sabato 22 agosto 2015

Paolo fu una chimera (I)

Hugh Jackman reciterà Paolo nel prossimo film Apostle Paul prodotto dalla Warner Bros.
Rimpicciolire.  — Ci son cose, fatti e persone che non sopportano di esser trattati secondo un metro ridotto. Non si può rimpicciolire a ninnolo il gruppo del Laocoonte: la grandezza gli è necessaria. Ma molto più raro è che qualcosa di piccolo per natura sopporti di essere ingrandito; per questo ai biografi riuscirà sempre meglio rappresentare come piccolo un uomo grande, che come grande un uomo piccolo. 
(Friedrich W. Nietzsche, Umano, troppo umano, Dall'anima degli artisti e degli scrittori, aforisma 174)

Paolo non è mai esistito come una reale persona storica, ma fu una figura completamente inventata. Un'analisi critica del Nuovo Testamento proverà quella tesi. In realtà, io sono molto più convinto che Paolo non è mai esistito di quanto io lo sia che Gesù stesso non è mai esistito, nonostante la forte evidenza che è stata abbondantemente presentata a favore dell'ultima tesi (da studiosi come Earl Doherty e Richard Carrier), perfino sotto l'ipotesi totalmente gratuita della storicità di Paolo.

È relativamente facile provare, Bibbia alla mano, che Paolo non è mai esistito come una persona reale, una volta che sai dove guardare. Innanzitutto occorre sapere quel che dice la Bibbia su Paolo, su quando visse e dove, e in secondo luogo occorre conoscere cosa lo stesso Paolo, se esistito, scrisse apparentemente nelle epistole a lui attribuite.

Trascurando le Pastorali (che il consensus ritiene già ovvie falsificazioni), Cominciamo con Atti degli Apostoli, un'ovvia tendenziosa propaganda proto-cattolica della fine del secondo secolo, scritta probabilmente da un folle apologeta proto-cattolico (lo stesso editore dell'Evangelion usato da Marcione e dai marcioniti, vale a dire «Luca») allo scopo di vendere sul mercato religioso il nascente cattolicesimo come il vero, legittimo cristianesimo.

Perchè penso questo? 

Perchè è evidente lo sforzo ripetuto del propagandista in questione nel fare di Paolo e di Pietro due compatrioti che si aiutano a vicenda, che sono uno la copia 'cristomorfica' (vale a dire, sono entrambi 'imitatori di Cristo') dell'altro, che fanno ciascuno gli stessi miracoli dell'altro. Il Paolo della Lettera ai Galati così spavaldo, combattivo e fieramente indipendente, totalmente esente da compromessi di sorta con alcuno, viene trasformato dall'autore di Atti nel Paolo missionario proto-cattolico umile e volenteroso, totalmente passivo e conciliante, oltrechè fortemente compromesso (per via del suo passato di persecutore) nei confronti della sua chiesa e delle sue precise direttive provenienti da Gerusalemme.
Sembra che la diaspora completa degli ebrei da Gerusalemme, accaduta storicamente nel 135 EC, sia riflessa negli Atti degli Apostoli sottoforma della fittizia diaspora dei cristiani da Gerusalemme (si veda Atti 8), confermando che la propaganda è posteriore alla metà del secondo secolo.
Perciò si tratta banalmente di un fittizio racconto del secondo secolo inventato per vendere il nascente cattolicesimo e il ritualismo istituzionale che lo accompagna come la forma migliore di cristianesimo esistente.
L'unica seria pretesa da considerare da Atti degli Apostoli, prima di scartarli totalmente nel più vicino bidone della spazzatura, è quella che vuole Paolo un vero pio ebreo, vale a dire un vero devoto al dio degli ebrei. Nelle epistole Paolo affermò di essere stato un israelita, un «ebreo da ebrei», della tribù di Beniamino, e perciò un ebreo al 100%.

Tutta quell'enfasi sul suo ebraismo è sospetta. E lo diventa ancor più dal momento che lo si presenta come il fattore scatenante della persecuzione del Paolo precristiano contro i primi apostoli cristiani.
Un destino di persecutore convertito che sembra riflesso (per pura coincidenza?) nell'apparente simbolismo midrashico intrinseco alla sua provenienza proprio dalla tribù di Beniamino (e non da altre):

Beniamino è un lupo rapace; la mattina divora la preda, e la sera spartisce le spoglie. 
(Genesi 49:27)

Una specie di lupo di Gubbio ante litteram!

