giovedì 23 giugno 2016

Di cosa sapeva Plutarco che neppure gli iniziati ai Misteri di Osiride sapevano — e tantomeno gli stupidi hoi polloi

METAFISICA: Scienza importantissima, davvero sublime, grazie a cui ciascuno può avere la possibilità di conoscere a fondo cose bellissime di cui i suoi sensi non gli forniscono alcuna idea. Tutti i cristiani sono profondi metafisici: non v'è rammendatrice che non sappia imperturbabilmente che cosa sia un puro spirito, un'anima immateriale, un angelo e che cosa si debba pensare della salvezza per sola grazia.  
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768)

Iside raccoglie i pezzi sparsi del corpo di Osiride. Illustrazione tratta da un manoscritto del 15° secolo del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio. 


Plutarco, nel De Iside et Osiride, racconta, seguendo apparentemente una fantasiosa tradizione, che Iside e Osiride, concepiti nello stesso grembo, si erano sposati nel ventre materno e che Iside, nascendo, era già incinta di un figlio. I due sposi vissero in perfetta armonia e tutti e due si dedicarono a rendere più civili i loro sudditi, e a insegnar loro l'agricoltura e molte altre arti necessarie alla vita. Diodoro Siculo aggiunge che Osiride, avendo deciso di recarsi nelle Indie per assoggettarle non tanto con la forza delle armi quanto con la persuasione, reclutò un esercito formato di uomini e donne e, dopo aver nominato Iside reggente del suo regno e lasciato con lei Mercurio ed Ercole, il primo dei quali era capo del suo consiglio mentre il secondo era intendente delle province, partì per la sua spedizione, la quale fu così fortunata che tutti i paesi in cui egli si recò si sottomisero al suo dominio. Tornato in Egitto, il sovrano scoprì che suo fratello Tifone aveva cospirato contro il governo e commesso azioni riprovevoli. Giulio Firmico aggiunge persino che aveva sedotto la cognata Iside. Osiride, uomo di temperamento pacifico, tentò di placare quell'animo ambizioso; ma Tifone, ben lungi dal sottomettersi al fratello, non pensava che a fargli del male e a tendergli tranelli. Plutarco ci narra in che modo riuscì a sbarazzarsi di Osiride: «Tifone,» dice «avendolo invitato a uno splendido banchetto, propose ai suoi ospiti, dopo il convito, di stendersi dentro una cassa di squisita fattura, promettendo che l'avrebbe donata a chi fosse stato di quella stessa lunghezza. Quando Osiride vi fu entrato a sua volta i congiurati si alzarono da tavola, richiusero la cassa e la gettarono nel Nilo. Iside, appresa la tragica fine del suo sposo, si accinse a cercarne il corpo, e avendo saputo che si trovava in Fenicia, nascosto sotto un tamarisco dove lo avevano gettato le onde, si recò alla corte di Biblo ed entrò al servizio di Astarte per avere più agio di cercarlo. Infine lo trovò, dopo estenuanti fatiche, e lo pianse tanto che il figlio del re di Biblo ne morì di dolore; ciò commosse il re suo padre a tal punto che permise a Iside di portare con sé quel corpo in Egitto. Tifone, informato del cordoglio della cognata, aprì la cassa, tagliò a pezzi il corpo di Osiride e ne fece portare le membra in diverse località dell'Egitto. Iside raccolse con cura quelle sparse membra, le chiuse in bare e consacrò i simulacri delle parti che non era riuscita a trovare (donde l'uso del fallo, divenuto celebre in tutte le cerimonie religiose degli Egizi). Infine, dopo aver versato molte lacrime, lo fece seppellire ad Abido, città situata a occidente del Nilo». Se gli Antichi collocano il sepolcro di Osiride in altri luoghi, ciò è dovuto al fatto che Iside ne fece erigere uno per ogni parte del corpo del marito nel punto stesso dove l'aveva trovata. Frattanto Tifone si preoccupava di consolidare il suo nuovo impero; ma Iside, dominando il suo dolore, si affrettò a radunare un esercito che pose sotto il comando del figlio Horus. Il giovane principe attaccò il tiranno e lo sconfisse in due battaglie campali. Dopo la morte di Iside gli Egizi l'adorarono insieme al suo sposo; e poiché, quand'erano in vita, essi avevano dedicato ogni loro cura al lavoro dei campi, il bue e la vacca divennero i loro simboli. In onor loro furono istituite delle feste, in cui una delle cerimonie principali era la comparsa del bue Api. Più tardi si proclamò che le anime di Iside e Osiride erano salite fino al sole e alla luna e si erano identificate con quegli astri benefici, di modo che il culto di questi ultimi divenne una cosa sola col loro. Gli Egizi celebravano la festa di Iside nella stagione in cui credevano che essa piangesse la morte di Osiride. Era l'epoca in cui le acque del Nilo cominciavano a salire; perciò dicevano che il fiume, ingrossato dalle lacrime di Iside, inondava la loro terra rendendola feconda. Più tardi Iside fu considerata personificazione della natura, o dea universale, cui si davano nomi diversi a seconda dei suoi attributi. Erodoto l'identifica con Cerere. Diodoro la confonde con la Luna, Cerere e Giunone; Plutarco con Minerva, Proserpina, la Luna e Tetide; Apuleio la chiama madre degli dèi, Minerva, Venere, Diana, Proserpina, Cerere, Giunone, Bellona, Ecate e Ramnusia.

Questa che ha raccontato Plutarco è solo una favola, una storiella, una fabbricazione a tavolino, un'allegoria, una leggenda, inventata dai preti di Osiride al solo scopo di spiegare le ragioni di un mito, per la precisione quello della morte e resurrezione di Osiride. Ma un mito, come ogni mito che si rispetti, ha ovviamente le sue proprie “ragioni”, che la ragione non conosce, ma può solo fabbricare. In piena coerenza, la storiella che Osiride e Iside erano antichi faraoni d'Egitto poi divinizzati fu inventata per spiegare il mero fatto bruto sotto gli occhi di tutti, un fatto altrimenti “inspiegabile” agli occhi del volgo, sempre in necessità della più semplice “spiegazione” possibile (non importa se falsa, purchè sia credibile): che due deità erano venerate e adorate in Egitto sotto il nome rispettivamente di Iside e di Osiride. Questo intero processo si chiama evemerizzazione e fu applicato nel caso specifico appunto su Iside e Osiride. 

