domenica 20 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (XIX)

(Questo è l'epilogo della traduzione italiana di un libro di Arthur Drews, «Mito di Gesù». Per leggere il testo precedente, segui questo link)

INDICE

Prefazione del traduttore

Prefazione dell'autore

Il GESÙ PRECRISTIANO

1. La fede messianica sotto l'influenza del parsismo

2. L'idea ellenistica del mediatore (Filone)

3. Gesù dio cultuale delle sette ebraiche

4. Gesù di Nazaret e l'idea delle sofferenze del Messia

5. La buona novella

IL GESÙ CRISTIANO

1. Il Gesù paolino

2. Le testimonianze profane

3. Gesù nei Sinottici

4. La genesi di Gesù dei Vangeli

5. Parole e carattere di Gesù

6. Il Gesù giovanneo

7. Ultime obiezioni

CONCLUSIONE


CONCLUSIONE

Il cristianesimo è la religione dell'amore divino rivelato nel Cristo in quanto è ritenuta essere stata fondata da Gesù e realizzata dalla sua presunta storicità. È in quella unione intima, in questo amalgama indissolubile dell'idea metafisica o dogmatica di redenzione con la concezione di un personaggio storico che risiede quell'essenza del cristianesimo che i teologi del genere di Harnack si sono sistematicamente sforzati di velare interpretandola da un punto di vista moderno e superficiale. È proprio là che il cristianesimo si distingue essenzialmente dalle altre religioni di salvezza.

Il cristianesimo è la religione metafisica della salvezza, storicamente motivata dall'amore di Dio rivelato nella persona del Cristo. Non si può  quindi rimuovere uno di questi due elementi senza sacrificare l'altro allo stesso tempo e cessare con questo di essere cristiani. I cosiddetti teologi liberali che scartano dall'idea cristiana l'elemento metafisico per trattenere solo l'elemento storico, non hanno più diritto a questo titolo. Coloro che, avendo concepito dei dubbi sull'esistenza storica di Gesù, si attengono solo al Cristo dogmatico, considerandolo come un simbolo di esperienze e di convinzioni religiose, non hanno più il diritto di rivendicare questo nome, benché conservano ancora l'illusione di essere cristiani. Chiunque neghi la storicità di Gesù ha cessato per questo fatto, se è leale, di essere cristiano, e in qualunque modo accolga il personaggio del Cristo, ha abbandonato una volta per tutte il terreno del cristianesimo. Se si domanda: possiamo ancora essere cristiani? Colui che ha ben compreso i dati del problema e che si è liberato dalla superstizione del Gesù storico può rispondere solo con un no categorico. Il cristiano autentico non può esimersi dal credere che Dio sia realmente disceso sulla terra diciannove secoli fa, sotto la forma di suo Figlio, che si sia fatto crocifiggere per riscattare i peccati del mondo, che sia morto e risorto, che sia salito al cielo per portarvi gli uomini dopo la loro morte, o per condannarli alle pene eterne. Colui che non crede a tutto ciò per quanto possa essere il migliore degli uomini, lo spirito più eminente, la più brillante luce della Chiesa, non cesserà nondimeno di essere cristiano nel senso primitivo del termine, e né la pietà più ardente, né confessore, né angelo dal cielo, né Dio stesso potrebbero assolverlo dall'accusa di essersi arbitrariamente fabbricato un cristianesimo moderno.

Per noi, con la migliore volontà del mondo, non possiamo più aggiungere fede al Cristo storico, e ci vediamo posti di fronte a questo dilemma: o rinunciare definitivamente ad ogni religione, oppure se abbiamo ancora aspirazioni religiose, di soddisfarle in modo diverso rispetto al cristianesimo. Il ritorno all'antica religione e all'antica Chiesa ci è sbarrato per sempre. Ci sembrano troppo discutibili già nelle loro premesse, troppo poco chiare nelle loro origini ed esigono dalla nostra credulità troppe mostruose compiacenze perché potessimo restare in comunione con loro. La loro mistica della croce, la loro dottrina di Gesù Dio Salvatore, della sua resurrezione, del giudizio finale, del cielo e dell'inferno ci provocano lo stesso effetto dei racconti degli spiritisti che parlano di un mondo di spiriti sovrasensibili e dell'azione che questi eserciterebbero, alla maniera dei fantasmi, sugli eventi terreni. La loro morale, che i teologi vantano in quanto proveniente da Gesù e che motiva egoisticamente i suoi postulati per mezzo della sola prospettiva di ricompensa e di castigo, quella morale che mette tutte le sue massime all'unisono con l'attesa della fine del mondo presunta prossima, quella morale esclusivamente individualista, ha per noi solo un interesse retrospettivo relativo all'evoluzione delle idee. Lo storicismo della fede in Gesù ci sembra puerile e, invecchiando, quella fede ha perduto il suo sapore.

Non un solo libro del Nuovo Testamento, tranne forse l'Apocalisse di Giovanni, è stato scritto prima del secondo secolo. Tutto il Nuovo Testamento, fintanto che si dà per un documento storico, si ritrova dunque ad essere l'opera di falsari di alto profilo, [1] e, con le sue idee e i suoi postulati divenuti inammissibili, ci appare come un libro che, più di ogni altro al mondo è stato sopravvalutato, grazie ai pregiudizi della nostra educazione e all'inerzia delle nostre facoltà intellettuali.

Per noi, le Scritture hanno perso quindi ogni interesse religioso, e ciò malgrado gli sforzi meglio intenzionati della cosiddetta teologia storica per adattare la sua dottrina alla coscienza moderna e, in qualche modo, per ridarle un sapore religioso. Quella teologia ci sembra fin troppo in disaccordo con sé stessa per poterci ricondurre, con i suoi propri mezzi, all'unità del credo religioso. «In che cosa», si domanda perfino uno dei suoi più eminenti rappresentanti, «se non nelle sue negazioni, c'è dunque unità di vedute nella teologia storica? Anche se i suoi rappresentanti fossero volte d'accordo sul risultato, non lo sono mai nella loro valutazione: ciò che pare decisivo ad uno, l'altro lo trova insignificante o male interpretato! Non esiste un'epistola di cui non si discuta la data, la dedica, l'occasione, la disposizione, l'integrità, insomma tutto. E chi ci ascolta soltanto un po' da lontano può intendere tutte le note possibili, abbondanza che non ha, purtroppo!, nulla di imponente. Ciò che rimane è l'impressione che nella nostra scienza si può provare tutto ciò che si vuole, vale a dire che essa è costruita tra le nuvole! (Jülicher).

Nella sua Geschichte der Leben-Jesu-Forschung (Storia degli studi relativi alla vita di Gesù, 2° ed. 1913), Albert Schweizer ha constatato il fallimento definitivo di tutti gli sforzi spesi per provare la storicità di Gesù. Werner Ebert ha dato la stessa prova per il Cristo dogmatico nella sua opera Der Kampf um das Christentum (La lotta per e contro il cristianesimo, 1921). 

Secondo Troeltsch noi dobbiamo restare ancora cristiani unicamente perché noi non disponiamo per il momento di una religione migliore. Ma una tale religione «in mancanza di meglio», una religione le cui premesse sono compromesse e la dottrina decrepita, una religione che è in contraddizione con tutta la nostra vita sociale, politica e intellettuale, è ai nostri occhi superata e non può più essere presa in considerazione per la soddisfazione delle nostre aspirazioni religiose.


NOTE  

[1] Non esamineremo se gli autori del Nuovo Testamento avessero coscienza della falsità che commettevano. Hausrauth dice benissimo: «Gli orientali non hanno la minima idea di un obbligo verso la verità». Ciò che non contribuiva alla maggior gloria della Chiesa, ciò che contraddiceva il dogma, ciò che disturbava gli spiriti era, senza il minimo scrupolo, passato sotto silenzio, negato o diversamente interpretato; infatti l'obiettivo pratico di far trionfare la propria comunità o di eliminare gli ostacoli che poteva incontrare soffocava nel germe ogni aspirazione teorica alla verità storica o alla correzione esegetica. Si vedevano le cose come si voleva che fossero, si era creduloni verso la propria storia e ingiusti verso quella degli altri. Si prendevano con la verità storica libertà tali che poteva accadere alla comunità che il suo proprio passato assumesse un carattere assolutamente mitico, e che anche gli eventi vissuti potessero trasformarsi nelle mani dei narratori (Kl. Schriften, 127). Ciò che importava a questi autori di far credere e di aver vissuto, essi non mancavano mai di averlo vissuto. Persone così immaginative a cui la loro stessa esistenza diventa un mito meritano evidentemente poco credito, diciamo addirittura che non meritano, in mancanza di altre garanzie, il minimo credito nelle loro affermazioni sul passato della loro chiesa. Queste scuole religiose e i loro maestri si tengono esclusivamente nel dominio della pia frode, cosicché pensieri, aspirazioni, parole, scritti, tutto diventa apocrifo. È quindi un errore risultante dall'ignoranza nella materia quello di rimproverare alla teologia storica di spazzare via troppo energicamente. Nello stato dei documenti, il solo metodo da seguire è quello del principio di Cartesio: «de omnibus dubitandum» (l.c. 135 s.). Ecco l'avviso di un teologo; non è difficile farne l'applicazione al problema di Gesù in generale. Confronta anche ciò che dice RASCHKE sulla nozione di realtà tra gli antichi, che era diversissima dalla nostra. 

sabato 19 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (XVIII)

 (segue da qui)


7. ULTIME OBIEZIONI.

Contro quella conclusione si alza ancora una volta il coro dei credenti imbevuti di storicismo, che pretendono che, se Cristo non fosse un personaggio storico, i suoi seguaci difficilmente si sarebbero dedicati a lui fino a subire le più crudeli torture, e perfino la morte. Ma è vero che lo fecero per un personaggio storico? Non si dedicarono piuttosto ispirandosi alla loro fede nell'opera redentrice del Salvatore, senza preoccuparsi dalla sua realtà storica? Giustino dice che «per il nome di Gesù uomini di ogni razza hanno accettato ed accettano ogni sofferenza pur di non rinnegarlo». [1] Per l'amore del nome di Gesù, ciò vuol dire evidentemente: perché speravano di essere salvati in suo nome. Del resto, lo storico Seeck fa sottolineare a giusto titolo che «non fu tanto la fedeltà verso le loro convinzioni che fece accettare la morte ai martiri cristiani, quanto la paura di arrendersi ai demoni partecipando ai sacrifici. Paragonati alle pene eterne che li attendevano se cedevano, che importavano le torture passeggere che potevano infliggere loro le autorità pagane? [2] Ci si sacrifica solamente per un uomo ? Al contrario, le più grandi devozioni non si ispirano piuttosto ad un'idea impersonale? In ogni tempo, le idee di patria, di libertà, di onore, di gloria e così via, hanno incitato gli uomini alle prodezze più straordinarie. Quali piatti materialisti questi teologi che pretendono che solo una cosa tangibile, come uno dei nostri simili, possa ispirare atti straordinari! Per Gesù in quanto uomo, è improbabile che qualcuno abbia subito il martirio. Bruno Bauer ha fin troppo ragione ad esclamare: «Il Cristo dei Vangeli, se si dovesse assumere la sua esistenza storica, sarebbe un fenomeno che dovrebbe far rabbrividire l'umanità, una figura che non potrebbe che ispirare terrore e orrore». [3]

