(segue da qui)
§ 10) La profezia delle settanta settimane e la questione di Daniele. — Va rilevato adesso — come più sopra fu fatto cenno — che nei primi secoli del cristianesimo, allorquando, dopo le prime affermazioni dell'idea messianica di Giudea nell'Oriente greco, l'interesse per la persona del fondatore era diventato prevalente, tutte le circostanze ignorate, relativamente alla vita del Gesù, erano state ricercate nelle profezie bibliche. Infatti, poiché era credenza basilare della nuova ideologia che proprio mediante le «ispirazioni» ai profeti Iddio avesse fatto conoscere il proprio pensiero, era naturale che le profezie dovessero ritenersi «verbo» di Dio. E poiché in tali profezie erano contenute tutte le circostanze di tempo, di luogo e d'azione relative al vaticinato Messia, una volta riconosciuto che Gesù era il vaticinato Messia, appariva sacrilego, oltre che superfluo, ricercarne i dati anagrafici nelle fonti profane.
In conseguenza di questi principi, poiché la profezia di Genesi (XLIX, 10) aveva preannunziato che il Messia sarebbe nato quando lo scettro e la tiara di Giuda fossero passati ad un re straniero, e poiché Erode era considerato re straniero, si affermò dapprincipio che Gesù era nato quando Erode si era rassodato sul trono (28 av. E. V.). Ancora: poiché la profezia di Michea aveva affermato che il futuro Messia sarebbe nato a Betlemme, una volta riconosciuto che Gesù era il Messia, non occorreva di più per concludere che era nato a Betlemme. Da ultimo, poiché altra profezia di Giudici (XIII, 5), erroneamente interpretata, aveva preannunziato che il Messia sarebbe stato Nazàreo, si affermò che Gesù, pur essendo nato a Betlemme, era stato cittadino di Nazareth (Matteo, II, 23).
Dionigi però, per enunciare la data di nascita del Cristo agli effetti della propria cronologia, non si era richiamato alla profezia di Genesi, alla quale invece si erano richiamati i primi cristiani. Giacché troppe altre leggende nel frattempo si erano accavallate, ed i «Fatti del Gesù» erano stati ormai fusi e confusi dalla tradizione coi «Fatti del Battista» e coi «Fatti di Pilato». E se le masse dei fedeli non potevano rilevare che Gesù, nato verso il 725 di Roma (28 a. E. V.), quando appunto Erode si era appena stabilizzato sul trono (secondo la profezia di Genesi), non poteva essere morto nel 32 E. V., e cioè circa 60 anni più tardi, sotto Pilato, ciò bene doveva rilevare Dionigi. Egli però, invece di anticipare la morte, rispettando la profezia di Genesi, preferì ritardare la nascita, fissando questa al 753 di Roma, e ripudiando così quella profezia. Volendo quindi adesso la Chiesa difendere la cronologia di Dionigi, doveva essa trovare una nuova profezia, colla quale annullare quella di Genesi. Ed appunto a questo fine fu iniziato dagli ecclesiastici lo studio di Daniele.
Dopo molti tentativi, ricerche e adattamenti, i dotti ecclesiastici enunciarono la nuova verità: la profezia delle settanta settimane di Daniele accertava, senza possibilità di errore, che la nascita del Cristo aveva avuto luogo proprio l'anno 753 di Roma.
Il testo della profezia, ch'ebbe a fornire ai dotti ecclesiastici la conferma della cronologia di Dionigi si legge ai versetti 24 e segg. del Capo IX di Daniele. In tale passo viene raffigurato l'Arcangelo Gabriele, il quale, mostrandosi a Daniele, che lo aveva invocato, così si esprime: «Sono state fissate settante settimane riguardo al tuo popolo ed alla tua santa città, per dare suggello ai peccati ed espiare l'iniquità, per dedurre perenne giustizia, per compiere la visione dei profeti, e per ungere il santo dei santi».
«Sappi dunque ed intendi: dall'emanazione di un ordine di riedificare Gerusalemme, sino al Messia-Duce, occorreranno sette settimane e settanta settimane; essa (la città) sarà riedificata nella piazza e nella cinta in breve tempo».
«Dopo sessantadue settimane sarà sacrificato il Messia; quindi il popolo d'un principe irrompente distruggerà la città ed il santuario. Quasi inondazione sarà la tua catastrofe, fino all'estrema guerra, distruzione e devastazione, secondo il preannunziato».
