sabato 28 maggio 2022

LA PRIMA GENERAZIONE CRISTIANALA MORALE DELL'EROISMO

 (segue da qui)


IV

LA MORALE DELL'EROISMO

Tentiamo ora di penetrare in queste anime. Sono le regole della vita interiore, vale a dire i principi essenziali della morale, che si tratta di confrontare nei primi cristiani e nei loro successori.

Continuando ad opporre le epistole al «vangelo», [1] sappiamo che si obietterà che la morale di San Paolo non è necessariamente quella dei Galilei di Gerusalemme. Risponderemo che non si trova alcuna traccia nelle epistole né altrove che delle divergenze si siano manifestate a questo proposito, e si pensa se avrebbero sollevato tempeste! Bisogna d'altronde ricordarsi che nei grandi movimenti rivoluzionari (così come nei grandi movimenti riformisti), dove una fede comune anima tutti, dove le condizioni di esistenza non differiscono minimamente, dove i rapporti sono frequenti, e malgrado le mancanze individuali che possono verificarsi, la concezione della vita morale resta la stessa in tutti, quali che siano talvolta i disaccordi sui punti secondari e quali che siano le dispute. Una delle nostre tesi fondamentali è che tra i Galilei e San Paolo non vi furono divergenze gravi; non ve ne furono più in morale che in cristologia. Le divergenze gravi sono tra la prima generazione cristiana e quelle che l'hanno seguita. 

Non fermiamoci alla morale corrente, quella che si insegna a scuola e che comporta il minimo di virtù medie senza le quali la società sarebbe impossibile. Non si concepisce un cristiano dei primi tempi oppure oggi un rivoluzionario sotto le specie di un truffatore o di un ubriacone. La disciplina che impongono i fondatori di religioni, come quelle dei grandi rivoluzionari, ha più alte esigenze.

Il criterio che permette di apprezzare più sicuramente il valore di una morale deve essere domandato al sistema di retribuzione che propone, e nessuno dubiterà che la più alta tra quelle a cui gli uomini possono elevarsi sia una morale disinteressata, vale a dire senza sanzioni: né ricompense, né castighi. Ma una disciplina di questo tipo può essere realizzata solo da poche anime di grande élite; il dio che protegge e che comanda (e in cui riconosciamo il simbolo della Società stessa) si farà obbedire dalla massa solo se ricompensa e punisce, e in realtà si tratta di apprezzare solo l'uso che farà della promessa e della minaccia. 

Non si domanderà dunque alla morale del Sermone della Montagna di essere una morale di superuomini, ma non si potrà trattenersi dall'essere colpiti dall'insistenza con la quale essa ritorna sulla retribuzione. Ciascun precetto vi è accompagnato da una promessa o da una minaccia; e non è soltanto detto e ripetuto che il bene sarà ricompensato, ma che bisogna fare il bene al fine di avere la propria ricompensa; la parola greca μισθός significa esattamente: salario.

Ammiriamo qui la lealtà di certe traduzioni pie, Segond, per esempio, il più cinico dei nostri falsificatori. Quando (Matteo 20:8) si parla del pagamento che devono ricevere gli operai vignaioli, si traduce μισθός con salario. Quando si tratta (5:12, 6:1, ecc.) di ciò che è riservato a chi osserva la morale evangelica, si traduce μισθός con ricompensa!

Salario o ricompensa, le formule sono innumerevoli... «Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa meritate» (Matteo 5:46)? «Praticate la giustizia, sennò non avrete ricompensa» (Ibidem 6:1)... «Se fai l'elemosina o: se digiuni, Dio ti ripagherà» (Ibidem, 3 e 18)... Si riempirebbe una pagina di citazioni analoghe.

Non meno numerosi sono i «perché»... Tali, le celebri Beatitudini... «Beati quelli che sono miti, perché erediteranno la terra... Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati... Beati voi che e che... perché il vostro salario sarà grande nei cieli» (Matteo 5 e Luca 6, passim).

Ora, bisogna che le persone che non sono familiari con il Nuovo Testamento sappiano che non vi è traccia di questa mercanteggiamento nelle epistole di San Paolo; e non ve ne é nemmeno nel vangelo secondo San Marco, che sembra essere, abbiamo detto più sopra, l'eco delle tradizioni provenienti tanto da quest'ultimo quanto da San Pietro; il sistema Dovere e Avere delle Beatitudini e di tutto il Sermone della Montagna non era nella mentalità dei discepoli dell'apostolo galileo, né di conseguenza in quella dell'apostolo stesso, più che in quella dell'apostolo dei Gentili.

