domenica 14 marzo 2021

APPENDICEIl Problema di “Marco”

 (Questo è l'epilogo della traduzione italiana di un libro di J. M. Robertson, «Jesus and Judas, a textual and historical investigation». Per leggere il testo precedente, segui questo link)

INDICE

Prefazione

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PARTE I

IL MITO DI GIUDA

I. Il Problema Letterario

II. Il Problema Critico

III. Il Mistero Messianico

IV. Il Mistero del Tradimento

V. La Fabbricazione Testuale

VI. Tesi Mitica e Ipotesi Biografica

PARTE II

IL MITO DI GESÙ

I. La Posizione Neo-Unitariana

II. Analisi Storica e Testuale

III. Il Mito dei Dodici

IV. Il Mito del Vangelo

PARTE III

IL MITO DELL'INSEGNAMENTO

I. Il Silenzio delle Epistole

II. L'Insegnamento Speciale nei Vangeli

PARTE IV

LA RESISTENZA ALLA TESI MITICA

I. Attività Recenti

II. Argomentazioni Recenti

III. L'Argomento A Priori

EPILOGO

APPENDICE. — Il Problema di “Marco” 

Letteratura Preparatoria 

APPENDICE

IL PROBLEMA DI “MARCO”

I

La tesi della priorità di «Marco» valutata e respinta nel secolo scorso da Baur e da Strauss, ha avuto la fortuna di essere accettata da molti razionalisti moderni sulla scia del consenso generale dei teologi tedeschi e inglesi, con poco interesse a soppesare le argomentazioni che la contrastano. Parlando in generale, il consenso rappresenta semplicemente il movimento cumulativo verso il punto di vista biografico in quanto opposto al punto di vista soprannaturalista. Il semplice fatto che Marco non possiede nessuna Storia della Nascita, nessuna Nascita Verginale, attrae naturalmente prima l'unitariano, e poi il razionalista, come indizio di una  stesura antica. [1] È sulla presunzione così impostata che procede con fiducia il processo analitico che spiega le coincidenze degli altri sinottici come copiature da Marco. Eppure la maggior parte di quelli che la sostengono sono concordi nel riconoscere che un vangelo precedente è alla base di tutti e tre i sinottici — un dato che smentisce un sacco delle particolari argomentazioni testuali a favore della priorità di Marco.

Per lo studioso razionalista, non lo si può affermare con maggiore chiarezza, la questione ha solo un'importanza secondaria. L'ordine di produzione dei vangeli, che per il teologo solleva problemi di vasta portata, è solo una questione di storia letteraria per la critica scientifica. La questione della credibilità di uno o tutti i ricordi evangelici deve essere risolta tramite verifiche che si applicano indipendentemente dall'ordine in cui sono ritenuti scritti i documenti. È prima l'unitariano, e poi il teologo «ortodosso» che sta ora adottando silenziosamente il punto di vista unitariano, ad avere «un tornaconto». Per loro, Marco rappresenta il rifugio principale per il credo nella semplice «storicità» di Gesù — il credo residuo che un uomo Gesù subì veramente un processo e una crocifissione, al di là se avesse operato o meno miracoli. 

Molto tempo fa questa facile costruzione ipotetica fu smentita nuovamente all'interno della scuola biografica dal pronunciamento definitivo di Loisy (riassumendo motivi già avanzati al tempo di Eusebio) che l'attuale vangelo secondo Marco non può essere stato scritto da un discepolo di Pietro; e dalla pesante conclusione di Schmiedel secondo cui Pietro non era mai stato a Roma — un'altra opinione antica, espressa in maniera davvero definitiva da Scaliger. È bene tenere conto anche del fatto che una vasta maggioranza dei critici hanno concordato sul fatto che il resoconto di «Marco» dato da Papia non si può applicare al vangelo come sta. Su quei punti, scrittori come il dottor Major [2] sono prudentemente silenziosi. Ma la tesi della priorità potrebbe pretendere ancora di reggersi al di là dalla questione della paternità, procedendo come fa su aspetti strutturali del testo rispetto a quelli di Matteo e di Luca. La natura dell'argomentazione può essere colta da tre casi, particolarmente sottolineati a favore della tesi della priorità contro l'opinione che Marco ha parzialmente combinato i testi di Matteo e di Luca.

1. Il dottor Abbott osserva che il greco di Marco 12:1-11 contiene tutte le parole, tranne quattro di nessuna importanza, che sono comuni ai passi paralleli, Matteo 21:33-44; Luca 20:9-18. Se Marco fosse stato un semplice compilatore, si sostiene, avrebbe dovuto «scrivere una narrativa vivida, brusca, e sotto ogni aspetto l'opposto di una narrativa artificiale», abbracciando ancora tutte le parole che avesse trovato comuni agli altri due. Questo, si sostiene, è un impossibile tipo di artificiosità.

2. Il dottor J. E. Carpenter tratta allo stesso modo i passi paralleli Marco 11:2-3; Matteo 21:2-3; Luca 19:30-31, stampando le frasi di Marco così da mostrare il materiale di Luca in corsivo, il materiale di Matteo in formato spaziato, e quello di Marco nel formato normale. Così ricaviamo: 

Andate nel villaggio che è di fronte a voi e appena entrati, troverete legato un puledro d'asino, sopra il quale non è montato ancora nessuno: scioglietelo e conducetelo qui da me. Se   qualcuno   vi   dice: Perché voi   fate   questo?   rispondete:  Il Signore ne ha bisogno,   e  lo   rimanderà   subito   qua.

Qui, sulla tesi della compilazione, afferma il dottor Carpenter, «il compilatore si è sforzato di combinare le due storie, prendendo una clausola da una, e due parole dall'altra, alternativamente. Può esserci qualcosa di più artificiale?»

3. Il signor Robinson Smith, un abile scrittore razionalista, esamina («Soluzione del Problema Sinottico»; Watts, 1920, pag. 10) una serie di ventidue passi in cui Marco combina frasi che si presentano singolarmente in Matteo e in Luca. Non sono tutte combinazioni strettamente analoghe, essendo alcune delle frasi importanti, altre semplici tautologie; ma due esempi indicheranno l'argomentazione: 

a. Poi, fattosi sera, quando il sole fu tramontato (Marco 1:32). Matteo (8:16) prende la prima clausola, Luca (4:10) la seconda.

b. «E lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone» (Marco 3:7-8). Matteo (4:25) ha: «Grandi folle lo seguirono dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano». Luca (6:17) ha: «E un gran numero di persone di tutta la Giudea, di Gerusalemme e della costa di Tiro e di Sidone»

La tesi del signor Smith è «che nessuno scrittore avrebbe riunito quelle......frasi da altri due scrittori, laddove era del tutto naturale che due scrittori dovessero aver preso l'uno una parte e l'altro l'altra parte dal loro originale, Marco». Io sono certo che, al contrario, la conclusione naturale è quella opposta. Per quali motivi probabili Matteo e Luca dovrebbero attingere rispettivamente da Marco certi nomi regionali, ciascuno lasciando l'altro in possesso di pochi altri? Che il giudaizzante Matteo dovesse ignorare Tiro e Sidone è comprensibile; ma quello sarebbe stato comunque il suo approccio al di là se avesse visto o meno Marco. In teoria, Luca potrebbe essere stato disposto a omettere la Galilea; ma lui per i suoi motivi gentilizzanti sarebbe stato pronto a nominare Tiro e Sidone. E perché avrebbe dovuto ignorare l'Idumea? La conclusione ragionevole è che Marco, che rafforza così spesso una descrizione, stava combinando qui gli altri e stava aggiungendo l'Idumea. 

E quando passiamo al primo esempio, «cosa poteva esserci di più artificiale», come direbbe il dottor Carpenter, del presunto accordo di Matteo e di Luca nel prendere ciascuno una clausola da 1:32: «Poi, fattosi sera, quando il sole fu tramontato» ? [3] La stessa procedura è attribuita a Marco 10:29: «Per amor mio e per amor del vangelo»; Matteo (19:29) avendo solo «per amore del mio nome» e Luca (18:29) «per amor del regno di Dio». La tesi che in un'intera serie di questi casi Matteo attinse una da un paio o da un insieme di frasi di Marco, e che Luca allora venne e prese scrupolosamente soltanto quel che restava, è a dir poco grottesca, quando ricordiamo in quanti innumerevoli casi Matteo e Luca coincidono nelle parole. Solo la necessità di una nuova argomentazione per dimostrare la priorità di Marco avrebbe potuto porre uno studioso riflessivo su una simile ipotesi. 

E l'argomentazione del dottor Abbott e del dottor Carpenter non è più profonda. Il dottor Abbott, nel caso della parabola della vigna, si basa sull'assunzione che la narrativa di Marco sia «sotto tutti gli aspetti l'opposto di una narrativa artificiale», quando questa è proprio la cosa da dimostrare! Qualsiasi lettore imparziale, raccogliendo i tre passi, dichiarerà che non solo Matteo e Luca sono almeno tanto «vividi» quanto Marco, ma la conclusione di Marco: «Ed essi cercavano di prenderlo: ed ebbero paura della folla; perché capirono che egli aveva detto quella parabola per loro; ed essi lo lasciarono e se ne andarono», è piatta e noiosa, ed è perfettamente concepibile come l'esplicito accorciamento di un compilatore; sebbene Marco non sia sempre un semplice compilatore. Cercare di eliminare questo materiale esplicito come «brusco» è vano ragionamento.

La tesi del dottor Carpenter è ugualmente mediocre. Se la storia di Marco è artificiale, considerata come una copia da Luca, con frasi da Matteo, allora la storia di Luca e la storia di Matteo sono egualmente artificiali, considerate come modifiche di Marco. A fronte del caso, la tesi più «naturale» sarebbe che la versione di Matteo è la prima, essendo di gran lunga la più semplice; che uno degli altri si preoccupò di elaborarla; e che l'espressione di Marco «Ed essi risposero come Gesù aveva detto» è più simile ad una modifica dell'espressione di Luca «Essi risposero: Il Signore ne ha bisogno» che viceversa. Cercare di rendere Marco non artificiale equivale solo a lanciare l'accusa verso Luca; e quando Marco è visibilmente più artificiale di Matteo, quella tattica non porta a niente. Per di più, il dottor Carpenter ha ridimensionato in anticipo la sua argomentazione prendendo la posizione che «o il Vangelo che fu prodotto prima è stato impiegato dagli autori degli altri due, oppure i tre Vangeli furono basati su qualche fonte greca comune. Quest'ultima tesi sembra meglio soddisfare le condizioni del caso» ('Primi Tre Vangeli', terza edizione, pag. 176-177). Da quel punto di vista, cosa ne è dei punti che abbiamo discusso?

L'argomentazione attenta e temperata del professor Burkitt nella sua 'Storia del Vangelo e sua Trasmissione' evita tali contraddizioni; ma anche quella manca di soddisfare la logica critica. L'affermazione (pag. 116) che «gran parte della formulazione di molti paragrafi interi [in Luca] sia stata semplicemente trasferita da Marco» è chiaramente inconcludente, in quanto Marco potrebbe proprio altrettanto bene aver copiato Luca. Questa contro-tesi che i Marciani non affrontano mai giustamente.


II

L'eccezionale lacuna critica, infatti, del grande mucchio di scrittori che sostengono la priorità di Marco, è che quasi invariabilmente ignorano le forti contro-argomentazioni. Potrebbe essere che alcuni dei loro avversari siano altrettanto remissivi; ma molti hanno valutato le tesi che contestano; laddove la semplice presentazione di motivi particolari per la priorità di Marco senza affrontare il caso contrario è una pura evasione di un problema critico. Così lontana si è spinta l'abitudine ad argomenti capziosi che gli scrittori che dichiarano di dare ai loro lettori un compendio dell'evidenza documentale si ritrovano comunemente a trascurare il fatto che Clemente di Alessandria dichiarò espressamente che la tradizione dei presbiteri più antichi era che il Vangelo di Marco sia stato scritto dopo «quelli che contenevano le genealogie» (Eusebio, «Ec. Hist.», 6:14). Il dottor Major, per esempio, non si fa scrupoli a pretendere di citare (opera citata, pag. 9) da Eusebio la stessa parte che contiene quella dichiarazione importante relativa a Clemente, mentre la tralascia senza segni di omissione, e cita solo quanto segue. Si potrebbe lasciar dire ai suoi lettori laici anglicani se lui li abbia trattati onestamente. 

È in una tesi condotta così che l'esponente ridicolizza l'intera questione critica affermando che «la dimostrazione di questa incorporazione di Marco in Matteo e in Luca è schiacciante, sebbene lo fosse stata molto tempo prima di essere riconosciuta e accettata dagli studiosi cristiani». Ciò che dovrebbe essere sostenuto, con una dichiarazione onesta della contro-argomentazione, è presentato come una verità ormai indiscussa. Il «molto tempo» è in sé fuorviante. Una grande adesione alla tesi della priorità di Marco aveva avuto luogo prima che Renan avesse scritto la sua 'Vie de Jesus', che propone la formula del «testimone oculare». E  l'adesione odierna degli studiosi della Chiesa d'Inghilterra ad una opinione da molto tempo comune sul Continente è semplicemente il risultato del loro riconoscimento che quella opinione è l'unica da cui ci si può aspettare la salvezza del credo nella storicità di Gesù. Una dimostrazione accurata è l'ultima cosa che tenteranno. Non è l'obiettivo, e non è il metodo.