Così se riesco a trovare qualcosa all'interno del corpus paolino che sconfessa la presunta ebraicità di Paolo allora giungerò in possesso di solide ragioni per sospettare la verità delle sue parole, assumendo la sua esistenza. Ed esistono almeno tre passi che confutano la sua pretesa di essere ebreo. Una volta scoperti quei passi, è sempre possibile, in linea di principio, supporre un ipotetico Paolo che mentiva deliberatamente sulle sue origini ebraiche, per qualsivoglia ragione. Questa era la conclusione a cui era giunto il rabbino e accademico Hyam Maccoby. Questa è anche l'ovvia conclusione di chi vede in «Paolo» nient'altri che Simone di Samaria, alias Simon Mago: un samaritano, non un ebreo. Alcuni hanno figurato perfino che il vero «Paolo» storico fosse Apollonio di Tiana: un greco, non un ebreo. Alcuni al contrario, prendendo tutt'altra china, come l'apologeta del Gesù sedizioso Stefano Manni, gode ingenuamente nello spacciare lo storico «Paolo» per un criminale di guerra ebreo di cui parla Flavio Giuseppe, dal nome familiare, Saul:

Da parte loro, Costobaro e Saul, raccolsero bande di malviventi; loro stessi erano di stirpe reale e raccolsero favori a motivo della loro parentela con Agrippa, ma erano sfrenati e pronti a spogliare le proprietà dei più deboli. Fu da quel momento, in particolare, che la malattia piombò sulla nostra città e ogni cosa andò scadendo di male in peggio.
(Antichità Giudaiche, 20:214)
Senza saperlo, i simili di Manni hanno scambiato la copia per l'originaria fonte midrashica del «Saulo» persecutore di Atti, a sua volta descritto come 'criminale di guerra'. Sarebbe come dire che il Gesù storico è il profeta Elia dell'Antico Testamento perchè Elia è la chiara fonte midrashica di alcuni degli episodi evangelici che riguardano Gesù taumaturgo. Ma abbiamo già visto che Atti degli Apostoli è totale finzione soprattutto quando cerca di sporcare la purezza del Paolo apostolo facendogli commettere il peccato mortale che gli sarà sempre fatale ad ogni pretesa di indipendenza dai Pilastri di Gerusalemme: il suo passato precristiano da perfido persecutore della nascente Chiesa cattolica. 

Per giunta, come nota acutamente il prof. Price:


Questo di nuovo è il punto dei quaranta-giorni rimossi in Atti 1:9. Durante quell'intervallo il Gesù risorto è detto di aver sussurrato i suoi avanzati insegnamenti ai Dodici (nessuno dei quali è condiviso col lettore dal momento che è inteso come un blank check per qualsiasi cosa potrebbe finire per chiamarsi ''tradizione apostolica''). Ma dopodichè, nessuna mera visione di Gesù (considera la visione di Stefano in 7:56, quella di Anania in 9:10-16, quella di Paolo a Corinto in 18:9-10, quella di Paolo al tempio in 22:17-21) sta andando a contare come un'apparizione di resurrezione. Significativamente, perfino nella decisiva esperienza di conversione di Paolo (9:3-6; 22:6-11; 26:12-18), Saulo non vede Gesù, nonostante 9:17 e 22:14, perchè egli è accecato dalla luce. Il lettore a malapena necessiterà di esser ricordato che, anche se Atti leonizza Paolo, sembra trattenere da lui il titolo di apostolo. Due apparenti eccezioni occorrono in Atti 14:4 dove il termine apostolo è generico, con nessun nome specifico attaccato, e in 14:14 dove apostoli è assente assieme dal testo occidentale.
(mia libera traduzione da The Amazing Colossal Apostle, Robert Price, pag. 139-140, enfasi originale)

Abbiamo addirittura una storiella eretica circa un Paolo mendace sulle sue origini ebraiche (al punto da divenir circonciso) allo scopo di poter usurpare la mano della figlia di un sommo sacerdote della quale si era follemente invaghito. Opposto da un secco rifiuto, Paolo per la rabbia trasformò la sua follia sessuale in follia apologetica, visto che fondò in aperta reazione un cristianesimo virulentemente anti-Torah e anti-giudaico. 


E neppure [gli ebioniti] si vergognano di accusare Paolo qui con certe fabbricazioni della scelleratezza e dell'impostura dei loro falsi apostoli. Dicono che fosse di Tarsoche lo ammette lui stesso e non lo nega. Ed essi suppongono che fosse di discendenza greca, prendendo l'occasione per questo dallo (stesso) passo a causa della sua franca dichiarazione, 'Io sono un uomo di Tarso, cittadino di non certa città.'
Poi sostengono che egli era greco e figlio di una madre greca e di un padre greco, ma che si era recato a Gerusalemme, che vi rimase per un pò, che bramò sposare una figlia del sommo sacerdote, ed era perciò diventato proselito e si era circonciso. Ma dal momento che ancora non poteva sposare quel genere di ragazza diventò adirato e scrisse contro la circoncisione, e contro il Sabato e la legislazione.

(Epifanio, Panarion, 30.16:8-9)
Si tratta di una storiella affascinante, una storiella che rivela in primo luogo che i diretti interessati, i giudaizzanti ebioniti, furono i primi a sollevare seri dubbi intorno alla pretesa ebraicità di questo Paolo. E tuttavia si tratta di una storia probabilmente non vera (e non solo perchè fu scritta da giudaizzanti impegnati a confutare il cristianesimo paolino, ma anche perchè un'altra storiella talmudica successiva, il Toledoth Jeschu, fa di Paolo un agente segreto addirittura in missione per conto degli stessi rabbini - !!! - per mandare via i «nazorei» da Israele), poichè Paolo quasi certamente non è mai esistito. L'evidenza storica è maggiormente congruente con l'ipotesi che Paolo stesso fosse un personaggio inventato, e che le sue varie epistole furono scritte da greci e da nessun altro. In realtà, i nomi degli uomini che produssero le epistole di Paolo sono già presenti nelle stesse «epistole». Una delle epistole di Paolo fu evidentemente scritta da una donna (la Lettera ai Romani fu scritta da Febe). 

