giovedì 28 settembre 2023

Arresto e morte del Maestro

 (segue da qui)

$ 82) Arresto e morte del Maestro. — Il movimento contro Roma, allacciantesi alla vecchia propaganda apocalittico-zelota, aveva acquistato aderenti in tutta la Palestina e non poteva più contenersi nei limiti di una manifestazione incruenta. Qualche banda, condotta da qualche zelante, aveva già cominciato ad attaccare i presidi romani e le guardie del Sinedrio. Gli insofferenti quindi, che qua e là, senza che esistesse una organizzazione unitaria, avevano assunto la direzione dei movimenti locali, insistevano essere necessario dare corso alla azione, prima che una reazione violenta ne avesse troncato la possibilità. In questo stato di cose, era naturale che alcuni capi zelanti — tra cui principale era Giuda di Keyroth —, [1] constatando la necessità di un Capo Supremo beneviso al popolo, avessero insistito presso il «Maestro», affinché desse lui, da Gerusalemme, il segnale della guerra, durante la Pasqua dell'anno 7, proclamandosi apertamente Messia.

Fu forse l'esitanza del Maestro a dare il segnale della rivolta, che provocò il tradimento del Keyroth? O non fu piuttosto la polizia sacerdotale ad aver rintracciato il «Maestro» — venuto a Gerusalemme coi suoi partigiani in occasione della festa degli Azzimi — quando il suo arresto era stato già deliberato in concistoro segreto? Certo si è che in tutti i grandi moti preparati dallo spirito umano, al momento dell'esecuzione, un senso di esitanza, di smarrimento e di dubbio s'impadronisce del capo. In quel momento i destini di numerose vite maturano improvvisi. E se capita talvolta che gli uomini più torbidi vincano quel senso di esitanza — che è spesso il richiamo di una coscienza morale — per cui Cesare spingerà maggiormente il suo cavallo perché passi più veloce il Rubicone; capita per contro che spiriti più sensibili al richiamo della coscienza ritornino sul programma già approvato, e sospendano un'azione che prevedono eccessivamente rischiosa. Non è inverosimile quindi che, persistendo nel «Maestro» quel senso di esitanza, del quale la tradizione fa fede, Giuda di Keyroth si sia determinato a disfarsi di un uomo, la cui tardiva resipiscenza appariva ormai dannosa alla causa. 

Per vero, l'arresto e la morte del Maestro si leggono soltanto tra le righe del testo di Giuseppe. Giacché essendo stato quegli considerato capo del moto messianico, era naturale che fosse il primo ad essere colpito dalla reazione sacerdotale, quando ancora la maggiore reazione di Roma non si era manifestata. Dalla tradizione però apprendiamo che l'autorità sacerdotale avrebbe ottenuto l'arresto del Maestro, nella notte sul venerdì precedente la Pasqua, o meglio, poco dopo il crepuscolo del giovedì, precedente il 15 Nissan. Subito essa avrebbe convocato la giunta del Sinedrio (costituita in corte criminale), per far discutere l'accusa, elevata in base agli articoli 1-5 capo XIII del Deuteronomio; quindi, e sollecitamente, il processo sarebbe stato condotto a compimento.

Giacchè l'autorità sacerdotale doveva ottenere, nel più breve tempo possibile, non solo la condanna del Maestro, ma anche l'esecuzione completa della condanna stessa. In caso contrario, incominciando col vespro del venerdì il riposo del sabato, si sarebbe dovuto tenere il prigioniero in carcere; ed era verosimile che i suoi aderenti, allo scopo di liberarlo, avrebbero affrettato quel movimento, che invece con quell'arresto i sacerdoti confidavano di scongiurare. Da ciò la fretta eccessiva con cui fu condotto, nella stessa notte dell'arresto, il procedimento penale, sia nella fase dichiarativa della responsabilità, sia nella fase esecutiva della sentenza. Il Maestro difatti, dopo le formalità volute dal rito e senza eccessive indagini sul reato — come accade in tutti i processi politici camuffati da processi comuni — fu dichiarato colpevole e condannato alla crocefissione. E poichè a quell'epoca il Sinedrio aveva ancora competenza piena, non restava che eseguire sollecitamente la sentenza, la quale difatti alle ore nove del mattino (secondo Marco) era già stata eseguita.