Non fu nemmeno il Gesù storico che decise la vittoria del cristianesimo sulle altre religioni. Lo si è spesso preteso nella controversia a proposito del mito di Gesù, cosa che non impedisce che sia assurdo. Ridurre la diffusione di una religione all'eccellenza e alla superiorità morale del suo fondatore equivale, come dice Robertson, ad aggrapparsi a nozioni pre-scientifiche di causa ed effetto, come se si professasse la credenza geocentrica. [4] Ciò che ha elevato il cristianesimo al di sopra delle religioni rivali furono, lo ripetiamo, la sua metafisica nuova, le prospettive che apriva ai suoi adepti, e ancor più la sua organizzazione tutta particolare che attraeva gli uomini e li legava in una maniera durevole; ma il Gesù dei Vangeli non vi ha contribuito tutt'al più che nel sembrare offrire alla fede cristiana un sostegno più solido di quello fornito da altre rivelazioni soprannaturali degli dèi. In un mondo immerso nella schiavitù, il cristianesimo recò l'idea di una libera democrazia; donò alle anime svuotate e consumate dall'ozio e dall'indifferenza un contenuto prezioso, un senso più profondo della vita, uno scopo nuovo, risvegliò tra gli uomini le forze assopite e che ardevano di agire, facendoli collaborare al perfezionamento dell'esistenza, indicò loro un compito, mise ciascuno al posto che gli conveniva, e fece cessare il disagio risultante da un'esistenza privata di ogni orientamento morale. Da allora, ciascuno si sentiva, nell'organismo della comunità cristiana, un membro utile. La comunità si interessava a lui, lo assisteva nel bisogno, lo avvolgeva in un'azione sociale pratica e caritatevole perfezionando le associazioni di mutuo soccorso come l'assistenza ai poveri, ai malati, agli anziani, e i servizi funebri. Anche le donne, bambini e schiavi trovavano là un campo di feconda attività, si sentivano inclusi nell'umanità, e i deboli, miserabili e impotenti si vedevano trasportati in un'atmosfera di carità che sembrava alleggerire la loro sorte e riscaldava con un raggio di sole le loro anime tese. 

Inoltre, l'unione delle comunità tra loro, la vasta ramificazione delle associazioni cristiane che si prestavano un mutuo soccorso permetteva ai membri chiamati a spostarsi di sentirsi presto al sicuro presso i nuovi «fratelli» e «sorelle» che formavano come una sola grande famiglia. Una raccolta comune di vangeli e di epistole circolava di mano in mano e si leggeva nelle assemblee, mantenendo l'unità della fede, del pensiero e delle opinioni religiose.  La maniera in cui, almeno nei primi secoli, si seppe adattarsi alle fasi successive della vita politica e sociale ed evitare gli scontri con il mondo pagano, accresceva il sentimento di sicurezza e aumentava l'importanza dei gruppi cristiani. Anche se a volte sopravvenivano atti di opposizione, oppure che la popolazione pagana, esasperata dall'isolamento in cui si tenevano i cristiani, commetteva oltraggi nei loro confronti, non ci fu minimamente questione, nei primi secoli, di persecuzioni propriamente dette; non è che molto più tardi che esse sono state inventate o fortemente esagerate dai cristiani, per la maggiore gloria del loro proprio eroismo, e anche per eccitare lo zelo dei fedeli, conquistare l'ammirazione dei pagani e guadagnare così nuovi adepti. Insomma: il cristianesimo agisce concentrando metodicamente tutte le sue forze verso gli stessi fini, per mezzo dell'abile propaganda dei suoi missionari e per la diplomazia e la capacità organizzativa dei suoi vescovi e dei loro ausiliari, mezzi che nessuna delle religioni pagane aveva ancora messo in opera. «I culti pagani», dice Birt, «rassomigliano alle piante selvagge che crescono con una lussureggiante spensieratezza in una natura incolta, fioriscono e appassiscono. Il cristianesimo al contrario fu seminato metodicamente, come fa l'agricoltore quando si sforza di moltiplicare i frutti; i vescovi furono gli zappatori, e il suolo coltivato invadeva sempre più la terra vergine, passo dopo passo, ma con una infallibile regolarità». [5]

Non resta dunque, come ultima obiezione contro il «mito di Gesù», che l'appello alla «possente personalità» e all'«impressione indelebile» che Gesù avrebbe fatto sul suo entourage, perché si afferma che una corrente di idee così potente come il cristianesimo non può spiegarsi che per l'azione di un tale personaggio. Ma dove sono le tracce di quella profonda impressione? Gli scritti del cristianesimo primitivo (occorre ripeterlo?) non ne fanno apparire nulla. Perfino le epistole paoline, che si dice siano state scritte sotto l'influenza immediata della «possente personalità» di Gesù, sono assolutamente mute su di lui in quanto individuo storico e conoscono solo un Cristo dogmatico. Se si esamina nel dettaglio il più antico vangelo, come l'ho fatto nel mio Markusevangelium, si constata che nulla, assolutamente nulla, non una riga, nemmeno una parola vi può pretendere la storicità, che tutto è ispirato alle profezie dell'Antico Testamento e dalle costellazioni. Ora, è da Marco, si dice, che hanno attinto tutti gli altri evangelisti. Cosa diviene allora la storicità della loro esposizione? «Quando la porpora cade, il duca non tarda a seguire!» Se tutti i dettagli del racconto evangelico, sotto le mani della critica, si risolvono così in nebbia mitica e si rivelano pure finzioni, non sussiste più alcun diritto «metodico», dopo la scomparsa di tutti i tratti peculiari, di mantenere il semplice fatto astratto di un Gesù storico. Che si citi quindi un solo episodio dei vangeli che si possa a buon diritto e in tutta coscienza considerare storico! Non ne esiste, lo ripetiamo. Fintanto che non si sarà scoperto almeno uno, il fatto di volere nondimeno attenersi alla storicità di Gesù non può essere considerato che una presa di posizione teologica. 

«Equivarrebbe a rovesciare tutti i fondamenti della storia», si dice, «non credere all'esistenza del Cristo e alla verità dei racconti dei suoi apostoli e degli scrittori sacri. Anche il fratello di Cicerone diceva: Equivarrebbe a rovesciare tutti i fondamenti della storia negare la verità degli oracoli di Delfi. Domanderei ai cristiani se credono di rovesciare le fondamenta della storia quando attaccano questi presunti oracoli e se l'oratore romano avrebbe creduto di rovesciare così le fondamenta della storia negando la verità delle loro profezie, supponendo che le avesse conosciute. Ciascuno difende la sua chimera e non la storia». [6]

Se Gesù fu realmente una così «possente personalità», perché abbiamo di lui solo finzioni? E se la tradizione ci ha lasciato di lui solo finzioni, quale diritto abbiamo di vedere in lui più di quanto vediamo nei personaggi mitici di un Giosuè, Attis, Adone, Osiride o Balder? Perché solo la sua storicità ci farebbe comprendere l'origine e lo sviluppo del cristianesimo? Ma li si comprende meglio se si ammette un Gesù crocifisso e risorto, oppure almeno un Gesù alla resurrezione del quale i suoi seguaci sono ritenuti di aver creduto, ma senza averlo riconosciuto come Messia durante la sua vita, e senza che abbia manifestato loro la sua messianicità, tanto più che quest'ultima, secondo le concezioni ebraiche, non poteva essere legittimata né dalla sua vita, né dai suoi miracoli, né dalla sua resurrezione? Che un predicatore itinerante della Galilea, morto da poco, possa essere apparso a Paolo come il Figlio di Dio in senso metafisico, questo fanatico del monoteismo ebraico più rigoroso, come un altro Dio, come l'eone creatore del mondo e come il secondo Adamo, è una cosa così improbabile, così impossibile perfino, che nessuno ha ancora dato una spiegazione sufficiente dello sconvolgimento che si sarebbe verificato nell'anima dell'apostolo. I teologi rimproverano ai sostenitori del mito di Gesù di «avvelenare tutto ciò che è individualmente grande e unico nella storia dell'umanità» (Jülicher). Noi domandiamo argomentazioni, anche solo un'argomentazione plausibile, non repulsioni sdegnate e della fraseologia. Comunque anche uno storico della Chiesa, Hausrath, riconosce: «Mai un fenomeno collettivo si è limitato ad un individuo. Ogni epoca è la risultante delle epoche che l'hanno preceduta, e non dell'attività di un uomo». «La diffusione di grandi principi si fa in una maniera piuttosto impersonale. Le più grandi scoperte e invenzioni sono anonime. A chi dobbiamo il primo telaio o il primo camino? Quale fu il nome dell'inventore dell'alfabeto? Nessuno lo sa. La Chiesa del resto celebra una festa detta Ognissanti, dedicata alle anime anonime di coloro a cui essa deve tutto, ma la cui storia è per sempre dimenticata». [7