Quindi nota la logica della dimostrazione che sto applicando:

1) l'unica seria pretesa di Atti degli Apostoli degna da considerare è che Paolo fu un ebreo.

2) ma è dimostrabile che il «Paolo» che parla nelle epistole non è definitivamente ebreo.

3) in virtù del punto 2, è immensamente più probabile, rispetto all'ipotesi di uno storico «Paolo non-ebreo & mentitore», l'ipotesi che «Paolo» non è mai esistito. Perciò: Paolo non è mai esistito.


Se il lettore mi ha seguito attentamente fin qui, sarà già in grado di apprezzare la solidità del mio ragionamento, soprattutto avrà capito che il punto nevralgico dell'intera dimostrazione non consiste tanto nel punto 1 (il consensus ha già dimostrato che Atti è totalmente mera fantasiosa invenzione) e neppure nell'implicazione dal punto 2 al punto 3 (perchè altrimenti dovrei seriamente sospettare della sua sanità mentale), ma nella fatidica dimostrazione del punto 2: che «Paolo» non è in realtà un ebreo. 

Esamino perciò i passi che smentiscono l'origine etnica ebraica di Paolo. Nella lettera ai Romani, leggo il seguente:

...cioè verso di noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire?
(Romani 9:24)

Perchè un uomo che è ebreo scriverebbe di «noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani»? Un ebreo non scriverebbe mai qualcosa di simile. Sembra che con eguale probabilità Paolo qui possa identificarsi con un ebreo oppure con un pagano.
Ma per chiarire l'equivoco generato da questo passo si legga:

Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, essendo divenuto maledizione per noi (poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno), affinchè la benedizione di Abramo venisse sui pagani in Cristo Gesù, e noi ricevessimo, per mezzo della fede, lo Spirito promesso.
(Galati 3:13-14)

Voi, che eravate morti nei peccati e nella incirconcisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati; egli ha cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l'ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce; ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce.
(Colossesi 2:13-15)
Perchè un ebreo avrebbe dovuto scrivere cose del genere? Ovviamente un ebreo non avrebbe accidentalmente ammesso di essere in realtà un gentile, com'è il caso in quei due passi esaminati, dove «Paolo» colloca sé stesso tra i gentili, confermando che anche nel passo di Romani probabilmente intendeva fare lo stesso. 

Il dr. Detering porta ulteriore evidenza testuale, e la sua è determinante:
Paolo—il non-ebreo
Coerentemente con la nostra tesi che le lettere paoline in origine derivavano da circoli marcioniti (che significherebbe, prima di tutto, circoli cristiani gentili) è l'osservazione che il reale scrittore delle lettere (come pure il redattore) di nuovo e di nuovo esprime sé stesso in modi che conducono alla conclusione che—contrariamente alla pretesa che egli stesso avanza—lui non è per nulla un ebreo per nascita.
Soprattutto in Romani e nelle due lettere ai Corinzi può essere mostrato che l'autore pensa e scrive non da una coscienza ebraica, ma da quella di un non-ebreo. Per esempio, mentre un fedele ebreo (simile ad un musulmano oggi) divide il mondo in credenti e non-credenti (= Goyim), l'autore di Romani distingue in una buona maniera greca tra Greci e Barbari (Rom 1:14). Il concetto di un barbaro ha un genuino tono greco, e avrebbe un suono peculiare perfino sulla bocca di un apparentemente ebreo della Diaspora da Tarso.
Pure in altri posti, non si ha esattamente l'impressione che l'autore di Romani scriva come qualcuno che fu educato nell'ebraismo ed è familiare coi suoi costumi e pratiche (1:16; 2:9, 10, 17, 28, 29; 3:1, 9, 29; 10:12).
Rom 3:9 è specialmente peculiare, dove Paolo pone la domanda:
Τί  οὖν;  προεχόμεθα; che è di solito tradotta così “Che dunque? Siamo noi avvantaggiati?” L'idea allora è che a questo punto Paolo voleva domandare se gli ebrei, i cui vantaggi ha appena discusso estesamente, avessero un vantaggio rispetto ai gentili a causa di quelle prerogative: “Che dunque? Siamo noi [ebrei] avvantaggiati?” ... Letteralmente, comunque, il testo dice qualcosa di diverso: Non “Siamo noi avvantaggiati?” (attivo), ma “Siamo noi sorpassati?” (passivo).
Sebbene questa sia la sola traduzione grammaticalmente corretta, non è trovata nelle edizioni al giorno d'oggi della Bibbia soltanto perchè non si può riconciliare con l'ipotesi che la persona che scrisse questo fosse un ebreo. Presupporrebbe che lo scrittore di questo passo fosse un greco, oppure almeno un non-ebreo, che da tale consapevolezza scrive: “Che dunque? Siamo noi [non-ebrei] sorpassati [dagli ebrei, le cui prerogative furono appena discusse nei passi di Rom 1-2]?”.
Lo scrittore di questo passo aveva dimenticato per un istante che, secondo la tradizione universale, la persona nel cui nome la lettera è scritta è supposta essere un ebreo per nascita. Se si comprende ciò, il testo immediatamente diventa chiaro. Non si ha bisogno di considerarlo corrotto, come fanno parecchi esegeti; non si ha bisogno di dare alle parole un qualsiasi altro significato rispetto a quello che acquisiscono grammaticalmente.
Pure nelle lettere ai Corinzi si possono trovare illuminanti indizi della reale origine dell'autore. Naturalmente, anche qui l'autore appare come un ebreo (2 Cor 11:22); ma il modo enfatico in cui fa questo, ad esser sicuri, è già alquanto sospetto. In ogni caso, in 1 Cor 14.11 lo scrittore usa di nuovo il termine “barbaro” in un tipico modo greco. In 1 Cor 9:20 Paolo l'ebreo dice che “son diventato come Giudeo per i Giudei”. Ci si domanda con meraviglia perchè deve prima diventare quel che lui già è stato per un lungo tempo!
Anche 1 Cor 11:4 è davvero rimarchevole, dove Paolo istruisce gli uomini non a pregare con i loro capi coperti, poichè questa è una disgrazia:

Ogni uomo che prega o profetizza a capo coperto fa disonore al suo capo.

Se si ricorda che perfino fino ad oggi gli uomini ebrei sono obbligati ad indossare un copricapo nel loro servizio di adorazione, si può percepire quest'istruzione solamente come un indizio che l'autore di questa lettera certamente non poteva essere stato educato nella tradizione ebraica. Se egli fosse stato realmente Paolo l'ebreo, egli si sarebbe almeno fermato un attimo per un istante qui e avrebbe tentato di giustificare la sua regola (che sarebbe stata oltraggiosa ad uditori ebrei). Invece, lui si collega qui con una pratica greca: “L'uomo greco libero non copre il suo capo; copre il suo capo soltanto in circostanze di grande lutto.”
Come mostra la citazione dal poeta greco Menandro (1 Cor 15:33), l'autore della lettera ai Corinzi è davvero familiare con la letteratura greca. Si potrebbe credere che questo potesse anche essere vero per Paolo l'ebreo. È nondimeno strano che il Paolo che apparentemente studiò presso il rabbino Gamaliele ovviamente avesse difficoltà con la lingua greca e non fosse in grado di leggere la Bibbia Ebraica nella lingua originale, ma usasse invece sempre la traduzione greca (Septuaginta), e perfino una versione avente una stretta relazione con un'edizione per prima originatasi nel secondo secolo (Teodozione).
A margine, si dovrebbe finalmente notare che la seguente tradizione anti-paolina stesse apparentemente circolando nelle chiese ebionite giudeo-cristiane. Epifanio conosce degli ebioniti Atti degli Apostoli in cui dice di trovare parecchi errori, e in cui Paolo era caratterizzato come un falso apostolo. Paolo era detto di essere nato a Tarso da genitori gentili, e accettò la circoncisione a Gerusalemme allo scopo di sposare la figlia del Sommo Sacerdote. Dopo il matrimonio ostacolato, polemizzò contro la circoncisione, il Sabato, e la legge [Epifanio, Haer. 30.16.8].

(The Fabricated Paul, pag. 118-120, mia libera traduzione, corsivo originale).


O Paolo è esistito e fu un bugiardo spacciatosi falsamente per un ebreo quando invece non lo era affatto (e un bugiardo piuttosto goffo visto quante spesse volte si tradisce) oppure fu più semplicemente un personaggio del tutto inventato. 


Ma perchè inventare un «Paolo» in primo luogo?


La mia personale teoria è che un cristiano gentile non gradiva la perentoria profezia messa in bocca a Gesù nel vangelo di Matteo:

Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini sarà chiamato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
(Matteo 5:17-19)

Profezia post-eventum intesa a reguardire ciò che già avveniva sotto lo sguardo crucciato di ''Matteo'': cristiani gentili che violavano la Torah insegnando ad altri cristiani di fare altrettanto. Ebbene, esplicitamente contro Matteo 5:19 (un vangelo di cui era già giunto a conoscenza), un cristiano gentile, probabilmente il primo redattore delle epistole paoline (fino ad allora esistite sotto forma di trattati teologici in forma del tutto anomima), le presentò per la prima volta ufficialmente sotto il nome di ''Paolo'', che significa ''il più piccolo'', così da veicolare simbolicamente l'idea che lo stesso dr. Detering (e il geniale Bruno Bauer prima di lui) aveva pensato a proposito dell'origine di quel nome:

Per di più, che il nome Paolo poteva già esser concepito in un senso figurativo dallo scrittore delle lettere paoline può essere visto chiaramente in 1 Cor 15:9, dove “Paolo” parla di sé stesso come dell'ultimo e del più piccolo, come se fosse simile ad un “aborto”. B. Bauer correttamente commentò circa questo: “Egli è l'ultimo, l'inatteso, la conclusione, il caro annidato. Perfino il suo nome latino, Paolo, esprime piccolezza, che sta in contrasto alla maestà alla quale egli è elevato per grazia nei passi precedenti della lettera.” [B. Bauer, Christus und die Caesaren, 381]
Bauer giustamente richiama l'attenzione al significato teologico nel concetto di piccolezza. Di fatto, al di là di Bauer, che non aveva ancora questo collegamento in vista, si deve considerare che precisamente per i marcioniti —e ovviamente già pure per i simoniani, a cui questo risale—la parola “Paolo” esprimeva ogni cosa che costituiva il cuore della loro teologia e per cui le “lettere di Paolo” forniscono continua testimonianza. Dov'è la liberamente occorrente, non-annunciata e in-condizionata, elezione per grazia meglio illustrata che precisamente dall'inferiore, dall'incompleto, da un bambino, da un piccolo?

(The Fabricated Paul, pag. 145-146, mia libera traduzione, corsivo originale).

In realtà ho fornito qui soltanto la mia plausibile spiegazione del perchè scegliere il nome simbolico «Paolo» per l'idealizzato «apostolo degli eretici». Non ho ancora fornito la ragione della necessità in primo luogo di un «apostolo degli eretici» e di tutti coloro che rifiutano e rifiuteranno (al di là se «eretici» o meno) la Torah, perfino se proto-cattolici.

Ora dirò quella ragione.



Si veda in che termini lo studioso miticista Richard Carrier aveva confutato l'apologeta cristiano Mogens Müller nel suo OHJ.
Mogens Müller tenta di salvare Gesù da questa conclusione ammettendo che non c'è nulla nelle lettere di Paolo che conferma che Gesù recentemente è esistito ma che 'noi bisogniamo, comunque, di una più estesa comprensione del predicato ''storico'' come utilizzato in connessione colla persona di Gesù', tale che:
'storico' non dovrebbe essere impiegato semplicemente in connessione coi tentativi di ricostruire dettagli nella vita e insegnamenti di Gesù, trattandolo solamente come una figura del passato. Al predicato 'storico' dovrebbe essere consentito anche di comprendere il suo impatto come è stato veicolato a noi attraverso i significati attaccati alla sua vita...
 Mogens Müller, 'Paul: The Oldest Witness to the Historical Jesus', in 'Is This Not the Carpenter?' (ed. Thompson and Verenna), pp. 117-30 (120- 121).
Ma in quel senso di 'storico', il Cristo mitico—il Cristo che Paolo avrebbe detto che realmente esisteva, che vive e muore e risorge nello spazio esterno sarebbe anche uno 'storico' Gesù. Il termine allora diventa privo di significato a meno che Müller voglia sostenere che Paolo aveva ragione, esisteva realmente un Gesù Cristo vivente nello spazio esterno. Ma quella è una questione per la teologia, non per la Storia.
Ad ogni modo, gli effetti delle rivelazioni di questo 'Signore', e come egli fu compreso dalla lettura delle scritture, sarebbero allora la causa di tutti gli 'effetti' su Paolo e sulle sue idee che Müller poi cataloga. Quelli effetti perciò non possono distinguere tra storicità minimale e miticismo minimale.
Lo studio di Müller è perciò impotente. Invero, il fatto che Müller dovette ricorrere a questa tattica, che lui fu costretto a concedere che Paolo mai parla circa un Gesù storico nell''altro' senso, dovrebbe essere ammesso come strano, ed è esso stesso conferma che la tesi miticista rende questa evidenza più probabile. 

(On the Historicity of Jesus, pag. 522, mia libera traduzione).

Entrambi Müller e Carrier riconoscono senza saperlo o volerlo qui qualcosa di estremamente importante per capire la genesi delle epistole paoline. L'apologeta cristiano Müller tiene al valore storico di quelle lettere perchè per lui testimonierebbero l'IMPATTO storico che un Gesù storico esercitò su Paolo perfino se Paolo lo allucinò soltanto.
Il miticista Carrier tiene parimenti al valore storico di quelle lettere perchè per lui testimonierebbero l'IMPATTO storico che un Gesù mitico, celeste, mai sceso sulla Terra esercitò su Paolo perfino se Paolo lo allucinò soltanto.
Per entrambi, il cristiano e l'ateo, le lettere di Paolo sono, anzi devono!, essere autentiche perchè solamente così possono testimoniare (e spiegare) cosa scatenò all'origine l'IMPATTO formidabile che provocò, via Paolo, l'irruzione nella Storia di quello che diventerà CRISTIANESIMO. E quel qualcosa fu l'esperienza mistica del Cristo Risorto avuta da cristiani come Paolo.