Evidentemente, San Paolo e altrettanto bene San Pietro e i compagni credono alla ricompensa e che quella ricompensa sarà la partecipazione al regno di Dio; e basterebbe aggiungere che da nessuna parte nelle epistole essa è presentata come l'obiettivo, come il motivo, come la ragione che fa agire... [2] Chi vorrebbe equiparare l'amabile uomo di lettere che non avendo lavorato al fine di ricevere i diritti d'autore è felice eppure di riceverli, e colui che lavora nell'ipnosi dell'assegno che il suo contratto gli assicura?... Ma la vera questione è sapere come il vangelo e come San Paolo hanno compreso la «salvezza»; ed è ciò che esamineremo nell'ultima parte di questo capitolo.


Il castigo è la controparte della ricompensa. La giustizia umana ricompensa a volte il merito e punisce (altrettanto spesso come può) il crimine, e tenta di proporzionare la punizione alla colpa; tenta persino di fare della punizione un mezzo di correzione del criminale. Il vangelo aveva il diritto di punire il malvagio; ma come lo punisce?

Il vangelo ha preso dalle religioni degradate nel mezzo delle quali è nato questo capolavoro dell'umana malvagità, e altrettanto bene della umana viltà: l'infernale camera di tortura, con l'inconcepibile esagerazione delle sue pene e la sproporzione satanica tra crimine e castigo. Si rabbrividisce quando si vede, nel vangelo secondo San Luca (16:23-24), il ricco domandare, in mezzo alle fiamme del suo inferno, che Lazzaro, dall'alto del suo paradiso, «intinga solo la punta del dito nell'acqua per rinfrescargli la lingua», e ciò gli è rifiutato! Ammettiamo, con diversi studiosi, che questo episodio provenga da un racconto egizio e, con il signor Isidore Lévy, che la sua origine sia pitagorica: [3] e rimpiangiamo allora che il figlio di Dio sia disceso dal cielo per seguire le orme di Pitagora e dei narratori egizi. Non avete portato, Signore, una religione di carità; perché avete così poco seguito il vostro programma?

E quali sono le sofferenze di questo miserabile rispetto a quelle che si compiaceranno presto di immaginare gli scrittori cristiani? Dalla metà del secondo secolo, un'apocalisse si applicherà a descrivere nei loro orribili dettagli i supplizi dei dannati, [4] e per secoli quella letteratura di abiezione non cesserà di arricchirsi. Quando si leggono le cinque spaventose pagine in cui, con la sua verve geniale, James Joyce racconta in qual modo ancora del tutto recentemente l'inferno fosse rappresentato alla gioventù nelle case di educazione religiosa di Dublino, si è tentati di credere ad un'enorme e mostruosa caricatura; [5] ahimè! tutti i tratti sono presi dalle fonti più autorevoli.

Non si troverà nessuno di questi mirabolanti orrori nella Geenna evangelica; ma vi si troverà «la fornace dove il fuoco non si spegne» e «le tenebre dove c'è pianto e stridore di denti». Ed è nettissimamente specificato che le pene saranno eterne. [6]

Infatti l'inferno evangelico non è un luogo di purificazione da cui si uscirà dopo aver espiato le proprie colpe e il cui orrore, per quanto smisurato sia stato, avrà servito a qualcosa... È il castigo per il castigo.

Una morale semplicemente umana si sforza di stabilire una giusta proporzione tra il merito e la ricompensa, tra il crimine e il castigo. Vedo una correlazione tra l'insistente salario che il Gesù del vangelo offre con la sua mano destra e l'orrore dei supplizi che la sua mano sinistra tiene in riserva.

Se io riprendo cose già dette (il più sovente con un'intenzione anticristiana di cui non ho qui la minima traccia e che ignorerà sempre lo storico e il sociologo), è al fine di insegnare ai non specialisti che l'infernale camera di tortura non esiste nelle epistole di San Paolo; mentre essa riempie i vangeli secondo San Matteo e San Luca, non si può dubitare che sia stata egualmente assente dal Marco primitivo. [7]

L'inferno in quanto camera di tortura è ignorato dalle religioni primitive; lo è ancora dal giudaismo antico, onore ad esso! Lo è ancora dalle religioni nazionali dell'antichità nelle loro belle epoche; esso invade il mondo mediterraneo, probabilmente con le dottrine orfiche, dove però è solo la sorta di purgatorio dove i criminali saranno purificati; diventa il luogo dei supplizi eterni nel neopitagorismo; lo resta nell'insegnamento del divino maestro.