Perchè sto menzionando Osiride? Non basta sapere di lui che rientra nella categoria ellenistica degli dèi che muoiono e risorgono, la stessa categoria alla quale appartiene una recente deità ebraica chiamata Gesù? La ragione è che il racconto di Osiride è utile per imparare anche altre cose del mito di Gesù. E non mi riferisco alle frottole propinate dal demente di turno che vuole fare goffamente di Gesù nient'altro che una specie di Osiride 2.0 o qualcosa di simile, abbandonandosi alla peggiore delle parallelomanie tra Gesù e il dio egiziano (dovrebbe essere ormai chiaro al lettore che la migliore tesi miticista non ha nulla a che fare con le chiacchiere astroteologiche di tal sorta, visto il rancore dei folli astroteologi contro il serio e compentente studioso Richard Carrier, un rancore di cui anch'io ho fatto esperienza). Mi riferisco invece a qualcosa di ben più serio, e che serve a meglio comprendere dove fu immaginata esattamente la crocifissione nel mito di Gesù originario. Ovvero probabilmente nello stesso luogo dove Osiride fu ucciso e fatto a pezzi da Tifone. In Egitto? No. In Israele? Nemmeno. Da qualche parte sulla Terra? Neppure.

La cosmologia secondo Plutarco e secondo Paolo.

Plutarco ci dice la risposta, usando lo stesso linguaggio dei misteri: la verità tenuta segreta deliberatamente dai sacerdoti di Osiride (nonchè dagli iniziati ai gradi superiori dei misteri) è che Osiride non è realmente esistito sotto la terra, nè fu mai esistito sulla terra come un re come crede ciecamente il popolino, ma è un Dio “lontanissimo dalla terra, non vi si mescola e non ne viene contaminato, ma rimane puro da qualsiasi sostanza che sia soggetta alla decadenza e alla morte,” dove “ha il comando e il regno” delle anime dei morti (De Iside et Osiride, 78). Plutarco dice anche che “la parte del cosmo soggetta al divenire e alla corruzione è circoscritta dalla sfera lunare, e tutto in lei si muove e muta” (De Iside et Osiride 63). È là, nelle “parti estreme” (le “parti estreme della materia”), che il male ha un dominio particolare, e dove solo alcuni particolari iniziati ai Misteri di Osiride hanno la facoltà —invero, il privilegio —  di immaginare che Osiride viene continuamente smembrato e ricomposto (De Iside et Osiride 59).  
Perfino se Plutarco si sente così privilegiato, in virtù della filosofia di Platone, da ritenersi superiore rispetto a quelli stessi iniziati ai più alti misteri di Osiride, dal momento che lui sa la verità: che perfino il mito celeste della morte e resurrezione del dio Osiride in quelle “parti estreme della materia” costituisce un'allegoria soltanto, neppure eventi letterali che si svolgono in un'altra dimensione. Mentre Paolo rivelava un “mistero” sull'arcangelo celeste Gesù ai soli “perfetti” della sua comunità (1 Corinzi 2:6-8): 
Or noi parliamo di sapienza fra i perfetti tra voi, ma di una sapienza che non è di questo eone né degli arconti di questo eone che sono ridotti al nulla, ma parliamo della sapienza di Dio nascosta nel mistero, che Dio ha preordinato prima delle età per la nostra gloria, che nessuno degli arconti di questo eone ha conosciuta; perché, se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
Ma come sta scritto: «Le cose che occhio non ha visto e che orecchio non ha udito e che non sono salite in cuor d'uomo, sono quelle che Dio ha preparato per quelli che lo amano».

...e sembrava davvero credervi alla lettera, Plutarco invece, relativamente al dio Osiride, non credeva neppure in cuor suo al “mistero” della sua morte e resurrezione nei cieli inferiori. Quindi perfino un Paolo era più letteralista di un Plutarco ed in fondo come poteva non essere così, visto che la filosofia offre strumenti di comprensione del reale di gran lunga superiori rispetto alla religione e all'allucinazione? E si noti che neppure Plutarco era così tanto istruito secondo i nostri parametri moderni, dal momento che lui menziona alcuni saggi filosofi che, a differenza sua, allegorizzavano tutto quanto (tanto le leggende su Osiride ad uso e consumo del popolino quanto i misteri celesti di Osiride per i soli iniziati come Plutarco) non come riflesso delle astratte concezioni platoniche sul bene (come già preferiva fare Plutarco), ma come mero riflesso di forze naturali (qualcosa che il neoplatonico Plutarco non poteva giammai accettare). Quei filosofi erano sicuramente i seguaci di Democrito e di Epicuro, più che di Platone e di Aristotele, ma questa è un'altra storia (una storia che la dice lunga sulla superiorità di una visione atea del cosmo già allora). 

 Ad ogni caso, se quella morte e resurrezione di Osiride nei cieli erano trattati come letterali o allegorici da Plutarco non importa. Plutarco ha preservato semplicemente evidenza testuale che al suo tempo era pratica comune, almeno tra gli iniziati di un certo rango ai Misteri di Osiride, concepire la sua morte per smembramento nelle “parti estreme della materia”, ovvero nello spazio che separa la Terra dal ciclo della Luna attorno alla Terra.  
Osiride è un dio discendente, poichè la sua anima, la sua divinità pura, risiede nella parte alta, ma il suo corpo è disceso nei cieli inferiori (che corrispondono alle “parti estreme della materia”)  per sottoporsi là a morte e risurrezione. L'esposizione del mito da parte di Plutarco si riferisce a processi metafisici in corso su una scala che copre sia cieli superiori che inferiori, non ad eventi storici terreni. Tifone smembra e squarta l'agonizzante Osiride con artigli e strumenti di tortura che non sono storici, reali, ma altrettanto mitici e collocati nelle “parti estreme della materia”.