Se si pretende che la genesi della religione cristiana sia l'opera di un uomo unico nel suo genere, ossia del Cristo, e che è proprio in quell'opera che si manifesta la sua grandezza, che ci si dica dunque chi ha fondato la religione babilonese, egiziana o il mitraismo, che hanno pure esercitato alla loro epoca la più grande influenza sulla civiltà e sulla vita religiosa dell'umanità. W. Koelher fa sottolineare che lo gnosticismo non ebbe alcun fondatore. È perlomeno dubbio che il Buddha e Zoroastro siano state personalità storiche; eminenti studiosi come Kern, Sénart, Louis de la Vallée, Poussin, Speyer, van den Bergh van Eysinga l'hanno contestato. [8] Si può ritenere certo che Mosè non sia del resto più storico. Wernle, uno dei più risoluti tra i teologi del genere «Vita di Gesù», parlando della filosofia dei Lumi (Aufklärung), dice: «Essa non è l'opera di un genio religioso di prim'ordine, e non si spiega con le esperienze intime di un individuo, anche se si ammette che sia stato favorita dalle circostanze politiche e da altre circostanze dell'epoca. È a giusto titolo che essa non porta il nome di alcun capo, essendo l'opera di generazioni intere che, ispirandosi allo spirito collettivo, orientano i loro pensieri e i loro sentimenti nella stessa direzione, quanto meno per quanto riguarda la negazione». [9

Nel suo Diario di viaggio di un filosofo, libro che è attualmente in mano a tutti, Keyserling nega che l'importanza di un'idea permetta di concludere per la grandezza del suo autore: «Si sa che l'influenza immediata che esercita un uomo coincide raramente con il suo valore reale: un infermo, anche un individuo molto equivoco può generare idee che sovvertono il mondo. Questo contrasto esiste anche fino ad una certa misura tra i fondatori della maggior parte delle religioni. Qualunque cosa la leggenda possa riportare della loro possente personalità, è certo che in generale hanno potuto agire durante la loro vita solo su un pubblico poco interessante; il che è una prova sufficiente del fatto che non furono, nel senso ordinario del termine, forti personalità; infatti quest'ultime si impongono. Esiste così poca relazione necessaria tra la forza espansiva di un'idea e la vastità di intelletto che l'a generò che, per certi fondatori di religioni, la loro esistenza stessa è incerta. Senza dubbio, dappertutto il mito si è più tardi condensato attorno ad una personalità storica, ma resta dubbio che quest'ultima sia stata effettivamente l'ispiratrice delle idee che hanno agitato il mondo. Al cristianesimo, che doveva conquistare il mondo, la vita primitiva di Gesù non ha fornito che un solo elemento: il suo nome. E questo nome è diventato il simbolo e il fulcro delle molteplici tendenze che, nelle profondità insondate, hanno determinato la storia dell'Occidente; da qui la sua immensa importanza storica, che non ha nulla a che vedere con lo scarsissimo grado di realizzazione che le idee del Cristo hanno trovato fino a questo giorno. Vale lo stesso dappertutto. Un uomo può classificarsi tra i più grandi della storia senza essere mai esistito, senza aver mai insegnato ciò che determina la sua importanza storica, senza aver mai insegnato nulla di nulla, senza aver avuto alcuna importanza, e via di seguito». [10]

Tra le obiezioni tanto numerose quanto miserabili che si sono sollevate contro il mito di Gesù, quella della possente personalità è forse la più pietosa di tutte. Come in tutte le altre religioni dello stesso tipo, la figura del Salvatore è pura finzione. Essa è un prodotto della coscienza religiosa, non un fatto dell'esperienza storica. Se il cristianesimo, per accreditare quella figura, si appella alla realtà storica, questo appello non è di per sé che la manifestazione di un sentimento religioso, e non ha nulla a che vedere con le preoccupazioni dello storico. 

NOTE

[1] Contra Tryph. 121:2.

[2] SEECK, l. c. pag. 317.

[3] Kritik d. org. Geschichte der Synoptiker, 1841, 3:14.

[4] The Jesus Problem 155.

[5] BIRT, Charakterbilder Spätroms u. d. Entstehung d. modernen Europa., 2. Aufl., 1920, 162.

[6] DUPUIS, Abrégé de l'Origine de tous les Cultes, 3° edizione, volume 2, pag. 104.

[7] Jesus, I, 221, 228.

[8] Si veda pure ROBERTSON, Pagan Christs, 2° edizione, 1911, 327 ss.

[9] Lessing u. d. Christentum, 1912, 9 s.

[10] O. c. 1920, I 164 ss.

venerdì 18 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (XVII)

 (segue da qui)


6. IL GESÙ GIOVANNEO

Sì dà generalmente ai tre vangeli di Matteo, Marco e Luca il nome comune di «sinottici», perché, malgrado numerose differenze nei dettagli, essi disegnano della vita del Salvatore quadri che, nelle loro grandi linee, sembrano pressappoco concordanti, cosa che permette di fonderli in una «veduta d'insieme». Quanto alla data di origine di questi vangeli, è impossibile affermare nulla di certo. Harnack, Wellhausen, Maurenbrecher e altri attribuiscono la priorità al vangelo di Marco, che sarebbe stato scritto già prima della distruzione di Gerusalemme, tra gli anni 60 e 70, o anche prima il 60 del I° secolo. Ma per vari motivi troppo a lungo da sviluppare qui, quella asserzione è così poco verosimile che, perfino negli ambienti teologici, ha trovato solo pochissima approvazione. Paolo non conosce ancora i Vangeli, ma egli è conosciuto da Marco che, come prova soprattutto l'episodio della professione di fede di Pietro, aveva sotto gli occhi le epistole ai Romani e ai Corinzi, e anche quella ai Galati. [1] Ma siccome è probabile che queste epistole risalgono solo al II° secolo, e che la loro forma attuale difficilmente può risalire prima della metà dello stesso secolo, il vangelo di Marco difficilmente può essere molto più antico, benché certe fonti dei vangeli possono essere esistite prima e alcuni dei loro racconti possono aver circolato nei circoli cristiani, testi che l'autore del nostro Marco attuale avrebbe riunito per comporre il suo scritto. A questo scopo, egli si è servito, lo si è visto, di una sfera armillare a cui si aveva allora abitudine di ispirarsi per raccontare la storia degli dèi. Ma egli ha saputo così bene nascondere le tracce di quel metodo che esso è stato scoperto solo ai nostri giorni; [2] la Chiesa non ha peraltro mancato di fare quel che ha potuto per sottrarre alla storia del suo Salvatore il suo sfondo di mitologia astrale. Il conflitto che scoppiò tra lei e l'ultima frase dello gnosticismo non è in ultima analisi che un conflitto tra il Cristo storico e il Cristo astrale. In quella lotta per la supremazia, è il Cristo storico che ha prevalso, perché era il più popolare dei due personaggi ed offriva alla Chiesa maggiore facilità per ben ancorare il suo dominio nella coscienza delle masse.

La credenza che Dio fosse apparso sulla terra incarnato in Gesù, uomo tra gli uomini, avesse sofferto la morte come loro e avesse manifestato così il suo amore per loro, offriva il fondamento più solido alla fede nel Dio di amore contrapposto al Dio di giustizia. Come l'ebreo poteva, a sostegno del suo Dio di giustizia, fare riferimento all'Antico Testamento e all'alleanza del Sinai, così anche, per il loro Dio di amore, i cristiani potevano da allora contare sul loro Nuovo Testamento e sull'esposizione che dà della vita di Gesù. Quanto più la scrittura dei vangeli era ritenuta vicina all'apparizione di Gesù, tanto più sicura e incontestabile doveva sembrare la buona novella della morte espiatoria del Cristo. Lo spirito storico così come lo si concepisce ai nostri giorni era, lo ripetiamo ancora, completamente mancante ai primi cristiani come ai loro contemporanei. Gli stessi evangelisti possono aver aggiunto fede alla verità del loro racconto perché, così come ho mostrato nel mio Markusevangelium, [3] credevano di poter dedurre la carriera terrena del Cristo come tutto il resto dalle profezie dell'Antico Testamento. È solo alle esigenze di una spiritualità più sviluppata, incapace di soddisfarsi col fondamento puramente storico della nuova religione, all'élite delle grandi città come Antiochia, Alessandria o Efeso, cresciuta nell'intellettualismo della filosofia greca, che il Gesù sinottico non poteva bastare. Questo fondamento non sembrava abbastanza filosofico a quella élite; la figura e l'ambiente del Gesù sinottico non le sembravano rispondere all'ideale sottile che riteneva degno dei suoi dèi. Così nacque, forse a Efeso, sotto l'influenza della filosofia religiosa di un Filone di Alessandria, il Quarto Vangelo che, per le menti più raffinate, voleva fondare su una base più intellettuale, più speculativa e più filosofica l'idea dell'amore di Dio manifestato nel Cristo. 

Il vangelo di Giovanni è il risultato di una fusione della teoria del Logos alessandrino con la concezione storicista dei sinottici, al solo fine di dare all'amore di Dio il più alto grado di certezza. Ma la «storia» vi è modificata e disposta a tal punto che delle due esposizioni una sola può pretendere alla verità, o quella dei sinottici oppure quella di Giovanni. Il Gesù di quest'ultimo è diversissimo da quello di Matteo, Marco e Luca. Pensa diversamente, agisce diversamente, parla diversamente e si muove in un tutt'altro ambiente. Cosa si deve pensarne quando si legge in Giovanni che Gesù e i suoi discepoli praticano loro stessi — il che è molto significativo — il rito del battesimo, [4] mentre se ne astengono nei sinottici? Questi ultimi si sforzano di mascherare la natura divina di Gesù dietro la sua natura umana e di attribuirgli un atteggiamento il più naturale possibile, senza tuttavia cancellare completamente l'elemento divino. Giovanni al contrario fa risaltare la sua natura divina e la sua maestà, e mostra in lui un superuomo che in qualche modo si è in qualche modo solo per caso smarrito nella torba umana. E mentre costoro gli prestano il linguaggio aforistico della sapienza ebraica, Giovanni gli fa pronunciare lunghi discorsi, strani e pieni di oscurità che, alla maniera dei misteri, vogliono essere abissi di profondità, accessibili al solo iniziato versato nella filosofia alessandrina. 