«Stringerà egli alleanza con molti durante una settimana, ed a metà della settimana darà fine al sacrificio ed all'offerta, e sull'ala del tempio abbominazione desolante, finché la fine e lo stabilito ricadano sul devastatore».
Circa questa profezia, Eusebio così aveva scritto nella sua Storia Ecclesiastica (I, Vi, 10): «Nel libro di Daniele, la sacra scrittura, dopo aver precisato con la massima chiarezza il numero delle settimane sino a Cristo Re, preannunzia che, passate queste, non ci sarà più la sacra unzione presso gli ebrei». Con che Eusebio aveva interpretato la profezia di Daniele, richiamandosi al decreto di Erode, ordinante la riedificazione del tempio, ed applicando la profezia stessa al Sommo Pontificato (che dopo 77 settimane da quel decreto non ci sarebbe stato più in Giudea). Gli ecclesiastici moderni invece, trascurando l'interpretazione di Eusebio, il quale era vissuto quasi contemporaneo ai fatti da lui narrati, interpretano Daniele nel senso che il «decreto di riedificazione del Tempio» (poiché il Tempio viene identificato con Gerusalemme), da cui si inizierebbe la decorrenza delle «settimane», dovesse individuarsi in quello che si afferma avrebbe pronunziato Artaserse, e del quale si parlerebbe in Esdra (VII, 12-26), decreto che risalirebbe all'anno 457 av. E. V. (296 di Roma). Le settanta settimane però sarebbero da computarsi non in giorni, ma in anni, per cui settanta settimane di anni (70 × 7) darebbero 490 anni. Partendosi quindi dal 296 di Roma, la fine delle settanta settimane cadrebbe l'anno 786 (296 + 490 = 786): si concluse pertanto che Daniele aveva profetato la morte del Santo dei Santi per l'anno 786 di Roma. E poiché il Santo dei Santi non era altri che Gesù, si affermò appunto che Gesù era stato sacrificato, secondo la profezia di Daniele, durante la Pasqua dell'anno 786. Ma poiché a quell'epoca Gesù aveva 33 anni, doveva fissarsi a 33 anni prima la data della sua nascita. Questa data pertanto restava confermata (786 meno 33) all'anno 753 di Roma, come appunto Dionigi aveva calcolato. [1]
Più tardi — cessati i primi entusiasmi per la scoperta peregrina — si constatava che Gesù non poteva essere nato l'anno 753 di Roma, perché a quell'epoca Erode era morto da oltre tre anni, mentre era indubbio che Gesù era nato durante il regno di Erode (in diebus Herodis regis, dice la Vulgata). Tuttavia, invece di riconoscere che nessuna serietà storica poteva attribuirsi agli studi di eristica profetica, si insistette negli stessi, pretendendo di correggere la rivelatasi contraddizione, con una interpretazione diversa della medesima profezia. Si affermò pertanto che Gesù non sarebbe morto alla fine della settantesima settimana, come si era prima argomentato in base al versetto 24 del Capo IX di Daniele; bensì a metà dell'ultima settimana, come si dovrebbe argomentare dal versetto 27. In conseguenza si portò indietro di tre anni e mezzo la data di morte e di altrettanto la data di nascita del Gesù, restando poi definitivamente accettata questa data.
Senonché anzitutto è storicamente errato che il decreto di Artaserse, del quale si parla in Esdra, risalirebbe all'anno 457 av. E. V., perché l'Artaserse di cui si parla in Esdra al capo VII, 12-26, è Artaserse II, c'ebbe a regnare dal 404 al 359, e non Artaserse I. Difatti, come si rileva dallo stesso libretto, l'Artaserse in parola era succeduto a Dario II, mentre Artaserse I era succeduto a Serse I (l'Assuero di Esdra). Si aggiunga che il prefato decreto di Artaserse non riguardava affatto la riedificazione del tempio, perché il tempio, come emerge ancora dallo stesso libretto (VI, 15) era già stato terminato 21 anni prima.
