venerdì 20 ottobre 2023

Lo Sheòl

 (segue da qui)

§ 104) Lo Sheòl.L'Israelita dunque, dopo morto, sapeva di andare nello Sheòl; e per quanto si sia cercato tardivamente di speculare su questa voce, non si è potuto in definitiva non riconoscere che la stessa aveva ed ha soltanto il comune significato di «sottoterra». Dopo morto l'Israelita andava sotto terra: niente dunque anima immortale. Ed a questo proposito molto chiaramente si esprime l'Ecclesiaste, laddove recita: «Nello Sheòl dove tu andrai non valgono né opera né parola; né scienza né saggezza». [1]

Peraltro non è inutile ricordare che il concetto, relativamente recente, di anima immortale (derivato dal concetto prediluviale di immortalità della vita in conseguenza della riproduzione continua per virtù del seme) risale ai periodi di decadenza dell'Umanità, e di scissione dell'umanità stessa in due classi, l'una dei dominatori, e l'altra dei dominati. Giacché la classe dei dominatori (pastori), volendo parificarsi agli Dei, e tenere asservita, per diritto divino, la classe dei dominati (gregge), avvilì quest'ultima ed elevò se stessa, attribuendosi essa sola un'anima immortale. Del resto anche adesso, nelle isole Marianne, ad esempio, sono soltanto i nobili che hanno l'anima, il popolo non possiede un'anima. Ugualmente presso gli antichi irani era credenza che solo gli iniziati in determinati riti (misteri di Mithra) potessero conseguire l'immortalità, che era propria degli Dèi. Tale immortalità si acquistava mediante il rito della omofagia (eucarestia), la quale, grazie all'ingestione dell'ostia sacra, nella quale la sostanza del dio si era trasferita (transustanziazione), comunicava all'iniziato gli attributi della divinità, e con essi la natura immortale del Dio.

NOTE

[1] Ecclesiaste, IX, 10. Cfr. anche Giobbe, XIV, 7-15; XIX, 25-27. È utile rilevare qui che nelle versioni cattoliche si è cercato di alterare i testi, onde interpretare i passi suaccennati in conformità colle credenze attuali (cfr. l'ediz. di Firenze della Bibbia, vol. II, p. 581, col commento di Ricciotti, circa il passo di Giobbe, XIX, 25-27). L'artificio però è rilevato evidente dal testo di Giuseppe Flavio. 

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