 In De Iside et Osiride 63, Plutarco opera la classica distinzione platonica tra il reame della corruttibilità e il reame dell'incorruttibilità:  
E infatti la parte del cosmo soggetta al divenire e alla corruzione è circoscritta dalla sfera lunare, e tutto in lei si muove e muta…

In De Iside et Osiride 59, lui dice che Tifone, una figura simile a Satana che rappresenta le attività del male, opera nell'area prossima all'orbita della luna:
Ma quando Tifone arriva all'improvviso con la sua forza e si impadronisce delle parti estreme...
E cosa sono quelle "parti estreme"De Iside et Osiride 59 lo chiarisce:
È a questo che allude il mito quando afferma che Neftys è sposa di Tifone, e che Osiride si unì a lei solo di nascosto: e infatti le parti estreme della materia, quelle cioè che vengono chiamate Neftys e anche Fine, sono in potere della forza distruttiva. 

Le "parti estreme della materia" sono quelle contenute al di sotto della sfera della luna.  E cosa vi localizza Plutarco? 

Ma quando Tifone arriva all'improvviso con la sua forza e si impadronisce delle parti estreme del mondo, allora Iside ha un aspetto infinitamente triste e piange il suo dolore, e si mette a cercare e a ricomporre quello che resta del corpo dilaniato di Osiride; poi raccoglie nel suo seno quei brandelli per metterli al sicuro, e grazie ad essi di nuovo dà alla luce gli oggetti della realtà, che da lei quindi scaturiscono.
Questa è una chiara dichiarazione da parte di Plutarco che lui localizza il vero mito di Iside e Osiride nelle “parti estreme della materia,” precisamente l'area sotto la luna. Solo gli iniziati di rango superiore possono immaginare che in quella sede Osiride viene continuamente smembrato e ricomposto, e Plutarco specifica dov'è il salto di qualità in quella conoscenza superiore rispetto ai semplici non-iniziati letteralisti in un passo in De Iside et Osiride 54:
Non è senza ragione, quindi, che essi [gli egiziani] raccontano come l'anima di Osiride sia eterna e incorruttibile, sebbene il suo corpo venga continuamente smembrato e disperso da Tifone, e come Iside riesca a ricomporlo, dopo lunghe peregrinazioni e ricerche. Il principio dell'essere, dello spirito, del bene, infatti, è più forte della distruzione e del mutamento. 
Tifone, che è detto operare nell'area sotto la luna, ripetutamente causa la morte del corpo di Osiride (la sua anima rimane nei cieli superiori mentre il suo corpo è disceso nei cieli inferiori), mentre Iside porta alla sua resurrezione nella stessa località. 

Earl Doherty è chiaro in proposito, nel suo Jesus: Neither God Nor Man (pag. 147-148, mia libera traduzione e mia enfasi):
In contraddizione alle più antiche attività leggendarie di Osiride come re dell'Egitto in tempi primordiali, qui gli atti del mito stesso del culto sono detti ripetersi, il che lo rimuove da un contesto terreno. L'essenza di Osiride, il suo spirito-anima, abita la natura 'eterna e incorruttibile,' i cieli superiori, ma il suo 'corpo' discende nei cieli inferiori per subire la morte e la rigenerazione, cose che possono solamente prendere luogo nel reame 'della distruzione e del mutamento.' Un tale 'corpo,' ripetutamente sottoposto a smembramento, non può essere considerato un corpo umano incarnato, e deve quindi essere inteso come un corpo celeste equivalente all'interno di quel reame di mutamento al di sotto della luna. In 35 Plutarco si riferisce ai 'racconti che parlano dello smembramento di Osiride, della sua resurrezione e della sua nuova nascita.' Anche quelle cose sono 'eventi' che si ripetono, l'ultimo essendo necessario alla resurrezione, e quindi la totalità della leggenda è vista operante in una dimensione spirituale. Qui noi abbiamo una visione quasi esattamente equivalente alla visione miticista di un Cristo paolino che discese nella parte inferiore dei cieli, assunse una 'carne' e subì una morte e una resurrezione.  

Come Plutarco descrive la visione per gli addetti ai misteri, 'l'anima di Osiride è eterna e incorruttibile, sebbene il suo corpo viene continuamente smembrato e disperso da Tifone, e Iside riesce a ricomporlo, dopo lunghe peregrinazioni e ricerche,' perchè il suo corpo è perituro e per quella ragione è 'cacciato dal cielo' (De Iside et Osiride 54). In altre parole, per quei fedeli Osiride è letteralmente “incarnato” nel cielo sublunare e realmente muore e risorge là, più tardi riascendendo al di là verso i cieli incorruttibili superiori.

Qualche folle apologeta cristiano obietterebbe che Plutarco non dice esplicitamente che Osiride discende nelle “parti estreme della materia” ma solo che è Tifone a conquistarle appena prima di procurare la morte a Osiride. Ma se la conquista delle “parti estreme della materia” da parte di Tifone è immediatamente preliminare all'assassinio di Osiride, logicamente si presume che Osiride deve situarsi là, esattamente in quelle “parti estreme della materia”, giusto in tempo per trovare la morte per mano di Tifone. E l'unico modo che aveva un dio celeste come Osiride per trovarsi là al momento della sua morte è perchè vi è disceso dai cieli superiori dove si trova la sua anima pura e incorruttibile. 

Quindi è piuttosto chiaro ed evidente che Plutarco dice che Osiride muore (per mano di Tifone) e risorge (per mano di Iside) nel cielo sublunare.  

Plutarco in De Iside et Osiride 20 non nasconde il suo disprezzo per il crudo e macabro letteralismo di chi prende come storia vera, come “storia ricordata”, le leggende storiciste intorno a Iside e Osiride:
È questa, più o meno, la sintesi fondamentale del libro. Ho tralasciato i particolari più scabrosi, come l'amputazione di Horus e la decapitazione di Iside, e credo di non dovertene certo spiegare il perchè. Se gli Egiziani attribuiscono realtà a questi fatti e ne parlano come di azioni veramente compiute o subite da una natura beata e incorruttibile, quella cioè che noi riferiamo unanimemente al concetto di divinità, allora davvero, seguendo le parole di Eschilo, “bisogna sputare e pulirsi la bocca.”
Plutarco non digerisce questo grottesco letteralismo (proprio come a me fanno schifo i folli apologeti cristiani che fanno grottesche e ridicole letture letteraliste dei vangeli) specie quando attribuiscono dettagli imbarazzanti  a Osiride, cose che marciano contro la “natura beata e incorrutibile,” quella della vera divinità sopra il firmamento. 

