domenica 23 aprile 2017

Circa «Le mystère de Jésus» di Paul-Louis Couchoud (X)

  (Questa è la decima parte della traduzione italiana di un libro del miticista Paul-Louis Choucoud, «Le mystère de Jésus». Per leggere il testo precedente, segui questo link)

 
— III. DAL CIELO ALLA TERRA

L'immaginazione religiosa è la forza eruttiva che scuote l'umanità. L'apocalisse cristiana primitiva, fatta per scatenare le più alte potenze dell'anima — il terrore, la speranza, l'amore, la soddisfazione mistica —, doveva, se si imponeva a uomini, sconvolgerli completamente.
Ma era impossibile che si propagasse senza trasformarsi. Essa medesima era lo sviluppo organico dei sogni ebraici. Essa li aveva sistematizzati e portati al più alto punto di precisione e d'intensità. Ora doveva subire la prova della durata. Era la più turbante concezione religiosa che l'Occidente avesse mai trovata. Era questa la sua probabilità di vivere. Ma essa era portata da un'impossibile speranza. E questo era il suo pericolo di morire.
Dopo Paolo, l'apocalisse cristiana, la buona novella, come si diceva, o il mistero, si sviluppò in due direzioni opposte. Alcuni profeti insistettero sull'Apparizione prossima di Gesù, per ravvivarne l'attesa, spiegarne il ritardo, descriverne in precedenza lo scenario. In questa corrente si trova l'Apocalisse di Giovanni. Altri lasciarono nel vago l'Apparizione di Gesù e in compenso descrissero lungamente il suo passaggio nell'umanità e il suo sacrificio redentore. È questa la via dei Vangeli. L'altra conduceva all'abisso. Per questa via la fede poté sopravvivere alla delusione della speranza prima.
La leggenda evangelica non è altro che un episodio ingrandito e sviluppato dell'epopea cosmica di Gesù. L'episodio partecipa alla natura apocalittica dell'epopea. Ma questa leggenda ci è così familiare, essa è, per certi aspetti, così riuscita che, nonostante l'evidenza contraria, abbiamo difficoltà a credere che essa non sia primitiva.
Tuttavia non è primitiva. Non è paradossale il dire che il cristianesimo poteva crescere e riempire il mondo senza che chicchessia immaginasse che Gesù fosse un personaggio storico. Oltre alle lettere di Paolo, esistono numerosi antichi scritti cristiani, e fra i più importanti, che non suppongono in nessun modo l'esistenza storica di Gesù. Si può citare l'Apocalisse di Giovanni, l'Epistola agli Ebrei, la lettera di Clemente di Roma a quelli di Corinto, la Didachè, il Pastore di Hermas. La cristologia si sviluppò a lungo tempo prima che si pensasse a ricavarne una vita del Messia.
La selvaggia, soave e sublime Apocalisse di Giovanni fu scritta verso il 90-96, quarant'anni dopo le lettere di Paolo. Vi si vede il cammino percorso. Al tempo di Paolo tutti erano profeti ed i profeti erano uguali. L'uno parlava, e se la rivelazione passava ad un altro, che stava seduto, il primo si fermava (1 Corinzi 4, 30-35). Ora ci sono dei veggenti di professione, dei tenori della profezia, nutriti, vestiti, mantenuti dalla assemblea e che la governano dispoticamente fino al giorno in cui cederanno il posto ai sorveglianti meno dotati ma più saggi.
Al tempo di Paolo gli oracoli erano proferiti e si pensava poco a scriverli. Ora, profezie lungamente composte vengono apportate all'assemblea. Un lettore specialmente incaricato le legge solennemente (Apocalisse 1, 3). Così s'introduce l'Apocalisse di Giovanni, così si introdurranno i Vangeli. La profezia cristiana ripete lo sviluppo dell'ebraica. Ai profeti oratori succedono i profeti scrittori.
Che cosa diventa Gesù nell'Apocalisse di Giovanni? Egli si allontana ancora dalla terra; astro fra gli astri, si fissa nel cielo stellato. Lontano dai personaggi della storia umana egli si fa posto fra gli animali dello zodiaco e gli esseri fantastici di cui l'astrologia popolava le strade del cielo. Egli appare quattro volte, in quattro momenti della sua storia, in quattro figure diverse le quali tutte scoraggiano lo storico.