Al dottor Major potrebbe far piacere che anche il signor Loisy presenta come una conclusione scontata la priorità di Marco, non dicendo una parola nell'Introduzione al suo 'L'Évangile selon Marc' (1912) della massa di considerazioni contrastanti, anche se è attento ad indicare che c'è stata molta redazione  del testo, e che si tratta principalmente di una composizione deliberata e pianificata, non di una semplice raccolta di tradizioni orali. L'approccio del signor Loisy al problema della priorità è determinato qui nello stesso modo di quello dei semplici difensori capziosi. Anche lui ha deciso in anticipo che dev'esserci un Gesù storico, e che stabilire la priorità di Marco deve aiutare a stabilire il caso principale. Tutto il suo accurato studio del testo è subordinato al presupposto ingiustificato, fatto in silenzioso disprezzo delle confutazioni.

Il signor Loisy è in verità al di sopra della puerilità di chi sostiene, come fanno tanti altri apologeti, che Marco sia all'apparenza il ricordo delle reminiscenze di un testimone oculare, relativamente alla sua frequente vivacità di descrizione. Il peggio di quella pretesa è che è avanzata da uomini che sanno che esattamente lo stesso tipo di pretesa è stata fatta a lungo per il quarto vangelo, e che hanno tuttavia abbandonato del tutto quella pretesa. In base agli esami falsi di vividezza, emotività, e realismo dei dettagli, avanzati come lo sono di solito senza un granello di circospezione critica, Giovanni si leverebbe più in alto dei quattro vangeli come ricordo storico. Sono state quelle qualità a indurre così a lungo Renan, come indussero Arnold, a crederci. Gli studiosi cristiani che alla lunga vi hanno rinunciato lo hanno fatto semplicemente perché avevano abbandonato il punto di vista soprannaturalista. Hanno poi proceduto ad applicare inconsapevolmente la vecchia argomentazione doppiamente screditata a Marco, perché desideravano stabilirlo come un documento relativamente storico. 

Chiunque affronterà correttamente il problema si renderà conto rapidamente che le qualità da presunto «testimone oculare» attribuite a Marco sono esibite principalmente riguardo ad episodi che non possono essere stati scritti da nessuno. Lo scrittore ci racconta (1:41) che «impietositosi» Gesù stende la sua mano al lebbroso, lo tocca, dice «Lo voglio; sii purificato; e subito la lebbra sparì da lui, e fu purificato». Presentare quella come Storia reale equivale ad insultare il senso comune. Nessuna tesi di guarigione per fede che possa essere accettata perfino a Lourdes reggerà una storia di scomparsa istantanea della lebbra. Parimenti col dettaglio di «dormire su un guanciale» (4:38); esso è associato ad una storia di quel che non accadde, e deve essere ritenuto un colpo deliberato di finzione. [4] Quando, allora, migliorando su Matteo e Luca, Marco (10: 16) fa sì che Gesù «prende in braccio» i bambini piccoli, come prima (9:36) aveva preso uno, e ancora (9:27) prende per mano e solleva il figlio posseduto, come tocca con la saliva il sordo e il muto e il cieco (7:33; 8:23), che solo in questo vangelo sono guariti — in questi casi l'unica conclusione critica è che quei tocchi «vividi» vengono introdotti sistematicamente, e non procedono da alcuna testimonianza di sorta.

Altrimenti, quale spiegazione può essere offerta della non-apparizione di tutti quei dettagli in Matteo e in Luca? Si sarebbero rifiutati di rappresentare Gesù mentre prende bambini piccoli tra le sue braccia se avessero avuto una tale narrativa davanti a loro, impartita ad un allievo di Pietro? Avrebbero omesso l'idea di Gesù che solleva colui che ha guarito? Si sarebbero rifiutati di ricordare le cure miracolose mediante saliva? Quelle e altre obiezioni, avanzate in passato da studiosi perfettamente imparziali sulla questione documentaria, perché dediti fedelmente e unicamente ad essa, non sono mai state affrontate: sono semplicemente superate da motivi del tipo di quelli che abbiamo già esaminato, il prodotto del desiderio di provare Marco il più antico vangelo, nella speranza in tal modo di stabilire un credo naturalista laddove un credo soprannaturalista in Gesù è crollato di fronte al comune senso scientifico. 


III

Se il lettore dalla mente aperta, ammettendo provvisoriamente che vi sia una certa forza nelle obiezioni alla rivendicazione di priorità per Marco, applicasse soltanto in via sperimentale l'ipotesi che Marco era stato scritto dopo gli altri sinottici, come da Clemente fu dichiarato il rapporto dei più vecchi Presbiteri, troverà che tutti i tipi di aspetti che sono inspiegabili sull'altra tesi rientreranno nuovamente «in linea». Inteso come un adattamento pianificato di materiale scritto precedente, Marco è ampiamente comprensibile come un documento deliberato.

1. Marco offre un vangelo liberato dalle contraddizioni senza speranza delle storie della nascita omettendole; e così presenta una dottrina «adozionista» di Cristo, nota per essere stata diffusa nel secondo secolo contro quella dell'incarnazione.

2. Esso media in larga misura tra le tendenze giudaizzanti e le tendenze gentilizzanti che divisero così a lungo le comunità cristiane, facendo concessioni in entrambe le direzioni. Mette da parte le rivendicazioni giudaiche a favore degli Apostoli, certamente non patrocina la causa di Pietro, modifica senza nemmeno abbandonare del tutto l'approccio principalmente ebraico del Maestro, come nella storia della guarigione della donna siro-fenicia (7:26-30), e propende sostanzialmente verso il lato paolino. È quindi un vangelo pianificato per guadagnare seguaci.

3. Si concentra in gran parte su storie di esecuzioni di miracoli; sulle testimonianze degli indemoniati, sempre ritenute in Oriente in possesso di un significato soprannaturale; e sul potere della fede nel salvare i credenti dagli spiriti maligni.

4. La sua natura «romana», spesso riconosciuta da parte di aderenti di entrambe le parti nella disputa sulla priorità, consiste specialmente in un'origine posteriore, e non ha bisogno di una tesi di paternità da parte dell'interprete tradizionale di Pietro per sostenerla. Quella tesi è ulteriormente esclusa dal crollo della leggenda del soggiorno di Pietro a Roma. E l'utilizzo frequente di forme di parole romanizzate, come distinte da altre, non si può spiegare come un semplice impiego originale di queste forme da parte di chi aveva vissuto a Roma e scrisse per i Romani. Quando, ad esempio, nella storia del paralitico a cui è ordinato di riprendere la sua lettiga e di camminare (Marco 2:4, 10, 12), Marco usa la parola krabatos, che si collega al latino grabatus, egli sta inserendo realmente un termine più adatto al posto di un termine meno adatto. Il termine klinē (== un letto o lettino) lo usa dove è richiesto (4:21; 7:4, 30); la forma krabatos (= una barella) la usa laddove quello è il termine particolarmente richiesto — qui sta volutamente migliorando Matteo e Luca, che rappresentano il paralitico guarito mentre gli viene detto di prendere e portare via ciò che si può pensare come un letto. È incredibile che Matteo e Luca avrebbero scritto qui volutamente letto se essi avessero avuto di fronte a loro la barella di Marco. [5

5. Ancora e ancora il processo di «accrescimento» è precisamente quello di un settario intento a rafforzare una concezione teologica, in contrapposizione a quella di un uomo che riferisce qualcosa riportatogli. In Marco 2, dopo un'apertura che mira in particolare ad intensificare un'immagine fisica, abbiamo gli scribi rappresentati mentre dibattono «nei loro cuori», dove Matteo e Luca li fanno «parlare»; e l'obiettivo è quello di esaltare Gesù poiché conosce da subito «nel suo spirito» ciò che stanno pensando gli scribi. È davvero imprudente parlare di uno scrittore che preserva la testimonianza di un «testimone oculare» quando, al fine di mostrare i poteri soprannaturali del Maestro, egli sta scartando così espressamente ciò che avrebbe potuto essere accreditato come una testimonianza di un testimone diretto.

6. Questo vangelo è palesemente posteriore nella misura in cui, come Luca (9:27), fa dire a Gesù (9:1): «Alcuni di coloro che sono qui......non gusteranno la morte, finché non abbiano visto il Regno di Dio venire con potenza», dove Matteo (16:28) ha: «finché non abbiano visto il Figlio dell'uomo venire nel suo regno». È inconcepibile che Matteo, vedendo la profezia in Marco nella forma prudente, tuttavia avrebbe dovuto preferire far profetizzare a Gesù che i contemporanei avrebbero visto ritornare lui in persona. Marco è chiaramente la forma successiva, in quanto sostituisce ad una profezia falsificata una che si sarebbe potuto dire realizzata nella diffusione della Chiesa. È caratteristico della logica del dottor Major il fatto che lui rivendichi la priorità per la profezia corretta perché essa è la più corretta!

7. Altrettanto indicativa di una posteriorità, come nota Strauss, è l'omissione di Marco (13:18) della seconda clausola di Matteo (24:20) «pregate che la vostra fuga non avvenga d'inverno né di sabato». Entro l'anno 150 il sabato aveva cessato di influenzare la vita dei cristiani dichiarati come tali, almeno al di fuori delle aree ebraiche; e per quel tempo i nove decimi dei cristiani esistenti erano in territori gentili.

8. La menzione scarna e trascurata della Tentazione (1:13), con la sua frase aggiunta «e stava tra le bestie selvatiche», è riconosciuta anche dai sostenitori della priorità di Marco comprensibile solo come una abbreviazione volontaria del racconto in Matteo, e tradisce un punto di vista teologico da cui l'episodio della Tentazione fu considerato con dubbio o avversione, forse in quanto più o meno incompatibile con l'opinione del potere di Satana tenuta dallo scrittore.

Tali sono le considerazioni generali che respingono in anticipo l'ipotesi che Marco sia il più antico dei quattro vangeli. La contro-argomentazione più forte non è qualcuna delle argomentazioni testuali che abbiamo considerato sopra, ma il fatto che Marco omette un tale corpo di dottrine come il Discorso della Montagna. Ma questa argomentazione è respinta dal fatto che quella lunga porzione è omessa a sua volta nel suo insieme in Luca, che fornisce solamente il «Discorso della Pianura» (6:20-38) e altre porzioni in punti differenti. Perché Luca accorciò e ruppe un mucchio di discorso etico che è normalmente apprezzato dai cristiani? Ci sono due possibili risposte. O la lunga porzione in Matteo non era in quel vangelo quando il vangelo di Luca fu composto, oppure i primi compilatori di Luca erano consapevoli del fatto che nel suo insieme non costituiva un materiale gesuano. In entrambi i casi, l'assenza della porzione in Marco non può dimostrare la sua priorità più di quanto la brevità del materiale simile in Luca dimostri quel vangelo antecedente a Matteo.

La prima tesi è probabilmente quella vera. La divergenza quasi invariabile nei termini rispetto al testo matteano negli innumerevoli passi in Giustino Martire, che si pretendono citati dal nostro primo vangelo, è una dimostrazione convincente del fatto che Giustino aveva davanti a sé un'altra collezione. E questa visione è confermata dalle sue divergenze sotto altri aspetti. «Marco», allora, semplicemente non trovò in «Matteo» il Discorso della Montagna come l'abbiamo noi. Anche l'ordine, evidentemente derivato da qualche altra fonte, in Giustino è abbastanza diverso.

In questo caso, infine, la vera e cruciale difficoltà è quella implicata da coloro che considerano Marco il più antico dei vangeli canonici, e che preserva le reminiscenze di Pietro. Da quel punto di vista, come dev'essere giustificata l'omissione del Sermone della Montagna? Sono disposti a dire che Pietro non aveva alcuna conoscenza sull'argomento tra i più lunghi e i più importanti dei discorsi attribuiti al Signore, oppure che, qualunque reminiscenze avesse, preferì trattenerle? In entrambi i casi, è chiaramente impossibile sostenere che l'assenza del Discorso da Marco impedisce di concluderne la posteriorità. È il fallimento totale degli apologeti marciani affrontare quei punti cruciali che alla fine ci autorizzano a liquidare il loro caso come un tentativo non scientifico di salvare il credo nella storicità di Gesù tramite una arbitraria rivendicazione documentaria.


IV

Finora, la nostra argomentazione contro la priorità di Marco è stata principalmente distruttiva e difensiva. Di recente è emersa, tuttavia, una tesi costruttiva che al presente scrittore sembra offrire una soluzione nuova e soddisfacente dell'intero problema. È esposta nell'opera di Hermann Raschke, Die Werkstatt des Markus-evangelisten — «Il Laboratorio dell'Evangelista Marciano» (Eugen Diederichs Verlag, Jena, 1924; in brossura, 7 marchi; rilegato, 8.50), uno dei numerosi grandi lavori tedeschi recenti su Marco di cui, di certo, non sentiamo nulla dal dottor Major. Trattare tutto il suo contenuto richiederebbe un volume; e a questo proposito deve essere sufficiente presentare brevemente la sua tesi più importante — vale a dire, che il Vangelo di Marcione fu reso il Vangelo di Marco.