Dopo aver condotto con le leggende di Osiride e Iside come sovrani dell'Egitto, leggende ritenute a torto “storiche” dal popolino, Plutarco si sposta ad interpretare i miti su un diverso livello.  

L'idea che i miti erano creati per rappresentare allegoricamente eventi e forze naturali  è un tema su cui Plutarco torna indietro di nuovo e di nuovo. I miti non erano per lui che riflessi di “una realtà trascendente”, nonostante l'enfasi di Plutarco che le parti più imbarazzanti di quei miti possono essere trascurate volentieri in quanto contro la “natura beata e incorruttibile”, cioè la natura della vera divinità sopra il firmamento.  
Non c'è niente di insolito sul modo degli antichi di vedere i miti del dio salvatore come rappresentazioni di eventi e forze naturali. Il modo corrente con cui la ricerca scientifica ha sempre analizzato i miti è come una rappresentazione dei processi astronomici dell'universo e della natura sulla terra, specialmente riguardo al ciclo delle stagioni e dell'agricoltura.  
Perfino quando Plutarco menziona coloro che interpretano il mito come semplice allegoria di eventi e forze naturali, quelli eventi e forze naturali non sono affatto ristretti alla terra stessa, ma ancora operano a livello cosmico. E infatti Plutarco si sta costantemente riferendo a una “natura” nei cieli. Esistono invece elementi del mito che, come la vede Plutarco, alludono ad Osiride nel suo più alto stato celestiale: l'“anima” di Osiride è considerata giustamente “eterna” e “incorruttibile”, mentre il suo “corpo” è soggetto a morte e smembramento. Tali distinzioni non possono essere effettive sulla terra soltanto. E Plutarco per tutto quel passo particolare è preoccupato con le distinzioni e relazioni cosmologiche tra l'imperituro e il perituro, e col principio platonico dell'emanazione dell'inferiore “mondo sensibile e corporeo” da un mondo “buono e superiore”. Quindi quelle stesse distinzioni e relazioni cosmologiche comprendono assai più delle mere forze naturali della dimensione terrena. Chiaramente, Osiride nell'opinione di Plutarco, nell'allegoria del suo mito, opera nei cieli e non sulla Terra, contrariamente a cosa ne pensa il volgo. 

Ma cosa della parte sulla leggenda di Osiride in considerazione di dove dice “il suo corpo viene continuamente smembrato e disperso da Tifone, e Iside riesce a ricomporlo, dopo lunghe peregrinazioni e ricerche”? Plutarco sta allegorizzando questo ad intendere le mere forze della natura sulla terra? No. Il contesto di quella frase di Plutarco si inserisce nelle varie interpretazioni del mito di Osiride che altri filosofi hanno offerto. 
“Così in Egitto si sostiene che Osiride è il Nilo che si congiunge con la terra, simboleggiata da Iside, e Tifone è il mare in cui il Nilo si getta e si disperde…" (De Iside et Osiride 32) 
Nota che quelle interpretazioni schiettamente naturalistiche non sono le interpretazioni preferite da Plutarco, sebbene egli concede loro una rispettabilità in quanto il prodotto di saggi filosofi. Tali passi di Plutarco illustrano che esisteva una varietà di interpretazioni allegoriche del mito di Osiride (proprio come ne esisteva a proposito di altri miti del dio salvatore).  È quella stessa varietà, assieme all'approccio letterale tipico degli οἱ πολλοί nel vedere i miti come racconti delle attività di dio sulla terra — un approccio biasimato da Plutarco —, che rende impossibile dichiarare che i miti potevano essere visti “solo ed esclusivamente” in un modo: come racconti posti in un distante passato sulla terra. 

Sulle stesse frequenze, Plutarco descrive come il mito di Osiride può essere inteso a rappresentare le azioni di forze naturali agenti sulla Luna:  
Alcuni interpretano il mito come simbolo delle eclissi lunari. La luna va in eclissi quando è piena e il sole si trova esattamente dalla parte opposta: in questo modo essa cade nell'ombra della terra, proprio come Osiride cade nella bara. La luna, poi, il trenta del mese nasconde a sua volta il sole e lo oscura: non completamente, però, proprio come Iside non annienta mai del tutto Tifone. (De Iside et Osiride 44)

Prego si noti che neppure questo riferimento all'“eclissi” è offerta da Plutarco come sua propria. È ancora un'altra interpretazione piuttosto naturalistica avanzata da “alcuni” di quei saggi filosofi, in aggiunta alla lista delle diverse correnti interpretazioni del mito. Perfino quest'interpretazione naturalistica (rigettata per definizione dal neoplatonico Plutarco) si applica a forze naturali operanti nei cieli, agenti persino sulla luna stessa. A questo punto, Plutarco enuncia qual è la sua interpretazione del mito preferita:
Non è senza ragione, quindi, che essi [gli egiziani] raccontano come l'anima di Osiride sia eterna e incorruttibile, sebbene il suo corpo venga continuamente smembrato e disperso da Tifone, e come Iside riesca a ricomporlo, dopo lunghe peregrinazioni e ricerche. Il principio dell'essere, dello spirito, del bene, infatti, è più forte della distruzione e del mutamento. Da esso derivano le immagini che improntano il mondo sensibile e corporeo; ma le regole, le forme, le somiglianze che questo riceve sono come suggelli impressi sulla cera, e non riescono a mantenersi intatti, perchè il principio del disordine e del turbamento si impadronisce di loro. Il campo d'azione di tale principio è ora la terra, da quando è stato cacciato dal cielo e si è messo a combattere contro Horus, generato da Iside in funzione di immagine sensibile del mondo intelligibile...(De Iside et Osiride 54)...
Essa [la forza distruttiva di Tifone] riesce poi a infettare acque e venti, e a estendere li suo influsso anche alla luna, portandovi disordine e sovvertimento, al punto da oscurarne spesso la luce: ora è Tifone che colpisce l'occhio di Horus, dicono le credenze egiziane, ora invece glielo strappa e lo ingoia, per poi restituirlo al sole. La prima immagine allude simbolicamente al novilunio mensile, la seconda invece alla eclissi; è il sole che vi porta rimedio, illuminando all'istante la luna non appena sia sfuggita all'ombra della terra. (De Iside et Osiride 55)
 Solo perchè Plutarco ci dice di altre interpretazioni di altri filosofi che collegano l'allegoria alla terra non significa che quest'interpretazione automaticamente deve essere vera per lui. In realtà, neppure quell'evento prende luogo sulla terra. Quando Plutarco spiega in De Iside et Osiride 55 che l'attacco di Tifone è simbolico del “novilunio mensile” come il contrattacco di Horus è simbolico delle “eclissi”, quelle azioni sono tutte immaginate agenti nei cieli. Quindi diventa davvero dubbio e non poco contradditorio dichiarare che la storia dello smembramento di Osiride prende luogo sulla terra. Come può quel che accade durante un'eclissi (del sole o della luna) esser detto accadere sulla terra? Non solo quella descritta in De Iside et Osiride 55 non corrisponde alla vera opinione di Plutarco in merito bensì a quella di altri, ma perfino considerandola tale, ancora non è possibile far prendere luogo il mito di Iside e Osiride, sotto quella interpretazione, sulla terra.

