunge, è vero, un dettaglio importante:
“il Cristo Gesù, pur essendo in forma di Dio,...  prendendo forma di servo,... umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce”. [42]
Quest'ultimo aspetto, è stato detto, non può essere spiegato dall'influenza biblica. In realtà, vari testi dovevano suggerirlo. Mettiamoci al posto dei cristiani del primo secolo, che cercavano di fissare, tramite antichi oracoli, l'immagine ancora molto fluttuante di Cristo. Hanno visto, proprio nel passo di Isaia usato da Paolo, che il servo (o “figlio”) di Dio sarebbe “Disprezzato,... reietto,... umiliato,... eliminato dalla terra,...   contato fra i malfattori”. [43] Hanno anche notato nel libro della Sapienza che i malvagi dissero al riguardo: “Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti... Condanniamolo a una morte infame”. [44] Tali dettagli evocano da soli una scena di crocifissione. Nessuna punizione, infatti, è stata eguagliata per infamia e per atrocità. Sembrava, inoltre, che gli orrori fossero stati descritti in anticipo in alcuni dei Salmi che parlavano del giusto perseguitato. Uno di loro faceva dire a Dio da questa vittima innocente: “Ma io sono un verme e non un uomo... Tutte le mie ossa sono slogate... La mia lingua è attaccata al mio palato... Uno stuolo di malfattori mi ha attorniato; mi hanno trafitto le mani e i piedi, hanno contato tutte le mie ossa...”. [45]
Questi tratti rapidi e terrificanti dovevano essere, in un certo modo, la prima tela della narrazione della Passione, che può essere letta nei nostri evangelisti. Paolo li avrebbe meditati e sfruttati tanto più perché non voleva conoscere altro che il “Cristo crocifisso”. [46]
3) Vorremmo alcune informazioni concrete sulle circostanze di questa crocifissione, che è diventata così il centro della gnosi cristiana. Possiamo sapere, almeno, da chi e perché Gesù era stato condannato a quest'ultimo supplizio? L'Apostolo tace su questo punto importante. Leggiamo bene, nella prima lettera a Timoteo (6:13), che Cristo “rese testimonianza davanti a Ponzio Pilato con quella bella confessione”. Ma la frase non è di Paolo. Lo scritto, nella sua interezza, è al giorno d'oggi ritenuto comunemente, a ragione, apocrifo.
4) Si è pensato di vedere un'allusione al procuratore romano in un passo dalla prima lettera ai Corinzi: “Gli arconti di questo eone”, è detto, non avevano conosciuto la “Sapienza di Dio” perché “se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (2:8). L'espressione iniziale sarebbe strana, applicata ad un funzionario imperiale di second'ordine. Non è che un'eco, secondo tutte le apparenze, di oracoli messianici. Leggiamo in un salmo che “i re della terra e gli arconti si sono levati e collegati contro il Signore e contro il suo Cristo” [47] Altrove, il salmista pronuncia questo  invito solenne: “Levate, o arconti, le vostre porte, ed alzatevi, o porte dell'eternità, ed entrerà il Re della gloria”. Quindi una voce domanda: “E chi è questo Re della gloria?” Ed egli ha risposto: “Il Signore forte, e potente, il Signore potente nelle battaglie”. [48] Paolo avrà ascoltato questo dialogo del Cristo trionfante, al quale i Principi dell'Aria, guardiani delle porte celesti, dovevano cedere il passo, per lasciarlo entrare “nella gloria di Dio Padre”. [49] Dalla domanda posta da loro su di lui egli perciò aveva concluso che persino allora quelli “arconti” non conoscevano la sua vera natura, sebbene avessero precedentemente cospirato la sua morte. [50]
5) Più conclusivo potrebbe sembrare un testo dalla prima lettera ai Tessalonicesi (2:14-15):
“Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle chiese di Dio che sono nella Giudea in Cristo Gesù, perché anche voi avete sofferto da parte dei vostri connazionali le medesime cose che essi hanno sofferto da parte dei Giudei, i quali hanno ucciso il Signore Gesù e i loro profeti...”.
Ma l'intero brano (5:13-16) in cui questa nota è letta è già stato denunciato come apocrifo. È fortemente correlato al contesto e si presenta come un'“aggiunta editoriale”. [51] Un dettaglio inoltre suggerisce che sarà stato scritto dopo la rovina di Gerusalemme. Dice, in effetti, degli assassini del Signore, che “ormai li ha raggiunti l'ira finale”.
Ammettiamo, tuttavia, che la frase riguardante gli ebrei sia autentica. Il ruolo che è loro attribuito non diventa più garantito. Nel dire che hanno ucciso non solo Gesù ma “i profeti”, l'autore mostra la sua dipendenza dall'Antico Testamento. Vari testi biblici rimproveravano gli israeliti, in particolare gli abitanti di Giuda e Gerusalemme, di aver costantemente frainteso, odiato e messo a morte i servi di Dio incaricati da lui di parlare a suo nome. [52]  I lettori cristiani furono così indotti a credere che il popolo ribelle si fosse comportato allo stesso modo riguardo al Messia. La conclusione era tanto più necessaria, ai loro occhi, perché diversi passi, considerati come messianici, mostravano il giusto ideale esposto agli oltraggi e alle violenze di tutti quelli che lo circondavano. [53]  Il testo della lettera ai Tessalonicesi non aggiunge nulla a questo tema biblico.