A prima vista, questa è una tesi tanto difficile quanto quella così tanto discussa nei decenni centrali del diciannovesimo secolo e rianimata all'inizio del ventesimo dal signor P. C. Sense — che il nostro Luca sia sostanzialmente il vangelo di Marcione, ulteriormente redatto dopo il suo tempo, l'originale Luca essendo stato diverso. Tale opinione, a lungo mantenuta nella scuola di Tubinga, non ha mai guadagnato molto terreno, e fu presto abbandonata da alcuni che l'avevano tenuta. La sua difficoltà essenziale è che un vangelo di Luca, su una larga scala, era indiscutibilmente esistito, essendo citato senza posa da Tertulliano nella sua polemica contro Marcione.

Ma l'ipotesi di Raschke si regge in realtà su un terreno di gran luogo più solido, non essendoci nessun ostacolo principale sul suo percorso. Infatti non esiste nessuna evidenza positiva per mostrare che quel che passò per «Marco» al giorno di Tertulliano fosse davvero un vangelo nel senso moderno. Il vangelo esistente, così spesso rivendicato come il primo, è precisamente il più difficile da rintracciare prima dell'ultima parte del secondo secolo. Non c'è assolutamente niente per dimostrare che Tertulliano lo conoscesse. L'ipotesi del signor Raschke, allora, vale la pena da valutare. 

Lettori inglesi non familiari con la storia ecclesiastica di Marcione (propriamente Markion), e della vasta letteratura moderna riguardo lui e il suo Vangelo, troverà un'inchiesta completa in 'La Storia del Vangelo e la sua Trasmissione' del professor F. C. Burkitt (1906, Lez. 9); un altra in 'Difficoltà Cristiane del Secondo e Ventesimo Secolo' del canonico Foakes-Jackson (1903); Un buon riassunto in 'Religione Soprannaturale' del signor Cassels (R. P. A.; parte 2, capitolo 7), e una sintesi interessante di Harnack nell''Encyclopaedia Britannica'. Marcione può essere definito il più grande eresiarca cristiano del secondo secolo, e la sua setta una dei più grandi «gruppi dissenzienti» nella storia cristiana antica per diversi secoli, dopodiché sembra essere stata assorbita nel movimento manicheo e in altri movimenti. Figlio, secondo racconti posteriori, di un vescovo di Sinope in Ponto, Marcione venne a Roma tra il 139 e il 142 e fu un attivo propagandista per una ventina d'anni. Producendo trattati che gli valsero la copiosa vituperazione di importanti Padri nel secolo successivo, e preparando per i suoi seguaci un vangelo speciale, che divergeva da quelli allora accettati dalla Chiesa, edificò una sua setta numerosa e diffusa, e pare avesse sognato di convertire tutta la Chiesa al suo credo speciale.

La questione, Quale era la sostanza del vangelo di Marcione? è stata abilmente e immensamente dibattuta. Si può rispondere solo dopo aver setacciato la calunniosa letteratura diretta da Tertulliano, Ireneo ed Epifanio contro il testo, che discutono pure le sue presunte carenze e i trattati eretici di Marcione e che sopravvivono solo frammentariamente nelle loro citazioni. In breve, l'accusa contro di lui era che avesse mutilato il Vangelo di Luca per soddisfare i suoi scopi eretici. Credendo come fece in un Dio di Grazia che non era il Dio degli ebrei e identificando quest'ultimo con il Demiourgos, il Dio Creatore dell'Antico Testamento, un semplice Dio di Legge, non concepì Gesù come il Figlio generato ma come il Figlio adottato del primo, e alla fine trionfante sul secondo, che nello spirito della legge portò alla sua crocifissione. Il vangelo di Marcione, allora, sarebbe stato adattato a quei punti di vista, anche se non li esponeva.

Consideriamo ora le accuse prevalenti dei Padri a caccia di eresie contro il vangelo fabbricato da Marcione: 

1. Era breve;

2. Non aveva nessuna Storia della Nascita;

3. Mancava parecchio dell'insegnamento del Signore.

Tutte e tre le caratteristiche si applicano all'esistente vangelo di Marco. E ora sorge la questione, Se quel vangelo fosse stato corrente come canonico al giorno di Tertulliano e di Ireneo, come mai arrivarono a parlare della cancellazione da parte di Marcione delle Storie della Nascita senza notare che sono omesse in Marco; oppure come mai arrivarono a commentare la brevità del vangelo di Marcione quando Marco era lungo meno della metà di Luca; oppure come arrivarono a denunciare Marcione per aver omesso gran parte del documento lucano sull'insegnamento del Signore quando Marco fece lo stesso? Il signor Raschke sostiene che (pag. 34) Ireneo fosse così completamente sotto l'idea fissa di una mutilazione di Luca da non riuscire a vedere identità del vangelo di Marcione con il Marco canonico. Questa è una concezione difficile. Come materia di fatto, Ireneo (3, 9:8), presentando la sua tesi mistica secondo cui i vangeli dovevano essere quattro, non di più né di meno, cita Marco come un vangelo che esordisce alla maniera del nostro testo, e che si esprime «in maniera concisa e rapida». Quello è in effetti ciò che denuncia Marcione di fare. Così sorge con insistenza l'interrogativo, se il testo esistente di Ireneo, una traduzione latina fatta alla fine del terzo oppure all'inizio del quarto secolo, rappresenti quel che Ireneo scrisse nel secondo.  Se lo rappresenta, la soluzione di Raschke deve reggere, poiché l'incoerenza dell'approccio nel trattato esistente è grossolana. Che Marcione avesse davanti a sé una raccolta primitiva di storie di miracoli, attribuite a Marco, è abbastanza concepibile; ma il nostro Marco non è la cosa disordinata descritta da Papia; e a parte il passo ivi citato non c'è niente, a mio avviso, in Ireneo che mostri qualche familiarità con il nostro testo. Se avesse avuto una copia davanti a lui, come poteva approvarlo mentre denunciava Marcione?

Lo stesso interrogativo si pone riguardo all'intera polemica di Tertulliano contro Marcione. Quel Padre scrive ('Contro Marcione', 4:2): «Noi stabiliamo, innanzitutto, che il Testamento [instrumentum] evangelico ha come garanti gli apostoli, ai quali era stato imposto dal Signore stesso questo compito di divulgare il vangelo. Se di esso se ne resero garanti anche i discepoli degli apostoli, essi, tuttavia, non furono soli......Infine, a noi forniscono primi la fede, tra gli apostoli, Giovanni e Matteo, ed essa ci viene ripetuta da Marco e Luca, tra i successori degli apostoli: questi traggono origine dalle medesime regole di fede, per quanto riguarda il Dio Creatore e il suo Cristo, nato da una vergine, completamento della Legge e dei Profeti»

Il conflitto tra questa asserzione e i fatti relativi a Marco è così diretto che è difficile comprendere come sia stato ignorato. Innanzitutto, «Marco» come sta, è descritto piuttosto falsamente come se dichiarasse che Gesù nacque da una Vergine. 

Ma non meno grande è l'ulteriore difficoltà che mentre Tertulliano cita frequentemente da Matteo, meno frequentemente da Giovanni, e centinaia di volte da Luca, non cita mai una volta Marco in tutta la sua polemica.

In terzo luogo, quando Tertulliano cita da Luca il passo sulla domanda «Che devo fare per ereditare la vita eterna?» (18:18), non fa alcuna allusione di sorta al verso 19a, «Perché mi chiami buono?», sebbene discuta il resto del verso. Ora, noi sappiamo che fu descritto da Ippolito che Marcione sottolineava la domanda: «Perché mi chiami buono?», e da Epifanio che Marcione leggeva: «Non chiamarmi buono». Sorge la domanda, allora, se esisteva per Tertulliano il testo di Luca 18:19. Ma se noi interpretiamo Marco 10:18 anni, come fecero i Padri successivi, vi sorgono altre due questioni: (1) Se il testo originale di Marcione potesse essere stato modificato; e (2) se Ippolito ed Epifanio fossero a conoscenza di entrambi i testi di Luca e Marco quando censurarono Marcione. 

Quelle, comunque, sono difficoltà secondarie. Il mistero principale è che Tertulliano, dichiarando, come cita il suo testo, di avere un Marco, non lo cita mai una volta; e, descrivendo Marcione come eliminatore delle narrative preliminari di Luca, non cerca mai di spiegare la stessa procedura in Marco. O la sua allusione a Marco è un'interpolazione nel suo testo, e il passo in corsivo sopra costituisce un'altra, oppure il Marco in suo possesso era un documento completamente diverso dai nostri — presumibilmente un semplice racconto di opere meravigliose, come quello che Papia sembra suggerire, con nessun insegnamento di sorta. Se quest'ultima alternativa è considerata improbabile, l'altra difficilmente può essere definita così. La corruzione dei testi dei Padri è uno scandalo fin dai tempi di Erasmo.


V

Così insuperabile è questa difficoltà dal punto di vista tradizionale che siamo indotti da subito a domandarci se il vangelo di Marcione, presunto fabbricato da un deliberato accorciamento di Luca, non sia sostanzialmente il documento conservato come il Marco canonico. Chiaramente Marco, così com'è, assecondava ampiamente il punto di vista di Marcione. Se egli non adottò Marco come noi lo abbiamo, non deve essere stato semplicemente perché esso non c'era? Non siamo obbligati a concludere che Marco così com'è (con debito conto di probabili modifiche dopo che fu adottato dalla Chiesa in generale) fu realizzato da Marcione; in gran parte da Luca, ma anche da Matteo e da altre fonti? Epifanio definì il vangelo marcionita un Luca privo dell'inizio, del mezzo e della fine, «come un mantello divorato dalle tarme». Come commenta il signor Raschke, questa descrizione si adatta perfettamente a Marco.

Quando arriviamo alle accuse specifiche di mutilazione, la supposizione è confermata. Epifanio, per esempio, si lamenta che il vangelo di Marcione  mutilasse il testo su Giona, dicendo semplicemente che «nessun segno sarà dato», e manca la menzione di Ninive e della Regina di Saba e di Salomone. Ma tutto questo vale per il nostro vangelo di Marco! Come dice il signor Raschke, Epifanio stava commentando sul testo di Marco. Quando ancora altre accuse patristiche di mutilazione contro Marcione si trovano riflesse su Marco, e ulteriori accuse di aggiunta a Luca si trovano parimenti applicabili a Marco, la conclusione, vangelo di Marcione = Marco, diventa così pressante che solo una nuova serie di prove, che spieghino quelle strane coincidenze, possono respingerla.

Né basterà produrre da Marco testi che possano sembrare incompatibili con un'origine marcionita. L'accettazione definitiva di un vangelo marcionita da parte della Chiesa comporterebbe sicuramente qualche misura di adattamento. Il nostro Marco è stato apparentemente mutilato alla fine, e poi finito da un'altra mano. Inoltre, i Marcioniti sono descritti dal Padre mentre sono a loro volta intenti ad alterare il loro vangelo di giorno in giorno. D'altro canto, l'ampia diffusione del testo marcionita può spiegare benissimo l'accettazione da parte della Chiesa di un vangelo a cui mancavano le storie della nascita e molto altro. La sua brevità potrebbe essere stata trovata vantaggiosa dai Marcioniti; e le attrazioni che ovviamente servivano loro avrebbero servito la Chiesa nella stessa maniera. Che Marco sia stato guardato con diffidenza nella chiesa primitiva è ammesso dovunque.

Un'ipotesi generale si presenta. Ci viene detto riguardo a Marcione che verso la fine della sua vita cercò di essere ricevuto di nuovo nella Chiesa, e si dispose a invitare i suoi seguaci a ritornarvi con lui, ma gli fu impedito dalla morte. Il nostro Marco, allora, potrebbe essere il suo vangelo, con l'aggiunta preliminare dei primi venti versi, e altre modifiche. Secondo Tertulliano, il suo vangelo cominciava con un resoconto della venuta di Gesù a Cafarnao, e col suo venir salutato nella sinagoga come il Santo di Dio. Marcione potrebbe aver aggiunto il materiale precedente a titolo di accomodamento parziale; oppure uno della sua setta potrebbe averlo fatto. Una mano ortodossa difficilmente si sarebbe limitata con così poco. 

Da questo punto di vista, il vangelo di Marcione nella sua forma originale potrebbe benissimo aver continuato a circolare nella sua stessa setta, mantenendo quella forma per Tertulliano. Come il dottor Burkitt confessa candidamente, [6] «uno dei problemi irrisolti della letteratura del Nuovo Testamento è fornire le ragioni per cui Marco divenne parte del Canone della Chiesa». Esiste una soluzione migliore di quella suggerita sopra?

Infine, ci sono aspetti dottrinali speciali di Marco che un'origine marcionita spiega meglio. Gli anglicani che lo stanno ora proclamando come il vangelo di un testimone oculare pongono particolare enfasi sulla sua assoluta proibizione del divorzio. Ma quello è dichiarato un elemento che era stato nell'insegnamento di Marcione! Negando che Marco possa aver avuto Matteo di fronte a lui, il reverendo Arthur Wright ('Alcuni Problemi del N.T.', 1898, pag. 264) domanda: «Che sorta di cristiani avrebbero desiderato di ottenere la brevità in cambio della rimozione della storia della nascita di nostro Signore, del Discorso della Montagna,......con le parabole più lunghe e molto materiale discorsivo?» La risposta ora si intromette: «Cristiani eretici, come i Marcioniti sono stati a detta dei Padri che li denunciarono». Così con il passo, sottolineato da Schmiedel come biografico, in cui gli amici e i parenti di Gesù parlano di lui come «fuori di sé». Anche quello potrebbe provenire da eretici anti-giudaici.