Per giunta, il contesto nella citazione di Plutarco circa lo smembramento del corpo di Osiride da Tifone (in De Iside et Osiride 54) non ha niente a che fare con le eclissi. In realtà il passo De Iside et Osiride 54 è, come ho sottolineato prima ancora, circa la relazione tra le parti spirituali e materiali dell'universo: la creazione (di platonica memoria) di immagini delle prime convertite in copie nelle seconde che non sono affatto permamenti, poichè “il principio del disordine e del turbamento si impadronisce di loro. Il campo d'azione di tale principio è ora la terra, da quando è stato cacciato dal cielo”. Quelli sono eventi cosmici che sorpassano l'intero universo, non meramente gli eventi terreni. Plutarco sta analizzando il mito nel contesto di questa dimensione cosmica.  

L'opinione preferita da Plutarco e da lui descritta in De Iside et Osiride 54 non ha nulla a che fare con quella descritta in De Iside et Osiride 55 e relativa invece ad altri filosofi.  In realtà, ci sono altre righe di testo tra loro, compreso un chiaro cambiamento del soggetto. Perciò è da folli apologeti cristiani pretendere un fittizio legame tra il motivo dell'eclissi della seconda parte (De Iside et Osiride 55) col motivo dello smembramento di Osiride della prima parte (De Iside et Osiride 54). (e perfino facendo così a quale fine proprio non so, poichè ho già sottolineato che ogni evento simboleggiato dall'“eclissi” prende luogo nei cieli, non sulla terra, qualcosa che descrive chiaramente il testo citato in De Iside et Osiride 55.) In ogni caso, ciò che De Iside et Osiride 55 riporta è semplicemente un riassunto dei misfatti di cui è colpevole Tifone, e non può essere collegato in alcun modo al mito dello smembramento di Osiride descritto invece in De Iside et Osiride 54.

Per giunta, il passo contenente il riferimento allo smembramento di Osiride da parte di Tifone segue un precedente passo che fa un paio di cose. Primo, stabilisce che Plutarco è ora su un terreno da lui personalmente preferito. Quelle sono le interpretazioni allegoriche che lui supporta mettendoci in persona la faccia. Secondo, l'enfasi di quel passo non è sulle eclissi, oppure su eventi terreni, ma su astratti principi di chiara influenza platonica essenziali al funzionamento dell'universo. Quei principi potrebbero essere benissimo etichettati “forze naturali” ma non sono in alcun modo collegati alla superficie della terra oppure ad eventi storici (De Iside et Osiride 53):  
Ma riprendiamo il nostro discorso. Iside è il principio femminile della natura, quello cioè che accoglie nel suo seno i germi vitali dell'intero universo. Platone la chiama “nutrice e grembo che tutto riceve”; comunemente, poi, le vengono attribuiti altri mille nomi, che hanno origine dal suo vario disporsi in tutte le diverse forme fisiche e spirituali, secondo le regole del principio informatore. E' innato in lei l'amore verso l'essere primo, il signore del tutto, che si identifica col bene: questo essa desidera e ricerca, mentre fugge e respinge le pur fatali pretese del male. Se è vero, infatti, che Iside rappresenta per entrambi i principi la materia e il luogo in cui generare, la sua natura peraltro inclina sempre verso l'essere migliore, e a lui si offre, per essere fecondata di effluvi e di somiglianze: è questa la sua gioia, aver concpeito e portare nel seno i germi della vita. Immagine dell'essenza nella materia: questa è la vita; e il divenire è un'imitazione dell'essere.
Questo discorso conduce direttamente all'introduzione di quel paragrafo chiave De Iside et Osiride 54 al pensiero di Plutarco:  “Non è senza ragione, quindi, che essi [gli egiziani] raccontano...”.

 Infatti per Plutarco a questo punto, l'enfasi della leggenda è sul ruolo di Iside nella ricomposizione dello smembrato Osiride, poichè lei sta cercando la ricostituzione della sua precedente unità e perfezione: “Il principio dell'essere, dello spirito, del bene, infatti, è più forte della distruzione e del mutamento.” Questo segue quel paragrafo precedente (De Iside et Osiride 53) dove Iside “desidera e cerca” ciò “che si identifica col bene.” Questo desiderio, la natura che “inclina sempre verso l'essere migliore” non è un evento isolato (e di certo non un'eclissi), ma un perdurante processo, qualcosa che lei ripete ad un livello metafisico.  Quindi rivelando in ultima istanza che è del tutto coerente il collegamento che fa Plutarco nel paragrafo successivo col fatto che la leggenda comporta una ripetizione continua del processo di smembramento (l'azione ripetuta del male nel mondo), seguita subito dopo dalla rigenerazione di Osiride (il ripetuto tentativo di Iside di stabilire il bene).