Per Giovanni, Gesù è il «Figlio di Dio» nel senso del Logos o Verbo filonico, della Sapienza o Conoscenza di Dio; e siccome Dio stesso non è altro che il Logos, Gesù appare come l'incarnazione immediata della divinità. Egli è la conoscenza di Dio in entrambi i sensi, soggettivo e oggettivo: egli conosce, e ciò che conosce non è altro che sé stesso. Egli è l'identità del soggetto e l'oggetto della conoscenza, ragione pura che si perde essa stessa per oggetto. È in questo senso che porta il nome di Verità, poiché ciò che si chiama verità è proprio quella identità del pensiero e dell'essere, del soggetto e dell'oggetto. Porta anche il nome di Vita, perché ogni vita è nel suo principio conoscenza o pensiero, poiché l'attività di Dio è pensare, e la vita è una manifestazione dell'attività dell'essere divino. Porta il nome di Luce, essendo interamente quella conoscenza che penetra tutto e illumina tutto. Porta il nome di Spirito, il pensiero che viene riassorbito nell'essere. Infine porta il nome di Amore; infatti Platone aveva designato sotto il nome di Eros l'identificazione del soggetto e dell'oggetto della conoscenza, l'atto nel quale la conoscenza e l'essere, rappresentazione e oggetto di conoscenza, si confondono e non possono più essere separati, pur rispondendo sempre a due idee distinte; non si deve quindi pensare a qualche stato della coscienza, ma semplicemente alla fusione delle antinomie fondamentali del pensare e dell'essere. 

 Ora il Cristo è la conoscenza, la Parola di Dio, in quanto ne rivela la natura e noi prendiamo possesso di questa grazia per lui e per il suo atto di redenzione. La conoscenza di Dio in senso oggettivo lo è tuttavia anche in senso soggettivo. La Parola che tratta di Dio, come ci è rivelata dal Cristo, è per sua natura allo stesso tempo la Parola che è Dio. Appropriarsi della parola rivelata dal Cristo e amare il Cristo non è dunque altro che appropriarsi di Dio stesso, per mezzo del Cristo unirsi nell'idea di Dio alla realtà divina, essere accolti nell'amore di Dio, contemplare la verità faccia a faccia, immergersi nella luce pura; in altri termini, essere spiritualizzati, deificati, e partecipare così alla vita divina. L'amore di Dio che, nel senso che abbiamo appena indicato. è in origine una nozione puramente speculativa, poiché identica all'amore della sapienza e della conoscenza, si eleva, non appena si rivolge verso il Cristo, nel mondo dei sentimenti e prende così un grande valore psicologico. E siccome l'amore del Cristo si manifesta soprattutto nei confronti dei suoi fratelli, colui che ama Cristo diventa anche caritatevole, e siccome, d'altra parte, amando il Cristo ama anche Dio, acquista così, per mezzo del suo amore per il Cristo, la felicità eterna. [5

Secondo la concezione antica, l'amore di Dio trova il suo fondamento, la sua base più profonda, prima di tutto nella rivelazione sensibile di Dio nel Cristo, poi nella spiritualizzazione di questo Cristo e nella sua elevazione nel dominio del pensiero puro, libero da ogni esperienza sensibile. Ciò che la gnosi ordinaria non poteva promettere che ad un piccolo numero di eletti, ovvero di elevarsi per intuizione fino a Dio e di contemplarlo faccia a faccia, il vangelo di Giovanni lo mette alla portata di chiunque abbia anche solo un minimo di facoltà speculativa, sostituendo la contemplazione sovrasensibile con la visione sensibile del Cristo, la quale diviene subito una visione spirituale di Dio, questo genitivo essendo preso sia in senso oggettivo che soggettivo. È solo così che la rivelazione cristiana nel vangelo si colloca di pari valore a fianco alla rivelazione ebraica di Dio nell'Antico Testamento. Dio, è l'amore di Dio. Riconoscendolo direttamente come tale per mezzo del Cristo, e amando il Cristo, non possiamo più dubitare del suo amore né della sua misericordia, né temere di essere esclusi dalla felicità in quanto non essendo in grado di soddisfare alla sua giustizia. Quella conoscenza segna l'apice dello sviluppo del cristianesimo primitivo e la conclusione del suo principio. Soltanto così si spiega il fatto che malgrado l'immagine del tutto diversa che fa di Gesù, il vangelo di Giovanni ha potuto trovare posto nel canone delle Sacre Scritture ed essere messo alla pari coi sinottici: era indispensabile per completare le fondamenta della nuova fede. L'indifferenza del suo autore e dei suoi ammiratori nei confronti delle contraddizioni storiche con il Gesù sinottico prova nel modo più perentorio che tutti questi documenti del cristianesimo primitivo non miravano per nulla alla storicità nel senso attuale; quella storicità non era per loro che un rivestimento e un mezzo per rendere sensibili i pensieri religiosi; è dunque insensato voler cercare in questi scritti una realtà storica. [6

NOTE

[1] Si veda Markusevangelium 178 s.

[2] Si veda Markusevangelium e Der Sternhimmel.

[3] P. 31 ss.

[4] 3:22.

[5] Si veda la mia introduzione alla filosofia: Die Erkenntnis der Wirklichkeit als Selbsterkenntnis, pag. 197-200.

[6] Si troverà un'esposizione dettagliata del vangelo di Giovanni nella mia opera: Die Entstehung des Christentums, pag. 333-384.

mercoledì 16 giugno 2021

IL MITO DI GESÙ (XVI)

 (segue da qui)


5. PAROLE E CARATTERE DI GESÙ.

Non sono ancora stati discussi i detti ed insegnamenti di Gesù che, a detta di molti, dovrebbero essere sufficienti a garantire la storicità dei vangeli. Parole così potenti e dottrine così sublimi, si dice, non possono che procedere da una personalità unica, augusta e sovrumana, che è quella di Gesù. Ma come provarlo?

In ciò che concerne la fonte dei Detti o «Parole del Signore», da cui avrebbero attinto soprattutto Matteo e Luca, abbiamo già constatato la nostra ignoranza del loro vero contenuto: detti di un certo individuo, Gesù, oppure parole nate sotto l'ispirazione dello «Spirito», come i detti della «Sapienza»? Forse li si è introdotti successivamente nel racconto evangelico e messi in bocca a Gesù unicamente come apoftegmi, considerandoli i migliori e i più significativi della tradizione, quelli che esprimevano meglio i sentimenti dei seguaci di Gesù e dovevano, nell'opinione dei suoi seguaci, essere attribuiti esclusivamente a colui che essi veneravano come il «Signore» nel senso più eminente della parola. È in ogni caso straordinario che Paolo non sembri conoscere alcuna parola di Gesù, poiché non vi fa mai una allusione precisa, nemmeno quando sembra che gli fosse quasi imposto dalla concordanza delle idee e il contesto lo avrebbe dovuto obbligare a porre le sue proprie opinioni sotto l'autorità del Maestro. E com'è possibile che i più antichi scritti, la Didaché, l'Epistola di Giacomo, citino parole del Signore, ma senza indicarle come provenienti da Gesù? Come spiegare che queste parole sembrano aver svolto un ruolo così sbiadito negli inizi del cristianesimo? In effetti, secondo gli Atti, la prima predicazione cristiana non fu la propagazione di un insegnamento ricevuto da Gesù, ma una dottrina su Gesù, come lo provano gli esempi di Pietro, di Stefano, di Filippo e di Apollo. Se si sapeva che questi detti provenivano da un Gesù storico, perché non li si è custoditi più accuratamente? Come si poteva lasciar completamente perdere la collezione? Un bene così prezioso come le parole del loro Signore e Maestro, i fedeli non lo avrebbero forse preservato come la luce dei loro occhi, ricopiato senza posa e trasmesso con cura da una generazione all'altra? Al contrario, la semplice conoscenza dell'esistenza di una tale raccolta sembra essere scomparsa completamente dalla memoria dei cristiani, ed è stato necessario che i teologi moderni, i cosiddetti critici, venissero ad escogitare l'ipotesi della sua esistenza. 

E poi, queste parole sono realmente uniche nel loro genere, e si possono trovarle «inimmaginabili» al punto di dover concludere per l'esistenza di un Gesù storico? O piuttosto tutta quella argomentazione non fa che volgersi in un circolo vizioso, deducendo dalla natura delle sue parole l'unicità di Gesù, e da questa natura ineguagliabile, l'unicità di queste parole? 

Vediamo per esempio le discussioni con i farisei. Gli evangelisti si danno la maggior pena per dimostrare con pochi casi significativi la superiorità dello spirito di Gesù su quello degli scribi e dei farisei, e per dare a quella superiorità il maggior lustro possibile. I farisei attaccano costantemente il Salvatore per metterlo alla prova, per stringerlo nei fili della dialettica rabbinica, e ogni volta, soggiogati dal suo spirito luminoso, devono perdere a questo gioco e ritirarsi confusi. Eppure la maniera in cui Gesù replica sempre ai suoi dotti avversari è quasi tale che non si sa se ci si debba sorprendere di più per l'insignificanza delle sue repliche o per l'ingenuità dei farisei che si lasciano impressionare da simili argomenti. 

Quando, per esempio, un giorno di sabato i discepoli vengono sorpresi a strappare spighe di grano e i farisei rimproverano Gesù, egli risponde loro: «Non avete letto quello che fece Davide quando ebbe fame insieme ai suoi compagni? Come entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell'offerta, che non era lecito mangiare né a lui né ai suoi compagni, ma solo ai sacerdoti? O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio infrangono il sabato e tuttavia sono senza colpa?» [1] Come se i discepoli che strappano le spighe un giorno di sabato potessero essere paragonati ad una truppa di guerrieri affamati, ai quali, per di più, la Legge permette alimenti impuri! E come se fosse un'azione proibita sacrificare nel Tempio i giorni di sabato! [2]

Un'altra volta i sadducei gli pongono la domanda capziosa di sapere a quale uomo apparterrà dopo la sua morte una donna che ha sposato in successione sette fratelli, e Gesù rimprovera loro di ignorare la Legge, poiché nell'aldilà non si ci si sposerà più, ma si sarà simili agli angeli, e aggiunge: «Quanto poi alla resurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Ora, non è Dio dei morti, ma dei vivi». «Udendo ciò», riporta l'evangelista, «la folla era sbalordita». [3] Perché? Poteva realmente vedere in queste parole una confutazione dell'opinione sadducea che nega la resurrezione? Se Dio è un Dio dei viventi, ciò prova forse che la vita non finisce con la morte? Non si vede nemmeno che cosa i patriarchi hanno a che vedere in quell'affare. Ma accusando i sadducei di ignorare la Legge, Gesù dimentica chiaramente che giustamente secondo la Legge la donna non cessa mai di essere la moglie del primo marito defunto, qualunque sia il numero dei mariti che potrà ancora avere. [4] Come avrebbe potuto Gesù mettere a tacere i Sadducei, «chiuder loro la bocca», come dice Lutero? 