Io penso che non sia affatto anacronistico pensare che la medesima ragione, con i dovuti distinguo, sia alla base dell'invenzione di Paolo. Perfino un outsider come lui poteva essere entusiasta testimone del Risorto. E se poteva lui, «il più piccolo», così lo potevano tutti i cristiani, al di là se giudaizzanti o gentili. Ma non si trattava solo di una mera «rivoluzione democratica». Paolo doveva testimoniare l'IMPATTO che la Risurrezione avrebbe provocato a ridosso della morte di Gesù (al di là se il Gesù in questione fosse mitico o storico). I cristiani inventarono «Paolo» per creare il mito dell'IMPATTO STORICO che la resurrezione di Gesù avrebbe provocato sui primi cristiani.
Allo scopo di comprendere il mio punto, si provi a immaginare come sarebbe improvvisamente «sterile» ai nostri occhi moderni lo scenario di un Gesù storicamente esistito, ma non di un Paolo. L'accademico olandese Van Manen, che era cristiano anche se dubitava dell'autenticità delle epistole, così provava a teorizzare come sarebbero state in quel caso le origini cristiane.

La conclusione potrebbe essere sintetizzata come segue (pag. 199-204):—Solamente nella più antica delle tre luci sopra menzionate in cui la vita dell'Apostolo è vista siamo noi piuttosto su uno storico terreno. Qui Paolo appare a noi come un ''discepolo'' tra i ''discepoli''. C'è tuttavia nessuna questione circa i ''cristiani'', della rottura coll'ebraismo, del disprezzo della legge, o dell'inosservanza della circoncisione. I giorni dello Spirito Santo, che in quelle e altre misure insegnerà alla successiva generazione a procedere per altre vie, non sono ancora arrivati.
Nessuno conosce quello Spirito Santo. Nessuno pensa di sé stesso guidato da Lui. I ''discepoli'' sono Ebrei per origine e conformazione, che è per dire, per la loro nascita o diventando proseliti, e così rimangono, qualunque cosa potrebbe esserci dietro la loro personale opinione o quella di altri. Essi professano un credo, e formano una setta tra gli ebrei, che, comunque questo potrebbe distinguere, non separano loro da quelli che, in riguardo a maniere e costumi, leggi e profeti, tempio e sinagoga, sono veramente chiamati ebrei.

Il centro della loro particolare deliberazione è Gesù, di cui ''discepoli'' essi considerano sé stessi, con la cui apparizione essi collegano il compimento di certe attese messianiche, e che essi, come sembra, riconoscono come il promesso messia. Il ricordarsi l'un l'altro delle cose concernenti Gesù, ta peri tou Iesou, e la predicazione di quelli ad altri è quel che distingue loro dagli altri ebrei, e vincola loro a condurre un'esistenza strettamente morale nell'amore reciproco.

Paolo incontrò questa comunità di fratelli. Egli colloca sé stesso piuttosto a disposisione dei ''discepoli'' per la diffusione dei loro principi. Egli viaggiò per questo scopo attraverso diverse regioni, con vario successo e varie esperienze. I particolari di questo periodo ci sono pervenuti solamente davvero incompleti, e mischiati con strani elementi da più tarde biografie. Noi non udiamo che egli avesse mai scritto epistole di qualche importanza, oppure che vi sorse mai tra lui e gli altri ''discepoli'' alcuna disputa riguardo ai credi e alla vita, l'opinione della conferma comune, oppure i suoi ulteriori effetti.

[...]

Comunque questo possa essere, noi non udiamo di alcuna disputa, e noi non abbiamo nessuna ragione di supporre che è nascosta ai nostri occhi deliberatamente, perchè noi non possiamo neppure ipotizzare circa che cosa essa sarebbe stata. Paolo è congeniale nel pensiero con Pietro e gli altri, i quali, a loro volta come lui, sebbene in un'altra sfera, hanno dedicato sé stessi alla fatica missionaria a beneficio dei comuni interessi e desideri dei ''discepoli''.

Un lungo tempo passa. La prima generazione, forse perfino più di una, è passata. Tra i ''discepoli'' separati dalla Palestina, precisamente, ad Antiochia in Siria, un'inclinazione a sbarazzarsi dell'ebraismo, e a rompere anche in altre misure colla tradizione, rivela sé stessa. Noi potremo supporre che la loro comunicazione con il mondo pagano e l'ammissione di precedenti pagani nella comunione dei fratelli causò e alimentò quest'inclinazione. L'influenza della civiltà greco-romana, e non da ultimo, la conoscenza delle Scritture e della filosofia trasferita da Alessandria ad Antiochia, Efeso, e altre città dell'Asia Minore esercitano un'influenza positiva su di essa.  

Comunque i particolari riguardanti la storia della sua nascita potrebbero essere spiegati, una riforma sorge tra i ''discepoli''. Le ''cose concernenti Gesù'' sono eclissate, o piuttosto gli uomini imparano a giudicare più esattamente intorno a loro. La verità religiosa è impugnata più profondamente ed estesamente, un nuovo slancio dato alla contemplazione nella sfera della religione, materie relative al credo e alla vita in quasi ogni punto sono riviste e alterate, e c'è una risoluta presa di distanza dall'ebraismo. ''Il vangelo della pietà di Dio'' è nato; il lieto messaggio è portato a tutti senza distinzione che il Dio Altissimo ha inviato Suo Figlio, il Cristo, a salvare il più possibile molti per fede o per aver creduto in Lui. Ad una particolare rivelazione, comunicazione e guida dello Spirito Santo, essi devono la nuova luce lanciata sul passato e sul futuro di sè stessi e altri, e sul vero significato di Gesù, nient'altro che Figlio di Dio, il Cristo, alla cui temporanea apparizione sulla Terra essi non possono fermarsi. I ''discepoli'', dall'essere una setta ebraica, diventano ''Cristiani'' (Atti 11:26).