Una delle notevoli differenze tra Marco e Matteo è che al primo mancano quei quattro testi matteani: 

11:25. «Gesù...disse, Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra»

— 26. «Sì, Padre, perché così ti è piaciuto».

— 27. «Ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio, ecc.».

29:19. «Battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

I soli passi in Marco che nominano così il Padre sono:

13:32. «Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno li sa......neppure il Figlio, ma solo il Padre».

14:36. «Abbà, Padre, Ogni cosa ti è possibile».

Il dottor Burkitt, [7] al termine del suo capitolo sulla Originalità Letteraria del Vangelo di Marco, approva esplicitamente la dichiarazione di Wellhausen che «Marco era noto agli altri Sinottici nella stessa forma e con gli stessi contenuti che noi abbiamo ora». Eppure nella pagina precedente egli approva «l'ipotesi che il Discorso Escatologico in Marco 13 circolasse senz'altro un tempo nella sua forma presente, come un documento separato; e che probabilmente da da questo documento, e non dai vangeli, fu derivato il capitolo escatologico alla fine della Didaché». Ma se il Discorso Escatologico è riconosciuto essere così separabile, la conclusione naturale è che si tratta di un'aggiunta a Marco, proprio come la storia della Passione è un'aggiunta a tutti i vangeli. Allora Marco è lasciato senza alcuna menzione del «Padre» nella sua forma primaria; e questo è esattamente ciò che potremmo aspettarci nel vangelo di Marcione, a cui ripugnava la concezione di Gesù come il figlio di Jahvè.

Il dottor Major (pag. 15) attribuisce a Marco una Cristologia «primitiva». Ma era l'esplicita pretesa di Marcione che i principi del cristianesimo fossero stati corrotti, e che i veri cristiani dovevano ritornare alla pura dottrina paolina. Il dottor Major implica che Marco incarni l'antico «giudeo-cristianesimo», e sia pre-paolino nella dottrina. Ma ora è riconosciuto da molti studiosi che la Cristologia di Marco è paolina, come lo era quella di Marcione. Il dottor Major, che non fa mai sapere ai suoi lettori che ad opinione di M. Loisy, Marco non può essere l'opera di un seguace di Pietro, o che ad opinione di Schmiedel Pietro non è mai stato a Roma, sta semplicemente recitando la parte dell'avvocato capzioso. Ed è come risultato della perdita di visione critica comportata dall'argomento specioso che lui cita l'osservazione che un'accusa di speciale ottusità contro i discepoli «si trova soltanto in Marco». Quello non è un segno di «giudeo-cristianesimo» ma di Gentilismo. La tesi di Raschke non ha ancora affrontato il guanto di sfida della critica; ma essa è la plausibilità stessa in contrasto all'altra.


VI

Uno studio completamente scientifico del problema di Marco, è chiaro, ora deve comportare un approccio da un punto di vista deliberatamente imparziale. Deve dare il giusto peso ad ogni ipotesi, compresa quella di Raschke, riconoscendo che l'approccio a priori della maggior parte dei partigiani di Marco, da Wilke a Major, è insostenibile; che le loro argomentazioni sono soddisfacenti solo per coloro che iniziano con la loro presupposizione; e che solo ipotesi che tengano ragionevolmente conto di tutti i fenomeni possono passare per valide. Questo esame completo comporterà, per il vero studioso, il confronto con il metodo teorico del dottor Arthur Drews, sviluppato nel suo trattato su 'Das Markus-Evangelium' (1921), prima della pubblicazione di Raschke, e del suo 'Die Entstehung des Christentums' (1924). Uno studio ricercato potrebbe concludersi nella sfida dei più nuovi metodi interpretativi su molti punti; ma si tradurrà in una presa molto più stretta del problema di quanto non sia stata possibile sui principi apologetici attualmente resi popolari dai sacerdoti anglicani «progressisti». Questi pubblicisti — tra cui dovremmo distinguere il dottor Burkitt — differiscono dai loro colleghi ortodossi solo nel sostituire un sentimento quasi biografico ad un sentimento che si aggrappa all'intera tradizione soprannaturalista: non hanno subordinato in alcun modo il sentimento alla ricerca della verità scientifica.

E il loro lavoro in ultima istanza è vano, perché non fanno che conservare una figura di Gesù che non può essere portata in relazione costruttiva con l'origine del movimento cristiano. Il vangelo di Marco non rivela un primo vangelo di Gesù più di quanto lo rivelino gli altri. «Supponendo di aver concordato sul fatto che Marco fosse il primo dei quattro vangeli», ho chiesto una volta ad un seguace semi-semi-ortodosso di quella opinione, «cosa pensi che si guadagnerebbe verso l'instaurazione di una fiducia nella storia evangelica, come la chiami tu?» «Bene, che vi era stato un uomo reale chiamato Gesù Cristo, che i suoi discepoli non credevano nato da una vergine», è stata la risposta. «E che ha insegnato ai suoi discepoli — che cosa?» A quel punto

qualcosa sigillò 

Le labbra di quell'evangelista,

che all'improvviso sembrò intuire che un Maestro la cui azione principale consistette nello scacciare demoni e a dire «Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino», non può aver avuto che poco lavoro per dodici discepoli, che potevano operare sui demoni soltanto in sua assenza.

Infine tutte le improvvisate biografie di Gesù ci portano così al problema della sua presunta azione storica — il suo insegnamento immateriale per un nebuloso apostolato che non rivelò mai ciò che era stato il suo vangelo, e il cui presunto tentativo di fabbricare un vangelo di lui come un sacrificio fu integrato da un mucchio di insegnamento etico che non può essere considerato alla luce della critica proveniente da lui o da loro. Il problema storico dell'Origine del cristianesimo rimane il problema ultimo, e alla sua soluzione il Vangelo secondo Marco non contribuisce nulla, tranne che nel rivelare, all'analisi, la propria artificiosità. 

Il dottor Burkitt pronuncia la nota dichiarazione (pag. 79) che Marco è l'unico vangelo che «dà un resoconto comprensibile» del processo mediante il quale Gesù venne in conflitto decisivo con le autorità ebraiche. Se è così, la conclusione potrebbe anche essere che sia l'opera di uno scrittore che crea un certo ordine storico da un caos presentato dai suoi predecessori. Ma la tesi del dottor Burkitt sul principale intento di Gesù difficilmente risolverà le difficoltà del caso. Essa consiste nel fatto, a quanto ho capito, che ad una fase piuttosto precoce del ministero, Gesù si dedicò principalmente ad istruire i suoi discepoli. Il lettore si domandi, dopo aver riletto Marco, cosa ci sia da mostrare per l'ipotesi.


NOTE

[1] “Molti hanno considerato l'assenza di ogni schizzo dell'infanzia e della fanciullezza del Salvatore in Marco come una prova conclusiva della priorità del suo Vangelo” (Bleek, Introd. to N. T., traduzione inglese, 1869, i, 265).

[2] Si veda il suo Jesus by an Eye-Witness, 1925.

[3] Il dottor Major (pag. 37) afferma che “la doppia frase di Marco mette in evidenza quello che solo chi era presente avrebbe ricordato. La sera era la sera del Sabato”; e in quanto ebrei non potevano portare i loro malati finché il sabato non fosse finito. Questa argomentazione, come molte delle argomentazioni del dottor Major, è vecchia di oltre sessant'anni (Introd. di Bleek, traduzione inglese, 1869, i, 313); ma la vecchia apologia per cui Matteo e Luca potrebbero aver diviso involontariamente l'espressione più completa [di Marco] tra di loro” è più circospetta di quella del signor Smith. La risposta all'intera argomentazione del “testimone oculare” qui, comunque, è che il contesto non dice nulla di un giorno di sabato. Né questa ipotesi è necessaria; la conclusione è semplicemente che i malati dovevano essere portati solo al fresco della sera. E quando Marco combina «gli condussero tutti i malati e gli indemoniati», dove Matteo 8.16, ha «gli presentarono......molti indemoniati ed egli......guarì tutti i malati», e Luca 4:40, ha solo «sofferenti di varie malattie», l'ipotesi di una scelta “inversa” da parte di Matteo e Luca diventa fantastica. 

[4] C'è da notare, tuttavia, che lo scrittore può aver visto un quadro sull'argomento.

[5] Krabatos non è naturalmente una parola classica. Ma è ancora usata, con l'antica ortografia krabbatos, nella versione greca moderna del N. T., in Marco e Giovanni, mostrando che era ed è una parola corrente in Grecia. Ricorre anche due volte in Atti. 

[6] The Gospel History and its Transmission, edizione 1925, pag. 61.

[7] The Gospel History and its Transmission, 3° edizione, pag. 64, che cita Wellhausen, Einleitung in die drei ersten Evangelien, pag. 57.


LETTERATURA PREPARATORIA

I seguenti libri sono raccomandati a studiosi volenterosi come utilmente introduttivi a qualsiasi indagine di ricerca sui problemi trattati nelle pagine precedenti: 

PROFESSOR G. A. VAN DEN BERGH VAN EYSINGA. La littérature chrétienne primitive. Parigi, Rieder; 1920. (nella serie «Christianisme» del dottor Couchoud).

— Radical Views about the New Testament. Tradotto dall'olandese. R. P. A.; 1912.

L. GORDON RYLANDS, B.A., B.Sc. The Evolution of Christianity. (Un'introduzione completa alla tesi mitica, partendo dalla letteratura mistica ebraica tra gli Apocrifi dell'Antico Testamento e i vangeli). R. P. A.; 1926.

Dottor ARTHUR DREWS. Die Leugnung der Geschichtlichkeit Jesu in Vergangenheit und Gegenwart. (Un prospetto della letteratura che espone la tesi mitica) G. Braun, Karlsruhe in Baden; 1926.

THOMAS WHITTAKER. The Origins of Christianity, con una Sintesi dell'Analisi di Van Manen della Letteratura Paolina. R. P. A. Nuova edizione con Prologo; 1914.

W. A. CAMPBELL. Did the Jews Kill Jesus? E il Mito della Resurrezione. New York:  Peter Eckler Publishing Co.; 1927.

Dottor GEORG BRANDES. Jesus: A Myth. Tradotto dal danese da E. Björkman. Brentano’s Ltd.; 1927.

Dottor PAUL LOUIS COUCHOUD. The Enigma of Jesus. Traduzione di Mrs. Whale di Le Mystère de Jésus. Con un'introduzione di Sir James Frazer. R. P. A.; 1924.

EDOUARD DUJARDIN. Le Dieu Jésus. Parigi, Albert Messein; 1927.

venerdì 12 marzo 2021

EPILOGO

 (segue da qui)


EPILOGO

La tesi mitica, essendo un processo di induzione scientifica da una molteplicità di dati, è lontana dall'aver raggiunto una fase che possa definirsi «completamento». Al pari di ogni ipotesi veramente scientifica, resta in fase di revisione e sviluppo. Nelle pagine precedenti molti dei suoi aspetti non sono neppure indicati; e chi vorrebbe padroneggiarla deve andare più lontano. Ma può essere opportuno suggerire qui una evoluzione possibile, non suggerita in precedenza.

Il professor W. B. Smith ha richiamato l'attenzione sul fatto eccezionale ma poco riconosciuto che la Galilea, che recita un ruolo così importante nei vangeli, scompare completamente dalla storia della propaganda e dalla costruzione ecclesiastica del culto, dopo che è detto in Atti (9:31) che «la Chiesa era dunque in pace per tutta la Galilea» e che «la parola......incominciò dalla Galilea». D'altra parte, il dottor Burkitt ammette, parecchie volte, che «non ci furono mai dei cristiani in Galilea fino ai giorni in cui i cristiani dovevano trovarsi in ogni angolo dell'Impero». [1] Eppure non tenta mai alcuna soluzione dell'immensa contraddizione nella documentazione cristiana che è implicata in questa ammissione. I teologi trascurano questioni così profondamente sconcertanti come trascurano il fatto altrettanto impressionante che mai, nelle Epistole o nell'Apocalisse, Gesù venga chiamato «di Nazaret» o «Nazirita», o «Nazareno». Di tali fenomeni, ignorati dagli storici, la tesi mitica deve tener conto.

Il presente scrittore (descritto una volta nel Hibbert Journal come un negatore a priori della storicità di Gesù) in realtà ha trascorso molto tempo cercando di costruire un teorema funzionante di tre possibili Gesù storici; uno il Gesù sfuggente del Talmud, prima datato sotto Alessandro Ianneo; uno un Nazirita;  uno non un Nazirita, e quindi dichiarato «di Nazaret», in modo da eludere l'altro termine. Il teorema non poteva essere portato oltre la fase dell'ipotesi non supportata, e dovette essere abbandonato. Ma la collocazione in Galilea del nucleo della parte narrativa dei vangeli sinottici solleva per il miticista l'interrogativo, Perché quella collocazione, quando non c'era nessuna Chiesa galilea esistente?