Più tardi, siccome insegna nel Tempio, i farisei gli domandano con quale diritto fa queste cose, e Gesù risponde domandando loro a sua volta da dove proveniva il battesimo di Giovanni, dal cielo o dagli uomini? E siccome, per ragioni alquanto improbabili, non osano dargli una risposta, egli replica loro con disprezzo: «Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose», e si sottrae così al loro interrogatorio. 

Gesù avrebbe riportato la più grande vittoria sui farisei quando domandò di chi il Messia sia figlio ed essi gli risposero: di Davide. Allora disse loro: «Come mai allora Davide, sotto ispirazione, lo chiama Signore, dicendo: Ha detto il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia posto i tuoi nemici sotto i tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?» Queste parole avrebbero imbarazzato i farisei, al punto che non trovarono nulla da rispondere, e nessuno osò più ormai porgli domande. [5] In realtà, tutto questo parlare complicato di Gesù contiene un sofisma così evidente che l'atteggiamento dei farisei si spiega piuttosto con la loro impazienza di continuare la discussione con un uomo che rispondeva loro in quella maniera. 

Naturalmente, gli scribi e i farisei dei vangeli corrispondono ai Malvagi e agli Ingiusti che, nella Sapienza di Salomone, pongono agguati al Giusto e finiscono per perderlo. I farisei che descrivono i vangeli non sono quelli del I° secolo, ma quelli del II°, che nutrivano in effetti un'inimicizia mortale con i cristiani, mentre nel I° secolo le due parti si intendevano ancora benissimo fintantoché i fedeli di Gesù non apparivano ancora come una comunità religiosa distinta. Secondo Luca 7:36 ss., Gesù stesso frequenta la casa di un fariseo chiamato Simone e, secondo gli Atti, i seguaci di Gesù contarono anche dei farisei nel loro seno. [6] In generale, i farisei dei vangeli sono ben lungi dal dare un'impressione di realtà. Questi ferventi della Legge che domandano a Gesù di legittimare tramite un segno la sua missione messianica, anche se non si sia presentato a loro come Messia, e anche se la Legge proibisce espressamente di tener conto dei segni e miracoli di un falso profeta; [7] questi capi che si lasciano chiamare da Gesù ipocriti, ciechi, ciechi guide di ciechi, e insensati, che accettano tranquillamente tutti questi insulti davanti al popolo riunito, che nascondono il loro risentimento, e meditano sulla perdita di Gesù nello stesso momento in cui lo lasciano insegnare nel Tempio e nella sinagoga, non sono certo personaggi storici, tanto più che nessuno di loro è indicato più esattamente né chiamato col suo nome, mentre il Talmud non dimentica quasi mai di indicare i nomi degli attori coinvolti, quando annota le discussioni e le dispute dei rabbini con i loro avversari. Questi scribi e farisei sono semplicemente modellati sui «capi del popolo» che Isaia accusa di opprimere e di fuorviare il popolo, di fare leggi inique, scribi che scrivono solo per tormentare, che allontanano i piccoli dalla retta via, che spogliano dei loro diritti i miseri, che ingannano le vedove e sfruttano gli orfani: [8]

«Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene,

che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre,

che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro!

Guai a coloro che si credono sapienti

e si reputano intelligenti!...

che assolvono il malvagio per un regalo!» [9

«Popolo mio, coloro che ti guidano ti sviano,

e distruggono il sentiero per cui devi passare». [10]

Gesù rimprovera i farisei per la loro ipocrisia. Li accusa di avere solo un culto delle labbra e di complicarsi a loro stessi la via della salvezza aggravando e moltiplicando le prescrizioni. [11] In Isaia anche il «Signore» si lamenta del suo popolo: 

«Poiché questo popolo si avvicina a me

con la bocca e mi onora con le labbra,

mentre il suo cuore è lontano da me

e il timore che ha di me

non è altro che un comandamento imparato dagli uomini». [12]

«Le vostre labbra proferiscono menzogna,

la vostra lingua sussurra perversità.

Nessuno muove causa con giustizia,

nessuno la discute con verità;

si appoggiano su ciò che non è, dicono menzogne,

concepiscono il male, partoriscono l'iniquità». [13

Gesù definisce i farisei serpenti e razza delle vipere, perché Isaia dice: 

«Covano uova di serpente,

tessono tele di ragno;

chi mangia le loro uova muore,

e l'uovo che uno schiaccia, dà fuori una vipera.

6 Le loro tele non diventeranno vestiti». [14]

Si dubiterà ancora che Isaia e non qualche reminiscenza storica sia la fonte delle polemiche di Gesù contro i farisei e del suo atteggiamento contro di loro e gli scribi? Non era forse del tutto naturale che i cristiani del II° secolo confondessero l'immagine dei loro peggiori avversari con quella degli avversari del loro «Signore»

Cosa dire dei precetti morali di Gesù? Nemmeno là non vi è nulla di unico. Corrispondono semplicemente a quelli dell'Antico Testamento e del Talmud. Questo è il caso, per esempio, quando Gesù getta un tenero sguardo sui fiori del campo e sugli uccelli del cielo, contrapponendo la loro bella indifferenza all'animo umano tormentato dalle preoccupazioni del domani. [15«Hai mai visto un uccello o un animale della foresta che debba assicurarsi il suo nutrimento con un lavoro? Dio dà loro il loro nutrimento senza che lo guadagnino per degli sforzi. Però il destino delle bestie è solo di servire l'uomo, mentre questi conosce la sua missione più alta, che è servire Dio. Così gli conviene preoccuparsi solo dei suoi bisogni materiali?» [16] «Hai mai visto un leone lodarsi come facchino o un cervo raccogliere i frutti dell'estate o un lupo vendere dell'olio? Eppure tutte queste creature si perpetuano anche se ignorano ogni preoccupazione per il cibo. Ma io, che sono creato per servire il mio creatore, dovrei essere più preoccupato per il mio mantenimento?» [17]

Dopo quanto abbiamo citato da Isaia, va da sé che Gesù si occupa prima di tutto dei deboli, dei bisognosi e dei bambini, che trovavano di preferenza il loro sostegno e il loro rifugio nella nuova religione di Gesù e dovevano in seguito essere posti sotto la protezione speciale del Dio della comunità. Questo non significa per nulla che il movimento che si appellava a Gesù sia stato di natura proletaria, come hanno tentato di presentarlo Maurenbrecher, Kautsky e altri, alcuni autori sperando così di ricondurre al cristianesimo le masse operaie che gli hanno voltato le spalle. Senza dubbio, Luca, soprattutto, ci mostra il «Signore» nel ruolo di un Salvatore dei poveri che si rivolge ai diseredati e alla gente comune, tuona contro i misfatti dei ricchi e li rimprovera per la loro violenza e la loro ingiustizia. Ma questo tratto, lo ripetiamo, è ispirato a Isaia e non serve che ad animare l'immagine di Gesù, mentre il movimento stesso è nella sua origine e nella sua essenza puramente religioso e non si spiega che da questo punto di vista. [18] Il cristianesimo primitivo non ha assolutamente alcuna relazione con il socialismo o comunismo attuali, che vogliono, per mezzo di una distribuzione più giusta dei beni e tramite migliori istituzioni sociali, realizzare il paradiso sulla terra e, su un piano di eguaglianza, far condividere i suoi piaceri al maggior numero possibile. Per Gesù, al contrario, i beni terreni non sono degni di interesse; egli disapprova tutti gli sforzi verso il benessere materiale, respinge il culto della ricchezza e l'attaccamento ai beni di questo mondo, e proibisce persino, a causa dell'imminenza della fine, la preoccupazione per il domani. Se maledice i ricchi e benedice i poveri, non lo fa da avversario del capitalismo, ma semplicemente perché i ricchi corrono il rischio di corrompere la loro anima, mentre i poveri sono meno esposti alle tentazioni di coloro che sono favoriti dalla fortuna. Lui stesso è presentato come povero solo perché ciò risponde alle profezie di Isaia. Suo padre è carpentiere non in ragione di un ricordo storico, ma perché il padre del Dio Salvatore e Mediatore era di solito concepito come carpentiere nel senso di architetto del mondo; così Ea, padre del babilonese Marduc, Efesto, padre di Ermes. Cinira, padre di Adone; Crono, padre di Mitra; [19] o forse anche semplicemente a causa di un gioco di parole o di un'ispirazione all'Epistola di Paolo ai Romani (Si veda il mio Markusevangelium, pag. 142 ss.). 

Gesù sarebbe stato senza peccato, ed è soprattutto per quella qualità che si motiva la venerazione dovuta alla sua personalità umana. Come se non fosse naturale che colui che toglieva i peccati degli altri uomini dovesse essere lui stesso senza macchia, e come se questo tratto non fosse anche ispirato alla figura del Servo di Dio di Isaia 53:9! Peraltro gli evangelisti non si sono per nulla sforzati di dipingere l'immagine di un Gesù senza difetti. La maniera, già segnalata, con cui procede nei confronti dei suoi avversari, lanciando loro in faccia le espressioni più dure, deridendoli, maledicendo un albero innocente perché non porta frutti fuori stagione, e persino mandando all'inferno intere città, Corazim, Betsaida, Cafarnao, Tiro e Sidone, semplicemente perché non accettano la sua dottrina (quale?), [20] stona in bocca ad un un Gesù che d'altro canto è la mitezza stessa, che predica la carità, l'umiltà, l'affabilità e la mansuetudine, e che condanna all'inferno colui che semplicemente chiama empio suo fratello, [21] mentre lui stesso, in un accesso di brusca e incomprensibile collera chiama Pietro Satana. [22] Non si saprebbe cosa pensare di questo singolare Salvatore e amico degli uomini se non si sapesse che quell'atteggiamento è anche ispirato a Isaia. [23] È davvero conforme all'immagine che ci si fa del Salvatore, quando si vede Gesù proibire ai suoi di lasciar partecipare alla salvezza i pagani e i Samaritani, quando predica per non essere compreso dal popolo che non deve sfuggire alla sua sorte, quando non cessa di minacciare l'inferno, consiglia ai suoi discepoli di farsi degli amici con l'ingiusta Mammona, oppure quando nella parabola loda l'amministratore infedele per aver agito bene ingannando Dio e incitando i suoi subordinati alla menzogna (!). [24