Riporto la continuazione, da là in poi, del pensiero di Plutarco (De Iside et Osiride 54-63):

Non è senza ragione, quindi, che essi raccontano come l'anima di Osiride sia eterna e incorruttibile, sebbene il suo corpo venga continuamente smembrato e disperso da Tifone, e come Iside riesca  a  ricomporlo,  dopo  lunghe peregrinazioni  e  ricerche.  Il  principio  dell'essere,  dello  spirito,  del bene,  infatti,  è  più  forte  della  distruzione  e  del  mutamento.  Da  esso  derivano  le  immagini  che improntano il mondo sensibile e corporeo; ma le regole, le forme, le somiglianze che questo riceve sono come suggelli impressi sulla cera, e non riescono a mantenersi intatti, perché il principio del disordine e del turbamento si impadronisce di loro. Il campo d'azione di tale principio è ora la terra, da  quando  è  stato  cacciato  dal  cielo  e  si  è  messo  a  combattere  contro  Horus,  generato  da  Iside  in funzione di immagine sensibile del mondo intelligibile. Horus è figlio illegittimo, e in quanto tale è esposto all'accusa di Tifone e da essa si difende: la sua natura non è pura e genuina come quella del padre, ossia ragione in sé e per sé, incontaminata e immune da passione, ma risulta imbastardita dalla materia dell'elemento corporeo. In ogni caso, Horus esce vittorioso da questa lotta e
 riesce a imporsi, perché Ermes, cioè la ragione, interviene a dimostrare in suo favore che la natura compie la creazione del cosmo proprio attraverso i mutamenti qualitativi che la sua tensione verso l'intelligibile reca con sé.
 La nascita stessa di Apollo, avvenuta mentre i genitori Iside e Osiride erano ancora nel grembo di Rea, allude simbolicamente alla concezione secondo la quale, prima che questo mondo venisse alla luce e trovasse la sua forma compiuta grazie alla ragione, la materia, pur essendone per sua natura incapace, aveva già prodotto in se stessa una prima, imperfetta creazione. Per questo dicono che la gestazione nelle tenebre ha fatto di Apollo un dio incompleto; e lo chiamano Horus il vecchio perché al momento della sua nascita non c'era ancora il mondo, bensì un'immagine soltanto e quasi uno spettro del mondo che stava per nascere.
Il nostro Horus, invece, è ben definito e compiuto in se stesso; egli non ha annientato completamente Tifone, ma è riuscito però a limitarne l'azione e il potere. Per questo a Copto Horus è rappresentato nell'atto di serrare in mano il membro di Tifone. Il mito vuole, d'altronde, che Ermes abbia  adattato i nervi  estratti  dal  corpo  di  Tifone  all'uso  di  corde  musicali:  e  questa  immagine  vuole simboleggiare che la ragione creò l'universo risolvendo in quest'accordo le discordanze delle singole  parti;  in  tal  modo  la  forza  distruttiva  non  venne  annientata,  ma  soltanto  mutilata.  Essa  risulta quindi  indebolita  e  inattiva  nel  nostro  mondo,  e  deve  combinarsi  con  elementi  passibili  di  trasformazione: il suo potere si esplica così nel produrre movimenti sismici nella terra, aridità e venti irregolari nell'aria, e anche fulmini e tuoni. Essa riesce poi a infettare acque e venti, e a estendere il suo influsso anche alla luna, portandovi disordine e sovvertimento, al punto da oscurarne spesso la luce: ora è Tifone che colpisce l'occhio di Horus, dicono le credenze egiziane, ora invece glielo strappa e lo ingoia, per poi restituirlo al sole. La prima immagine allude simbolicamente al novilunio mensile, 
la seconda invece alla eclissi: è il sole che vi porta rimedio, illuminando all'istante la luna non appena sia sfuggita all'ombra della terra. La  natura  migliore,  quella  più  divina,  si  compone  di  tre  parti,  ossia  il  principio  intelligibile,  la materia, e il risultato della loro unione, che i Greci chiamano cosmo. Platone usa definire il principio intelligibile con i termini idea, modello e padre; la materia con i termini madre, nutrice, sede e anche luogo di nascita; e il risultato della loro unione con i termini di prole e creazione. Si potrebbe dedurre  che  anche  gli  Egiziani  visualizzino  la natura  dell'universo  con  la  figura  del  triangolo  più  bello, proprio come Platone nella Repubblica sembra averlo impiegato per impostare graficamente il  concetto  dell'unione  matrimoniale.  Questo  triangolo  ha  l'altezza  di  tre  unità,  la  base  di  quattro  e l'ipotenusa di cinque, tale cioè che il suo quadrato è uguale alla somma dei quadrati degli altri due lati che la delimitano. L'altezza, dunque, può essere paragonata al maschio, la base alla femmina, e l'ipotenusa al figlio da entrambi generato; allo stesso modo Osiride si identifica con l'origine, Iside con  l'elemento  ricettivo, e Horus con il  loro  prodotto  compiuto.  Il  tre  è  il  primo  numero  dispari  e perfetto; il quattro è un quadrato costruito sul primo numero pari, il due; il cinque è in parte simile al padre e in parte alla madre, essendo composto dal tre e dal due; bisogna ricordare inoltre che panta  («tutto») deriva  dal  vocabolo pente  («cinque»), e  che  il  significato  del  verbo  «calcolare»  viene anche espresso per mezzo del verbo «contare per cinque». Cinque al quadrato, inoltre, dà un numero  che  corrisponde  esattamente  a  quello  delle  lettere dell'alfabeto egiziano, nonché agli  anni della vita di Apis.