Là si suggerisce l'ipotesi che vi potrebbe essere stato un Gesù «operatore di meraviglie» della regione di Genesaret, non un Maestro, non un predicatore di logia, non il capo di una banda di Dodici Discepoli, non crocifisso sotto Ponzio Pilato, ma solo un «guaritore» orientale che per un po' si fece una reputazione locale, che più tardi suggerì ad alcuni degli adoratori del Gesù pre-cristiano l'idea di utilizzare retrospettivamente la sua fama per favorire il loro culto; la cui «pietra angolare» era il sacramento mistico. Un'impresa del genere avrebbe comportato l'invenzione di molti «segni e meraviglie», come più tardi comportò la compilazione dei logia Jesou.

Si supponga, ancora, che questo rozzo operatore di miracoli si fosse messo in rilievo come il «Gesù Bar-Abbas» — Gesù il Figlio del Padre — di un antico culto palestinese, che avrebbe potuto meglio sopravvivere in Galilea, e forse in Samaria (la terra della tradizione di Giosuè), piuttosto che in Giudea; un rito che, una volta un rito di sacrificio umano annuale, [2] era diventato esotericamente un rito di finto sacrificio, e associato esteriormente così al culto sacramentale, che era stato principalmente un culto di un reale sacrificio umano. La fama dell'operatore di miracoli avrebbe potuto così espandere a livello locale il Gesuismo. 

Il punto principale dell'ipotesi è che essa spiegherebbe la preservazione nei vangeli, ad una fase successiva, di uno sfondo galileo. Il suo punto debole ovviamente è che se il rito di Bar-Abbas fosse sopravvissuto principalmente in Galilea, quella base avrebbe potuto bastare senza alcun prominente operatore di miracoli. Una selezione annuale, come quella apparentemente avvenuta ad Alessandria, [3] potrebbe essere stata sufficiente a creare una fama galilea per il nome. Ma una fama particolare, che incorporasse racconti di guarigione, sarebbe servita meglio presumibilmente a fungere da nucleo per la leggenda successiva. 

Forse qualche «storicista» potrebbe accontentarsi di una ipotesi simile se fosse ampliata fino a comprendere un sacrificio reale di una vittima Bar-Abbas in qualche momento di tumulto sociale, il genere di situazione nella quale, si sa, le pratiche rituali antiche avrebbero potuto essere orribilmente rianimate — come nei sacrifici di bambini a Cartagine. Il ricordo di un sacrificio simile in Galilea naturalmente non sarebbe servito agli scopi del culto sviluppato più tardi di Gesù il Cristo. Quello doveva essere messo in scena a Gerusalemme e associato all'Impero Romano. La storia di un vero sacrificio galileo, l'opera di un fanatico bifolco, avrebbe dovuto essere soppressa per scopi propagandistici; anche se si sapeva che aveva avuto luogo. 

Un'ipotesi oscura, invero, che non concede nessuna «Personalità» ai suoi cercatori. La Figura costruita nei vangeli è un molteplice composito letterario, corrispondente a nessun individuo immaginabile. L'ipotetico operatore di miracoli, l'ipotetico Bar-Abbas, deve essere concepito come un squilibrato piuttosto che come una persona straordinaria o dotata. Questo non è un rintracciamento del «Gesù dei vangeli» ad un originale: il suo «originale» è un antico Dio del folclore, sprovvisto di tempio o sacerdozio, trasformato da uomini letterati in un Maestro come pure in un Messia operatore di miracoli. Ma questa ipotesi suggerisce una spiegazione, non offerta da parte «storicista», della collocazione in Galilea di gran parte della storia evangelica. Come tale, può valere la pena considerarla. Essa spiegherebbe, tra le altre cose, il testo: «Dopo la mia resurrezione, vi precederò in Galilea»

Se il lettore, intimidito dalle negazioni truci di alcuni degli anti-miticisti, dovesse rispondere che non c'è un motivo documentario per l'ipotesi del culto di un Gesù precristiano, si assicuri che è stato ingannato. Ci sono motivi nella tradizione ebraica, così come nel libro di Zaccaria, per la convinzione che un antico culto di Gesù soggiace alla leggenda dell'innegabilmente non-storico Giosuè dell'Antico Testamento. E quei motivi non sono mai esaminati dai difensori della storicità del Gesù evangelico. Né i commentatori ebrei né i commentatori cristiani affrontano in ultima istanza il fatto che nella tradizione ebraica «talmudica» c'era un «Gesù, il Principe della Presenza», e un rito de «La Settimana del Figlio», [4] chiamato da alcuni «La Settimana di Gesù il Figlio»

Come si nota a margine della Versione Riveduta, «molte autorità antichissime leggono Gesù» (= Giosuè) invece di «il Signore» nell'Epistola di Giuda, verso 5; e, come è stato sottolineato dal signor Thomas Whittaker, quel passo, che allude chiaramente a Giosuè, gli attribuisce uno status divino. L'esistenza di un antico culto di Gesù entro il mondo ebraico è indicata così nello stesso Nuovo Testamento; e una raccolta dei passi in Esodo 23:20-24; Giosuè 24:11, stabilisce Giosuè come una figura divina, su un piano più elevato di Mosè. E quando a sua volta (Giosuè 4:2) figura mentre sceglie dodici per i suoi scopi, il  parallelo è abbastanza significativo.

Il cosiddetto «Vangelo dei Dodici Santi Apostoli», come preservato nella versione siriaca, comincia così: 

«L'inizio del vangelo di Gesù il Cristo, il figlio del Dio vivente, secondo come è detto dallo Spirito Santo, Io mando un angelo davanti al suo volto, che preparerà la sua via».

Questo non è detto, come nei sinottici, a proposito di Giovanni il Battista: di lui non si fa menzione nel documento. Ed esso contiene sostanzialmente la stessa espressione usata in Esodo 23:20: «Io mando un angelo davanti a te per proteggerti lungo la via», che si risolve in una predizione della conquista di Giosuè, il personaggio assolutamente non-storico del libro chiamato col suo nome. 

Se poi, infine, il Libro di Giosuè, come è generalmente ammesso dagli studiosi, è del tutto non-storico, (1) su quale nome e su quale tradizione derivò la storia; e (2) se l'intero Libro di Giosuè fosse una fabbricazione sacerdotale non-storica, perché un documento egualmente non-storico non dovrebbe essere stato fabbricato più tardi riguardo Gesù il Cristo?

NOTE

[1] Christian Beginnings, pag. 84. Confronta pag. 76, 89, 97.

[2] Si veda The Jesus Problem, pag. 32-39; e Pagan Christs, come ivi citato.

[3] Si veda The Jesus Problem, come citato.

[4] Si veda The Jesus Problem, pag: 85-88, e Pagan Christs, pag. 162-167.

LA RESISTENZA ALLA TESI MITICAL'Argomento A Priori

 (segue da qui)

III. — L'ARGOMENTO A PRIORI

§ 1. Sua Moda e sua Nullità

Siamo lasciati così con il familiare argomento a priori, quando tutte le forme di ragionamento a posteriori per la difesa sono state trovate invalide. E l'argomento a priori, prima facie, in realtà è più plausibile dell'argomento manifestamente a posteriori del dottor Burkitt: «Maggiore è la finzione, più certa è la grandezza della Personalità così abbellita». L'apriorista comune non si inventa un paralogismo così esplicito. Lui sostiene semplicemente che un movimento così straordinario, un insegnamento così straordinario, deve iniziare da una Personalità unicamente potente; e che l'espansione di favole e di finzioni avviene nel modo consueto della ierografia antica. 

Inoltre, il presupposto non è limitato ai cristiani o ai teisti. È stato avanzato con veemenza da Sir J. G. Frazer, venti anni fa, con riferimento generale ad una discussione allora agli inizi. Dato che egli non ha replicato alla confutazione critica fatta allora,  e ha fornito più di recente una prefazione non antitetica alla traduzione inglese di Le Mystère de Jésus di Couchoud, che sostiene la tesi mitica, si potrebbe supporre che l'illustre antropologo ha riconosciuto che il suo disprezzo e il suo ragionamento sono stati parimenti frettolosi, e che i suoi stessi canoni mitologici erano contro di lui. Ancora, altri agnostici possono sostenere e sostengono la posizione generale che «ci deve essere stato» un Gesù storico, corrispondente in gran parte alla figura evangelica. Ma come possono sostenere la tesi?

È abbastanza ovvio che la posizione è dettata da una rivolta spontanea contro l'idea che un grande «fatto storico» come la Chiesa cristiana e il suo credo, con la cronologia dell'«era cristiana», possano essere sorti per una pura finzione e illusione. Quella conclusione sembra anche umiliante per lo spirito umano, troppo affetto dal senso istintivo di «realtà», per permettere la sua accettazione. Ma che cosa della novità storica implicata in un tale teorema? La datazione della Nascita di Cristo fa il paio con la datazione dell'inizio del mondo, e con la datazione altrettanto speculativa della fondazione di Roma. E non è tutto. Fino all'altro giorno, essa era il terreno comune di tutti i cristiani su cui si fondava la loro fede nel «fatto della Resurrezione».  Certamente lo è stato, per quasi ottocento anni. E quanti uomini istruiti credono ora nella Resurrezione?

Nell'abbandonarla, gli «storicisti» confessano che una vasta illusione può produrre un grande processo storico, una serie colossale di istituzioni. Per il resto, è solo l'eredità dell'arroganza cristiana che induce gli uomini a insistere che l'illusione non può essere stata la fonte principale della religione della loro civiltà quando danno per scontato, senza neppure restare a discutere il problema, che l'illusione era la fonte principale delle religioni millenarie dell'oriente, dell'Egitto, della Grecia e della Roma pagane, e del vasto marasma degli animismi dei selvaggi.

Nel diciottesimo secolo l'argomentazione che è ora invocata per stabilire la storicità di Gesù è stata avanzata con altrettanta sicurezza per stabilire la verità soprannaturale dell'intero schema della teologia cristiana che gli stessi storicisti hanno abbandonato. È stata avanzata così dal vecchio Young, con il pio assenso di Cowper:

«La caduta dell'uomo, la redenzione dell'uomo e la resurrezione dell'uomo, i tre articoli cardinali della nostra religione, sono tali che l'ingegno umano non avrebbe mai potuto inventarli, perciò devono essere divini». [1]

Un'epoca che ha accumulato una tradizione di antropologia sconosciuta a Young e a Cowper può rendersi conto che una tale argomentazione non equivale esattamente a nulla. Il suo uso successivo, allora, è più efficace?

La risposta generale a Sir J. G. Frazer è stata che la presunta necessità di una «potente Personalità» non convalida minimamente la particolare ipotesi fatta, visto che un certo numero di personalità potenti potrebbero essere state coinvolte nella creazione dei vangeli, proprio come profeti potenti proclamarono la realtà di Jahvè e consegnarono i suoi messaggi. Su questo punto, invero, abbiamo da un accesso oppositore della tesi mitica una dichiarazione che costituisce una profonda breccia nella tesi della Personalità, come avanzata di solito. È il defunto dottor Estlin Carpenter che scrive: [2] «Coloro che auspicano che la Chiesa deve tornare 'indietro a Gesù' non devono mai dimenticare che se non fosse per Paolo non ci sarebbe stata affatto (umanamente parlando) nessuna Chiesa».

Vale a dire, la Grande Personalità (acclamata come tale dal dottor Carpenter) non avrebbe potuto raggiungere, senza l'opera di Paolo, l'influenza storica che è in realtà il terreno principale su cui l'apriorista medio tiene per certa l'esistenza della suddetta Personalità. La collisione delle due difese è sicuramente fatale ad una delle due. A quale?

Un teologo forse più grande del dottor Carpenter, il rinomato F. C. Baur, avanzò in un'altra forma una tesi equivalente con le sue parole: «Quanto presto tutto ciò che di vero e di importante insegnato dal cristianesimo sarebbe stato relegato nella categoria dei detti a lungo sbiaditi dei nobili filantropi e dei saggi pensatori dell'antichità, se i suoi insegnamenti non fossero diventati parole di vita eterna nella bocca del suo Fondatore! In altre parole, i dogmi della Figliolanza Divina, del Sacrificio Divino, della Salvezza Eterna per Fede, sono le vere fondamenta e i fattori effettivi nel mantenimento della Chiesa: non l'inferita Personalità umana. Una Personalità, per quanto grande, non sarebbe bastata senza l'apparato del dogma. Se questo è vero, l'argomento «deve»  è già fatto a pezzi, se non svuotato.

Inverti la logica del ragionamento, e arriviamo di nuovo alle posizioni già indicate in merito alla indiscussa vitalità dei culti alla storicità dei cui «fondatori» nessuno ora ci crede. Se milioni di uomini potevano adorare durante migliaia di anni un Osiride, un Krishna, un Adone, in virtù di abitudine e di efficienti organizzazioni sacerdotali, quanta maggior ragione vi è per ricavare grandi personalità principali dietro quei nomi rispetto ai casi di Bel e di Brahma, di Jahvè e di Zeus?

Non c'è bisogno di un Fondatore per stabilire un'intensa convinzione della Divinità. Al tempo di Platone, se possiamo basarsi sul dialogo nelle 'Leggi', alcuni uomini erano capaci di un feroce risentimento per la negazione della divinità del Sole. La sua descrizione da parte di Anassagora come una grande massa incandescente più grande del Peloponneso destò in loro uno spirito di rappresaglia omicida. [3] Supporre che solo una vera personalità possa provocare la devozione di innumerevoli migliaia per intere epoche equivale ad annunciare una sostanziale ignoranza del contenuto della ierologia.