A parte comunque ogni discussione di carattere estrinseco, molto chiara si appalesa la congerie di artifici, posti in essere per ricavare da un testo tanto involuto una interpretazione così peregrina. Né per altro furono solo i cristiani a fabbricare cronologie in base a pretesi scritti profetici. La cronologia Parsi, ad esempio, è anch'essa frutto di calcoli cabalistico-divinatori, fondati su pretese profezie. Né pare superfluo ricordare che ancora oggi esistono e sono ascoltati alcuni pretesi interpreti di profezie, i quali chiamano se stessi piramidologi, e che, considerando la Piramide di Cheope un corpus profeticum, pretendono di avere accertato, attraverso combinazioni condotte sul numero 268, equivalente ai pollici contrassegnanti lo spostamento dell'asse della piramide, non solo la data di morte del Cristo, ma perfino la data del 1914 quale quella della prima conflagrazione europea. [1] E se ancora oggi vivono liberi uomini i quali ritengono di poter calcolare la cronologia del Cristo in base a pretesi «monumenti profetici», qual meraviglia che la Chiesa cristiana abbia tentato di ricavare i dati mancanti alla propria cronologia da vecchi scritti, che almeno della profezia presentavano tutte le parvenze?
Va osservato però che la Storia non può ridursi a calcoli cabalistici od a procedimenti divinatori. La Storia è la spina dorsale della conoscenza fenomenica; è la colonna cioè, su cui si regge l'homo sapiens. Non può quindi questa colonna poggiare sul chimerico, sul fantastico, sull'irreale. Nel caso poi di Daniele, è stato accertato che il libretto pervenutoci sotto il nome di Daniele altro non è che una delle tante falsificazioni compiute in Israele a scopo di edificazione. Esso infatti non è stato scritto nel periodo della cattività babilonese, come si afferma nel suo contesto, ma è stato scritto al tempo di Antioco IV (a. 170 circa), per affiancare il movimento messianico promosso allora da Mattatia, e portato a termine da Giuda Maccabeo. Giacché proprio Antioco IV era stato il «principe irrompente», il cui popolo avrebbe distrutto la città ed il santuario, e del predecessore Antioco III era stato il «decreto» di riedificazione del tempio (cfr. Giuseppe Flavio, Antichità, XIII, III, Lett. di Antioco a Tolomeo), mentre il Messia ucciso, ricordato nel libretto, era stato il Pontefice Onia III. Peraltro è bene ricordare — come anche S. Girolamo riconobbe — che gli Ebrei non hanno mai annoverato Daniele tra i profeti, tanto vero che, pur avendo essi accolto nel canone quel libretto, lo avevano collocato tra gli scritti vari, e non tra i profetici.
Non basta. È stato accertato che il personaggio «Daniele», quale raffigurato nel libretto omonimo, non è mai esistito. Ciò aveva dimostrato nell'antichità Porfirio, il discepolo di Plotino (cfr. Epistole di S. Girolamo, Venezia 1562, Prefazione sopra Daniele, p. 217); ma lo hanno dimostrato di recente tutti i critici più autorevoli, compreso Loisy. Ed infatti, la falsificazione del libretto intestato a Daniele, ed insieme la non storicità di un personaggio di tal nome, debbono ritenersi sicure, sia in base alla prova cronologica, sia in base alla prova filologica.
In base alla cronologia va osservato che il Daniele del libretto appare allevato alla Corte di Nabuccodonosor (recte Nebukadrezar) essendo stato trasportato in Babilonia l'anno 606 a. E. V., terzo del regno di Johachim re di Giuda (Dan. I, 1, 6). Ammettendo che egli avesse dieci anni quando fu trasportato a Babilonia, si ricava che nell'anno 568 a. E. V., quando Gerusalemme fu distrutta, Daniele aveva già 48 anni. Secondo lo stesso libretto però, Daniele si trovava ancora in vita nell'anno primo di Dario figlio di Assuero (perché la profezia delle settanta settimane risulta essere stata ispirata a Daniele proprio «nell'anno primo di Dario figlio di Assuero»). Ora su questo punto gli esegeti ecclesiastici si sono sforzati di dare al testo una interpretazione, che potesse permettere di registrare il fatto in un'epoca nella quale era ammissibile che Daniele vivesse. Ma Dario figlio di Assuero non è che Dario II figlio di Artaserse I, e successore del fratello Serse II, che era stato ucciso dopo 45 giorni di regno. Dario II, poi, ascese al trono l'anno 424 a. E. V. Pertanto l'apparizione dell'angelo Gabriele a Daniele avrebbe avuto luogo l'anno 424. Senonché a quell'epoca non poteva più essere in vita Daniele, giacché dall'anno 606, epoca del suo internamento in Babilonia, all'anno 424, ascesa al trono di Dario II, decorrono 180 anni. La prova cronologica quindi esclude la storicità del racconto. [1]
La prova filologica conferma e suggella la prima prova. Perché è stato constatato che il racconto di Daniele fu scritto in un aramaico che appartiene ad un'epoca molto posteriore ad Esdra. Ora se Daniele fosse vissuto all'epoca cui la tradizione si riferisce, ed avesse scritto allora, egli avrebbe dovuto scrivere non già in quella lingua nella quale il testo figura dettato, ma nella lingua dell'epoca. Né si dica che il testo rimastoci sia una traduzione posteriore; perché almeno ai tempi di Porfirio e S. Gerolamo, quando la questione fu sollevata per la prima volta, avrebbe dovuto trovarsi qualche traccia del testo originale, se questo fosse esistito.