Quanto a Horus, gli Egiziani lo chiamano anche Min, che vuol dire «colui che può essere visto»: il cosmo,  infatti,  è  una  realtà  sensibile  e  visibile.  Iside  invece  viene  chiamata  a volte  Muth,  o  anche  Athyri  o  Methyer. Col  primo nome  essi  indicano  in  lei  la  «madre»,  il  secondo  significa  «casa  cosmica di Horus»,  ossia, come intende anche Platone, il luogo dove il principio genetico viene ricevuto; il terzo nome è composto da «pieno»  e  «causa», e indica che la materia del cosmo è piena, e ha in sé il bene, il puro e l'ordinato. Si può forse affermare che anche Esiodo, quando pone come elementi primi solo il Caos, la Terra, il Tartaro ed Eros, non intenda assumere altri princìpi genetici diversi, ma esclusivamente questi: infatti, quando noi diamo a Iside il nome di Terra, a Osiride il nome di Eros e a Tifone il nome di Tartaro, altro non è che una semplice trasposizione verbale, dato che il Caos in Esiodo sembra essere unicamente lo spazio sottostante l'universo. Queste cose richiamano in un certo senso il mito sulla nascita di Eros, che Platone fa esporre a Socrate nel Simposio. Penia, la Povertà, voleva avere un figlio; allora si sdraiò al fianco di Poros, l'Ingegno  pieno  di  risorse,  mentre  era  addormentato,  concepì  da  lui  e  diede alla  luce  Eros,  che  risultò quindi di natura mista e multiforme, essendo nato da un padre buono, sapiente e autosufficiente in tutto, e da una madre, al contrario, priva di ingegno e di risorse, sempre dipendente dagli altri e in cerca della loro carità. Poros altri non è che il primo Amato, Desiderato, Perfetto e Autosufficiente; e col nome di Penia, Platone si riferisce alla materia, per sua natura sempre alla ricerca del bene, da questo fecondata e di esso desiderosa e partecipe. Il frutto della loro unione è il cosmo, e quindi Poros  non  è  eterno  né  esente  da  modificazioni  né  incorruttibile;  e  tuttavia,  dato  che  la  sua  natura  è quella di rinascere continuamente, riesce a restare sempre giovane e immune da distruzione, nonostante il mutare e l'avvicendarsi degli accidenti. Non dobbiamo certo impiegare i miti come fossero verità assolute: dobbiamo tuttavia trarre da ciascuno di essi quelle indicazioni che risultino utilmente aderire al principio della verisimiglianza. Così,  quando  parliamo di  materia,  non  dobbiamo  essere  influenzati dalle  teorie  di  alcuni  filosofi tanto da concepirla come un corpo in sé inanimato, indeterminato, immobile e inattivo. Quando infatti diciamo che l'olio è la materia dell'unguento odoroso, e l'oro è la materia della statua, non ci riferiamo certo a elementi del tutto privi di proprietà che li distinguano. L'anima stessa, lo stesso pensiero umano sono materia della conoscenza e della virtù: e il compito di perfezionarli e di armonizzarli lo attribuiamo alla ragione. C'è anche chi sostiene che la mente è la sede delle forme, e quindi in un certo senso la materia in cui si imprimono i dati della realtà intelligibile.
Alcuni  d'altronde  ritengono  che  il  seme  femminile  non  sia  potere  fecondante  e  principio genetico, ma semplicemente  materia  e  alimento  di  creazione.  Se  vogliamo  seguire  tale  concezione,  bisogna necessariamente dedurne che Iside partecipi in eterno del dio primigenio, e a lui si conceda e si unisca per amore della sua perfezione. Così di una donna onesta noi diciamo che, quando un uomo onesto e onorato la ama onestamente ed essa gli si concede, è ancora il desiderio di lui a muoverla: e la  stessa  cosa  si  può  dire  della  dea,  e  cioè  che  essa rimane  sempre  attaccata  a  Osiride  e  implora  il  suo amore e viene colmata dalle sue qualità più pure ed elevate.
Ma  quando  Tifone  arriva  all'improvviso con  la  sua  forza  e  si  impadronisce  delle  parti  estreme del mondo, allora Iside ha un aspetto infinitamente triste e piange il suo dolore, e si mette a cercare e a ricomporre quello che resta del corpo dilaniato di Osiride; poi raccoglie nel suo seno quei brandelli per metterli al sicuro, e grazie ad essi di nuovo dà alla luce gli oggetti della realtà, che da lei quindi scaturiscono. Nel cielo, nelle stelle, la ragione delle cose e le loro forme, ossia in sostanza tutto quello che emana dal dio, certo permangono immutabili; e invece ciò che si è disperso in mezzo alla realtà sensibile, e cioè nella terra, nel mare, negli esseri vegetali e animali, ebbene, questo muore e si corrompe e lo seppelliamo, anche le poi spesse volte di nuovo riluce e ricompare fra le creature. È a questo che allude il mito quando afferma che Neftys è sposa di Tifone,  e che Osiride si unì a lei solo di nascosto: e infatti le parti estreme della materia, quelle cioè che vengono chiamate Neftys e anche Fine, sono in potere della forza distruttiva. Il principio della fecondità e della sopravvivenza immette in esse un seme debole e sbiadito, che viene quindi subito distrutto da Tifone, a eccezione di quel po' che Iside riesce a raccogliere e a salvare, alimentandolo e poi dandogli forma. Osiride, in sostanza, è il migliore tra gli dèi, come del resto suppongono anche Platone e Aristotele. Il principio della fecondità e della sopravvivenza della natura si muove verso di lui e verso l'essere,  mentre  il  principio dell'annientamento  e  della  distruzione  da  lui si  allontana  per  rivolgersi  al  non essere. Per questo gli Egiziani danno a Iside un nome che deriva da «slanciarsi (iesthai) con conoscenza (episteme)»  e  «muoversi» (pheresthai), per alludere cioè alla sua natura di movimento animato  e  intelligente.  Bisogna  poi  osservare  come  tale  nome  non  sia  assolutamente  un  vocabolo straniero: come gli dèi (theoi) tutti derivano il loro nome comune da due forme verbali, «colui che è manifesto» (theatos) e «colui che corre» (theon), così questa dea noi la chiamiamo Iside, dall'unione di scienza (episteme) e «movimento» (kinesis), e col nome di Iside la chiamano anche gli Egiziani.