§ 2. Sua Analisi

L'argomentazione apriorista, come abbiamo visto, è già smentita dalla maggior parte di coloro che la usano per le dichiarazioni fatte dai loro alleati. Ognuno, al di fuori del recinto della cieca fede al cui interno gli uomini credono nell'Ascensione, riconosce il mito da qualche parte nei documenti. Gli studiosi che da soli si sono rovellati con quelle pagine hanno rinunciato alla Nascita Verginale, alla Resurrezione, ai miracoli, alla missione dei Settanta, al  processo davanti a Erode, a molti dei logia, e alla storicità del Quarto Vangelo in generale. Cheyne ha rinunciato al Tradimento di Giuda; e ha confessato privatamente di aver «temuto che la Crocifissione avrebbe dovuto essere abbandonata». [4] Loisy rinuncia al Processo Notturno, e confessa che se il processo di fronte a Pilato può essere efficacemente messo in discussione non vi è lasciata più alcuna base per un Gesù storico. E quanti studiosi seri possono convincersi che il processo di Pilato, come descritto, potesse davvero aver avuto luogo? E se tutto o la maggior parte di quelle cose siano mito, cosa è lasciato? 

Loisy, irritato dalle pressioni della tesi mitica, protesta che noi non possiamo spiegare l'«incendio», per così dire, del movimento cristista, senza un «fiammifero»; e dove, chiede, è il fiammifero, se non nella Personalità? Dov'era allora il «fiammifero» per il Mitraismo? O per lo Jahvismo? O per l'Osirismo? O per il culto di Dioniso? L'esperto studioso sembra aver riflettuto poco sulla ierologia in generale — un fatto in linea con la qualità intuizionista del suo metodo. La vera radice prossima del culto di Gesù, il sacramento segreto che si sviluppa nel dramma misterico, è la «lampada sempre accesa» nel caso del  movimento cristiano, proprio come i riti erano i fattori vitali negli altri casi.  Chiama la lampada un «fiammifero» e la sfida è raccolta. Si noti che un numero di altri movimenti possono essere visti fondersi con il movimento Cristista, [5] e i «fiammiferi» sono moltiplicati. 

Ma Loisy non è da solo, lui è con l'esercito principale di teologi, nel suo fallimento di vedere giustamente i lati economici e socio-politici delle religioni in generale. Non per dirlo profanamente, essi non hanno nessuna sociologia, anche se a volte sociologizzano sopra un dettaglio. Sarebbe difficile nominarne uno che abbia constatato quei tre fatti salienti:

1. Il giudaismo fu preservato dopo la caduta politica degli ebrei da un'organizzazione popolare internazionale, dai fattori cooperanti del sacerdozio del tempio, della sinagoga organizzata secondo il rituale, e dei Testi Sacri.

2. Il cristianesimo si modellò in origine, relativamente all'organizzazione, sulla sinagoga, aggiungendo anche il fattore dei Testi Sacri, e sviluppando un'organizzazione sulle linee della struttura imperiale, infine impiegando la conquista alla maniera dell'Islam quando si era identificato con lo Stato.

3. Il Mitraismo, che, come culto adottato dall'esercito romano dal tempo di Pompeo in poi, fu un perdurante rivale del cristianesimo per quattro secoli, anche senza Testi Sacri, scomparve non per mancanza di una Personalità ma a causa della mancanza di un adattamento organizzato alla vita generale quando l'esistenza dell'esercito romano volgeva al termine. Era una massoneria, affiancata da una ecclesia quasi-democratica che era organizzata dappertutto per penetrazione, e dappertutto ricavava entrate.

I culti sopravvivono nella misura in cui sono progettati per sopravvivere. Il Mitraismo non ha mai cercato di essere reso popolare da parte dei suoi adepti; invece essi accarezzavano un rituale segreto e misterico, adattato esplicitamente alla vita dell'esercito; e nell'Impero Romano il Mitraismo non fu mai qualcosa di diverso. [6] Il Cristismo significava dal principio un sostentamento per i suoi «profeti», con in più l'attrazione dell'influenza settaria. Vi erano altri culti del Salvatore che non erano mai destinati a propaganda o diffusione, sussistendo piuttosto nel loro modo limitato per il loro stesso esclusivismo. [7] Solo l'ebraismo e il Cristismo, in quell'epoca e in quel mondo, erano sistematici nel proselitismo internazionale, nell'organizzazione, nell'ufficializzazione, e nella estrazione regolare di introiti, sforzandosi di essere allo stesso tempo popolare e gerarchico; e la Chiesa cristiana derivò chiaramente il suo ideale d'azione e la sua pratica dal modello ebraico. I culti secolari dell'Egitto, sussistendo sulle loro vaste donazioni terriere come pure sul sistema economico delle offerte per le anime dei morti, sarebbero perdurati per sempre se non fosse per una pura e semplice disfatta militare; e fu infine per pura e semplice violenza che il clero cristiano distrusse o depredò i santuari del paganesimo. Era una «sopravvivenza del più adatto ad impiegare la forza». Generalizzare i processi socio-politici ed economici come l'azione di una Personalità sulle anime spontaneamente beneficiarie equivale a fabbricare un'allucinazione verbale. 

Quando parliamo dell'importanza essenziale del fattore economico in tutta la storia religiosa, i saccenti ci informano ad alta voce che il fattore economico non può «spiegare» i credi che sono finanziati. Di certo non può. La causalità e la persistenza del credo religioso sono oggetto di una vasta letteratura che il saccente potrebbe studiare proficuamente, ma non lo fa. Avrebbe potuto apprendere così che nessun credo sussiste come un sistema popolare senza una base economica organizzata; e che le religioni di Babilonia e dell'Egitto, disponendo di tali basi, sopravvissero per migliaia di anni più di quanto sia probabile che sopravviverà la religione cristiana. 

Si potrebbero leggere cento trattati sulle origini cristiane senza destare attenzione ai fatti che balzano agli occhi negli Atti e nelle Epistole. Nei primi, si dichiara che il Peccato contro lo Spirito Santo è l'appropriazione indebita nel trasferimento di denaro alla Chiesa, in confronto a cui il Rinnegamento di Pietro è visto come un peccatuccio. Nelle epistole troviamo un Paolo combattente — o, come pensano alcuni di noi, drammatizzato come un combattente da uno pseudepigrafo di una generazione successiva — per i salari dei lavoratori nella vigna. Il testo (1 Corinzi 9:14) che dichiara: «Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il vangelo vivano del vangelo», tradisce chiaramente una mano successiva, che utilizzò un testo che era stato aggiunto al vangelo allo stesso scopo. 

Quelli erano il tipo di disposizioni necessarie per l'istituzione permanente di una Chiesa cristiana cosmopolita organizzata — quelli e gli sviluppi ulteriori dell'episcopato, dei Concili, dei primati, dei papati, che resero la Chiesa un valido strumento di organizzazione per imperatori e per sovrani, e così assicurò la persistenza del sistema attraverso l'abisso della decadenza. Dire che la Personalità ispirò l'organizzazione economica equivale a sfiorare il ridicolo. 


§ 3. La Tesi dell'“Impeccabilità”

Quando tali considerazioni di ierologia comparativa sono imposte (con difficoltà) alla riluttante attenzione dell'apriorista, la sua reazione consueta è protestare che il vangelo di Gesù sia sui generis, incomparabile, inavvicinabile, l'esponente di una nuova etica, il trasformatore di un mondo morente in un mondo rigenerato. La falsità essenziale dell'affermazione qui non ha bisogno di trattenerci in questo caso: noi siamo interessati al ragionamento. L'apriorista si esprime — in breve —, esattamente come fa un ardente buddista riguardo al «Buddha», la fede nel quale, come una Personalità reale, ha influenzato la vita di molti milioni più di quanti siano stati seriamente influenzati dall'amore di Cristo. [8] Per lo studioso scientifico di ierologia il Buddha non è una figura storica più di quanto lo sia Zoroastro, o Mosè o Gesù; sebbene in quel caso pure alcuni studiosi razionali affermano la «storicità». 

Ma il fatto eccezionale è che in tutti quei casi allo stesso modo la «Personalità» presentata è qualcosa di non umano, qualcosa concepito come soprannaturale, come straordinariamente grande, come inesprimibilmente buono, come originatore di ogni sorta di verità e di precetti che, nondimeno, sappiamo che non sono originati da nessun unico uomo; come a Jahvè e a «Mosè» si attribuisce un decalogo che nasce dalla legge preistorica e che incarna un codice reale.

Per raggiungere lo scopo della magnificazione, cioè, l'umanità è sistematicamente sottovalutata nella misura in cui la figura è esaltata. Il credito è tolto a moralisti senza nome, per essere accumulato su di esso. Moltissimi cristiani «istruiti» si sentono piuttosto sicuri che Gesù deve essere stato una figura estremamente «santa» perché si presume abbia prescritto, nel Discorso della Montagna, amore per i nemici — una cosa che all'uomo comune sembra «angelica». Gli studiosi cristiani possono dirgli che non c'è un elemento in quell'insieme di precetti che non fosse prima in circolazione, in forme ebraiche, molto tempo prima di «Gesù»; ma egli non legge i suoi studiosi, anche se considera la sua istruzione generale un mandato sufficiente per un rifiuto sprezzante della tesi mitica e per un'insolenza nei confronti dei suoi proponenti. 

Il fatto che tali polemisti, peccando loro stessi contro i canoni della rettitudine non meno che contro i canoni della cortesia, si trovino spesso convulsamente convinti della «impeccabilità» di Gesù, è particolarmente significativo. Quella dottrina, molto tempo fa resa popolare da Ullmann, è una delle pseudo-argomentazioni più frequentemente avanzate a sostegno dell'argomentazione a priori. Si ritiene [9] che il decano Inge pensa che essa sia l'ultima concezione su cui la Chiesa possa permettersi di lasciare la presa; e il professor Foakes-Jackson la impiega con la solita indifferenza professionale allo stesso modo delle difficoltà e delle risposte. Egli non sembra mai esserne consapevole. «Gesù come un uomo impeccabile», scrive, con  discutibile sintassi, «è un fenomeno non meno strano di uno su cui la morte non può avere nessun dominio...... L'impeccabilità del nostro Salvatore, dopo tutto, forse è una dimostrazione più completa della Sua natura Divina più di quanto possa esserlo qualsiasi miracolo». [10

Il professor Jackson ha dichiarato di aver fatto qualche meditazione sui problemi teologici; ma sembra averne fatto poca su questo. La tesi deve ovviamente prendere la forma: «Gesù come presentato nei vangeli è indiscutibilmente privo di peccato»; e, se ci deve essere davvero qualche argomento, il «peccato» deve essere definito nel senso ordinario «cristiano», come comprendente moti di ira, ingiustizia, deviazione dalla verità, eccetera. O, allora, tutto il normale uso verbale è categoricamente smentito, oppure ne consegue che la presunta azione di Gesù a Giuda, la sua descrizione degli avversari come «un nido di vipere»«figli del diavolo», la sua descrizione dei maestri precedenti come «ladri e briganti», il suo grave travisamento dell'insegnamento rabbinico in materia di «Corban», il suo votare a perdizione tutte le comunità che non ricevono ciecamente i suoi discepoli, la sua descrizione dei gentili come «cani», il suo cavillo sul tributo a Cesare — tutte le sue deviazioni dal codice di temperanza e di gentilezza e di scrupolosità del linguaggio che gli viene messo in bocca — sono rimossi dalla categoria di «peccati» perché affermava di essere il Figlio di Dio. [11]

È un circolo vizioso assoluto — a meno di non dover comprendere che le azioni specificate non sarebbero «peccati» da parte di un uomo comune. Finché ciò è asserito seriamente, l'argomento è ad una fine. È asserito sul serio?

A fronte di una tale trascuratezza del significato delle parole, da parte di un accademico e teologo moderato, è necessario sottolineare al lettore comune che la tattica degli uomini di chiesa in questa materia è una mera confutazione della forma di ragionamento che dichiarano di applicare. 

 Dire che il Gesù evangelico è una figura «unica» equivale a nascondere il problema con un termine ambiguo. A rigor di termini, ogni essere umano, e ugualmente ogni singolare personaggio fittizio, è unico. Il termine, anche per scopi comuni, è  applicabile alla regina Elisabetta, a  Maria regina di Scozia, alla regina Vittoria, a Giorgio III, tanto quanto a Socrate, a Platone, ad Alessandro o a Napoleone. Se vogliamo comprendere l'unicità come predicata a proposito di Gesù nei termini di un'impeccabilità rispetto a tutti gli altri uomini, la nostra negazione deve essere istantanea. Il Gesù evangelico non è più impeccabile, non è più unico, del Socrate storico, ed è meno impeccabile e meno unico del Buddha non-storico o del Licurgo non-storico, per non parlare dei molti esseri umani che non hanno mai fatto ricorso al linguaggio vituperoso messo in bocca al Gesù evangelico.

C'è motivo di pensare che il concetto di «impeccabilità» sorge ancora per molti cristiani, per quanto riguarda Gesù, nel rispetto del suo celibato. Non si deve supporre che quella concezione primitiva, tuttavia, appartenente com'è ad una morale barbarica, costituisca la posizione dei teologi che fanno l'asserzione del professor Foakes-Jackson. I buddisti sostengono che il celibato di Gesù, che non dovrebbe mai aver avuto sentimento sessuale, è come niente a confronto della rinuncia del Buddha.

