venerdì 13 ottobre 2023

Sulla istituzione dell'eucarestia

 (segue da qui)

§ 97) Sulla istituzione dell'eucarestia. — I Vangeli pervenutici raccontano che Gesù, la sera precedente il suo arresto, si sarebbe riunito a cena coi discepoli, e durante la cena avrebbe istituito il rito dell'eucarestia. Segnatamente così leggiamo in Matteo (XXVI, 26-28): «Ora, mentre mangiavano, Gesù, preso il pane e fatta la benedizione, lo ruppe e lo diede ai discepoli, dicendo loro: “prendete e mangiate, questo è il mio corpo”. Poi, preso il calice e avendo reso grazie, lo porse loro dicendo: “bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, sangue del nuovo patto, e che sarà sparso per molti in remissione dei peccati”».

Da questo passo si manifesterebbe che Gesù, l'ultima sera nella quale rimase al mondo, in mezzo ai propri discepoli, avrebbe dato notizia di un nuovo patto (dopo quello che Iddio aveva stipulato la prima volta con Abramo, e la seconda volta con Mosè), in conseguenza del quale molti uomini si sarebbero salvati. Tale patto, suggellato col sangue, sarebbe consistito nella promessa, fatta dal Gesù, di darsi in pasto agli uomini, sotto forma di pane e di vino, allo scopo di far loro conseguire la natura divina, con la conseguente salvezza eterna al cospetto del Dio-Padre. E non è chi non veda, nelle espressioni sopra riportate, una restaurazione del vecchissimo rito dell'eucarestia, le cui lontane origini noi abbiamo illustrato in «La Prima Umanità».

In concreto, può forse affermarsi che il Maestro di Galilea abbia effettivamente pronunziato le parole attribuitegli dal vangelo di Matteo, durante l'ultima sua riunione coi discepoli? O non deve ritenersi che anche questa redazione dell'ultimo episodio della vita libera del Maestro, sia stata una rielaborazione della «dottrina della salvezza», escogitata da Paolo e fatta risalire a Gesù?

Sta di fatto che, nella prima epistola ai Corinti noi così leggiamo (XI, 23): «Io ho appreso dal Signore (durante le mie visioni) quello che ho anche insegnato a voi: che cioè il Signore Gesù, in quella notte nella quale fu tradito, prese il pane, e, rendendo grazie, lo ruppe e disse: “prendete e mangiate, perchè questo è il mio corpo, il quale sarà tradito per voi; fate questo in memoria di me”. Similmente prese anche il calice, dopo aver cenato, dicendo: “questo calice è il nuovo patto nel sangue mio. Fate questo, tutte le volte che ne bevete, in commemorazione di me. Giacché tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a quando egli stia per venire”».

Dalla epistola detta, risulta che Paolo aveva annunziato, come frutto delle proprie visioni, l'istituzione dell'eucarestia.

Difatti il passo dei Vangeli, che riguarda l'istituzione dell'eucarestia, è riportato nei Vangeli stessi, talvolta, con le stesse parole che noi leggiamo nella epistola ai Corinti. Non può dubitarsi quindi che la tradizione evangelica, come ha assimilato e fatto propria la restante parte della «dottrina della salvezza» predicata da Paolo, così abbia fatto proprio l'episodio dell'eucarestia, che alla «dottrina della salvezza» dava il contenuto. Giacché come mai avrebbe potuto Paolo offrire ai suoi fedeli una «salvezza», senza far rivivere il vecchissimo rito della «comunione» tra l'uomo e Dio, comunione effettuata mediante il banchetto eucaristico?

Per vero, Alfredo Loisy (Les Mystères païens et le Mystère chrétien) ha già messo in evidenza che il Cristianesimo ha preso dal mitraismo l'istituzione dell'eucarestia; in quanto proprio nel mitraismo l'istituzione stessa era in vigore, al tempo in cui la tradizione evangelica si stava formando. Ed in argomento non possiamo non dirci d'accordo col grande critico francese. Ma come mai dal Mitraismo il rito sarebbe passato al Cristianesimo?

Se non può contestarsi, in base alla epistola di Paolo sopra riportata, che l'istituzione dell'eucarestia, nel primo Cristianesimo, sia stata un apporto di Paolo, e se per altro non può negarsi, come dimostra Loisy, che l'istituto stesso sia stato ricavato dalle credenze mitraiche, dovrà dedursi che proprio Paolo — che era nativo di Tarso, la città santa del Mitraismo — abbia assimilato dalle credenze mitraiche l'istituto, trasferendolo nel Cristianesimo. Anche l'episodio dell'ultima cena dunque, quale riportato dai Vangeli, non è che un ulteriore apporto della predicazione di Paolo.