Noi assistiamo alla sua nascita. Essa ha luogo in pieno cielo. La madre di Gesù è una Donna celeste, una dea vestita di sole, coronata di stelle, in cui si riconosce la Vergine dello zodiaco. Il vecchio Dragone babilonese che fu vinto alla creazione del mondo ma che vive ancora, sa che il suo ultimo vincitore sta per nascere e tenta di afferrarlo di sorpresa, come fa il Pitone per il figlio di Latona, o Tifone per il figlio di Iside.
“Un gran segno fu visto in cielo: una Donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e sulla testa una corona di dodici stelle: essa è incinta, essa grida di dolore, nello spasimo della procreazione” (Michea 4, 10).
Un altro segno fu visto in cielo: ecco un gran Dragone rosso con sette teste e dieci corna, e dieci diademi sulle sue teste. La sua coda spazza il terzo delle stelle del cielo; essa le gettò sulla terra” (Daniele 8, 10).
Essa procreò un figlio, un maschio (Isaia 66, 7) che percuoterà tutti i popoli con un bastone di ferro (Salmo 2, 9). “Suo figlio fu trasportato presso Dio, presso il Trono di Dio” (Apocalisse 12, 1-5).  
Una credenza popolare ebraica testimoniata da un vecchio compianto conservato nel Talmud di Gerusalemme voleva che il Messia fosse nato il giorno in cui il Tempio fu distrutto dai Caldei (poiché si credeva che Isaia avesse annunciato, l'una di seguito all'altra, la distruzione del Tempio e la nascita del Messia). Subito dopo la sua nascita gli uragani lo avevano assunto al cielo. È curioso vedere la poesia popolare ebraica e la mitologia greca concorrere al quadro favoloso della nascita di Gesù.
La sua morte non è rappresentata. Gesù era sgozzato in forma di un giovane ariete, con sette corna e sette occhi. Poiché tale egli appare in trionfo quando è installato nel Trono di Dio e cadono davanti a lui i padroni delle quattro sezioni del cerchio zodiacale e delle ventiquattro costellazioni, pizzicando le loro cetre e tendendo le loro fiale d'oro piene di profumi (Apocalisse 5, 1-8; Loisy, pag. 123, 133). È l'Agnello pasquale di Paolo introdotto in pompa nel cielo astrologico.
Egli è ad un tempo la vittima e il sacerdote di un supremo sacrificio. È come gran sacerdote ebreo, nell'abito del giorno dell'Espiazione, ch'egli si mostra al profeta. Porta il lungo mantello del pontefice ma ha i lineamenti di Jahvè.
“...Voltandomi io vidi sette candelieri d'oro,  e in mezzo ai candelieri come un Figlio d'uomo vestito di una cappa, e cinto il petto di un pettorale d'oro”.
 I capelli della testa bianchi come lana bianca (Daniele 7, 9; aspetto di Jahvé), gli occhi come fiamma di fuoco (Daniele 10, 6; aspetto di Gabriele), i piedi simili a chiaro bronzo (Ezechiele 27, aspetto di Jahvé), così forte la voce come rumore di grandi acque (Ezechiele 43, 2; voce di Jahvé).
Egli ha nella sua destra sette stelle, dalla sua bocca esce un'affilata spada a doppio taglio. Il suo aspetto è come appare il sole nella sua forza (Giudici 5, 31).
Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto” (Apocalisse 1, 13-17).
Finalmente ecco il Messia equestre, Gesù a cavallo, quale fra poco salterà dal cielo, dove si tiene ancora nascosto per compiere le divine vendette:
“Io vidi il cielo aperto; ecco un cavallo bianco: Colui che lo monta è chiamato Fedele e Veridico, egli giudica con giustizia e combatte...” (Isaia, 11, 3-4).
È egli che pesta il tino del vino di furia (Isaia 63, 3) della collera del Dio sovrano; “ Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: RE DEI RE e SIGNORE DEI SIGNORI (Apocalisse 19, 16).
Figlio della Vergine celeste, Ariete stellare, gran sacerdote di Dio, o Cavaliere sanguinoso, il Gesù dell'Apocalisse è tutto mitologico. Egli è il Gesù di Paolo, ma ricacciato nel profondo dei cieli, scartato dalla condizione di servo, allontanato da ogni apparenza di attaccamento alla terra. La sua storia è ritagliata in immagini fantasmagoriche, elettriche e cariche di minacce, come quelle dei tarocchi.