La sintesi del dibattito, finora, deve essere che la dottrina della impeccabilità di Gesù non è solo una perversità morale in sé, ma una fonte feconda di perversione nella storia cristiana — parzialmente paragonabile a questo proposito alla santità del Pietro della Storia del Rinnegamento e della storia di Anania, e del Davide dell'Antico Testamento. Il fattore centrale è proprio il presupposto religioso che ciò che lo spirito religioso ritiene divino debba essere «giusto»; un presupposto che ha prodotto un sacco di ingiustizia deificata che costituisce così tanto della letteratura antica — indiana, persiana, babilonese, egiziana, ebraica, greca, romana, e cristiana. 

Si deve notare in tutta franchezza, ovviamente, che una convinzione della storicità e dell'importanza soprannaturale del Gesù evangelico è stata ed è tenuta da molti che non avanzano nessuna tesi di «impeccabilità», e invero riconoscono che questa tesi in effetti cancella quella della storicità, nella misura in cui presume, come afferma esplicitamente il professor Foakes-Jackson, un «miracolo». Renan, che ha fatto così tanto per stabilire il sentimento neo-unitariano sull'argomento, scioccò i suoi lettori più religiosi rappresentando realmente un Gesù che commise una «pia frode» in materia della taumaturgia in generale e nella resurrezione di Lazzaro in particolare; [12] proprio come il signor Middleton Murry, combinando le posizioni di De Quincey e del dottor Schweitzer, sostiene ciò che un critico descrive come una «congiura» tra Gesù e Giuda per attuare la Crocifissione. 

E Shelley, che è stato visibilmente influenzato da Rousseau, espone nel suo postumo 'Saggio sul Cristianesimo' un quadro luminoso di un filantropo filosofico e di animo nobile che nondimeno «fece quello che ha fatto ogni altro riformatore che ha prodotto qualche effetto considerevole sul mondo. Adattò le sue dottrine ai pregiudizi di coloro a cui si rivolse......Al pari di un abile oratore (si veda Cicerone, De Oratore), egli assicura i pregiudizi dei suoi ascoltatori, e li induce, con le sue dichiarazioni di simpatia per i loro sentimenti, ad entrare con uno spirito volenteroso nell'esposizione dei suoi stessi sentimenti......Questa condotta non sia considerata come un artificio indegno......Tutti i riformatori sono stati costretti a praticare questo travisamento dei loro veri sentimenti e delle loro vere opinioni». [13

Il «travisamento» così presunto e difeso da Shelley (che, come la moderna scuola biografica, era abbastanza sicuro di poter vedere gli elementi autentici tra gli elementi non autentici nei vangeli) consisteva nella dichiarazione di mantenere assolutamente la Legge tradizionale. Per ottenere un uditorio favorevole Gesù doveva professare una devota ortodossia. «Avendo prodotto questa disposizione d'animo favorevole, Gesù Cristo procede a qualificare, e infine ad abrogare, il sistema della legge ebraica». Mentre questo potrebbe aver soddisfatto Shelley come un aspetto nella natura di un riformatore ammirevole, difficilmente darà soddisfazione alla scuola biografica odierna, e non sarà iscritta dalla scuola ufficiale nella tesi di «impeccabilità». 

Alla fine Renan è stato guidato dalle proteste di simpatizzanti e altri lettori a modificare la sua “mitigata accusa” di frode benevola. Ma l'apriorista che, come Shelley, Renan e il signor Murry, si aggrappa al suo concetto di un Gesù reale, farà bene a chiedersi se su molti punti non subirà più disillusione dallo sforzo di spiegare dettagliatamente la documentazione evangelica in termini di una personalità senza macchia piuttosto che con l'accettazione di una tesi mitica che respinge allo stesso modo disprezzo e idolizzazione.

All'«impeccabilità», nella vecchia teologia, era associato il concetto di resistenza alla tentazione di un tipo soprannaturale. Ma anche questo produce meno che niente per la posizione biografica. Il metodo biografico si sta concentrando di recente in futilità come ad esempio il tentativo di stabilire l'ordine delle sensazioni «del Signore» nella Tentazione — che da più parti è ammessa essere immaginaria — e di  spiegare la storia della  ovviamente  non meno mitica Trasfigurazione enfatizzando l'«esperienza» di Pietro, che deve averla «immaginata». La tesi mitica spiega la storia della Tentazione come un'applicazione di un mito orientale reso ampiamente diffuso da pittogrammi scolpiti e dalla poesia, e raccontato anticamente a proposito di Giove, di Olimpo, di Dioniso, e di Apollo. [14] Gli storicisti preferiscono ancora attribuire l'invenzione al «Signore».

La storia della Trasfigurazione è stata spiegata [15] molto tempo fa come uno dei soliti trasferimenti evangelici di meraviglie veterotestamentarie al nuovo Messia — l'originale essendo Esodo 24:12-18, la cui stessa espressione «dopo sei giorni» è duplicata. Harnack ci assicura, nondimeno, che è «un pezzo autentico delle reminiscenze di Pietro», e quella stessa puerilità dell'osservazione, «È bello per noi essere qui», è «pure autentica e caratteristica». Quale è la puerilità peggiore? Pietro ha veramente sofferto più di quanto basta nelle mani degli interpolatori e dei commentatori dal primo all'ultimo. La tesi mitica lo tratta più gentilmente!


§ 4. Il Valore dell'“Impressione”

Quando consideriamo l'argomentazione del dottor Burkitt sotto il suo aspetto secondario, respingendo per il momento l'aspetto logico, e considerando solo la rivendicata «impressione» fatta dalla inferita Personalità, vi sorge la domanda, Quale era la natura e quale il calibro delle persone ritenute così impressionate, a tal fine? E la risposta sicuramente deve essere: menti fragili, caratteri puerili. Un evangelista mosso a volenterosa finzione dalla grandezza della sua «impressione» è uno strano portavoce della qualità dell'impatto. Di quale significato erano le impressioni che produssero la quantità dei Vangeli e degli Atti apocrifi? Quelli non raggiunsero il pubblico più vasto di tutti? 

Come accade, c'è un vasto consenso tra i difensori della fede per quanto riguarda la povertà del materiale umano da parte cristiana gentile. Il professor Foakes-Jackson è molto esplicito su quel punto: Non senza ragione Paolo definisce 'bambini' i Corinzi. In tutta onestà, senza dubbio lui avrebbe accettato egualmente la caratterizzazione dei «folli Galati» — che solevano essere associati, prima del 1914, all'elemento peccaminoso «Celtico» nell'antica Grecia cristiana. Il professore diventa anche momentaneamente sociologico sull'argomento. «Il provinciale degenerato sotto il dominio romano non aveva nessun incentivo [civico] alla virilità. Dovere civile e patriottismo, quasi le sole buone cose [!] che la sua religione ancestrale aveva inculcato, non erano più possibili sotto un forte governo paternalista......L'uomo libero era uno schiavo nel suo cuore». 

D'altra parte, ad avviso del professore, «il credente ebreo aveva molti vantaggi rispetto al suo fratello gentile». Quindi non era lui a sua volta «sotto un forte governo paternalista»? Il teorema non può reggere; e possiamo solo presumere che il professore vede nel fanatismo ebraico un elemento di «forza» passato al cristianesimo. Ma cosa fa della scomparsa della Galilea dagli orizzonti cristiani dopo i vangeli? E cosa diventa ora della tesi che gli elementi ellenistici fossero esplicitamente presenti da sempre nella chiesa di Gerusalemme? I greci erano là forse meno schiavi che in Grecia?

Faremmo meglio ad affrontare la questione per noi stessi, e a chiederci se la narrativa degli Atti indichi una comunità più eccezionale per la capacità mentale o per la veridicità rispetto ai destinatari greci delle lettere paoline. E la difficoltà di trovare le prove è insuperabile. C'è in effetti qualcosa di altamente anomalo nella tesi di un teologo ufficiale secondo cui, mentre i cristiani gentili «impressionati» da Paolo erano poveri elementi, i giudeocristiani impressionati dagli apostoli erano molto meglio. Infatti quale ombra di prove abbiamo noi delle alte qualità morali e mentali negli stessi presunti apostoli? Non sono raffigurati nei vangeli come per lo più ottusi, «materialisti», avidi di un posto elevato nella Nuova Gerusalemme; i migliori di loro, i tre scelti, che dormivano quando il loro Maestro disse loro di essere nella sua massima tribolazione? 

Una «impressione» che si afferma essere stata fatta su e da tali spiriti è veramente una singolare garanzia di qualifiche morali e intellettuali supernormali nell'«ignoto X» che si afferma averla necessariamente prodotta. Uno dei tanti dilemmi della scuola biografica è la dichiarazione delle testimonianze che Gesù fallì a Nazaret; guadagnò un grande seguito in Galilea, e poi lo perse del tutto; entrò a Gerusalemme in trionfo ed entro pochi giorni fu scartato per Barabba. Come mai l'impressione mutò così drasticamente? [16] Quella questione, così prontamente risolta dalla tesi mitica in termini di narrazioni deliberate appartenenti ad un periodo di conflitto tra Crististi ebrei e Crististi gentili, è irrisolvibile sulla tesi della «Personalità». 

E la somma dell'intera controversia è che gli impressionisti farebbero bene a controllare il loro intero processo dialettico sin dall'inizio, analizzare la loro psicosi, ed esaminare veramente la tesi mitica in dettaglio invece di fare affidamento sulla semplice polemica degli ignoranti campioni che li assicurano che essa è assurda, «esplosa», «una negazione di ogni verità storica», un'aberrazione, un parallelo alla tesi baconiana, e tutto il resto di ciò. Anche questo breve esame può servire a mostrare quale lato sta facendo l'aberrazione e come sta riducendo la propria argomentazione ad un'assurdità.


§ 5. Il Metodo della Sfrontatezza

Nel caso il resoconto precedente della polemica attuale contro la tesi mitica dovesse essere deprecato come esterno al dibattito serio, è opportuno notare come la questione sia stata gestita abbastanza di recente da un teologo popolare di un certo status accademico. È dopo l'elogio di Platone perché, «al punto in cui l'astratta razionalizzazione non sarebbe potuta andare oltre, egli ripiegò sul Mito», che Canon Streeter, nel suo lavoro intitolato 'Realtà', così discetta:

«Purtroppo per il nostro presente obiettivo la parola 'mito' è stata fatalmente compromessa dalle persone folli che parlano del 'mito di Cristo', con l'implicazione che Gesù o mai visse oppure che non sappiamo quasi nulla di Lui. Quelle persone non dovrebbero essere prese sul serio. Alcuni di loro, non avendo mai prestato uno studio reale sull'argomento (oppure mancando degli strumenti per farlo se avrebbero potuto), parlano di seconda mano o per una conoscenza superficiale; altri sono di quella categoria — sfortunatamente, non una categoria piccola — che alimentano un egoismo inconscio difendendo qualche paradosso geniale. Studiosi competenti, qui e in Germania, hanno avuto problemi a pubblicare le confutazioni dei loro argomenti; ma, al pari di quelli che sostengono che Shakespeare fosse Bacone, o che gli inglesi siano le Dodici Tribù, essi sono impermeabili alla confutazione». [17]

Chiunque voglia esaminare la parte precedente dell'opera citata, che fornisce un resoconto edificante della carriera intellettuale del reverendo Canon, e la parte successiva, che rivela il suo calibro filosofico, sarà in grado di realizzare la mentalità di questo apologeta cristiano, che, va notato, è profondamente imbevuto dell'importanza di amare il nostro prossimo come noi stessi. Aver interferito fatalmente con le operazioni del reverendo gentiluomo sulla parola «mito» sembrerebbe essere una specie di servizio pubblico da parte dei miticisti.

Lasciando che le sue qualità evangeliste portino il loro giusto frutto, dobbiamo innanzitutto notare che lui ha completamente fuorviato sé stesso in merito alla pubblicazione di «confutazioni» della tesi mitica da parte di studiosi competenti che, come egli protesta, non avrebbero dovuto farle. A parte il recente lavoro del professor Goguel, che è stato esaminato in precedenza, non c'è stato nessun tentativo di confutazione che non sia stato confutato tre volte rispetto alla sua ignoranza del tema, rispetto ai suoi errori, e rispetto ai suoi travisamenti. Il dottor Conybeare, il più importante avversario inglese, non aveva fatto nessuno studio adeguato né di antropologia né di mitologia, ritenendo come faceva che i totem fossero dèi; e ha fatto una serie di fatali errori concreti relativi alle narrative del Nuovo Testamento che hanno provato la sua scarsa familiarità in merito. Alle confutazioni del suo attacco non c'è stata nessuna risposta dalla scuola biografica. Alla confutazione da parte del dottor W. B. Smith, è sicuro dire, Canon Streeter è totalmente incompetente per replicare. 

L'allusione alla tesi baconiana è caratteristica del metodo dell'ignoranza. La tesi baconiana è stata ripetutamente confutata, mediante un argomento strettamente induttivo, e in più dalla dimostrazione che i suoi sostenitori non sono qualificati rispetto alla conoscenza della letteratura e del vocabolario elisabettiani. Ma sarebbe ancora sicuro dire che un baconiano relativamente sano di mente, che «sa il fatto suo», avrebbe potuto liquidare in un attimo le mere spacconate di avversari che, come Canon Streeter, sanno ancor meno di lui.