Che San Paolo non ne parli nelle sue epistole, né l'autore del Marco primitivo nel suo racconto, ciò non basta evidentemente a provare che non ci credessero, e non mi spingerei a dire che abbiano opposto una negazione categorica alle credenze che regnavano attorno a loro; ciò proverebbe almeno che il pensiero non era loro familiare, detto altrimenti, che l'immagine sadica dei castighi eterni non ossessionava i loro cervelli come ossessiona quello del Gesù dei vangeli secondo San Matteo e secondo San Luca. Ma ci è permesso andare più oltre. Se San Paolo ha potuto accettare nella sua giovinezza una credenza che aveva finito per penetrare nel giudaismo, egli di fatto l'ha eliminata dalla sua dottrina, e le stesse epistole ce ne offrono loro stesse la prova informandoci quale sia il castigo che egli crede sia riservato ai malvagi, nel giorno del giudizio. 

San Paolo (ritorneremo presto su questo soggetto) crede, con tutti i primi cristiani, ad un giudizio il quale comporterà una ricompensa e un castigo. [8] Ma quale sarà quella ricompensa e quale sarà questo castigo? La ricompensa sarà la partecipazione al regno di Dio. Il castigo sarà la morte, la morte e non i supplizi. Quando verrà il Gran Giorno, i giusti risorgeranno per entrare nella vita eterna; i malvagi saranno per sempre sepolti nell'annientamento: essi non saranno torturati.

E tale è la lezione della Storia. Andremo tra poco a riconoscere nella morale della prima generazione cristiana una morale dell'eroismo; la dura e rude morale, diciamo fin dal presente l'eroica morale della prima generazione cristiana abolisce la tortura; la morale di carità e di rinuncia del «vangelo» la ristabilisce.

Come comprendere che il cristianesimo sia ritornato alle atroci immaginazioni dell'inferno? Infatti, l'inferno è stato per la Chiesa, per tutto il medioevo e una parte dei tempi moderni, un mezzo di intimidazione; cattivo mezzo, perché non è l'orrore ma la certezza del castigo o della repressione che arresta il criminale o paralizza la rivolta. Che degli uomini si siano compiaciuti di immaginare un'eternità di supplizi di una crudeltà incessantemente rinnovata, la cosa non può concepirsi solo come la soddisfazione di rancori impotenti a soddisfarsi. Tale appare già la concezione del «fuoco che non si estinguerà» dei vangeli secondo San Matteo e secondo San Luca; tali ancora le raffinatezze inaudite in cui si esasperano gli scrittori ecclesiastici; tale essa è restata nelle persone in cui la devozione si congiunge a inespiabili risentimenti. 

Barbarie dei tempi, si dirà, o sopravvivenze barbariche! Perché indignarsi per il fatto che il cristianesimo ha fatto ciò che si faceva attorno ad esso?

Si vuole semplicemente sottolineare qui che il cristianesimo evangelico è ritornato a quella barbarie che il cristianesimo primitivo aveva superato; così si vedono troppo spesso le rivoluzioni ritornare, passato il periodo di eroismo, agli errori che avevano condannato. E si riderebbe, a dire il vero, dell'inferno eterno con cui il Gesù del vangelo minaccia i malvagi, se queste minacce non avessero legittimato, per tutto il medioevo e fino al 1789, un uso della tortura in materia penale che è scomparso solo all'epoca in cui precisamente si è cominciato a non essere più intimiditi da quest'ultime. Quel che ne sia della responsabilità del vangelo in quella terribile pratica, non si può dubitare che esso abbia riversato agli uomini per secoli, nello stesso tempo dell'oppio che gli rimproverano i marxisti, l'infuso velenoso della paura. È un sollievo constatare che l'inferno è andato, con il diavolo, ad aggiungersi ai dogmi obsoleti di cui la Chiesa oggi osa a malapena parlare al suo gregge.