L'Epistola agli Ebrei è un prezioso opuscolo di cui sono ignoti l'autore e i destinatari e che segna, dopo Paolo e prima della fine del primo secolo, la meditazione cristiana più alta e più ponderata. Il celeste sacerdozio di Gesù che nell'Apocalisse non è altro che una visione, qui è un'idea, lungamente giustificata dalla scrittura, spinta a tutte le conseguenze. Gesù è definito come il tipo eterno, immemorabile predecessore e l'autentico successore del gran sacerdote ebreo.
Si vede forse trasparire dietro di lui un uomo storico? Niente affatto. Rimettiamoci a due buoni giudici: “Il Gesù dell'Epistola agli Ebrei non è un uomo che, per la sua personalità, le sue dottrine, le sue sofferenze, ha fatto un'impressione durevole ma un essere celeste che, disceso sulla terra, si vestì di carne e di sangue”. “La preghiera, le sofferenze e l'inaugurazione di Gesù come pontefice eterno non sono la preghiera di Getsemani, la passione e la resurrezione che raccontano i nostri Vangeli, ma un'interpretazione diretta delle Scritture specialmente del Salmo 22, in cui si può dire che il nostro autore trasferisce tutti i dati nella storia”.
Come Paolo, egli vendemmia nelle Scritture tutto ciò che sa di Gesù. Ma dai grappoli di Paolo ricava una seconda torchiatura.
Dai Salmi 7 e 110 Paolo aveva dedotte le vittorie finali di Gesù. Il nostro autore ne fa uscire ben altro. Il Salmo 8 dice: “Tu hai messo l'uomo per qualche tempo al di sopra degli angeli”. Che importa che qui si tratti dell'uomo in generale? Allegoricamente l'uomo è Gesù. Dunque Gesù fu abbassatto sotto gli angeli per essere ben presto esaltato sopra di essi (Ebrei 1, 5-10). E l'altro Salmo dice “Tu sei sacerdote per l'eternità, col grado di Melchisedec”. Queste parole erano rivolte al primo dei re sacerdoti maccabei, a Simone Maccabeo. Che importa? Allegoricamente sono rivolte a Gesù. Ecco, il titolo divino che abolisce il sacerdote ebreo abroga il sacerdozio levitico a profitto del sacerdote eterno (Ebrei, cap. 4, 5, 6 e 7).
Dove l'autore sorpassa Paolo è nel fatto che egli sa trarre dalle porzioni della Scrittura molto più per il cristiano, come il rituale dei sacrifici del Tempio. Mediante il simbolismo egli le annette a Gesù. È questa una sorgente di nozioni nuove. Per esempio, sta scritto che le vittime espiatorie sono arse fuori del campo (Levitico 16, 17). Ciò significa che Gesù ha sofferto fuori del campo, cioè fuori del mondo, e che noi dobbiamo con lui uscire fuori del mondo e condividere il suo obbrobrio, perchè non abbiamo in questo mondo la nostra città (Ebrei 13, 11-14).
Il fondamento di quest'alta morale, terribile e nuova, è appunto questo, che Gesù non appartiene al nostro mondo.
La lettera che Clemente di Roma inviò a quelli di Corinto verso il 95-98 rassomiglia all'Epistola agli Ebrei. Altrettanto inutilmente vi si cercherebbero allusioni ad un personaggio storico chiamato Gesù. Il Signore Gesù è la “irradiazione della maestà divina”, lo “scettro della maestà di Dio”. Egli è il “gran sacerdote delle nostre offerte”: per mezzo suo “noi vediamo in uno specchio la faccia pura e sublime di Dio”, noi gustiamo “la gnosi immortale” (36, 1-2).
Egli è che parla nell'Antico Testamento. Se Clemente vuole citare parole autentiche di Gesù, cita il Salmo 22 e il Salmo 34 (Clemente 16, 15-17; 22, 1-8). La sua concezione di Gesù non può essere commisurata col ricordo di un uomo reale.
La Didachè, piccolo regolamento ecclesiastico, di circa l'anno 100, non conosce neppur essa un Gesù storico. Essa riferisce come parola di Gesù ciò che dice il profeta Malachia.
Il Pastore, chiacchierata profetica dello schiavo Hermas, frutto in ritardo della profezia cristiana esaurita e diventata cianciona, non si riferisce affatto ad alcun ricordo storico. Per il buon Hermas, Gesù è uno dei sette arcangeli, il maggiore fra tutti. Esso si distingue male da Michele e si confonde con la Chiesa personificata. A questo titolo egli può mostrarsi in aspetto di vecchia dama. Egli appartiene all'angelologia, non alla storia.
