venerdì 17 settembre 2021

Il dio Gesù

(segue da qui

VIII. — IL DIO GESÙ

Nel suo piccolo ma sostanzioso libretto sulla Sibilla, il grande ellenista polacco Zielinski [1] ci ha informato di parecchie operazioni intraprese nell'Antichità per fondere le religioni. Un principe che, per ragioni politiche, voleva unificare le diverse religioni delle popolazioni sottomesse al suo potere, affidava questa missione a un teologo che gli sembrava particolarmente qualificato. Tolomeo I, re dell'Egitto di origine greca, incaricò così Timoteo Eumolpide di fabbricare per i suoi sudditi greci ed egiziani un nuovo culto unificato, amalgamando il culto egizio di Iside con il culto greco di Demetra dei Misteri di Eleusi. Timoteo svolse così bene il suo compito che più tardi Tolomeo lo raccomandò a suo genero e alleato Lisimaco in Asia Minore per un'opera della stessa natura: si trattava questa volta di fare una sintesi dei Misteri di Eleusi e del culto frigio di Cibele e di Attis.

In Asia Minore, le colonie ebraiche erano numerose e prospere. Ad Apamea, per esempio, l'influenza della popolazione ebraica sulla popolazione pagana era tale che la municipalità coniava monete con l'effigie e il nome di Noè. Il terreno era propizio per una fusione di certi elementi del giudaismo con i riti, i simboli e le idee improntati alle religioni pagane.

In Apocalisse 20:1-3, il visionario vede, alla fine dei tempi, un angelo discendere dal cielo per combattere Satana. L'angelo tiene in mano una grande catena e la chiave dell'abisso. Depone Satana, lo incatena, lo getta nell'abisso, poi  chiude e sigilla su di lui la porta dell'abisso.

D'altra parte, abbiamo visto al capitolo precedente che anche il messianismo ebraico conosceva un personaggio messianico che portava misticamente il nome di Gesù e che dopo un ministero di tre anni e mezzo moriva e risorgeva.

Mettiamo ora questi due elementi tra le mani di un teologo come l'Eumolpide Teofilo e incarichiamolo di farne la sintesi con i Misteri ellenistici. Egli confezionerà per noi un mito che rassomiglierà come un fratello al mito cristologico delle Epistole paoline prima del loro rimaneggiamento cattolico, come lo troviamo ancora nella loro edizione marcionita. [2

La scena dell'essere divino che discende dal cielo per combattere Satana è trasposta dal futuro nel passato. Un artificio piuttosto sottile identifica questo essere divino al personaggio messianico che muore e risorge: l'essere divino, per poter penetrare negli inferi e attaccare Satana nel suo stesso dominio, ha ricorso ad uno stratagemma: riveste l'apparenza di un uomo e si fa uccidere, condividendo così la sorte dei mortali senza che Satana lo riconoscesse. Poiché se i «principi di questo mondo», ovvero i demoni, avessero conosciuto il piano di Dio, si sarebbero ben guardati dal metterlo a morte e di procurargli così in qualche modo un falso passaporto per penetrare nella loro roccaforte, il soggiorno dei morti. È questo che si legge nelle Epistole paoline (1 Corinzi 2:7 s.): «Noi parliamo della sapienza di Dio misteriosa e nascosta, che Dio prima dei secoli aveva destinato per la nostra gloria, sapienza che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuta, perché, se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria».

Il «Signore della gloria». Il nostro teologo fa dunque di Gesù un Signore (kyrios), vale a dire un dio misterico, perché tale è il significato tecnico di questa parola nel linguaggio sacro dei Greci. Nel loro linguaggio comune, questo termine indicava il padrone di casa in relazione ai suoi schiavi. I mystes, dando al loro dio il nome di kyrios e definendosi schiavi (douloï), intendevano così caratterizzare il sentimento di assoluta sottomissione che provavano nei confronti del loro dio. Questo era il linguaggio dei Misteri ellenistici, e questo è anche il linguaggio delle Epistole paoline, dove i fedeli — e l'autore stesso — sono chiamati douloï (schiavi) nei confronti del loro «Signore», del loro kyrios Gesù. Le versioni correnti hanno attenuato il termine e hanno fatto di questi schiavi dei «servi».

Nella versione greca dell'Antico Testamento, questo termine kyrios aveva anche un significato tecnico molto preciso, ma abbastanza diverso: è usato regolarmente per Jahvé, nome sacro di Dio che gli ebrei, per paura di profanarlo, si proibivano di pronunciare quando leggevano ad alta voce i testi che lo contenevano. Lo sostituivano allora con Adonaï (Signore), parola che le versioni greche traducono letteralmente quando rendono Jahvé con kyrios. Nella versione greca dell'Antico Testamento, il nome kyrios è quindi l'equivalente del nome tre volte santo di Dio, e per un ebreo sarebbe stata una terribile bestemmia dare questo nome ad un essere divino diverso dal Dio unico e geloso. L'autore delle Epistole paoline, che dà questo titolo a Gesù, attesta con ciò che egli non era un ebreo. Egli leggeva l'Antico Testamento nella sua versione greca, e leggeva quella versione con gli occhi di un greco.

Il termine kyrios aveva così due accezioni, a seconda che lo si prendesse nel senso della versione greca dell'Antico Testamento oppure nel senso dei Misteri ellenistici. Ma questa ambiguità non era uno svantaggio. Proprio al contrario, faceva di quel termine uno strumento particolarmente adatto a servire le intenzioni di un teologo che stava lavorando alla fusione del giudaismo con i Misteri ellenistici. Nel dare a Gesù il titolo di kyrios, le Epistole paoline assimilano Gesù da una parte agli dèi morti e risorti dei Misteri, e dall'altra parte a Jahvè, visto che quel titolo permetteva di applicare a Gesù numerosi passi dell'Antico Testamento che si riferivano a Dio.