No, questo Gesù è tutt'altro che un ideale morale per tutti i tempi, come si vorrebbe convincersi. Ci rifiutiamo di entusiasmarci ancora per un personaggio che, secondo il racconto stesso dei vangeli, non lo merita che molto relativamente, sul quale non si possiede alcuna precisione e che si deve dapprima completamente svuotare e ridurre allo stato d'ombra per ornarlo in seguito di tutte le virtù. La moralità del Gesù dei Vangeli è viziata da gravi difetti. Non osserva lui stesso i comandamenti che assume il più alti, e il suo sfogo di rabbia contro i cambiavalute e i venditori del Tempio, che pure erano nel loro diritto, non si giustifica minimamente. Egli ha posto, si dice, il fondamento di ogni morale presentando Dio come il Padre degli uomini e rivelando che le sue qualità supreme sono l'amore e la misericordia. Si ha torto a prendere per la predicazione di Gesù ciò che era quella della setta che portava questo nome, e a prendere per i detti di Gesù le parole che quella setta metteva in bocca al suo dio cultuale per dargli l'autorità voluta. Non è peraltro che un pregiudizio dei teologi credere che Gesù sia stato il primo a predicare la fede in Dio Padre. Molto prima di Gesù, l'idea di vedere in Dio un padre era diffusissima nel giudaismo. Nel suo System der christlichen Lehre (Sistema della dottrina cristiana, 1906), Wendt conta non meno di 23 passi dell'Antico Testamento dove Dio è designato come Padre esattamente nel senso che dà Gesù a questa parola. Per esempio, quando Isaia grida: «Tu, o Signore, sei nostro padre, nostro Salvatore, da sempre è il tuo nome». [25] Jahvé può essere stato all'inizio un Dio rigoroso che punisce i peccati dei padri nei loro figli fino alla terza e quarta generazione, [26] ma l'Antico Testamento dice anche: «Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri», [27] e d'altra parte il pensiero del Dio giustiziere e vendicatore è anch'esso molto familiare a Gesù. Ma dove egli avrebbe dato di Dio una definizione più bella di quanto la dà Esodo 34:6, ss.: «Il Signore è un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato»? [28] Dove troveremmo ringraziamenti più affettuosi per la bontà paterna e la misericordia di Dio se non nel salmista: 

«Benedici, anima mia, il Signore

e non dimenticare nessuno dei suoi benefici!

Egli perdona tutte le tue colpe,

risana tutte le tue infermità;

salva la tua vita dalla fossa,

ti corona di bontà e compassioni;

egli sazia di beni la tua esistenza.

Il Signore è pietoso e clemente,

lento all'ira e ricco di bontà.

Egli non contesta in eterno,

né serba la sua ira per sempre.

Egli non ci tratta secondo i nostri peccati,

e non ci castiga in proporzione alle nostre colpe.

Come un padre è pietoso verso i suoi figli,

così è pietoso il Signore verso quelli che lo temono.

Poiché egli conosce la nostra natura;

egli si ricorda che siamo polvere.

I giorni dell'uomo sono come l'erba;

egli fiorisce come il fiore dei campi;

se lo raggiunge un colpo di vento esso non esiste più

e non si riconosce più il luogo dov'era.

Ma la bontà del Signore è senza fine per quelli che lo temono». [29]

Ci viene detto che Gesù ha stabilito un rapporto diretto tra Gesù e ogni credente preso individualmente, e che questo individualismo religioso è la grande novità che Gesù ha rivelato al mondo. Ma ciò non è specifico di Gesù né del cristianesimo; è un aspetto fondamentale di tutte le religioni profonde, soprattutto dei misteri antichi che si distinguevano in ciò dalle religioni ufficiali. 

Nei fatti, il Dio di Gesù non è altro che quello dell'Antico Testamento, il Dio unico di Israele, [30] Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. [31] Gesù stesso, nel racconto dei vangeli, non pretende da nessuna parte di portare ai suoi, su questo punto, una nuova rivelazione. Già Wrede ha distrutto la favola, cara ai teologi, che attribuiva a Gesù una concezione nuova e più profonda della divinità. [32] Per quanto sforzo faccia Wendt per stabilire una distinzione tra il Dio di Gesù e quello del giudaismo, egli è costretto, alla fine, ad inchinarsi davanti alla verità. Egli confessa, in ciò che concerne l'idea di fare di Dio un Padre: «Gesù non ha toccato per primo quella nota; essa è risuonata prima di lui nelle religioni degli ebrei e degli Elleni». Ma quando aggiunge che mai prima d'ora la fede in Dio Padre è stata concepita con tanta certezza e semplicità, con tanta forza ed esclusività, [33] Grutzmacher gli replica che si tratta di «un'affermazione senza prove; se anzi gli elementi nuovi e decisivi che il cristianesimo ha portato alla storia religiosa dell'umanità si riducono effettivamente a così poca cosa, il suo contributo è stato dei più modesti e senza grande valore». [34]

Il Dio-«Padre» di Gesù è in realtà solo il Dio universale del giudaismo dell'epoca e si può opporre solo al legislatore e giudice severo che i farisei veneravano come loro Dio che credevano il solo vero: «Neanche un passero cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia», [35] dice Gesù, che aggiunge: «Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati». È così che Giobbe diceva: 

«Dio non vede forse le mie vie?

Non conta tutti i miei passi?» [36]

«Senza la volontà di Dio», dice il Talmud, «nessun uccello cade dal cielo; il pericolo minaccerebbe di più la vita di un uomo, se non fosse il Creatore a decretarlo?». [37] Si legge allo stesso modo, Pesikta fol. 18, col. 4: «Non ho contato ogni capello di ogni creatura?»«Nessuno quaggiù muove il dito senza che questo sia conosciuto lassù», pensiero che peraltro non era estraneo all'antichità pagana, come prova l'inno dello stoico Cleante a Zeus, conservato da Stobeo: «Senza di te, o Dio, non si fa niente sulla terra». Ma se Gesù chiama Dio suo padre, abbiamo già visto che quella espressione procede dalla Sapienza di Salomone, dove i malvagi deridono il giusto, perché celebra Dio come «suo» padre. [38]

Secondo Marco 12:28 ss., Gesù, quando gli si domanda quale sia il comandamento supremo, risponde che è l'amore di Dio e del prossimo, secondo Deuteronomio 6:4 s. e Levitico 19:18, e così facendo Gesù è consapevole di non enunciare alcun pensiero nuovo. Se Luca 10:25 ss. mette queste parole in bocca ad uno scriba come un passo ben noto della legge, è evidente che questo era un luogo comune che esisteva tra gli ebrei. Gesù aggiunge, in Matteo 7:12; 22:40: «Da questi due comandamenti dipendono tutta La legge e i profeti», mentre è detto in Matteo 7:12: «Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la Legge e i profeti». Ma Giobbe 4:16 dice anche: «Quello che non vorresti per te non farlo a nessun altro»; ed è sotto la stessa forma negativa che riscontriamo quel detto non solo in Confucio (cinque secoli A.E.C.), ma anche nel Talmud. [39] Si pretende che ciò sia meno di quanto esige Gesù. Ma la stessa forma negativa si trovava anche nei più antichi manoscritti dei vangeli. L'amore quindi che Gesù esige è solo amore del prossimo dell'Antico Testamento.

Si legge ancora in Matteo 5:43 s.: «Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi fanno torto, e vi perseguitano». Qui, quindi, l'amore del prossimo appare elevato fino all'amore del nemico. Ma dove sta scritto che gli ebrei devono odiare i loro nemici? Levitico 19:18, che ordina l'amore del prossimo, dice espressamente: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo», e: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d'un peccato per lui». [40] Bisogna essere gentili anche verso gli estranei: «Non opprimere lo straniero; voi conoscete lo stato d'animo dello straniero, poiché siete stati stranieri nel paese d'Egitto». [41] «Quando qualche straniero abiterà con voi nel vostro paese, non gli farete torto». [42] Anche l'amore del nemico è ordinato dalla legge: «Se incontri il bue del tuo nemico o il suo asino smarrito, non mancare di ricondurglielo». [43] Si legge nei Proverbi:  

«Non ti rallegrare per la caduta del tuo nemico

e non gioisca il tuo cuore, quando egli soccombe». [44]

«Se il tuo nemico ha fame, dagli del pane da mangiare;

se ha sete, dagli dell'acqua da bere;

perché, così, radunerai dei carboni accesi sul suo capo,

e il Signore ti ricompenserà».

Secondo Giobbe, è un crimine contro Dio gioire della disgrazia di un nemico, [45] e il salmista si gloria di aver salvato colui che lo combatteva senza motivo. «Non dire: Renderò il male», dicono i Proverbi. [46] «Essi maledicono, ma tu benedirai», canta il salmista. [47] E Gesù figlio di Siracide scrive: «Perdona l'offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati». [48]

Nella lettera di Aristea, scritto giudeo-alessandrino redatto verso il 200 A.E.C. in difesa del giudaismo, si chiede a chi si debba mostrare affetto, e l'autore risponde: «Tutti ritengono che sia necessario farlo con quanti abbiano disposizione amichevole verso di noi. Io penso, però, che sia necessario avere generosa liberalità verso quanti siano di opinione contraria per condurli, in questo modo, verso ciò che è conveniente e utile per loro stessi. E bisogna pregare Dio perché ciò si realizzi. Infatti egli domina sulla mente di tutti». Altrove ancora si ritrova la regola d'oro: «Quale è l'insegnamento della Sapienza? Come tu non vuoi che i mali siano presso di te, mentre vuoi essere partecipe di tutti i beni, ebbene, fai proprio questo con i sottoposti e quelli che sbagliano». «Come Dio benefica tutto il mondo, così anche tu, imitandolo, sii irreprensibile». «Quale è il culmine della gloria? Onorare Dio! Ma questo non con doni né con sacrifici, ma con purezza d'anima e santo giudizio». [49]