Da Paolo a Clemente di Roma la teologia cristiana ha fatto molto bene a meno di un Gesù storico. A quale epoca e perchè dunque ne ebbe bisogno?
In tutto il Nuovo Testamento, a parte i Vangeli, vi  è una sola allusione al Gesù storico. Si trova nella prima epistola a Timoteo: “Il Messia Gesù che rese davanti a Ponzio Pilato la sua bella testimonianza...”. Il riferimento si trova nei Vangli. Ecco pronunciato quel nome di Ponzio Pilato per mezzo del quale Gesù si aggrappa alla storia.
Ma esso si trova in un documento di tarda data. La falsa lettera a Timoteo che suppone stabilito l'episcopato monarchico (1 Timoteo 3, 1-13) e che respinge le antitesi di una pretesa gnosi (1 Timoteo 6, 20) è probabilmente posteriore alla condanna delle Antitesi di Marcione, cioè al 144.
Verso il 150 i Vangeli erano letti nelle assemblee e ritenuti da Giustino come le Memorie degli Apostoli. Una ventina d'anni prima, Papia di Ierapoli menzionava i due primi Vangeli. È possibile che il passo di Tacito su Gesù, scritto fra il 115 e il 117, sia l'indizio più antico dell'esistenza della letteratura evangelica.
È dunque probabile che precisamente all'inizio del secondo secolo si sia avuta l'idea, in certe comunità, di metter la storia misteriosa di Gesù in un semplice racconto e di presentarla come storicamente avvenuta. Questo sviluppo era nella natura delle cose. Una storia divina assume facilmente le forme di una storia ordinaria. Io ho toccato l'orlo del pozzo Callicoro dove sedette la Dea Demetra quando viveva fra la gente di Eleusi e serviva come schiava cretese, nella casa del re Celeo. 
Gesù viveva potentemente nel mondo invisibile e fuori del tempo. Perché fu egli condotto sul suolo di Palestina e fissato nel tempo? La causa principale fu la crisi dell'attesa cristiana. Vi si aggiunsero i bisogni dell'apologetica e della liturgia.
Il cristianesimo, verso il secondo secolo, ebbe la sua crisi di crescita che sarebbe stata mortale se la fede che vuol durare non possedesse infinite risorse. Esso era stato teso verso l'avvenire, portato dall'impossibile speranza che, precisata, esagerata, non era altro che la vecchia speranza ebraica. I cristiani erano insomma mezzi ebrei messianisti per i quali l'attesa del Messia e la speculazione sul Messia avevano sostituito ogni cosa. La dottrina di Paolo non fu altro che una grande scommessa, la scommessa tenuta ferma che il Messia Gesù, concepito secondo il testo d'Isaia e dei Salmi, sarebbe presto apparso sulla nube, secondo il testo di Daniele. Questa affascinante scommessa fu il motore della nuova fede.
Questa rischiosa scommessa stava per essere perduta. Il Messia Gesù restava in cielo. La vigilia era lunga. La stanchezza veniva. L'Apocalisse fu destinata a ravvivare l'attesa più ancora che a definirla. Fu l'ultimo colpo di frusta assestato ai quattro cavalli della fine del mondo, spossati per aver galoppato invano fra i sogni. Il cristianesimo correva pericolo di morire di languore, come una speranza non realizzata.
Ma esso era più che una speranza. Esso era un'esperienza. La vera manifestazione di Gesù, la sua presenza, era attesa come un evento futuro. Tuttavia Gesù si era già manifestato nelle visioni degli apostoli, negli oracoli dei profeti, nei miracoli dei taumaturghi. Le assemblee avevano quotata la sua presenza anticipata. Agli occhi di Paolo queste erano soltanto caparre. Ma le caparre assumevano valore, ora che il saldo era così a lungo differito.
Così la fede cristiana cambiò asse a poco a poco. Il Messia fu in certo modo sdoppiato. La gente si attaccò fervorosamente al Messia già venuto per distaccarsi alquanto dal Messia ancora da venire. Il futuro regno di Dio fu dichiarato in certo senso già presente. Fu allontanato, fu scolorito il trionfo di Gesù. Fu avvicinato, fu concretizzato ciò che Gesù aveva già compiuto: la sua morte mistica, le sue imprese spirituali. Un lavoro profondo e delicato permise alla fede di superare il passo mortale.