Coloro che seguono questa linea la combinano col nome di Paolo. Egli diventa l'eroe, il patrono della loro setta. Su di lui sono trasferiti, a lui sono attribuiti i pensieri e le percezioni nate in altri mediante la vita rigenerata e il tentativo dei ''discepoli'' di diventare i primi ''Cristiani''. Egli deve testimoniare, raccomandare, desiderare, eseguire in parole e atti quel che essi stessi stimano buono e utile. In questo modo essi giunsero a descrivere la sua vita. Così facendo essi potrebbero aver utilizzato conosciute tradizioni e ricordi scritti. Ma essi possono difficilmente aver derivato qualcosa senza modifiche, perchè essi hanno di fronte ai loro occhi piuttosto un'altra, più grande, più sublime immagine della vita e opera di Paolo. La sua posizione deve, inoltre, come ora approssimata, provare da una parte che la dottrina connessa col suo nome ha la sua radice in un onorevole passato, mentre non dev'essere negato, d'altra parte, che la dottrina che noi ora chiamiamo convenientemente Paolinismo è veramente nuova.

(A Wave of Hypercriticism - The English Writings of W.C. van Manen, edito da Robert M. Price, pag. 18-21, mia libera traduzione)


Cosa mancherebbe qui, ammettendo gratuitamente per un momento che «così furono andate le cose»? [1]


Certamente i cristiani del II secolo - esattamente come i cristiani del 2015 -, per quanto intimamente demenzialmente persuasi, in virtù dei soli vangeli, di avere evidenza storica di Gesù, non tollererebbero mai e poi mai che un tale Gesù, dopo morto, non lasciasse dietro di sè nessuna traccia storica dell'IMPATTO provocato dalla sua Resurrezione sui suoi primi seguaci. I vangeli non assicurano fino in fondo che quell'IMPATTO ci fosse stato sui discepoli di Gesù, soprattutto se si considera come gli stessi discepoli siano negli stessi vangeli continuamente screditati e bistrattati (come buffoni e idioti tardi di comprendonio), e perfino a stento riabilitati quando il caso. Quando i cristiani sentirono l'esigenza di un Gesù STORICO da brandire con orgoglio di fronte a pagani piuttosto sarcastici nei confronti del loro Gesù evangelico (come Celso), non esitarono a interpolare i testi di Flavio Giuseppe e di Tacito a suon di banalissimi Testimonia. Ma l'evidenza non-cristiana di un «Gesù storico» non fu affatto la prima sentita necessità interiore dei cristiani del II secolo (semmai lo fu dei cristiani del III secolo). No. I cristiani del II secolo ebbero fin dal principio il forte bisogno interiore di evidenza storica dell'IMPATTO provocato dalla Resurrezione di Gesù. Era paradossalmente il Gesù Risorto a dover essere
«STORICIZZATO» per prima, nel II secolo, e solo dopo il Gesù «storico», nel III secolo. E l'unica via obbligata per storicizzare l'evento «Resurrezione», per «concretizzarlo» nella Storia, era di inventarsi il PRIVILEGIATO SUPER-TESTIMONE della Resurrezione per eccellenza: Paolo. E su di lui proiettare l'entusiasmo fanatico dei cristiani gentili del II secolo propagato dall'idea (solamente allora in procinto di diffondersi) di un nuovo semidio Gesù che muore e risorge allo stesso modo delle divinità ellenistiche dei culti misterici. Ma un semidio coll'unico limite di essere testimoniato da «testimoni» fin troppo recenti, anzi *solamente* contemporanei: da qui la necessità di un testimone come Paolo tanto antico quanto il tempo presunto in cui i vangeli fissano Gesù: ossia la prima metà del I secolo EC.
L'invenzione delle lettere paoline nel II secolo testimonia ad un tempo che nel I secolo, perfino sotto l'ipotesi gratuita di un Gesù storico, mancava qualcosa come un testimone della sua Resurrezione e dell'IMPATTO da essa provocato per l'origine del movimento. E proprio ciò che la fabbricazione di Paolo conferma - l'assenza di testimoni del Gesù Risorto nel I secolo - offre a propria volta una valida spiegazione del perchè in primo luogo la *necessità* di quella fabbricazione.

La Storia va riscritta:

Non fu la esperita (per via mistico-allucinatoria) «Resurrezione di Gesù» (di un Gesù mitico o storico non ha nessuna importanza qui) a provocare la nascita del «Cristianesimo
».

Fu la nascita del «Cristianesimo» a provocare la nascita del concetto teologico noto come «Resurrezione di Gesù». E di conseguenza del Super-testimone di essa: Paolo.