Con quella esecuzione, l'autorità sacerdotale confidava — col sacrificio di un uomo solo — di risparmiare al paese una reazione di gran lunga più grave da parte di Roma, qualora il moto messianico incombente fosse esploso. [2] Ma questa volta i calcoli del pontefice Anna — e specialmente del consigliere Caifas, il quale appunto in concistoro aveva avanzato quella proposta — non si avverarono; perché anzi gli eventi precipitarono più sciagurati di qualsiasi previsione.

Ed invero, quando il popolo, invasato da una propaganda messianica, sia inquieto, e voglia esplodere in movimenti di massa, guai a lanciargli tra i piedi un «cadavere». Per esplodere e diventare fiumana, quello ha bisogno proprio di una bandiera, e quel «cadavere» esso afferrerà quale bandiera, dando sfogo alla propria passione contenuta. Così avvenne in Palestina. Giacchè i capi regionali del movimento, che attendevano da Gerusalemme il segnale per iniziare nei rispettivi distretti la lotta ad oltranza, appena seppero ucciso quegli ch'essi consideravano Capo, diedero principio ciascuno per proprio conto alla guerra aperta. Ed era naturale che di fronte alla vastità della rivolta, l'autorità romana, subito resa consapevole, ne iniziasse la repressione; come era naturale che tale repressione riuscisse quant'altra mai sanguinosa. Mancando difatti una mente direttrice ed unificatrice, il movimento era rimasto slegato, agendo ogni capo per proprio conto. Fu quindi facile ai romani, accorrendo tempestivi dove il bisogno si faceva sentire, stroncarlo in breve tempo. Ed era così che da ultimo, dopo insanguinata la provincia, ed essendo fuggiti nelle regioni della diaspora la più parte dei «galilei» superstiti, una profonda pace subentrava in quelle contrade, ch'erano diventate ormai un immenso cimitero!... [3]

Molti anni passavano dopo quella reazione sanguinosa; ma di rado accade che il sangue versato per un'idea, saggia o pazza che sia, non inebri e non faccia rinascere più robusta l'idea stessa. Da quel sangue il pensiero galileo — che continuò ad essere coltivato dalla sopravvissuta «scuola», alla quale adesso presiedevano Giacomo e Simone — fu alimentato e trasformato, riprendendo anima e vita colle nuove generazioni, e dando luogo alfine, insieme col neo-galileismo di Manaemo e dei due Eleazari in Giudea, al cristianesimo di Paolo e di Barnaba nell'Oriente greco. 

NOTE

[1] Giuda di Keyroth non era nativo di Galilea, bensì di Giudea, dove appunto trovavasi la cittadina di Keyroth. Come tale egli non può essere stato un discepolo; ma deve essersi unito al Maestro solo a Gerusalemme, per rafforzare il moto anti-romano che riteneva egli dovesse impersonare. Non è improbabile quindi che allorquando quegli si accorse che il Maestro esitava a farsi proclamare Messia e dar principio alla rivolta, ritenendolo ormai di ostacolo al movimento, lo abbia consegnato ai sacerdoti per toglierlo di mezzo del tutto, dando poi esso stesso il segnale della ribellione. 

[2Quest'espediente dell'autorità sacerdotale, di sacrificare cioè un uomo solo per salvare dalla prevedibile reazione di Roma tutto il popolo, appare chiaro nella tradizione evangelica, dove è detto che «Caifas era stato quegli che aveva suggerito nel concistoro essere utile che un uomo solo fosse morto per il popolo» (Giovanni, XVIII, 14). È verosimile difatti che nella riunione tenutasi dai membri del Sinedrio anteriormente all'arresto del «Gesù», Caifas, allora giovane sacerdote sadduceo, abbia sostenuto quell'opinione, e che essa sia stata decisiva per indurre il consesso a deliberare in anticipo l'arresto e la morte del Maestro.