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1) Paolo non dice altro sul Cristo crocifisso se non che fu sepolto e risorto. Parla ancora della sua sepoltura solo a proposito della sua resurrezione. Questa stessa è menzionata solo come una nuova realizzazione di antiche profezie. Leggiamo, infatti, nel già citato testo della prima lettera ai Corinzi (15:3) che riguarda la fine del Messia:
“Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture”.
L'allusione biblica della fine, come quella riguardante la morte di Cristo, mancava nell'Apostolikon di Marcione. Ma non è, abbiamo notato, una ragione sufficiente per non considerarlo autentico. Anche se apocrifo, figurerebbe nel pensiero di Paolo. I due insegnamenti della sepoltura e della resurrezione, ai quali si congiunge e che tende a garantire, fanno seguito a quello della  morte sofferta “per i nostri peccati”, che si riferisce visibilmente a un testo del secondo Isaia. Devono essere interpretati alla stessa maniera. Ora, nell'oracolo che è stato appena descritto, il profeta ha detto, riguardo al giusto colpito per i peccatori: “Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo... Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo”. [54] L'apostolo traspone questo vecchio tema, spiegando che il Cristo, “morto per i nostri peccati”, fu sepolto e risorto. Egli può anche aver pensato ad altri testi biblici, di ispirazione simile, ad esempio, ad una frase di un Salmo, [55]  citata sullo stesso argomento negli Atti (2:24), dove un giusto ideale dice a Dio: “Il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa”.
La data assegnata alla resurrezione deve essere concepita come il fatto stesso, “secondo le Scritture”. Gli evangelisti videro una prima rappresentazione del grande evento nel celebre passo, che mostrava Giona inghiottito da un grosso pesce e da lui rigettato dopo tre giorni. [56] Paolo avrebbe potuto trovare lo stesso testo accanto a quello del secondo Isaia riguardo il servo (o “figlio”) di Dio in una collezione di oracoli messianici. Abituato a vedere in tutta la Bibbia ebraica le figure del Messia, sarà stata visualizzata l'avventura tragica del profeta come un simbolo anticipato di questo dramma grandioso in cui il Cristo, vinto dalla morte, era emerso dalla sua morsa ed asceso vittorioso. [57]  Un simile riavvicinamento gli sembrava tanto più naturale dal momento che, senza dubbio, aveva ben presto familiarità, tramite la sua formazione ellenistica, con l'idea, comune attorno a lui, di un dio salvatore che, portato via da una morte violenta, ritorna alla vita dopo lo stesso intervallo di tre giorni. [58]
2) Si contesterà che Paolo non si basa solamente sulle “Scritture”, che egli invoca anche ricordi vissuti. Secondo il seguente testo citato dalla prima lettera ai Corinzi, Cristo si mostrò, dopo la sua resurrezione, a molti testimoni:
“che apparve a Cefa, poi ai dodici. Poi apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in vita e alcuni sono morti. Poi apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli;  e, ultimo di tutti, apparve anche a me, come all'aborto; perché io sono il minimo degli apostoli, e non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio”. [59]
Tali osservazioni sono sorprendenti sotto la penna di colui che si è espresso con tanta altezza, nella lettera ai Galati, sul conto delle famose “colonne” della Chiesa, e che dichiara, in un altro passo, di non essere stato “inferiore in nulla agli apostoli per eccellenza”. [60] Nella forma in cui sono presentate, esse tradiscono, inoltre, una disposizione piuttosto artificiale, che è a malapena conforme alla maniera di Paolo. Abbiamo qui come un dittico, di cui ciascun pannello è prima dedicato a una personalità dominante, “Cefa” o “Giacomo”, quindi un gruppo ristretto di eletti, “i dodici”, “tutti gli apostoli”, infine una cerchia allargata, i “cinquecento fratelli” e l'“aborto”, il quale si colloca sul loro stesso rango, poiché non è “degno di essere chiamato apostolo”. Tutto questo mancava nell'Apostolikon di Marcione. Dopo aver ricordato l'insegnamento dato ai Corinzi, e accettato da loro, sulla morte, la sepoltura e la resurrezione di Cristo (15: 1-4), leggiamo semplicemente: “Così predichiamo e così avete creduto” (15:11). [61] È senza dubbio un testo del genere che Marco avrà conosciuto. Colui che si ispira, per tutta la sua opera, agli scritti paolini, non riporta alcuna apparizione. Termina la sua storia con la scoperta della tomba vuota, che attesta, secondo le credenze del tempo, che Gesù non è più tra gli uomini. [62] Il passo dalla lettera ai Corinzi riguardante le apparizioni di Cristo risorto è quindi, molto probabilmente, solo una glossa successiva.
Cosa varrebbe se fosse genuino? Offrirebbe allo storico solo una garanzia puramente illusoria, poiché le visioni che invoca non rassomigliano per nulla a quelle che regolano la rivendicazione comune. Secondo il resto dell'esposizione, il corpo di un resuscitato non è come il nostro. Tra l'uno e l'altro c'è tanta differenza quanta ve ne è tra un gambo di grano e il grano che lo portava in germe, o, per meglio dire, tra la terra e il cielo, l'anima vivente e lo spirito. L'uno è animato o “psichico”, l'altro spirituale o “pneumatico”. [63] Comprendiamo con ciò che un resuscitato non appare più in carne e ossa. Ha la stessa natura degli spiriti che abitano le regioni dell'aria. È percepito come loro, cioè diverso dalle persone con cui viviamo. Una nuvola, un lampo, un vento improvviso rivelano la sua presenza ai credenti. Ma per chiunque non crede, tali visioni non attestano nulla più dello stato mentale del veggente. Possono moltiplicarsi come la stessa fede che le ha provocate. Il loro valore non è in alcun modo accresciuto. Al tribunale dello storico critico, dodici o cinquecento non contano più di una.