Nel famoso inno inserito nell'Epistola ai Filippesi (2:6-11), che riassume mirabilmente il mito cristologico delle Epistole paoline, il nome sovra-eminente conferito a Gesù in ricompensa della sua obbedienza è il nome di kyrios. Questo risulta dal passo di Isaia che cita quell'inno, dove, nella versione greca, il nome davanti al quale ogni ginocchio deve inchinarsi e che ogni lingua deve confessare è il nome di kyrios:

Benché avesse la statura di un Dio, 

non considerò come un bene inalienabile 

l'essere uguale a Dio,

ma spogliò sé stesso, 

e prese la statura di uno schiavo,

si diede un'apparenza umana

e si mostrò d'aspetto simile ad un uomo.

Abbassò sé stesso 

e fu obbediente fino alla morte

(perfino alla morte di croce).

Ecco perché Dio lo ha esaltato al di sopra di tutto

 e gli ha accordato il favore di un nome al di sopra di ogni nome,

affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi [3]

nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 

e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è Signore, 

alla gloria di Dio Padre.

Nei Misteri di Eleusi, Demetra, dea dell'agricoltura, garantiva ai suoi mystes la stessa sorte del chicco di grano che muore per risorgere. Il simbolo del chicco di grano, che era l'idea centrale di questi misteri, è passato nelle Epistole paoline (1 Corinzi 15:36 ss.): «Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore. E quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere. E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo... Così anche la resurrezione dei morti. Si semina corruttibile e risorge incorruttibile», ecc.

Così si è costituito il mito cristologico delle Epistole paoline, per mezzo della sintesi di alcuni elementi del messianismo ebraico con lo spirito dei Misteri ellenistici. Nel periodo che abbiamo definito arcaico e che costituisce in qualche modo la preistoria del cristianesimo, non si trova nemmeno l'ombra di Giovanni il Battista. Paolo, quello degli Atti così come quello delle Lettere, ignora completamente il precursore di Gesù. È vero che secondo il testo attuale del Libro degli Atti (19), egli avrebbe incontrato a Efeso dei discepoli di Giovanni; ma abbiamo segnalato che Paolo è stato introdotto in questo testo mediante un'interpolazione con ripresa. Rimuovendo questa interpolazione abbiamo trovato che il soggetto della frase non è Paolo, ma Apollo, e ogni traccia di un contatto di Paolo con Giovanni il Battista o i suoi discepoli è svanita.

L'autore delle Epistole paoline non ignora il battesimo, ma questo rito non ha per lui la natura di un rito di purificazione come tra i Mandei. Gli attribuisce un ruolo analogo a quello dei riti iniziatici dei Misteri ellenistici, riti tramite i quali il miste legava la sua sorte a quello del Dio morto e risorto, al fine di acquisire così la certezza della sua stessa resurrezione. È per questo che leggiamo Romani 6:3 s.:

Ignorate forse che tutti noi, che siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella sua morte... Ora, se siamo morti con Cristo, crediamo pure che vivremo con lui, sapendo che Cristo, resuscitato dai morti, non muore più. 

Del resto, l'autore di queste Epistole sembra prestare poca attenzione al battesimo. Leggiamo 1 Corinzi 1:14 s.:

«Ringrazio Dio che non ho battezzato alcuno di voi, ad eccezione di Crispo e Gaio, perché nessuno dica che siete stati battezzati nel mio nome. Ho battezzato anche la famiglia di Stefana; per il resto non so se ho battezzato qualcun altro. Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo».

Nonostante tutto ciò che si può dire contro l'argomento del silenzio, sembra difficile spiegare, sulla base della tradizione, che i più antichi testi cristiani, le Epistole paoline, ignorino così completamente Giovanni il Battista e i suoi discepoli, che il cristianesimo arcaico sia così evoluto al di fuori di qualsiasi influenza dalle loro comunità. 

Secondo la tesi tradizionale, Giovanni il Battista sarebbe stato effettivamente, storicamente, il precursore di Gesù. I suoi discepoli sarebbero esistiti prima di quelli di Gesù. Gesù sarebbe stato battezzato da Giovanni, i suoi discepoli principali sarebbero stati ex discepoli di Giovanni. Durante il suo ministero, Gesù sarebbe rimasto in contatto con i discepoli di Giovanni. Il problema dei rapporti tra i discepoli di Giovanni e i discepoli di Gesù doveva quindi porsi per il cristianesimo fin dalle sue origini, e non soltanto preoccupare gli scrittori dei Vangeli e del Libro degli Atti, che si contano tra gli scritti più giovani del Nuovo Testamento. Il silenzio delle Epistole paoline resta un mistero.

Tutto si spiega, al contrario, se è a Efeso che il cristianesimo ha per la prima volta preso contatto con i discepoli del Battista, e se è là che i cristiani, al momento in cui stavano per emanciparsi dalla Sinagoga per costituirsi in  comunità religiosa indipendente, hanno inteso parlare per la prima volta di colui che dovevano più tardi fare il precursore di Gesù. 

NOTE

[1] Si veda pag. 115.

[2] Sulla priorità dell'edizione marcionita delle Epistole paoline rispetto all'edizione cattolica, si veda P. L. COUCHOUD, La première édition de saint Paul (Rev. de l'hist. des religions, 1926) e H. DELAFOSSE, Les Écrits de saint Paul, 4 vol. Rieder 1926-1928.

[3] Le parole in grassetto sono una citazione del profeta Isaia.

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