Queste considerazioni sembrano allontanarci dal nostro tema. Il loro interesse sarà di far toccare concretamente l'incommensurabile distanza che separa la prima generazione cristiana da quella dei vangeli. Ma non siamo alla fine del nostro viaggio. Il problema della retribuzione non si limita ad una distribuzione di premi delle virtù per gli uni e di penitenze per gli altri. Il problema della retribuzione, a dire il vero, nasconde un equivoco. I giusti saranno ricompensati; i malvagi saranno puniti. Ma chi sono i giusti? E chi sono i malvagi?

Quanto ai giusti, non c'è dubbio: sono gli uomini che, essendo venuti al Signore, hanno seguito le sue vie.

Ma quanto ai malvagi? Sono evidentemente coloro che avranno vissuto nel crimine, nel vizio, nel disprezzo delle leggi divine. Ma sono anche, qualunque virtù abbiano potuto praticare, i pagani e gli ebrei che non saranno venuti al Signore. Un tedesco, durante la guerra, cessa di essere un nemico per il fatto che fosse un onest'uomo? Ogni borghese che rifiuta di allinearsi, fosse pure provvisto di tutte le virtù, non è forse condannato dal comunismo? I pagani e gli ebrei che non sono venuti al Signore sono suoi nemici e il cristianesimo dei primi secoli li incorpora in massa nella legione di coloro che denomina i malvagi. Tra loro e i criminali di diritto comune si deve sapere che non un testo del Nuovo Testamento stabilisce la minima differenza. Infatti, il «malvagio» si definisce, nel cristianesimo dei primi secoli, come l'uomo che è sotto l'obbedienza di Satana; e sotto l'obbedienza di Satana è chiunque non sia venuto al Signore (i comunisti direbbero: al Partito) o, essendovi venuto, non viva conformemente alla regola del Signore (alla regola del Partito). 

Il problema della retribuzione, per le prime età del cristianesimo, è quindi meno quello della ricompensa da accordare agli uomini che avranno ben vissuto e del castigo da infliggere ai criminali, quanto quello del trattamento di cui godranno i cristiani e i loro nemici quando il Gran Giorno sarà arrivato, detto altrimenti dell'uso che il cristianesimo vittorioso conta di fare della sua vittoria.

Intendiamo bene la situazione. Per prepararsi al Gran Giorno e per prepararlo, i primi cristiani hanno dovuto adottare l'attitudine tattica e provvisoria della sottomissione alle autorità, e i discepoli del Sermone della Montagna hanno rincarato chinando il capo in modo generale e continuo dinanzi ad ogni tirannia. Il Gran Giorno arriva; il Signore appare in cielo con le sue trombe, i suoi tuoni e i suoi angeli. I cristiani risorgono e fanno il loro ingresso in processione nel regno di Dio illuminato al cento per cento. Quanto ai pagani e ai Giudei che non si sono allineati, condividono la sorte dei malvagi, essendo essi stessi malvagi.

E quale sarà questa sorte?

I vangeli li votano ai tormenti eterni: le epistole li lasciano inghiottiti nella morte.

La Rivoluzione Francese metteva a morte i suoi nemici; ma ha abolito la ruota. San Paolo condanna i nemici del Signore alla morte senza resurrezione; non li invia alla camera di tortura. La mentalità dei primi cristiani è una mentalità rivoluzionaria; la mentalità degli altri è una mentalità da Jacquerie.

Si ammira Nietzsche per aver così ben compreso la cosiddetta morale evangelica. Si rimpiange solo che non abbia sufficientemente o abbia mal letto le epistole di San Paolo.  

Il cristianesimo ha la reputazione di essere la religione dell'amore. Ci sono poche religioni, pochi gruppi, poche associazioni che non abbiano domandato ai loro membri di amarsi tra loro; l'amore per lo straniero, per l'avversario, per il nemico, tale sarebbe la specialità del cristianesimo evangelico. La tesi si basa su alcune frasi particolarmente famose del Sermone della Montagna; essa è contrapposta da alcune altre non meno decisive, ma (fortunatamente per essa) meno note. La questione sarebbe di precisare quali siano i nemici che il vangelo comanda di amare e quali siano coloro che vota alla tortura. Basterà qui constatare che la prima generazione cristiana, quella di San Paolo, evitò similmente gli abbracci e i furori.

Coloro dei miei lettori che avevano su questi problemi solo idee vaghe cominceranno a comprendere come il mondo antico ha potuto essere rinnovato dalla dottrina rivoluzionaria del cristianesimo primitivo e non dall'insegnamento volta per volta miele e vetriolo che i vangeli hanno prestato a Gesù...