***

Così, fino alla fine della sua carriera, il Gesù di Paolo ci offre solo un'immagine fugace. Rimane impalpabile come quel “figlio dell'uomo” intravisto da Daniele nelle sue “visioni notturne”, che arrivava “sulle nubi del cielo”, verso “l'Antico dei giorni”, per ricevere un dominio eterno sul tutti i popoli, e che simboleggiava, per il veggente, gli ebrei fedeli, chiamati a dominare tutte le nazioni. [64] La sua personalità non è più pronunciata di quella di questo “servo di Dio”, in cui il secondo Isaia personificava l'Israele dell'esilio, sofferente e agonizzante per i peccati degli altri, mostrando così la via ai vagabondi, e meritandosi un meraviglioso trionfo. [65] Per meglio dire, è un tutt'uno con queste figure antiche. [66] È nato dalla loro fusione, partecipa della loro natura, appartiene a sua volta al mondo ideale della fede. [67]

PROSPER ALFARIC 

NOTE

[1] 2 Corinzi 11:32.

[2] Filippesi 2:6-11.

[3] 2 Corinzi 5:15-16.

[4] Haer., 3:13,3.

[5] Galati 1:11-12, 15-17.

[6] 2 Corinzi 11:18, 21-22; 12:1-4, 11.

[7] P. Alfaric, La préparation évangélique, dans la Revue d'histoire des religions, t. 91 (1925), pag. 167-172.

[8] Rendel Harris, Testimonies, Part I, pag. 18, 20-25.

[9] Se ne troverà più avanti un esempio tipico, pag. 273.

[10] A. Harnack, Marcion, pag. 69 e 123.

[11] Filippesi 3:5.

[12] Galati 1:14.

[13] Tertulliano, Adv. Marc., 5:4. Si veda A. Harnack, Marcion, pag. 72*.

[14] Genesi 49:10 Septuaginta. Già Giustino (Apol. 1:32, 1-4, Dial., 52:4; 120:3-5) ed Ireneo (Contro le eresie, 4, 20, 2) utilizzano questo testo per provare che Cristo doveva venire quando sarebbe finita l'indipendenza ebraica. Al posto di “ciò che è in serbo per lui”, essi leggono “colui a cui è riservato”. Forse quest'ultima lezione fu letta in un gruppo di oracoli messianici usati da Paolo.

[15] Romani 8:19.

[16] Daniele 9:24 Septuaginta. Questo testo è già interpretato circa la venuta di Cristo dall'autore dell'epistola a Barnaba (16:6-10) e successivamente da Tertulliano (Adv. Jud., 8).

[17] H. Barclay Swete, The Old Testament in greek, t. 3, pag. 560.

