venerdì 29 settembre 2023

La questione dei dodici

 (segue da qui)

§ 84) La questione dei dodici. — La tradizione vuole che Gesù abbia avuto, durante il suo insegnamento, dodici discepoli, i quali, dopo la sua morte, avrebbero costituito i «dodici apostoli». La critica però non ha durato fatica a dimostrare l'artificiosità di quel numero. Era naturale del resto che allorquando la concezione messianico-apocalittica, facente capo a Giuda, si era avviata ad affermarsi quale una nuova restaurazione d'Israele (mentre proprio Giuda Galileo avrebbe dovuto impersonare il nuovo «Israele») si fosse pensato di riprodurre in Giuda Galileo la tradizione del primo Israele. E poiché il primo Israele aveva avuto dodici figli (che erano stati qualificati apostoli [1] e che insieme avrebbero dovuto costituire «le colonne» del regno di Jahvé), anche per il nuovo Israele si pretese che avesse avuto dodici «figli», qualificati «Apostoli», e formanti «le colonne» (cfr. Galati, II, 9) del nuovo Regno. Di fatto però, i veri discepoli e collaboratori del «Gesù» furono soltanto tre: Giacomo cioè, Simone e Giovanni, che insieme col Maestro avevano formato quattro «fratelli». I loro quattro nomi infatti: Giuda, Giacomo, Simone e Iose (vezzeggiativo di Giovanni), costituenti un vero e proprio quadrumvirato, venivano pronunziati sempre insieme, tanto che furono poi raccolti dalla tradizione come fossero di autentici «fratelli» e figli di Maria. All'infuori dei «tre» esistevano bensì altri seguaci ed ammiratori del Maestro, taluni dei quali molto spesso al suo seguito; ma non esistevano altri «intimi» di lui.

Del resto il Maestro di Galilea non era un caposcuola tipo Platone, Zenone o Aristotele, che insegnasse ad un numero determinato di allievi, nell'Accademia o nel Peripato. Il Maestro di Galilea predicava prevalentemente in pubblico; suo uditorio erano le masse amorfe ed anonime di Galilea, sua cattedra le sabbie rivierasche del Lago; o, tutt'al più, la barca di Simone. In tale stato di cose, può ammettersi ch'egli — come Confucio o come Buddha — avesse avuto seco due o tre «fratelli»: due o tre «compagni» cioè, che lo seguivano dovunque, ed ai quali si univa or l'uno or l'altro dei suoi «fedeli»; ma non può ammettersi ch'egli si fosse trascinato seco costantemente dodici uomini: tanto più che, viaggiando egli in una piccola barca, non poteva allogare in essa più di tre o quattro «fratelli». Se poi si tiene presente che il Maestro viveva dell'ospitalità di questo o di quel suo ammiratore, facile sarà dedurre che mentre è agevole dare vitto ed alloggio a tre o quattro persone, non è facile trovare sempre alloggio ospitale per una comitiva di tredici persone. Erano turbe insomma che seguivano talvolta il Maestro; ma soltanto due o tre l'accompagnavano dappertutto, collaborando attivamente con lui quali suoi fedelissimi. Si trattava soprattutto di Giacomo e Simone, perché Giovanni, ancora molto giovane, non sempre avrà potuto lasciare la sua casa paterna. 

Una conferma a questo assunto possiamo ricavarla e la ricaviamo da Paolo, il quale, mentre parla di Giacomo, Simone e Giovanni, sconosce completamente gli altri nomi della tradizione. Solo successivamente, allorquando, nei territori della diaspora, il primitivo messianismo di Giuda si avviò a diventare Cristianesimo, allo scopo di affiancare la figura dell'ultimo Messia a quella del primo Israele, gli si attribuirono dodici discepoli, scegliendosene i nomi tra i più noti suoi aderenti. Si enunciarono così per primi Giacomo, Simone e Giovanni; si aggiunse quindi Andrea, fratello di Simone, e per il resto si prese a caso, tra i vecchi nomi dei quali si era conservata memoria, aggiungendosi, fra l'altro, un Filippo, che, ove si esaminino le fonti che lo riguardano, si vedrà che non poteva neppure esser nato, quando il Maestro era già morto (cfr. Eusebio, III, 39, 9).

Fu per questo motivo che si aggiunse anche un Giuda di Giacomo, il quale non era altri che il «Maestro» (perché la voce Judas Jacobi, va letta come Giuda «padre» di Giacomo, o «Maestro» di Giacomo), e si aggiunse Giuda di Keyroth, ch'era stato un capo di zelanti, unitosi al Maestro soltanto nell'imminenza del moto messianico. E poiché Simone si era sottoposto nel frattempo al rito d'iniziazione istituito dal Battista, ed aveva assunto il nuovo nome di Pietro (da lui verosimilmente già scelto a scopo protettivo, durante la guerra partigiana succeduta alla morte del Maestro), era accaduto che molti avevano continuato a chiamarlo col vecchio nome di Simone e l'appellativo di zelota (per essersi appunto distinto come «zelota» durante la guerra partigiana), mentre i più vicini a lui lo avevano chiamato da allora col nuovo nome di Pietro. Per questo, dopo la morte dell'apostolo, quando la tradizione fu raccolta nello scritto, il personaggio rimase sdoppiato: e mentre il più vecchio nome venne a formare il Simone Zelota, altro degli apostoli, il nuovo nome diede vita all'Apostolo Pietro. [2]

NOTE

[1] Si ricordi l'apocrifo «Testamento dei dodici apostoli». Notare poi che la parola «apostoli» era inizialmente in Giudea sinonimo di «patriarchi», per cui negli scrittori cristiani noi troviamo accennato il suddetto apocrifo colla denominazione di «Testamenti dei dodici patriarchi». I dotti ebrei però (cfr. Bernfeld, Storia della Lett. Ebr., Torino 1926) traducono «Testamento dei dodici apostoli».

[2] L'attributo di «Cananeo», che si legge in Matteo (X, 4) ed in Marco (III, 18) non vuol dire «originario della Cananea»), bensì «zelota», dalla voce aramaica quan'ana, come appunto si legge in Luca (VI, 15). 

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