Questo lavoro è abbozzato nei tre primi Vangeli, dove le speranze positive indietreggiano passando in seconda linea. È terminato nel quarto, dove queste speranze non hanno nemmeno più oggetto, poiché la vita eterna è già acquisita e già vissuta. I vangeli sostituiscono al Gesù sperato e sfuggente un Gesù fermo, afferrabile. Per il vero mistico, i tempi non hanno nulla di assoluto. La speranza dice: tutto ciò che sarà, è già. Io vi ottengo già poichè vi spero. La fede risponde: Tutto ciò che è, è passato.
Tu non mi cercheresti, se tu non mi avessi già trovato.
Le obiezioni degli increduli e degli esitanti agirono nel medesimo senso. Sulle definizioni successive della fede cristiana la loro azione plastica è evidente. L'obiezione fa nascere l'affermazione. Il dubbio colpisce la fede.
Il Gesù di Paolo e dell'Epistola agli Ebrei era soltanto intelligibile a spiriti familiarizzati con le realtà soprasensibili e rotti alla più alta speculazione ebraica. Presentato a uomini più carnali e meno macerati nelle Scritture, egli sollevava le obiezioni del preteso buon senso.
Egli era veramente apparso a Pietro ed agli altri? O forse gli apostoli avevano visto solo un fantasma? No, replicava la fede. Non era un fantasma. La prova è che lo si era toccato. Il corpo di Gesù non era più un'adorabile realtà spirituale. Tendeva a diventare un corpo come gli altri. L'uomo dal grossolano buon senso non ammette corpi che non siano materiali. E nella disputa attira sul suo terreno l'uomo di fede.
E l'incarnazione di Gesù, il suo passaggio nell'umanità e la sua morte, dove e quando avevano avuto luogo? Paolo aveva lasciato ciò nell'indeterminato delle rivelazioni divine. Ma non vi poteva restare. Su questi punti soprattutto premeva l'obiezione materialista. Essa dice: i fatti non sono reali se non sono successi, e se sono successi si iscrivono in qualche luogo della storia. Dove s'iscrivevano i fatti divini da cui dipendeva la salvezza degli angeli e degli uomini?
Il mistico alle prese con l'uomo volgare non può disarmare. Vinto, sentirebbe di subire un'ingiustizia. Per lui la realtà mistica è infinitamente superiore ad ogni altra realtà. Non c'è bisogno di insistere molto perché egli certifichi che questa implica ogni altra realtà. Gesù era vivente, ecco il fatto supremo. Egli era uomo per definizione teologica. Se egli non poteva essere uomo se non essendo personaggio della storia, valeva meglio affermare la sua storicità che rinunciare a lui. La fede in un Gesù vivente creò la fede in un Gesù che è vissuto.
La crudeltà degli Ebrei, il sanguinoso censimento di Quirino, le sevizie di Ponzio Pilato ondeggiavano nei ricordi. Ad esse si mescolò la storia della redenzione del mondo. Poiché i Salmi dicevano che il Redentore era stato crocifisso, egli aveva potuto essere crocifisso soltanto dai romani. Il sanguinario Ponzio Pilato diventò il garante del Gesù storico. Il nome del cavaliere romano e quello del Figlio di Dio furono delicatamente annodati fra loro.
La liturgia, infine, esigeva un'altra storia santa per sostituire l'antica. I cristiani non osservavano più la legge mosaica. Essi potevano con difficoltà continuare le letture rituali del Pentateuco. Ora, noi vediamo che al tempo di Giustino la lettura dei Vangeli è sostituita a quella della Legge e precede la lettura dei Profeti (Giustino, 1 Apologia, 67, 3). Questo ci indica per quale uso i Vangeli furono composti.
Gesù fu concepito come un altro Mosè, che non va sulla montagna a cercare gli oracoli di Dio ma parla egli stesso sulla montanga. La nuova Legge fu disposta al modo dell'antica, alternando i precetti coi racconti edificanti. Come il Pentateuco aveva frammischiato la Legge e le leggende degli israeliti, così i Vangeli mescolarono alla legge cristiana la leggenda del Messia. 
La loro destinazione era liturgica. Essi sono gli ultimi frutti della profezia critiana e annunciano un'età nuova. Furono composti all'epoca in cui i prudenti vescovi cercavano di strappare ai profeti illuminati il governo del gregge. Essi fornirono loro delle letture chiare, probanti, regolari, idonee a limitare le rivelazioni aleatorie e i liberi voli dello Spirito.

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