[18] Tertulliano conclude, più precisamente, da questo testo, secondo una meticolosa ma stravagante cronologia, che Gesù doveva venire al tempo di Augusto (Ad. Jud., 8). Nello stesso periodo, Giulio Africano fece lo stesso, nel quinto libro della sua Cronografia, secondo la testimonianza di Eusebio (Demonstr. evang., 8:2, Patrol. gr., t. 22, c. 608-612).

[19] 2 Tessalonicesi 2:3-4. Si veda Daniele 7:25-26; 8:23-25; 9:26-27; 11:36-39.

[20] 1 Tessalonicesi 4:16-17. Si veda Daniele 7:13-14; 12:2-3.

[21] A. Harnack, Marcion, pag. 100*.

[22] In Joh., 10:14.

[23] Isaia 9:1-6 (si veda Matteo 4:14-16); 11:1-5; Michea 5:1 (si veda Matteo 2:5-6). Si veda anche Marco 12:35. Si veda M. J. Lagrange, Le Messianisme chez les Juifs, pag. 216.

[24] 1 Tessalonicesi 4:15-17.

[25] Jerus. Sotah, f. 16, 2. Gamaliele, sebbene il nipote di Hillel abbia pensato su questo punto come Schammai (Yebamoth, 65, a, b).

[26] Ezechiele 16:15, 23-24, 44-45. Se veda Geremia 3: 1; Osea 1: 2; 2: 4-7; 3: 1, ecc.

[27] Efesini 1:22-24, 29-32.

[28] Tertulliano, Adv. Marc., 5:7. Si veda A. Harnack, Marcion, pag. 84-85*.

[29] Si veda Deuteronomio 25:4.

[30] Numeri 18:8-32; Deuteronomio 18:1-8.

[31] 1 Corinzi 9:8-10, 13-14.

[32] Marco 7:24, 9:29.

[33] Marco 2:5; 5:34; 10:52; si veda 10:27.

[34] Marco 2:27-28.

[35] Marco 7:15-23.

[36] Marco 12:17.

[37] R. Reitzenstein. Die hellenist. Mysterien Religionen, seconda edizione, pag. 244-245.

[38] 1 Corinzi 10:16.

[39] Esodo 24:8 Septuaginta.

[40] Esodo 12:24-27.

[41] Isaia 53:5-7.

[42] Filippesi 2:8.

[43] Isaia 53:3, 4, 8, 12.

[44] Sapienza 2:19-20.

[45] Salmo 22:7, 15-19.

[46] 1 Corinzi 2:2.

[47] Salmo 2:8 Septuaginta.

[48] Salmo 23:7-8 Septuaginta.

[49] Filippesi 2:11; si veda Efesini 6:12.

[50] P. L. Couchoud, Le mystère de Jésus, pag. 131-134.

[51] A. Loisy, Les livres de Nouveau Testament, pag. 135.

[52] 1 Re 18:4, 13; 20:14; 2 Romani 9:7; 2 Cronache 24:19-21; 36:15; Neemia,, 9:26. Si veda Luca 11:41-51.

[53] Salmo 27:10; 31:12-14; 69:12-14; 89:39-42.

[54] Isaia 53:9-10.

[55] Salmo 16:9-10, Septuaginta.

[56] Giona 2:1, 11. Si veda Matteo 12:39-41; 16:4; Luca 11:29-32.

[57] 1 Corinzi 15:54.

[58] H. Hepding, Attis, pag. 149-166; si veda 167, nota 3; R. Reitzenstein, Die hellenist. Myster. Relig., seconda edizione, pag. 245 (Osiride); G. Glotz, Rev. des étud. grecq., 1920, pag. 213 (Adone).

[59] 1 Corinzi 15:5-9.

[60] 5, supra, pag. 263.

[61] Harnack, Marcion, pag. 89*.

[62] Due passi del secondo vangelo (14:28 e 16:7) fanno predire da Gesù che egli apparirà agli apostoli come risultato della sua risurrezione. Ma entrambi si trovano a inquadrare il contesto molto male. Devono provenire da un'altra mano.

[63] 1 Corinzi 15:35-49.

[64] Daniele 7:13-14.

[65] Isaia 52:13, 53:12.

[66] Il testo dell'epistola ai Filippesi (2:5-11) citato all'inizio (pag. 257) combina chiaramente l'oracolo di Daniele e quello del Secondo Isaia.

[67] Renan concorda a volte (Saint Paul, pag. 309-310; L'Antéchrist, pag. 84-85, 221-222), così come osserva finemente il mio collega e amico Jean Pommier (La pensée religieuse de Renan, pag. 230-231).


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