La «Resurrezione di Gesù» È Paolo, perchè solo un inventato essere umano può essere preso a testimone, solitario nella sua grandezza, di un evento per definizione non-storico ma metafisico come la «Resurrezione di Gesù», un concetto che tracima di entusiastico spirito pagano-ellenistico da cima a fondo. E come tale, un concetto che non può essere inventato da veri ebrei quando riferito ad una deità.

Ecco perchè io concordo interamente con il geniale prof Robert M. Price quando con estremo disincanto denuncia:

Alcuni marcioniti credevano che Paolo fosse il paraclito, vedendo in lui l'interprete definitivo del significato di Gesù Cristo. I marcioniti gradivano dipingere Gesù che siede su un trono centrale con Paolo alla sua destra e Marcione alla sua sinistra, e io direi che i Protestanti credono quello anche. Gesù viene ridotto a ''l'evento Cristo'', lo spoglio e muto atto di Dio che non significa nulla finchè qualche voce profetica (quella di Paolo) si fa avanti per comunicarci quel che significa.
(The Amazing Colossal Apostle, pag. ix, mia libera traduzione)

E ancora:

Invero, è stato sorprendente vedere teologi propensi ad ammettere che Gesù si fosse sbagliato sulla fine del mondo. Ma allora, ciò solamente significava che si poteva più facilmente porre Gesù sullo scaffale e dover ricorrere a Paolo come il principale oracolo teologico di Gesù.
Si riceve l'impressione che i Protestanti, comunque liberali, si siano ritirati dal recinto perimetrale—Gesù Cristo—e abbiano preso rifugio nel castello fortificato—precisamente Paolo. La stessa mossa fatta nel caso di Gesù (rifacendolo come un post-colonialista, un femminista, un Ebreo Ortodosso, e un attivista verde) è stata fatta nel caso di Paolo. Dopo di questo, non si può correre da nessuna parte. Che è la ragione perchè gli studiosi, così critici circa il Gesù storico, si siano rivelati riluttanti ad accettare una significativa critica più radicale delle epistole paoline. 

(ibid. pag. x, mia libera traduzione)


In questo post ho dimostrato che:

1) il «Paolo» che parla nelle lettere non era veramente ebreo e perciò, essendo oggetivamente quasi impossibile ipotizzare un Paolo gentile o samaritano della prima metà del primo secolo che si finge ebreo, la più semplice soluzione è che un Paolo storico non è mai esistito.

2) il nome «Paolo» ha un significato simbolico che si pone deliberatamente in implicita antitesi a Matteo 5:19. Il primo che diede il nome di «Paolo» all'autore di quelle lettere era dunque a conoscenza almeno del rivale vangelo di Matteo.

3) le lettere di Paolo (e Paolo stesso) furono fabbricate nel II secolo CE per proiettare nel I secolo un fabbricato testimone dell'evento «Resurrezione di Gesù» giunto ad essere considerato per la prima volta da allora all'origine del «cristianesimo».

4) il punto 3 implica per necessità che fino all'invenzione di Paolo non c'erano testimoni dell'evento «Resurrezione di Gesù» a disposizione dei cristiani gentili, oppure, se c'erano, erano così poco credibili ed equivoci in quella veste (mi riferisco ai 12 apostoli descritti nel Più Antico Vangelo, Mcn, come totali idioti e buffoni) da mettere in dubbio perfino la loro pretesa ad esser tali. Questo significa che almeno i primi due vangeli, Mcn e Matteo, vanno analizzati nuovamente per esaminare in che termini considerano l'evento «Resurrezione di Gesù», ammesso che presentino effettivamente il concetto allo stesso modo in cui è presente nelle epistole.


Mi sono reso conto di aver scritto parecchio, eppure ho ancora parecchio da dire contro la storicità di Paolo. Per cui sia questo post soltanto la prima parte di tale dimostrazione.


[1] Risposta: lo
«Spirito Santo» nel I secolo. Nota che secondo Van Manen, per «Spirito Santo» si intende, nella sua ricostruzione delle origini appena quotata, nient'altro che il fatidico IMPULSO esistenziale quanto irripetibile nella sua eccezionalità, che avrebbe portato i primi apostoli, dopo aver esperito per via mistico-allucinatoria la «Resurrezione di Gesù», a originare finalmente il «cristianesimo» diffondendo il vangelo in tutto l'Impero Romano. Ma io dimostro nel post che tutto ciò che ha a che fare con tale impulso, tale impatto, indotto dalle rivelazioni e dalle visioni (Richard Carrier le chiamerebbe più realisticamente: allucinazioni) dell'evento non-storico «resurrezione di Gesù» con tanto di effusione dello «Spirito Santo», È «Paolo». Il fatto che Van Manen dica che lo «Spirito Santo» era assente come concetto nel I secolo deve logicamente implicare che era assente anche il Paolo inteso nelle epistole che portano il suo nome (giacchè Paolo fu inventato per produrre un testimone dello «Spirito Santo» in questione altrimenti mai esistito), eppure Van Manen, riluttante com'è a prendere quest'ulteriore passo logico, si ostina ancora a credere senza evidenza alla storicità di questo Paolo, perfino se nega l'autenticità delle lettere a lui attribuite. Van Manen, pur con tutte le sue formidabili intuizioni, era anche lui un folle apologeta cristiano.

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