Molto meglio: i Testamenti dei dodici Patriarchi, del secolo scorso prima della nostra era, contengono già tutta la predicazione di Gesù sull'amore. «Giuseppe», dice il Testamento di Simeone, [50] «era buono ed aveva in sé uno spirito di Dio; era compassionevole e misericordioso, non si ricordò del male che gli avevo fatto, ma mi amò insieme coi miei fratelli». «Anche voi, figlioli miei, amate ciascuno il suo fratello in bontà di cuore, così lo spirito dell'invidia starà lontano da voi» [51] Il Testamento di Isaacar dice: «Il Signore ho amato e ogni uomo con tutto il mio cuore. Fate questo anche voi, figlioli miei, e ogni spirito di Beliar fuggirà da voi, né alcuna opera di uomini malvagi avrà potere su di voi. Ogni bestia selvaggia sottometterete, perché avrete con voi il Dio del cielo e della terra, se procederete con gli uomini in semplicità di cuore». [52] «Vidi un uomo in difficoltà», dice il Testamento di Zebulon, «nudo durante l'inverno e per pietà rubai di nascosto una veste da casa mia e la donai colui che era in difficoltà. Voi anche, figli miei, abbiate pietà di tutti senza distinzione, e date a ciascuno di buon cuore di ciò che Dio vi dona. Ma se in quel momento non avete di che dare a colui che vi chiede, soffrite con lui per compassione. Io so che la mia mano non trovò in quel momento di che dare a colui che mi chiedeva, e camminai con lui per più di sette ore e lo compatii, e il mio cuore si aprì a lui pieno di pietà. E anche voi, figli miei, abbiate pietà di tutti, affinché il Signore abbi pietà di voi. Poiché egli ha pietà degli uomini nella misura in cui essi hanno pietà del loro prossimo. Figli miei, amatevi gli uni gli altri e nessuno tenga conto del male nei riguardi del fratello». [53] «L'uomo buono», afferma il Testamento di Beniamino, «non ha l'occhio offuscato, perché ha misericordia di tutti, anche se sono peccatori. Anche se tramano il male contro di lui, vince il male, facendo il bene, protetto da Dio. Egli ama i giusti come la sua anima. Se uno riceve onori, non lo invidia; se uno arricchisce, non ne é invidioso; se uno é coraggioso, lo loda; esalta il saggio, ha misericordia del povero. Soffre con chi é malato, teme Dio. Difende colui che ha il timore del Signore; a chi ama Dio corre in aiuto; rimproverando chi nega l'Altissimo, lo converte; ama con tutto sé stesso chi ha la grazia di uno spirito buono». [54] «Se siete disposti a fare il bene, gli spiriti impuri fuggiranno da voi e le bestie selvagge vi temeranno. In chiunque ci sia, nella mente, la luce delle opere buone, la tenebra fuggirà da lui. Se uno fa del male a un uomo pio, si pente, perché l'uomo pio ha compassione di chi gli fa del male e tace. Se poi uno tradisce un uomo giusto, il giusto prega per lui; e anche se per un po' il giusto é umiliato, dopo non molto brilla i nuovo più splendente di prima, come é stato Giuseppe, mio fratello». [55] L'uomo buono «guarda senza passione le cose che passano e non ammassa la ricchezza per il piacere. Non si rallegra del piacere, non causa dolore al prossimo, non si sazia di leccornie, non si lascia ingannare dagli sguardi. Infatti la sua parte é il Signore. La volontà buona non bada né alla gloria né al disonore degli uomini; non conosce né alcun inganno, né menzogna, né contesa, né danneggiamento». [56]

Va da sé che il Talmud è anch'esso pieno di esortazioni alla carità e di esempi di sentimenti benevoli anche nei confronti del nemico. «Non devi odiare, nemmeno nel tuo cuore». [57] «Ama colui che ti castiga». [58] «Com'è possibile che colui che teme Dio possa odiare un uomo e considerarlo un nemico?» [59] Un rabbino, si dice, perdonava prima di coricarsi tutti coloro che lo avevano offeso nel corso della giornata. Un altro, Rabbino Giosuè, voleva attirare l'ira divina contro un eretico, che lo tormentava incessantemente, ma si addormentò e pensò svegliandosi: «Questo sonno è un segno che il Giusto non deve mai invocare il castigo divino contro un colpevole». [60] «Quando gli angeli vollero intonare un canto di gioia a causa dell'inabissamento degli Egiziani, Dio disse loro: Le mie creature sono inghiottite e voi cantate?» Così nemmeno il Talmud limita l'amore del nemico ai soli connazionali. Allo stesso modo in cui è ordinato all'uomo di intercedere presso Dio anche per i peccatori, [61] così Dio raccomanda a Mosè: «Israelita o pagano, uomo o donna, servo o libero, tutti sono per voi». [62] Di conseguenza, d'accordo con Levitico 19:9 s., il Talmud ordina di non impedire al pagano povero di raccogliere spighe di grano nei campi, [63] e non cessa di presentare Abramo come modello di tolleranza. Le parole di Gesù: «Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano» non si trovano nei più antichi manoscritti autorizzati dei vangeli, ma bensì nel Talmud, dove è detto: «È meglio essere insultati da altri che insultare se stesso», [64] e «L'uomo sia sempre tra i perseguitati e non tra i persecutori». [65]

Non è dunque che pregiudizio teologico e travestimento della verità storica quando non ci si ferma di proclamare in un certo campo che da certe parti che Gesù ha per primo predicato l'amore del nemico (mentre Platone e gli stoici lo avevano già fatto), e che se la carità è diventata il principio supremo della condotta morale, è al suo esempio che l'umanità lo deve (Weinel). Robertson risponde a quella affermazione ricordando la storia di Licurgo e di Alcandro riportata da Plutarco: durante un tumulto, Alcandro avrebbe ferito un occhio a Licurgo, ma ricevuto in casa della sua vittima e trattato con il massimo affetto, egli sarebbe stato trasformato da nemico acerrimo in ammiratore e amico. Dove quindi Gesù avrebbe mostrato la sua carità, a parte la sua morte, che è di natura puramente dogmatica? Nelle sue guarigioni miracolose? Non gli costavano nessuna pena. Nel suo atteggiamento verso i suoi? Non ne sappiamo nulla al riguardo, piuttosto il contrario. Senza dubbio gli evangelisti desideravano ben dipingerlo come amore divino incarnato, ma non ci sono riusciti. Se era il più amorevole degli uomini, il ricordo avrebbe dovuto conservarsi in qualche maniera nella coscienza dell'umanità. Ma ciò che gli evangelisti ci presentano come esempi dell'amore di Gesù sono costruzioni dogmatiche e artificiali, sprovviste di ogni verosimiglianza storica. Il loro Gesù rimarrà sempre, dal punto di vista umano, un fantasma esangue, ombra astratta, manichino inerte, al quale si sono appesi tutti i buoni pensieri; e la fraseologia corrente sulla sua «personalità unica» non può farci dimenticare che il Salvatore dei Vangeli ci rimane estraneo in quanto uomo e riceve un'apparenza di vita solo se lo animiamo con il nostro stesso sangue, con le premesse e aspirazioni religiose che gli portiamo. Colui che si esalta per lui, si esalta per un essere generato dalla sua stessa immaginazione, non per una figura concepita leggendo senza preconcetti i vangeli. Così si spiega il fatto singolare che ciascuno trova in questo Gesù ciò che gli conviene, e che le tendenze, fazioni e correnti di idee più opposte continuano a rivendicarlo, senza che si abbia l'impressione che qualcuno abbia assolutamente torto. Ciò non sarebbe possibile nel caso di una personalità dai contorni spiccatamente marcati. Bisogna che quella figura sia circondata da un'atmosfera vaga e nebulosa che la renderebbe semplicemente indifferente e noiosa se non vi si cercasse senza posa più di quello che contiene. Di fronte alle sciocche chiacchiere sulla moralità unica di Gesù, Robertson ha fin troppo ragione di dire: «Fino a quando dovremo ascoltare l'affermazione puerile secondo cui le massime morali formulate in India migliaia di anni fa da uomini dimenticati avrebbero potuto essere fissate solo in Siria, al tempo di Seneca, e là solo da una personalità unica e possente, il cui semplice insegnamento elevò l'umanità ad altezze sconosciute? In Grecia, nessun uomo o donna anonimo ha mai ricercato la bellezza del perdono delle offese?» [66] Si beve forte, quando si tratta della salvezza della propria anima!

Non c'è quindi motivo di stupirsi se il Discorso della Montagna, a giusto titolo il più famoso dei gioielli della corona dei detti di Gesù, non sia per nulla di sua proprietà esclusiva, ma sia al contrario composto da detti ebraici dell'epoca di cui le più antiche, con ogni probabilità, si trovano nella Didachè o Insegnamento degli Apostoli, scritto scoperto nel 1873 e pubblicato nel 1883. Vi si legge, tra le altre cose: «Amerai Dio che ti ha creato, poi il tuo prossimo come te stesso; e tutto quello che non vorresti fosse fatto a te, anche tu non farlo agli altri. Ecco pertanto l'insegnamento che deriva da queste parole: benedite coloro che vi maledicono e pregate per i vostri nemici; digiunate per quelli che vi perseguitano; perché qual merito avete se amate quelli che vi amano? Forse che gli stessi gentili non fanno altrettanto? Voi invece amate quelli che vi odiano e non avrete nemici. Astieniti dai desideri della carne. Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l'altra e sarai perfetto; se uno ti costringe ad accompagnarlo per un miglio, tu prosegui con lui per due. Se uno porta via il tuo mantello, dagli anche la tunica. Se uno ti prende ciò che è tuo, non ridomandarlo, perché non ne hai la facoltà. A chiunque ti chiede, da' senza pretendere la restituzione», ecc. È Rodriguez che, sembra, ha dapprima segnalato, in uno scritto sulle Origines du Sermon sur la Montagne (1868), che queste origini devono essere ricercate nei detti della Sapienza ebraica, e quella tesi si è così spesso confermata che l'ignoranza sola può contestarla. [67] Le beatitudini si leggono nell'Antico Testamento. La preghiera del Padre nostro, che sarebbe, si dice, ciò che Gesù ha lasciato di più personale, è fatta da frammenti improntati a vecchie preghiere ebraiche recitate nelle sinagoghe molto prima di Gesù, e d'altro canto nessuno conosce la forma primitiva del pater. [68] Le tanto decantate parabole corrispondono per la maggior parte a quelle dei rabbini e, inoltre, e meritano anzi solo in parte la lode che si è soliti elargire loro con troppa liberalità, semplicemente perché sono ritenute provenire da Gesù. Ma sesse sono, in parte, modellate su quelle del Talmud, e le modifiche che hanno subito non sono sempre a loro vantaggio. È così che, ad esempio, la parabola dei talenti, in Matteo, è fuorviante, quella delle dieci vergini è completamente sprecata, quelle del tesoro nel campo e dell'amministratore fedele sono addirittura moralmente poco raccomandabili. [69]