Fu forse anche questa parte sostenuta da Caifas nel concistoro, che associò Caifas stesso ad Anna nella condanna del Maestro, facilitando più tardi l'accavallamento fra la tradizione riguardante il «Gesù» e la tradizione riguardante il Battista.

[3] La violenta e spietata repressione romana, succeduta alla morte del filosofo galileo, e conseguente ribellione del popolo, appare fra le righe del testo di Giuseppe. Che poi tale repressione fosse stata radicale, oltre che dal testo di Giuseppe, si deduce dal fatto che non si rinvengono altre sommosse in Giudea, tra gli anni 7-8 E.V., in cui tale repressione aveva avuto luogo, e l'anno 28 in cui, essendosi formate le nuove generazioni, ebbero principio i nuovi tumulti. Per comodità del lettore riportiamo qui tutto il passo di Giuseppe sul censo e conseguente ribellione (Antichità, XVIII, 1-2, traduzione Angiolini):

«S'inoltrò Cirenio in Giudea, per censire quelle terre e vendere i possedimenti di Archelao. Ora i Giudei, tuttoché dapprincipio si contorcessero al solo nome di conti, pure, mercé l'addolcirli che fece il pontefice Gioazàro, non mossero più oltre le loro opposizioni, e così, persuasi da lui, diedero il censo esatto dei loro averi. Ma Giuda, di nazione Gaulonita e Gamalese di patria, con Sadduc di professione fariseo, si levarono a ribellione e, gridando che questo censo ad altro non mirasse che a metterli in totale schiavitù, invitarono la nazione tutta a riconquistare la libertà: — poiché solo in tal modo avrebbero essi raddrizzato le abbattute loro fortune, e con l'abbondanza dei beni acquistati, si sarebbero procacciati sicurezza, e avrebbero potuto alzare il grido di uomini coraggiosi; né Dio d'altra parte si sarebbe prestato di buon grado a favorirne i disegni fino a rimetterli nello stato loro primiero, se non allorquando essi, mandati ad effetto i loro disegni, ed abbracciate coll'animo grandi imprese, non avessero temuto d'affrontare qualsiasi fatica —.

E già, poiché di buon grado si accoglievano questi sensi da ognuno, a grandi eccessi crebbe l'ardire dei ribelli; né vi fu male in mezzo a costoro che non avesse riempito la nazione tutta oltre ogni credere; e per le guerre che andavano nascendo l'una appresso all'altra, non era possibile che non s'avessero giorni tristi, e non si perdessero quegli amici che render potevano le sciagure meno gravi. A tutto questo si aggiungevano ruberie e ammazzamenti dei più ragguardevoli personaggi, sotto ombra di riordinare le cose pubbliche, ma in sostanza per ispeme di privato guadagno. Quindi per colpa di loro (Giuda e Sadduc) bollirono sedizioni e si sparse gran sangue civile: tra per il macello di sé fecero scambievolmente i frenetici connazionali, vogliosi ancor essi di non cedere agli avversari e tra per quello che fecero di loro i nemici».

La reticenza di Giuseppe appare evidente in questo passo, nel quale la narrazione storica può dirsi pressoché sospesa, e sostituita da alcune considerazioni soggettive dello storico. Costui difatti, presentando il gran sangue versato come una conseguenza logica e necessaria del moto messianico che si afferma predicato dal filosofo galileo (si tenga presente il promesso aiuto divino nella lotta), intendeva scagionare da una parte l'autorità romana, della quale mentre scriveva egli era ospite, e dall'altra il popolo e se stesso, attribuendo la responsabilità di quella strage a due uomini.

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