Allo stesso modo che per l'istituto dell'eucarestia, dovrebbe argomentarsi per l'istituto dell'indissolubilità del matrimonio, che anch'esso non può farsi risalire al Maestro di Galilea. È troppo evidente infatti, come appare manifesto dai passi appositi contenuti nella prima lettera ai Corinti, che anche il passo «quod deus coniunxit homo non separet», fu dottrina di Paolo. [1]


NOTE

[1] Paolo e la questione del divorzio. — Dissertare sui vantaggi e svantaggi sociali del divorzio — o sulla necessità di ben disciplinarlo ove esista per evitare che possa tradursi in pregiudizio per l'istituto della Famiglia — è ritenuto compito esclusivo del giurista e del sociologo. Osservano infatti giuristi e sociologi che la Famiglia è l'istituto base della società umana: per questo, mentre sarebbe utile alla società ed al singolo annullare il matrimonio — che della famiglia costituisce il presupposto — in quei casi nei quali il consenso che ebbe a costituirlo fu soltanto formale, sarebbe per contro vantaggioso, alla società ed al singolo, poter legittimare quelle altre unioni che appaiono costituite col consenso manifestamente sostanziale. Senonché il Matrimonio, quale si trova ormai disciplinato negli stati cattolici (specialmente in Italia), è diventato un «sacramento», sottoposto alla giurisdizione del potere religioso. Non è più un istituto giuridico, da disciplinarsi dal potere laico. Pertanto l'analisi di esso, per tentare di renderlo più conforme alle esigenze della società cui deve servire, è sottratta al giurista ed al sociologo. Lo storico però non può esimersi dal ricercare e mettere in luce storicamente l'erroneo presupposto, in base al quale le gerarchie religiose trasformarono in «sacramento» un istituto laico, ed in base al quale la società laica ha rinunziato in Italia al diritto di disciplinare il suo massimo istituto regolatore.

Premettiamo frattanto che anche il Cristianesimo — come tutte le religioni in genere — impone ai propri fedeli norme precise, conosciute come «comandamenti» e come «precetti». Il fedele quindi, che non ottempera a tali «comandamenti» o «precetti», commette peccato. Esistono però altre norme, ciascuna delle quali forma «conditio sine qua non» per poter essere cristiani e per poter quindi aspirare alla salvezza eterna. Tali norme sono appunto i «sacramenti», tra i quali figura il «Matrimonio».

I sacramenti — secondo la dottrina cristiana — sono stati istituiti direttamente da Gesù, ed appunto per questo ogni discussione sui medesimi è interdetta (tabù). Ma poiché furono le gerarchie religiose ad avere classificato tra i sacramenti il Matrimonio, ritenendolo istituito da Gesù, allo storico deve essere lecita l'indagine, per accertare se è esatta od è erronea l'attribuzione al Gesù che si volle fare dell'istituto matrimoniale.

Tale attribuzione fecero le gerarchie religiose, in base al passo di Matteo: «Ciò che Dio ha congiunto, l'uomo non separi». Senonché dalle «Epistole» di Paolo, appare chiaramente che tale detto fu pronunziato da Paolo stesso, senza alcun riferimento alla predicazione del Gesù, alla quale invece Paolo non accenna mai (giacché anche quando accenna al «Signore» Paolo si riferisce sempre alle sue «visioni», e non alla predicazione di quello).

Per altro, dalla esposizione minuta che ne fa Giuseppe Flavio, noi apprendiamo che il «Zelotismo» — o Cristianesimo anti-lettera — era conosciuto principalmente per il suo «zelo» alla Legge: tanto la Legge scritta (tradizione scritta), quanto la Legge orale (tradizione orale). Ora, canone indiscusso della Legge scritta — in base al postulato giudaico che soltanto l'uomo era stato creato per servire a Dio, mentre la donna era stata creata per servire all'uomo — era che l'uomo potesse ripudiare la propria donna, se per qualsiasi causa non gli fosse più piaciuta. Si legge difatti in Deuteronomio (XXIV, 1): «Se alcuno abbia preso una donna, ed abbia coabitato insieme, qualora essa non gli piaccia più, per qualche cosa di sgradevole che egli abbia trovato in essa, scrivale il libello del ripudio».