...Io dico: cominceranno a comprendere; perché la morale del cristianesimo primitivo non doveva fermarsi lì. Ma se è permesso giudicare gli uomini secondo ciò che domandano agli dèi (a Dio, ai suoi santi, al diavolo o al caso), sarà particolarmente interessante, prima di proseguire, sapere come il cristianesimo comprendesse la preghiera.


La preghiera non è sempre stata ciò che si immagina oggi: una supplica rivolta ad una potenza superiore che potrà esaudirla o non esaudirla. Nelle religioni primitive, la preghiera è un rito che obbliga il dio a fare ciò che è sua funzione fare in favore della comunità, ad esempio assicurare la perpetuità della specie oppure il ritorno regolare delle stagioni. Man mano che decresce ciò che (contrariamente alle idee correnti) io chiamo il sentimento religioso, un doppio fenomeno si produce. Da una parte, ci si mette a domandare al dio cose che vanno contro la sua consuetudine o che non sono di sua competenza; cosa succede? A volte le cose si fanno, a volte non si fanno; così si è indotti a immaginarlo come un despota che ha la scelta di dire sì o di dire no. E la preghiera diventa supplica. D'altra parte, l'individuo emancipandosi sempre più dalla comunità, si istituisce accanto alle preghiere pubbliche un sistema di preghiere private; ciascuno per sé e per i suoi. E questa è la supplica che vediamo praticare intorno a noi dalla maggior parte delle persone pie, salvo quando si tratta di un semplice borbottio.

L'uomo profondamente, veramente religioso non domanderà mai agli dèi se non ciò che gli dèi devono dare, vale a dire ciò che è suo dovere domandare e ciò che ha il diritto di ricevere; si preoccuperà sempre di altri più che di sé stesso, e ancora non sarà mai ai suoi propri occhi che un fratello tra fratelli. L'estrema fioritura della preghiera primitiva è l'orazione dei grandi mistici.

Il culmine di una religione si ottiene solo ai tempi della sua nascita e si recupera solo nei suoi giorni di revival; non più che nei primitivi, non si troverà in San Paolo una preghiera di supplica; si trova ancora nei vangeli, un mezzo secolo e tre quarti di secolo dopo le epistole, la grande preghiera collettiva, come il famoso Pater; ma vi si trova pure, e quasi ad ogni angolo, la supplica.

Il nostro scopo è di confrontare il cristianesimo primitivo con quello dei vangeli; non è assolutamente di sminuire questi ultimi in modo generale. Abbiamo detto che, mantenendo in primo piano nel programma cristiano la ricostituzione della parentela spirituale, i vangeli avevano probabilmente salvato il cristianesimo stesso. Accanto a quel che vi è di macabro nell'insegnamento prestato da loro a Gesù, vi sarebbe motivo di far valere le qualità per mezzo delle quali essi hanno potuto giustamente sedurre tanti cuori, se la cosa non fosse stata fatta tante volte, non fosse altro per Renan. Ma la grande bellezza dei vangeli è nata in quello tra loro che è servito da modello agli altri, in quello precisamente in cui crediamo di ritrovare la tradizione dei discepoli di San Pietro e di San Paolo, e da cui è proprio assente il Sermone della Montagna, nei racconti tanto potenti quanto frustranti del vangelo secondo San Marco. In un greco ancora più barbaro di quello di San Paolo, l'autore del vangelo secondo San Marco ha messo in piedi una figura del dio-uomo che è una delle grandi conquiste della poesia e che, a questo titolo, doveva imprimersi per sempre nell'anima degli uomini. Ma il capolavoro che ha scatenato l'immenso successo dei vangeli è il poema d'eroismo che li termina: intendo il racconto della Passione. E quanto è lontano dal Sermone della Montagna questo Gesù impavido nella sua grandezza oltraggiata, che realizza in un sol colpo la perfezione nella morte che è il segno dei grandi rivoluzionari.

Ma questa è proprio la morale dei grandi rivoluzionari che ritroveremo nella morale dei primi fondatori del cristianesimo e che è scomparsa dalla morale evangelica.