NOTE
[1] Cfr. fra le altre opere, Stade, Storia del Popolo d'Israele (dalla Storia Universale dell'Onkel, ed. di Milano 1890 e segg.) pp. 367-368.
[2] Cfr. H. J. Forman, Storia della profezia, trad. dall'inglese, Milano 1939, pp. 62 e segg.
[3] Sul libretto di Daniele. — Per chi voglia approfondire questa parte della narrazione, crediamo utile aggiungere maggiori precisazioni.
In verità, che un profeta Daniele, così e come viene descritto nel libretto omonimo, con un pò di senso critico, il libretto stesso. Giacché manifestamente l'anonimo scrittore del libretto, pur elaborando una tradizione popolare, non aveva un'idea della cronologia, e pertanto registrò i vari casi relativi alla vita del suo personaggio, con richiamo ad epoche che cronologicamente sono impossibili.
Il primo capitolo del libretto ci richiama all'anno III del regno di Joachim re di Giudea, allorquando Nebukadrezzar (vulgo Nabucodonosor), conquistata Gerusalemme e fatto prigioniero il re Joachim, avrebbe trasportato in Babilonia quali ostaggi alcuni giovanetti giudei, tra cui Daniele, per educarli alla propria corte, onde farsene poi dei fautori ed amici. Si tratterebbe quindi del sistema che adoperavano un tempo i romani, e che adoperano adesso inglesi e russi: i popoli cioè più imperialisti del mondo. Nulla di strano dunque circa lo sfondo del racconto. E poiché noi sappiamo che la prima conquista di Gerusalemme da parte di Nebukadrezzar va registrata all'anno 606 av. E.V. noi dovremo tenere presente questa data quale punto di partenza del racconto, per pronunziare un giudizio esatto sul libretto intestato a Daniele.
Nel secondo capitolo si narra il sogno di Nebukadrezzar, e, per quanto il racconto non sia privo di inverosimiglianze, nulla di sostanziale ai fini critici c'è da rilevare. I capitoli III e IV contengono altri episodi aventi il solito carattere degli episodi biblici, ed anche su di essi è inutile fermarsi. Il capitolo V però porta d'un balzo Daniele alla corte di Baldassarre figlio di Nabonido, associato al regno dal padre nell'anno 538. Un balzo quindi di 70 anni, durante i quali a Nebukadrezzar erano succeduti altri tre autocrati (Evil Merodach, Neriglissar e Nabonido). Non solo; ma il capitolo stesso parla della morte di Baldassarre, e subito dopo parla del regno di Dario il Medo. Un altro balzo dunque di circa sedici anni, nei quali avevano avuto luogo la conquista di Ciro ed il regno di Cambise.
Evidentemente l'anonimo raccoglitore, non conoscendo la cronologia, e dovendo parlar male dei re babilonesi, aveva trascurato Ciro ed il figlio Cambise, senza accorgersi degli anacronismi che sarebbero derivati. Al proposito è bene ricordare che, per gli Ebrei, Ciro (e quindi anche suo figlio Cambise) era rimasto sempre una figura eccezionale: un Messia cioè, e comunque un benefattore d'Israele, onorato come tale per molto tempo. Verosimilmente dunque, nella tradizione popolare egli non era stato mischiato cogli altri re di Babilonia anteriori o posteriori a Ciro stesso. Dal momento infatti che Babilonia era ormai considerata la città della servitù, ed i suoi re gli asservitori d'Israele, era naturale che non si pensasse nel popolo (tra cui la tradizione sorgeva), che Ciro potesse collocarsi alla pari di Nebukadrezzar, di Dario e di Artaserse. Da ciò il salto dell'anonimo compilatore da Baldassarre a Dario I. Senonché Dario I d'Istaspe era succeduto a Cambise nel 521. E poiché dall'anno 606, data in cui Daniele figura deportato in Babilonia, all'anno 521, data in cui Dario ascese al trono, intercorsero 85 anni, non è verosimile che a quest'epoca il Daniele del libretto fosse ancora in vita.