A questo proposito Platone riporta che gli antichi chiarivano il concetto di «essenza» (ousia) chiamandola  «conoscenza»  (isia);  anche lo  spirito  e  l'intelligenza  vengono definiti come  un  impulso  e un movimento della mente che si indirizza e viene sospinta verso una meta, e così pure la comprensione e il bene in genere e la virtù sono concepiti come realtà perennemente scorrenti e trasportate in un moto veloce. Con i termini opposti viene invece stigmatizzato il male: esso è un ostacolo per la  natura, qualcosa che la lega e la trattiene e le impedisce di muoversi e di procedere; suoi sinonimi sono «cattiveria», «incapacità»,    «viltà»,    «angoscia»(kakia, aporia, deilia, ania). 
Osiride  invece  deriva  il  suo  nome  dalla fusione  di  «santo» (hosios)  e  di  «sacro»  (hieros):  egli infatti è l'ordine razionale comune alle diverse realtà del cielo e di Ades, che gli antichi erano soliti chiamare  le prime  «sante», e  «sacre»  le  seconde.  Il  principio  che  rende  visibile  la  realtà  celeste  e che presiede a tutto quanto è sospinto verso l'alto, poi, è Anubis, chiamato anche Ermanubis, a seconda che ci si riferisca alla sua funzione nella realtà celeste o in quella infera. Per questo gli Egiziani  gli  sacrificano  in  occasioni diverse  un  gallo  bianco  oppure  fulvo:  bianco, quando  intendono  rivolgere la loro venerazione alle realtà pure e manifeste, fulvo quando si rivolgono a realtà miste e complesse.
Non  c'è  niente  di  strano  in  questa  sorta  di  traduzione  in  lingua  greca:  bisogna  ricordare  infatti  che esistono migliaia di altri nomi usciti dai confini della Grecia insieme alle migrazioni, e che sono rimasti in uso sino ad ora presso genti straniere; e quindi sono male informati quanti accusano di barbarismo i poeti che fanno rivivere nella loro arte alcuni di quei vocaboli, e li considerano erroneamente  come  glosse.  Nei  cosiddetti  Libri  di Ermes,  a  quanto  si  afferma,  riguardo  ai  nomi  sacri  sta  scritto  che  Horus,  ossia  la  forza preposta  al  controllo  del  moto  solare,  viene chiamato  Apollo  dai  Greci;  e  la  forza  preposta  al  controllo  del  vento,  invece,  viene  chiamata  ora  Osiride  ora  Sarapide;  Sothis, poi, in egiziano significa «gravidanza» (kyesis) o «essere gravido» (kyein), e in greco il vocabolo ha subìto solo una trascurabile modificazione, e si è trasformato in Cane (kyon), ossia il nome della stella attribuita a Iside. Ma non bisogna essere eccessivamente partigiani nell'attribuzione dei vocaboli: io però confesso che preferirei lasciare agli Egiziani il nome di Sarapide, anziché Osiride, perché il primo è un vocabolo straniero, mentre il secondo è a mio parere greco, anche se entrambi designano un'identica divinità e una sola potenza. Anche  nella  lingua  egiziana  si  compiono operazioni  simili.  Iside,  per  esempio,  viene spesso chiamata  col  nome  di  Atena,  perché  esso  significa  qualcosa  come «venni  da  me  stessa»,  e  allude quindi a un moto spontaneo. 
Tifone, come si è detto, viene chiamato anche Seth, Bebon e Smu, nomi tutti che vogliono indicare qualcosa di violento o una forza che trattiene e ostacola, o un'oppressione o un rovesciamento.
La calamita, poi, viene chiamata «Osso di Horus», e il ferro «Osso di Tifone», come attesta Manetone. Come il ferro, infatti, a volte viene attratto dalla calamita e altre volte invece ne è respinto, così il movimento del Cosmo, che è vitale, buono e razionale, a volte attrae nella sua sfera la dura forza tifonica, guidandola e molcendola con la persuasione, altre volte invece di nuovo raccoglie dentro di sé il suo potere di attrazione e fa precipitare la forza di Tifone nel vuoto illimitato.
Eudosso  scrive  che  gli  Egiziani  raccontano di Zeus questa storia.  Il  dio non poteva camminare, giacché le sue gambe erano sin dalla nascita saldate in un pezzo solo, e per la vergogna passava il suo tempo in solitudine. Fu Iside a tagliare e separare quella strana parte del suo corpo, mettendolo così in grado di camminare con le sue gambe. E il significato della storia è che la mente e la ragione del dio sono di per sé immobili nell'invisibile e nell'insensibile, e prendono la strada della creazione grazie a una spinta motrice.
Il sistro (seistron) significa che gli esseri viventi devono essere scossi (sefesthai) e non possono mai  smettere  di  muoversi,  e  se  si  trovano  a  essere,  vorrei  dire,  addormentati  e  intorpiditi  bisogna svegliarli e incitarli. Dicono che Tifone venga stornato e allontanato dal rumore del sistro, e questo è un simbolo del fatto che quando la forza distruttiva grava sulla natura e la limita, allora il divenire interviene a liberarla e a risollevarla col suo movimento. 
La parte superiore del sistro è rotonda, e alla sua circonferenza sono appesi i quattro elementi che si scuotono. E infatti la parte del cosmo soggetta al divenire e alla corruzione è circoscritta dalla sfera lunare, e tutto in lei si muove e muta attraverso l'azione dei quattro elementi, fuoco, terra, acqua e aria.  In  cima  al  disco  del  sistro  è  scolpito  un  gatto  con  la  faccia  umana;  nella  parte  bassa,  invece,  sotto i battagli, si trova il volto di Iside, e talvolta quello di Neftys: essi alludono alla nascita e alla morte (che altro non sono se non mutamenti e moti dei quattro elementi), mentre il gatto simboleggia la luna, dato che peculiari di questo animale sono la sua mutabilità, l'attività notturna e la fertilità. Si dice che il gatto partorisca la prima volta un solo piccolo, e poi due e tre e quattro e cinque: aumentando sempre di uno, arriva a partorirne sette, e quindi in tutto ventotto, ossia un numero esattamente corrispondente alle lunazioni. Può darsi che ciò sia soltanto una favola: resta però il fatto che realmente la pupilla del gatto sembra diventare più grande e più rotonda nel plenilunio, mentre si assottiglia e perde potere visivo quando la luna è in fase calante. L'aspetto umano del gatto indica poi il principio intelligente e razionale che contraddistingue i mutamenti lunari.

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