La morale più alta tra quelle a cui gli uomini possono elevarsi, abbiamo detto all'inizio di questo capitolo, è la morale disinteressata, vale a dire senza sanzioni: né ricompense né castighi. Ora, nello stesso tempo in cui condannano a morte (ma non alla tortura) i nemici del Signore, i primi cristiani contano di avere la loro ricompensa nel regno di Dio; non speculano su quella ricompensa; essa non è il motivo che li ha determinati a seguire il Signore; essa non è che la conseguenza naturale della loro attività; ma infine contano su di essa; esattamente parlando, i primi cristiani sanno, vale a dire credono, che parteciperanno al regno di Dio. Abbiamo evocato l'uomo di lettere che non lavora al fine di ricevere i diritti d'autore, ma che li riceverà quando glieli verseranno. Tutto ciò è infinitamente al di sopra della morale Dovere e Avere del Sermone della Montagna; si può riconoscervi una certa generosità, ma questa non è la morale del disinteresse.

Tutt'al contrario, i rivoluzionari moderni non hanno alcuna certezza di partecipare sempre o di partecipare a lungo nella società futura; quanti saranno portati via prima del Gran Giorno? Quanti periranno durante la battaglia? Chi di loro vedrà solo l'instaurazione completa dell'ordine nuovo? Così i cristiani riceveranno personalmente la loro ricompensa (lo sperano almeno), e la riceveranno al centuplo, rincarerà il vangelo; ma quella che riceveranno i moderni rivoluzionari è così precaria e sarà così breve (se la ricevono) che nessuno di loro dovrebbe farsi illusioni al riguardo. E si dovrà restituire i loro scherni ai nemici del cristianesimo e al materialismo storico; i cristiani lavorano con l'idea che saranno pagati; i rivoluzionari lavorano per niente, o quasi.

È consuetudine congratularsi con il cristianesimo per aver risollevato l'individuo, schiacciato fino ad allora dalla società, non si osa dire per aver sacrificato la società all'individuo. Valore sacro dell'individuo, si canta qui; diritti sacri dell'individuo, sostengono gli altri... La nostra borghesia ha bisogno che le si ricordi che non vi è società tra gli uomini dove l'interesse dell'individuo prevalga su quello della comunità. I primi cristiani, dal fatto che attendono una ricompensa, manifesterebbero una singolare inferiorità morale rispetto ai compagni moderni che sanno che non hanno minimamente su cui contare, se in realtà, attribuendo loro la preoccupazione di una retribuzione, non si commettesse l'errore di prendere per una retribuzione personale ciò che era per queste grandi anime solo una retribuzione collettiva.

Così si pone la questione della «salvezza».

Abbiamo visto che le religioni nazionali dell'antichità avevano per scopo solo gli interessi della nazione. Agli interessi della nazione, le religioni misteriche avevano sostituito, nelle loro belle epoche, quelli della comunità; ma poco a poco la loro decadenza non si era più occupata che di assicurare la felicità individuale di ciascuno dei loro adepti dopo la loro morte, programma che escludeva peraltro la possibilità di ogni rivendicazione!... La stessa decadenza o, più esattamente, lo stesso svilimento della moralità doveva condurre il cristianesimo evoluto alle stesse conseguenze, solo che mai il cristianesimo (e questa fu la sua forza) dovette mancare di uomini che situano nelle loro preghiere gli interessi della comunità al di sopra dei loro propri.

Nel vangelo vi sono entrambe le tendenze, ed è proprio bello che la tendenza individualista non abbia soffocato l'altra! Nel cristianesimo della prima generazione, la sola «salvezza» che sia mai prevista è quella della collettività. Basta leggere le epistole di San Paolo per convincersene. Ho sentito amici protestanti confessarmi quanto fossero turbati dall'indifferenza che San Paolo manifesta nei confronti della sua propria salvezza: non arriva forse fino a dichiarare [9] che accetterebbe di essere escluso dal regno di Dio perché i suoi fratelli vi possano entrare? Sentimento che evidentemente il buon cristiano medio non proverà mai, ma che non è raro tra i veri mistici.

Una sola volta [10] egli esprime il desiderio che porta nel suo cuore di essere riunito al Cristo, e lo fa per aggiungere che si accontenta di rimanere quaggiù al fine di continuare la sua opera!

Ma non solo non si preoccupa della sua salvezza personale, ma mai discute con i suoi discepoli della loro propria. Come un generale promette alle sue truppe una vittoria che non è quella di ciascun soldato in particolare, San Paolo non promette nient'altro ai discepoli che lo ascoltano se non l'avvento del regno di Dio, e si cercherebbe invano nella sua opera autentica la riga dove egli crede di dover loro assicurare che non mancheranno di avervi individualmente il loro posto.  