Che la moralità di Gesù dipenda da quella dell'Antico Testamento e dei rabbini è un fatto che è già stato così spesso notato, soprattutto dagli autori ebrei, che non è più possibile non arrendersi all'evidenza. Sarà uno dei compiti più importanti e più pressanti della storiografia futura rendere alla morale ebraica ciò che gli spetta, e non è certo merito della teologia cristiana rimettere in discussione questo semplice e naturale dovere di giustizia, di veracità e di decenza, e sforzarsi di edificare un contrasto artificiale laddove in realtà non ve n'è alcuno. Eppure almeno uno storico, Seeck, riconosce senza riserva: «Si crede che il cristianesimo abbia introdotto nel mondo una moralità del tutto nuova, e l'ho creduto io stesso prima di aver studiato sufficientemente le fonti da questo punto di vista. Ma avendolo fatto, mi sono convinto che tutte le dottrine cristiane che pretendono di influenzare l'attività umana non sono soltanto anticipate dalla filosofia greca, ma sono anche penetrate nella comune credenza popolare molto tempo prima del Cristo. L'unica eccezione è il principio che afferma che solo la vera fede garantisce la felicità eterna. Questo elemento è originale, ma la storia ci insegna che è stato, per tutti i secoli, solo una inesauribile fonte di calamità». [70]

Tuttavia, negli ultimi tempi, alcuni teologi confessano davvero che Gesù non ha insegnato nulla di nuovo, ma pretendono per contro che la grandezza di Gesù risieda nella selezione che avrebbe operato tra i numerosi detti esistenti, come se fosse necessario un Gesù per questo e come se questo merito non dovesse essere attribuito piuttosto agli autori dei vangeli. Solo Harnack pretende ancora di dirci esattamente in cosa consiste ciò che Gesù porta di nuovo. «È», dice nel suo Handbuch der Dogmengeschichte (Manuale della Storia dei Dogmi, 1888, I, 652), «la sua personalità, è il fatto della sua vita che sono nuovi, e che creano del nuovo. Come ha suscitato ciò (cosa?) e creato un popolo di Dio sulla terra, che si è assicurato di Dio e della vita eterna, come ha eretto il nuovo in mezzo al vecchio e fatto della religione di Israele la religione per eccellenza, questo è il mistero della sua persona e questo è ciò che gli assegna definitivamente un rango unico nell'umanità». Così eccoci qui!

In generale, si può affermare che non è la dottrina stessa dei vangeli a rappresentare l'elemento nuovo, ma soltanto il colore particolare che gli dà l'attesa della fine del mondo. Ma è proprio questo elemento che è diventato obsoleto per noi, e per questo fatto tutti i comandamenti di Gesù perdono lo sfondo che dà loro unità e determina la loro importanza nell'insieme del racconto. Per noi l'etica di Gesù non è altro che una collezione incoerente di detti isolati, e di valore molto disuguale; essa perde ai nostri occhi ogni valore pratico semplicemente perché il loro fondamento nella civiltà del tempo contrasta con la nostra civiltà a tal punto che non ci sarebbe più possibile seguire questa dottrina quand'anche lo volessimo. Il suo carattere esclusivamente individualista, che contempla soltanto la salvezza dell'anima individuale, si oppone alla tendenza sociale della nostra epoca, che esige non la pietà, ma la giustizia, e il suo orientamento diretto unicamente verso la felicità, il fatto che tutte le prescrizioni si motivano soltanto dalla prospettiva di un castigo o di una ricompensa nell'aldilà finiscono per renderla inaccettabile ad una coscienza morale più matura. Goethe ha enunciato solo una frase vuota quando dice che la moralità dei vangeli non può essere sorpassata nella sua maestosità. Sorpassata? Essa lo era già al tempo di Gesù, e ben prima di lui. Il senso morale di molti indù ed Elleni, l'etica di Seneca, di Epitteto, di Marco Aurelio, l'hanno sorpassata di molto, in moltissimi modi. Lo si ignora soltanto, o non si vuole confessarlo, perché allora bisognerebbe rinunciare alla presunta unicità del Salvatore cristiano, a cui si vuole sempre ancora far riferimento per provare la storicità di Gesù.

D'altro canto non è mai per la sua moralità che una religione conquista il mondo. Per quanto buona o cattiva possa essere quella morale, la forza di attrazione e di espansione di una nuova fede risiederà sempre nelle sue idee metafisiche, nei suoi dogmi, nelle promesse che offrirà, nelle affermazioni che solleveranno le anime disperate e daranno loro la certezza che l'esistenza ha un senso e che la vita ha uno scopo. Perché la religione non è altro in fin dei conti che la fede in un senso e in uno scopo della vita. Non è diversamente per il cristianesimo. Mai, nella propaganda del cristianesimo, la moralità di Gesù ha giocato un ruolo decisivo; né d'altro canto si è mai tentato seriamente di farne la norma della vita pratica, poiché fino a questo giorno i popoli cristiani non si sono che preoccupati pochissimo di vivere secondo i precetti e lo spirito di Gesù, e neppure avrebbero potuto farlo senza suicidarsi: ciò che distingue i cristiani dagli altri uomini, se si mettono da parte le forme esteriori, è sempre la dottrina della redenzione: la buona novella dell'amore di Dio, la rivelazione dell'apparizione di Dio sulla terra in Gesù e la morte espiatoria, innocente e volontaria di quest'ultimo per il riscatto dell'umanità, dottrina che libera l'individuo dall'angoscia riguardo la sua sorte dopo la morte, — è quindi unicamente il Cristo dogmatico e non storico, a tal punto che, almeno ai nostri giorni, gli uomini non saprebbero cosa fare di questo predicatore itinerante ebreo, di questo rabbino di Nazaret che sarebbe stato il Gesù storico, se egli non fosse sdoppiato dal Gesù dogmatico, che solo interessa alla salvezza delle loro anime e assume così un valore ai loro occhi. Si dimentica che il Gesù puramente storico, prodotto della filosofia dei Lumi (Aufklärung) alla fine del XVIII° secolo, ha poco più di 150 anni di esistenza.  Per tutta l'antichità e il medioevo, questo Gesù ritenuto «storico» non fu che un simbolo, un piedistallo per il Cristo dogmatico, per il Logos, la Parola, la Sapienza o Ragione divina, che si presenta alla mente del filosofo sotto le specie del mondo trascendentale delle idee, in quell'unione spirituale dove, fin da Platone e Plotino, si era abituati a intravedere la salvezza morale e religiosa. Per coloro che hanno rotto con il Cristo dogmatico, il Cristo storico non è più di alcun interesse, quantomeno dal punto di vista religioso, e la questione della sua storicità può essere per loro tanto indifferente quanto quella del valore della sua morale. Quella morale non ha oggi più nulla da dirci che non potremmo trovare  in forma più pura, più spontanea e più profondamente motivata nella nostra letteratura — e nonostante ciò l'etica dei vangeli è forse ancora per molti il solo aspetto sotto il quale è loro possibile entrare in contatto con le idee morali animate dai sentimenti religiosi. 

NOTE

[1] Matteo 12:1.

[2] Confronta il trattato Schabboth, fol. 17, col. 1: «Il servizio dei sacrifici non è considerato un lavoro, cioè una profanazione del sabato»; poi Rosh hashana, fol. 21, col. 2 ecc. 

[3] Matteo 22:23 ss.

[4] K. LIPPE, Das Evangelium Matthäi vor dem Forum der Bibel und des Talmud, 1889, 228 ss.

[5] Matteo 22:41 s.

[6] Si veda Mito di Gesù II. 324 ss.

[7] Deuteronomio 13.

[8] Isaia 1:15 ss.

[9] Isaia 10:1 s.; confronta Marco 12:40.

[10] Isaia 3:12.

[11] Matteo 15:8 ss.

[12] Isaia 29:13 s., 68.

[13] Isaia 59:3 s.

[14] Isaia 59:5 ss.

[15] Matteo 6:26 ss.

[16] Kidushin 4, Halach 14.

[17] Confronta il Salmo 136:25; 147:9.

[18] Confronta LUBLINSKI l. c. 183 ss.

[19] Si veda Sternhimmel, 177.

[20] Luca 10:12 ss.

[21] Matteo 5:22.

[22] Marco 13:35.

[23] 13, soprattutto 11 ss.

[24] Luca 16:1 ss.

[25] Isaia 63:16; 64:7. Confronta Esodo 34:6; Deuteronomio 8:5; 32:6; Siracide 23:1; Salmo 103; Sapienza 2:16 s.

[26] Esodo 34:7.

[27] Deuteronomio 24:16.

[28] Confronta Giona 4:2.

[29] Salmo 103.

[30] Marco 12:29.

[31] Marco 22:32.

[32] WREDE, Paulus 91.

[33] L. c. 25.

[34] Gegen den religiösen Rückschritt, 1910, 4 s.

[35] Matteo 10:29.

[36] Giobbe 21:4.

[37] Bereschith rabba 79, fol. 77, col. 4.

[38] Sapienza 2:16 s.

[39] Trattato Schabbath 31a.

[40] Id. 17.

[41] Esodo 23:9.

[42] Levitico 19:33.

[43] Esodo 23:4 s.

[44] Proverbi 24:17 e 25:21 s.

[45] Giobbe 31:29 s.

[46] 20:22.

[47] 109:28.

[48] 28:2.

[49] Apokr. und Pseudep. d. Alten Testaments 23 s.

[50] Ibid., 464.

[51] Ibid.

[52] Ibid., 480.

[53] Ibid., 482.

[54] Ibid., 503.

[55] Ibid., 504.

[56] Ibid., 504.

[57] Menachot 18.

[58] Derech Erez suthac 9.

[59] Pessachim 113.

[60] Berachot 76, 10a.

[61] Sohar a Gen., fol. 67.

[62] Jalkut c. 20b.

[63] Gittin c. 5.

[64] Baba mezia 93.

[65] Sanhedrin, fol. 48.

[66] ROBERTSON, The Historical Jesus. A Survey of Positions, 1916, 29.

[67] Si veda anche ROBERTSON, Evangelienmythen 181-131. Confronta il mio Sternhimmel 248.

[68] ROBERTSON, l. c. 191-199; confronta HARNACK, Sprüche und Reden Jesu, 1907, 48, 178.

[69] Si veda il mio libro Der Sternhimmel 258, 268 ss., e per il tutto Mito di Gesù II 365-371, 382-391.

[70] SEEK, Entwicklungsgesch. d. Chr., 1921, 15. 5. anche JODL, Geschichte der Ethik, 2° edizione, 1906, 123 s., 127.