venerdì 16 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (IX)

(per il capitolo precedente)


VIII

Era nato nell'anno 10 o 12 a Tarso in Cilicia. Il suo nome si era latinizzato in Paolo solo dopo che era diventato l'Apostolo dei gentili. La sua famiglia proveniva da Giscala di Galilea e fu creduta appartenente alla tribù di Beniamino. Suo padre fu un cittadino romano, avendo acquisito questo status per servigi prestati, o forse, ereditandolo da qualcuno che lo acquisì ad un prezzo. Come tutte le migliori famiglie ebree, la sua apparteneva alla fazione dei farisei. Anche dopo la sua rottura con questa fazione, Paolo mantenne il suo entusiasmo e tensione come pure la sua asprezza di linguaggio.
 Tarso era allora una città fiorente, la sua popolazione mezza greca e mezza aramea.
Gli ebrei erano numerosi in tutti i centri mercantili. L'apprezzamento letterario era diffuso, e nessun'altra città, neppure Atene o Alessandria, poteva vantare una maggiore ricchezza di istituzioni scientifiche. Questo non significa che Saul ricevette una completa educazione greca. Gli ebrei raramente frequentavano scuole di apprendimento profano. Quelle scuole insegnavano soprattutto l'uso di un greco puro. Se Saul avesse appreso da una di loro, non è probabile che Paolo avrebbe scritto, o meglio dettato, in una lingua così non-greca, totalmente strana nella sua costruzione, e così piena di espressioni aramaiche e siriane che difficilmente può essere stata comprensibile ad un greco colto di quel giorno.  Senza vergognarsi della sua mancanza di quel che fu allora chiamata eruzione, egli parla di sé stesso (2 Corinzi 11:6) come idiotes to logo, “rozzo nel parlare”, e la sua intenzione è, ovviamente, accentuare quanto poco gli importino queste cose.
 Evidentemente egli pensava nella lingua siro-caldea, che fu anche la sua lingua nativa, e quella che usò di preferenza anche quando si rivolgeva a sé stesso oppure udiva delle strane voci a lui rivolte.
Quello che predica non ha nessuna relazione di sorta con la  filosofia greca. La citazione frequentemente menzionata di una commedia perduta di Menandro,  “Thais, o Buoni Costumi Corrotti da Cattive Compagnie”, era diventata un proverbio popolare usato da molti che non avevano mai letto Menandro. 
 Le altre due citazioni greche che sono state scoperte, si presentano in epistole che difficilmente possono essere ritenute autentiche. Una di loro è trovata in Tito 1:12 e recita come segue: “Uno dei loro, proprio un loro profeta, disse: «I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri»”. È attribuita ad Epimenide, che visse nel VI secolo A.E.C., e che dagli antichi venne considerato un grande indovino. L'altra, in Atti 17:28, recita così: “In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto”. I poeti qui citati sono Aratus di Cilicia e Cleante di Licia.
 Per “lui” intendevano Zeus, naturalmente.
È facile vedere che la maggior parte della cultura del giovane  Saul proveniva dal Talmud. Egli è guidato da parole piuttosto che da pensieri. Una sola parola lo farà perseguire una linea di pensieri lontana dal suo punto di partenza. Solo in un punto la prima epistola ai Corinzi (13:1 et seq.) sale a tali altezze che pochi altri passi gli reggono il confronto per fiero entusiasmo o fluente eloquenza. Ma dobbiamo anche ammettere che un raffinato studioso come Van Manen lo considera una interpolazione posteriore. Quelle sono le parole bellissime che ho in mente: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un bronzo risonante o un cembalo squillante.  Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla”.
Sono seguite da un numero di espressioni egualmente esaltate . . . scorci di un animo fiero di cui uno simile non era stato visto, e non si sarebbe visto di nuovo, per secoli. 
Ma è bene considerare la cornice nella quale sono state poste quelle gemme: stupidi argomenti sofistici come quelli del capitolo precedente colla sua similitudine noiosamente prolungata del corpo che è uno, e tuttavia ha molte membra, e con la sua applicazione alla chiesa e il suo sostegno per ragioni del tipo: “Se il piede dicesse: «Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l'orecchio dicesse: «Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo.” E così via, ad infinitum. Oppure vediamo ciò che segue questa lode esaltata della carità. È un capitolo così sciolto nel suo ragionamento che la versione stabilita del testo sostituisce “parlare con lingue sconosciute” all'originale “parlare con la lingua”, che implicava la produzione di suoni inarticolati durante uno stato di estasi. E così otteniamo quei passi: “Chi infatti parla in una lingua sconosciuta non parla agli uomini, ma a Dio, giacchè nessuno comprende, mentre egli dice per ispirazione misteri. ... Chi parla in una lingua sconosciuta edifica se stesso, chi profetizza edifica l'assemblea; ecc.”. Tutto di cui non è nient'altro che un sacco di vuote frasi.

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