La preoccupazione per la salvezza personale, io faccio la mia salvezza, fate la vostra, ciascuno per sé e Dio per tutti: questo non è un programma per uomini che hanno ritrovato la parentela spirituale; questo non è un programma per rivoluzionari né per santi.

La ricompensa personale? Non appena ci si è saputo elevarsi al di sopra dei piccoli interessi, lo sforzo, per quanto sia grande, trova in sé stesso la sua ricompensa, e non c'è bisogno di essere un eroe per averne fatto l'esperienza. La passione che San Paolo porta nella sua opera prova abbastanza quale profonda soddisfazione egli aveva a compierla. Quando si eleva sulla scala dei valori morali, la ricompensa nasce dal fatto che si lavora per la comunità. E, in realtà, la nozione di ricompensa scompare allorché si entra nella regione delle alte vette.

Ne è lo stesso dei grandi riformatori come dei grandi iniziatori. Ignazio di Loyola e i suoi amici hanno istituito l'ordine della Compagnia di Gesù per fare ciascuno la propria salvezza o per servire la cristianità? Come pure gli uomini del 1789, come quelli della Comune, come quelli del 1905 e del 1917, come Ignazio di Loyola e i suoi amici, San Paolo ha in vista solo la collettività.

Illogicità, grideranno all'unisono il razionalismo ecclesiastico e il razionalismo del libero pensiero! Che cos'è la salvezza della collettività al di fuori della salvezza degli individui? La salvezza di cui si parla qui è quella che fa rivivere negli individui l'anima collettiva e, per impiegare la terminologia che Durkheim (laicizzandola) ha attinto dagli antichi teologi, che degli individui fa delle persone. [11]

Il principio che regge il cristianesimo primitivo è lo stesso che regge le rivoluzioni: reintegrazione del Sociale, reintegro dell'individuo nella comunione. 

E, con ciò stesso, restaurazione della dignità dell'uomo. 

Quando si domanda al Gesù del vangelo quale sia il più grande comandamento, egli risponde con una formula che prende dai libri mosaici: [12]

Tu amerai il Signore tuo dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza; ecco il primo comandamento. [13]

Amare un essere spirituale, ciò ha un senso profondo per i mistici e ne ha pochissimo per l'uomo medio; infatti, il comandamento è rimasto clausola di stile nella morale cristiana corrente, la quale si interessa solo a quello, che lo segue (e al quale ritorneremo tra poco), di amare il proprio prossimo come sé stessi; per i mistici esso è, al contrario, la regola suprema. 

Traduciamo in linguaggio sociologico. Se il dio è il simbolo della Società, se per Dio intendiamo il Sociale, constatiamo che l'amore del Sociale è similmente qualcosa che lascia la massa indifferente ma è alla base di ogni programma rivoluzionario.

Nell'antico giudaismo, la formula esprime lo sforzo di un popolo che, nella sua ardente volontà di vivere, si concentra ed esattamente parlando si integra sul nome del suo dio; ed essa custodirà la sua portata dappertutto la parola «patria» custodirà essa stessa un significato concreto. Con il cristianesimo primitivo, essa assume al cento per cento il suo valore rivoluzionario... Tu ti dedicherai al Sociale con tutto il vostro cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza.

Il vangelo non poteva restare a quell'altezza. In un altro dei libri mosaici [14] cercherà un secondo comandamento, perso in mezzo a comandamenti particolari, che proviene da un'epoca posteriore e non è assolutamente messo in relazione colla sublime Shemà del Deuteronomio, ed è il comandamento di amare il proprio prossimo come sé stessi (il proprio prossimo, vale a dire il proprio compatriota secondo il Levitico, il proprio correligionario secondo il vangelo). Questo comandamento, che intravede solo l'amore dovuto ai membri del gruppo individualmente e l'amore che ciascuno ha il diritto di avere per sé stesso, il Gesù del vangelo si permette di accostarlo al comandamento di amare il dio al di sopra di tutto; ben più, dichiara con le sue stesse parole «che esso gli è simile»!

Dinanzi a quella equiparazione dell'amore dovuto a Dio, al prossimo e a sé stessi, il giudaismo dei primi tempi avrebbe gridato al sacrilegio. L'aggiunta evangelica è di quelle che i grandi santi del cristianesimo hanno tutti lasciato cadere. Tradotto in linguaggio sociologico, è di quelle di cui ogni grande riformatore, ogni grande rivoluzionario, respinge a calci lo scandalo.