Ma le maggiori incongruenze si ravvisano nei capitoli successivi. Nel capitolo VI infatti si narra di un decreto di Dario, che avrebbe nominato Daniele satrapo di una provincia babilonese. Per vero, non c'è nulla di strano che un israelita sia stato nominato satrapo del nuovo despota. È certo però che se tale governatore si chiamò Daniele, non poteva essere lo stesso Daniele, di cui al capitolo I del libretto omonimo. Giacché il Daniele del capitolo primo doveva avere circa cento anni di età al tempo di Dario, e non era uso, alla corte di Babel, nominare governatori dei centenari.
Nei capitoli VII e VIII il libretto ritorna indietro all'epoca di Baldassarre, per cui non possiamo che maggiormente arguire la mancanza di criterio cronologico nel compilatore. Venendo da ultimo al capitolo IX, che è appunto quello che più interessa (in quanto è proprio qui che si enuncia la visione e conseguente profezia delle settanta settimane) si ricava dal primo versetto che la pretesa visione avrebbe avuto luogo nel primo anno di Dario figlio di Assuero. È utile però riportare qui il testo; e lo riportiamo dalla edizione curata dall'abate Ricciotti (Firenze 1942): «Era il 1° anno di Dario, figlio di Assuero della stirpe dei Medi, che regnò sopra l'impero dei Caldei. Nel primo anno del suo regno, io Daniele mi posi a considerare nei libri il numero degli anni di cui era stata fatta parola dal Signore a Geremia profeta, perché avesse terminato la desolazione di Gerusalemme, cioè i 70 anni». Ora, perché sappiamo che la voce ebraica Assuero corrisponde alla voce greca Artaserse, od anche alla voce greca Serse, non occorre molto per individuare, nel Dario figlio di Assuero, Dario II figlio di Artaserse I e successore del fratello Serse II, ch'era stato ucciso dopo 45 giorni di regno. Ma poiché dall'anno 606, data in cui, secondo il cap. I di Daniele, il discusso personaggio sarebbe emigrato in Babilonia, all'anno 424, primo del Regno di Dario II, intercorrono 182 anni, si desume che a quell'epoca il biblico Daniele avrebbe dovuto avere circa 200 anni.
Senonché i sostenitori dell'autenticità di Daniele vogliono leggere il testo diversamente da come è scritto. Così l'abate Ricciotti, commentando il versetto che si riferisce a Dario figlio di Assuero, rimanda ad una precedente nota, che esso stesso aveva dettato relativamente a Dario il Medo. Sembrerebbe dunque, secondo tale richiamo dell'abate Ricciotti, che «Dario figlio di Assuero» sarebbe stato tutt'uno con «Dario il Medo», a proposito del quale così annota il Ricciotti: «Chi sia questo Dario il Medo non risulta dai documenti profani. Si è pensato che designi Gubaru il quale fu generalissimo di Ciro il Grande durante la campagna che fruttò a costui la conquista di Babilonia». Ora, non può non mortificare la constatazione del come un «preconcetto» riesca a far prendere cantonate a persone anche molto dotte. Il che per altro non può che offendere ugualmente la verità. Giacché se il testo parla di Dario, persona notissima alla tradizione israelitica ed alla Storia, non può parlare di Gubaru, sconosciuto alla tradizione stessa ed alla Storia.
Ma dove l'abate Ricciotti offende se stesso è nella confusione che vorrebbe far nascere tra Gubaru, Dario d'Istaspe, e Dario figlio di Assuero. Giacché lo stesso abate Ricciotti, commentando un altro libretto biblico, e precisamente il libretto di Ester, al capo I, laddove il testo comincia con le parole: «al tempo di Assuero», così annota: «Assuero, cioè Serse, vedi l'Introduzione. Il suo carattere brioso, attestato dagli storici ebrei, si ritrova nella narrazione». E nella introduzione all'Ester, così scrive lo stesso abate Ricciotti: «L'epoca cui si porta la narrazione è quella del monarca persiano nominato fin dal principio: è chiamato Artaserse dalla versione greca, e, nelle parti deuterocanoniche, anche dalla Vulgata, la quale tuttavia, nelle altre parti, lo chiama Assuero». Dal che si manifesta che l'abate Ricciotti conosceva perfettamente che il Dario figlio di Assuero, non era altro che Dario II Noto, figlio di Artaserse I, e successore del fratello Serse II, ucciso dopo 45 giorni di regno.
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