Sull'argomento è necessario che il lettore si soffermi alquanto, per considerare quale era stata la funzione della donna presso gli israeliti. Giacché ancora in Deuteronomio (XX, 1-7) leggiamo il seguente ordine, dettato dal Dio ad Israele: «Quando tu uscirai in guerra contro ai tuoi nemici... non temere... perché il Signore Iddio Tuo sarà teco... Ma quando ti appresterai per dare inizio alla battaglia, si faccia avanti il Sacerdote e dica: ...“Se c'è tra di voi qualcuno che abbia edificato una casa nuova, e non l'abbia ancora inaugurata, vada, e ritorni a casa sua, perché non capiti che egli muoia in battaglia, ed altri inauguri la sua casa... E se qualche altro abbia piantato una vigna, e non abbia ancora cominciato a goderla, vada, e ritorni a casa, affinché non avvenga che egli muoia in battaglia, e che un altro cominci a godere la sua vigna. E se ancora un terzo abbia sposato una donna, e non abbia ancora cominciato a possederla, vada, e ritorni a casa sua, affinché non capiti che egli muoia in battaglia, e che un altro cominci a godere la sua donna”».

Lo scopo dunque, per il quale, secondo la «Legge», la donna era stata creata «per servire all'uomo» era principalmente la soddisfazione dei sensi (pornèia, cfr. I Corinti, VII, 2). Giacché secondo la forma mentis israelita — e secondo la forma mentis orientale in genere — era una necessità per l'uomo tanto possedere la casa e la vigna, quanto possedere la donna. Ciò è tanto vero che nella religione mussulmana, perfettamente analoga, nel suo spirito informatore, alla religione mosaica, la donna viene offerta al fedele, quale il più gradito dei doni. Maometto infatti promette donne eternamente vergini al fedele che abbia combattuto per la fede (cfr. Corano, Sura II, 23; III, 13; IV, 60 ecc.). 

Una mente giudaica quindi, vissuta in Giudea, non poteva immaginare un matrimonio «indissolubile»; così come non poteva immaginare che l'uomo potesse possedere una donna sola (cfr. Genesi, XXIX, 23, 30; XXX, 4, 9).

Paolo di Tarso però, cresciuto in ambiente romano, ed educato secondo i principi della cultura umanistica di Roma, doveva ripudiare il principio giudaico della donna-strumento. Da ciò la dottrina da lui presentata nella Prima ai Corinti, e nella quale, pur non contraddicendo, formalmente, i principi basilari della legge mosaica, ne modificava la sostanza. 

Ed invero, in attesa della «resurrezione», che si riteneva allora imminente, alcuni fedeli avevano chiesto all'apostolo se potevano continuare a «fornicare»; altri avevano chiesto se non fosse preferibile separarsi dalla propria donna, per potersi con maggior purezza preparare al grande evento. A questi quesiti risponde Paolo, e mentre per i primi sancisce: «Per la fornicazione (pornèia) ogni uomo abbia la sua donna» (I Corinti, VII, 2), ai secondi ordina: «Sei tu legato ad una donna? Non cercare di esserne sciolto. Sei tu sciolto dalla donna? Ed allora non cercare donna... Io ti dico adunque: il tempo è breve, e quei che hanno la donna siano come quei che non l'hanno» (I Corinti, VII, 27-40).

Con questo, Paolo non intendeva — per altro — sanzionare l'indissolubilità del matrimonio; ma mirava ad ottenere che, nella imminenza della «fine dei secoli» (cfr. anche I Tessalonicesi, IV, 16) e conseguente «resurrezione», i fedeli non fossero distratti.

Per altro, che Paolo non intendesse proclamare l'indissolubilità del matrimonio, appare manifesto dai versetti 12 e 13 del detto capo VII — malgrado la distinzione artificiosa che vi si legge — laddove è scritto: «Se un nostro fratello ha una moglie di altra religione, e questa sia contenta di coabitare con lui, non la ripudi. Ugualmente se una moglie cristiana ha un marito non cristiano, che sia contento di coabitare con essa, non lo lasci. Ma se il coniuge non cristiano si separa, stia separato». Il divorzio era quindi ammesso da Paolo — anche nella imminenza dell'evento messianico — quando uno dei coniugi apparteneva a religione diversa (privilegio paolino dell'attuale diritto canonico).

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