Una religione, una riforma, una rivoluzione si giudica da ciò che ha realizzato, intendo da ciò che ha suscitato di virtù tra gli uomini, meglio ancora, dal grado di eroismo nonché di grandezza che ha creato.

Come tutte le morali rivoluzionarie, e contrariamente alla morale evangelica, la morale del cristianesimo primitivo è quella dell'eroismo. È più ancora. È il cammino che conduce alcuni eccezionalmente dotati tra gli uomini a questo sublime livello che l'umanità possa raggiungere: alla grandezza. E forse sarà possibile precisare in cosa consistono queste due riabilitazioni dell'animale umano, l'eroismo e la grandezza.

Vi è eroismo quando l'individuo si sacrifica al Sociale; è un eroe chiunque (ma deliberatamente, ma di sua spontanea volontà, e non con la frusta o le mitragliatrici alla schiena) si sacrifica nell'interesse del gruppo di cui fa parte. Vi è grandezza quando l'individuo, impadronendosi del ruolo che è quello degli dèi, incarna lui stesso il Sociale e di colpo si dedica agli immensi doveri che incombono sugli dèi. Tal monarca che ha ipostatizzato un'epoca della storia avrà ottenuto la grandezza nella misura in cui sarà stato guidato dalla coscienza di questi doveri e non dal suo orgoglio; ma gli uomini che incarnano il movimento rivoluzionario nel quale una società si reintegra sono più grandi ancora.

La morale dei primi cristiani e la morale dei veri rivoluzionari sono similmente morali dell'eroismo in quanto esse hanno similmente per principio la dedizione di sé al sociale. Esse diventano le morali della grandezza nei capi che, come gli dèi, incarnano nella loro radiosa maestà di uomini poveri la società che promuovono. 

E così, sotto i loro mantelli di pii ebrei o sotto i loro rozzi maglioni, abbiamo visto i primi cristiani e gli uomini del 1917 praticare, a milleottocento anni di distanza, pressappoco la stessa vita. 

NOTE

[1] Il lettore non dimenticherà che con quella espressione, «il vangelo», abbiamo convenuto di designare non l'insegnamento dei quattro vangeli, ma, conformemente all'uso corrente, la dottrina del Sermone della Montagna e delle parabole di identica origine che professano i vangeli secondo San Matteo e secondo San Luca e che è assente da quello secondo San Marco. 

[2] Il signor Maurice Goguel scrive, Vie de Jésus, pagina 549, che si deve trattenere dall'idea di ricompensa nei vangeli solo quella di consecuzione; al posto di «nei vangeli», diciamo «nelle epistole», e saremo nella verità.

[3] Légende de Pythagore, pagine 310-312.

[4] Apocalisse detta di San Pietro, 21-34, fortunatamente inserita dal signor Loisy nella sua traduzione dei Livres du Nouveau Testament

[5] Dedalus, pagine 129-134.

[6] Matteo 5:22; ibidem, 29-30; Matteo 8:12 e Luca  13:28; Matteo 10:28 e Luca 12:5; Matteo 11:20-23 e Luca 10:12-15; Matteo 13:50; Matteo 18:8-9; Luca 10:11-12; Matteo 18:25; Matteo 22:13; Matteo 23:15 e 33; Matteo 25:30; ibidem, 41 e 46; Luca, passo citato, 16:23-24.

Il signor Goguel scrive che l'espressione «essere gettato nella Geenna» o «nel fuoco eterno» può interpretarsi come essere annientato (Vie de Jésus, pagina 549); cosa fa di «pianto e stridore di denti»?

[7] L'unico passo del Marco canonico dove si parla dell'inferno, 9:43-48 (parallelo: Matteo 18:8-9) è secondario (stesso caso di quelli segnalati nel precedente capitolo). Per quanto concerne le epistole di San Paolo, l'allusione che alcuni teologi hanno creduto di trovare non all'inferno ma al purgatorio, in 1 Corinzi 3:13-17, riposa su un controsenso.

[8] 2 Corinzi 5:10.

[9] Romani 9:3.

[10] Filippesi 1:23. 

[11] Si veda sopra, pagina 117.

[12] Deuteronomio 6:5, inizio della famosa Shemà.

[13] Matteo 22:37-39, e paralleli: Marco 12:30-31 e Luca 10:27-28.

[14] Levitico 19:18.     

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