La cosa curiosa della situazione è che la procedura dialettica dei baconiani è esattamente quella degli aprioristi nella questione della storia evangelica. Entrambi procedono allo stesso modo sulla base di un presupposto. Come gli storicisti cristiani (e altri) ipotizzano che ci doveva essere stata una Personalità meravigliosa per spiegare l'«impressione» ricordata dagli evangelisti e la nascita della Chiesa cristiana, così i baconiani decidono che ci doveva essere stato un avvocato e uno studioso classico e un esperto filosofo dietro i Drammi, le Poesie e i Sonetti; e che questi non possono essere stati l'opera di un «semplice» uomo di teatro, che aveva solo una comune istruzione presso Stratford-on-Avon. [18] Neanche la scuola paga alcuna lealtà all'induzione. Ed entrambi sono propensi ad ignorare tutti gli argomenti contro di loro, e a compensare sé stessi per la debolezza della loro argomentazione deridendo i loro avversari. Canon Streeter ha proprio la maniera, la natura, e la preparazione baconiane. Della preparazione necessaria in antropologia, in mitologia e in ierologia, egli sembra essere più innocente di quanto non fosse il dottor Conybeare. 

I miticisti, allora, devono accontentarsi di non cercare la loro reputazione sulle labbra di Canon. Lui senza dubbio si avvale molto del conforto dei fedeli, anche se i seri studiosi della Chiesa non gli prestano il complimento di imitare il suo tono e la sua tattica. Si deve ricordare, d'altra parte, che un certo numero di letterati copiano esattamente il suo tono e il suo approccio. Alla recente pubblicazione del lavoro del defunto dottor Georg Brandes su 'La Saga di Gesù' in una traduzione americana, molti dei nostri  giornalisti letterati hanno liquidato la questione versando disprezzo su tutta questa teoria e citando il signor H. G. Wells e il dottor Eduard Meyer come autorità storiche la cui mera opinione ha superato ogni argomentazione. 

Coloro che hanno esaminato l'opera storica intitolata 'England', pubblicata dal dottor Eduard Meyer durante la guerra, possono dire quanto assai peso ora attribuisce, per i lettori istruiti, al suo giudizio storico — una questione da non elaborare ulteriormente per coloro che conoscono la sua triste esperienza personale. Dell'autorità del signor Wells è più difficile parlare. Molti lettori, si capisce, trovano nella sua ricostruzione della storia una specie di verità mai raggiunta prima. Eppure anche quella convinzione acquisita alquanto superficialmente, da parte di lettori che non hanno cercato di accertare in profondità i risultati di ogni altra ricerca, giustifica a malapena la conclusione che la semplice opinione del signor Wells superi quella della lunga serie di eminenti esperti olandesi, Pierson, Loman, Bolland e del professor Van den Bergh van Eysinga, e del professor W. B. Smith, del professor Arthur Drews, del dottor Couchoud, e del dottor Brandes, riguardo alla possibilità che il cristianesimo avrebbe potuto sorgere senza che vi fosse stato un personaggio reale corrispondente al Gesù evangelico — trascurando il vasto elemento mitico che perfino il signor Wells ha capito di trovare nei vangeli. 

E se i seguaci del signor Wells continuano a trattare il suo ipse dixit come decisivo in tale materia, si potrebbe perfino trovare necessario suggerire loro che la loro stessa dialettica sa più di incompetenza e di presunzione che di autorità. Essi stanno seduti sullo scranno del giudizio senza un titolo né accademico né sociologico. Il signor Alfred Noyes è un poeta affascinante, con un dono per la melodia che supera a volte quello di Swinburne; ma egli non è un pensatore, e la sua opinione a priori sulla tesi mitica non ha più valore di quello che si attribuirebbe alla sua opinione sulla Legge di Rent.

Ma non sembriamo suggerire che solo i laici ignoranti, o anche i meno scrupolosi dei difensori clericali della fede, ricorrono ai mezzi più economici di difesa. Diversi anni fa, il decano Inge ha fatto al presente scrittore l'onore immeritato di paragonarlo all'Abate Loisy, tra tutti gli uomini, in quanto appartenente alla categoria degli speculatori trascurabili. Questo perché il signor Loisy, nella via della sua ricerca scrupolosa, aveva abbandonato molti elementi nei vangeli in quanto non-storici. Più recentemente, lo stessa illustre pubblicista, di fronte alla nuova diffusione della tesi mitica per opera di Brandes, si è proposto lui stesso di liquidare l'intera faccenda rilevando che nessuno studioso di rango elevato l'aveva accettata. Loisy è certamente uno studioso di primissimo rango. E il decano lo aveva respinto come di nessun conto per il fatto che egli è andato oltre la maggior parte degli altri specialisti nel disintegrare il testo evangelico. Eppure lui era stato preceduto da esperti olandesi di rango accademico certamente più elevato (in quelle materie) di quello del decano Inge — esperti che erano andati per tutta l'ampiezza della tesi mitica. Il Decano potrebbe ragionevolmente aver respinto la tesi di qualsiasi uomo, indipendentemente dall'erudizione, per il motivo che fosse mal ragionata. Infatti la questione non è in definitiva una questione di erudizione ma di argomentazione, con tutti i dati degli studiosi posti sul tavolo. Ma in primo luogo egli ha trattato l'erudizione di Loisy come se non contasse nulla a sostegno delle sue opinioni; in secondo luogo egli tenta di risolvere la questione sostenendo che i migliori studiosi non seguono fino in fondo la tesi mitica. 

Sarebbe davvero vano aspettarsi da parte di eminenti e maturi studiosi clericali, sfidati dai risultati di altri studiosi, l'ammissione di aver passato tutta la loro vita sotto un'illusione. Ma non può sembrare un'esigenza stravagante pretendere che chierici inglesi di alta levatura e di reputazione liberale, che dichiarano di conformarsi ai criteri normali della rettitudine critica, dovrebbero smetterla di schernirli in questa materia particolare.

Già quando scriveva Schweitzer, senza accettazione della tesi mitica, la tesi «liberale biografica» del problema di Gesù è stata ridotta al collasso col suo fiducioso resoconto. Questo equivale a dire che il nucleo delle narrative evangeliche fu riconosciuto essere quello che la tesi mitica ha avanzato quanto alla figura centrale. Oggi non solo la tesi mitica è accettata e difesa di nuovo da un eminente professore olandese, ma il professor Bultmann di Marburg è andato così lontano nelle concessioni all'argomentazione dell'analisi testuale da non trovare lasciata per sua stessa ammissione nessuna «Personalità» riconoscibile. Se Loisy nel passato non era di nessun conto, con tutta la sua particolare erudizione, Bultmann non deve essere di nessun conto per il decano Inge oggi, dal momento che va più lontano di Loisy, pur trattenendo ancora un oscuro Gesù «storico». Su quale tipo di qualifica personale, allora, il decano Inge pretende di offrire i suoi giudizi? Possiede qualche principio più alto di quello di trovare, come giornalista, frasi di disprezzo per tutti coloro che mettono in pericolo lo status del credo ufficiale, di cui così tanti suoi colleghi dubitano la sua accettazione? 


§ 6. Conclusione

A volte si è tentati di affrontare il sofisma di Hegel, «La Religione è il Luogo della Verità», con l'esatto contrario: «La Religione è il Luogo dei Falsi Spiriti», così costantemente sono all'opera i sofismi al suo servizio. Ma questo sarebbe equivalente soltanto a rispondere alla retorica con la retorica. La vera sintesi è proprio che la religione è il Grande Cortile del Confuso Spirito dell'Uomo; e che laddove i più illuminati degli specialisti vedono già come la storia passata della loro materia non è che una vasta documentazione di un'illusione organizzata, essi sono ancora sordi e ciechi alla grande lezione dell'esperienza mentale umana, che la verità va trovata solo mediante sottomissione totale alla legge della scoperta.

Un poeta debitamente indifferente al fatto storico primario potrebbe fare un effetto usando la Leggenda di Gesù per mostrare come un eroe ucciso per aver proclamato una nuova verità divenne il Dio di una Chiesa la cui attività principale sin da allora è stata quella di uccidere tutte le nuove verità, vietando e bloccando a sua volta le scienze della medicina, della geografia, dell'astronomia, della geologia, della biologia, dell'antropologia, della mitologia, della ierologia, e della scienza stessa della cristologia. Ma naturalmente non è solo nella religione che l'Uomo, la Talpa, detesta ogni nuova luce fintanto che può espellerla. Il suo cosiddetto martirio è il ricordo della sua cecità: la sua convinzione animale quello che percepisce debba essere vero. Sono solo i suoi osservatori ribelli che lo salvano.

Le linee di ragionamento che sono state combattute nelle pagine precedenti esibiscono l'espressione comune di ogni errore — un'assunzione senza il dovuto controllo induttivo. Qui il presente processo dell'opinione su questioni religiose non è che una duplicazione tardiva del processo dell'opinione scientifica in generale. Per quanto riguarda l'astronomia, «Il difetto radicale di tutti i sistemi solari precedenti ai tempi di Keplero (1609 E.C.) fu la sottomissione passiva al dictum di Platone che esigeva un movimento circolare uniforme per i pianeti, e l'evoluzione conseguente dell'epiciclo, che era fatale ad ogni concezione di una teoria dinamica». [19] Solo con Keplero e con Newton l'induzione ha preso piede.

L'affermato esperto appena citato ha sottolineato che i Principia di Newton costituiscono «il più alto esempio di ragionamento induttivo mai prodotto». Un esperto non meno competente in campo teologico ha dichiarato in merito ai dibattiti sull'Apocalisse nel sedicesimo, nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo, che i «più folli e i più fantastici di tutti sono i commentari inglesi di questo periodo», [20] tra cui figurano i lavori di Napier di Merchiston e di Sir Isaac Newton (1593 e 1732). Quelli uomini illustri, tra i più grandi dei loro tempi in relazione al libero uso scientifico delle loro menti, operarono alla mercé dell'autorità in materia di religione, e in quel campo superarono in oscurantismo perfino i loro rivali professionisti. 

Se qualcosa potesse scuotere la fiducia, parimenti dei nostri studiosi teologi e dei nostri ignoranti letterati laici, nel loro tradizionalismo, quella documentazione dovrebbe essere sicuramente sufficiente. Lo spettacolo di potenti facoltà ridotte a puerilità grazie alla cieca aderenza ad una presupposizione, quando le stesse facoltà furono in grado di muovere le montagne allontanando dal tradizionalismo alla leale induzione, potrebbe sicuramente servire ad avvertire la massa di uomini inferiori della pena di ogni rifiuto a sottomettere il loro pensiero alla legge scientifica. Newton si erge alternativamente imponente e messo alla gogna come il più grande fisico e il più folle commentatore del suo tempo. Molti di noi sfuggono facilmente ad entrambe le forme di preavviso, al di là se abbiamo ragione o torto. Ma la massa della moderna ricerca accademica, per quanto riguarda il problema delle Origini cristiane, è sulla via giusta per essere accusata dai posteri di incapacità ad apprendere la lezione principale di ogni progresso scientifico.

Al di fuori delle scienze puramente matematiche, dove l'emozione è a prezzo ridotto, nulla sembra servire a preparare gli uomini a guardare in modo geniale a quel che afferma di essere una nuova verità, «e come tale dalle il benvenuto». Ora stiamo leggendo dell'opposizione selvaggia offerta a Lister e alla sua scoperta di metodi antisettici in chirurgia. Ciò non era che una generazione fa; oggi il metodo è alta ortodossia nella professione.

Accade la stessa cosa, in una misura peggiore, nelle «scienze» letterarie, ovunque un'abitudine mentale e un insegnamento accademico siano diventati ben consolidati. Negli studi su Shakespeare gli ortodossi accademici operano il loro credo esattamente alla maniera dei baconiani (per confutare i quali essi non hanno fatto nulla), supponendo che tutte le commedie nel Folio devono essere della pianificazione di Shakespeare, e devono essere così interpretate, anche quando il terreno è stato scavato da sotto il dogma dai riconoscimenti isolati di generazioni di critici. Allo stesso modo, ovviamente, i Sonetti devono essere tutti di Shakespeare, e 126 di loro rivolti ad un unico uomo. I teologi stessi, avendo «disintegrato» il Pentateuco e i Salmi e Isaia ed esaminato criticamente l'intero campo dell'Antico Testamento, potrebbero commentare: «Noi, la cosiddetta professione non progressista, siamo stati molto in anticipo rispetto alla critica laica nella sua gestione dei suoi problemi non-sacrosanti».

Possiamo solo dire, con il Galileo drammatizzato: «Eppure si muove». Alcuni razionalisti hanno combattuto nei ranghi della tradizione; mentre si è trovato che alcuni teologi vedono nell'induzione scientifica una scoperta che li libera da una vasta complessità. Ogni espansione della ricerca accademica cristiana fornisce luce che rende più chiara la via del miticista. Proprio come certi soprannaturalisti hanno compiuto passi decisivi nell'analisi del Pentateuco quando alcuni cosiddetti razionalisti si stavano rifiutando di vedere le suture dei documenti, gli analisti testuali clericali, anche se stranamente ciechi ad alcuni fenomeni salienti, hanno preparato la strada all'analisi induttiva che riduce tutti gli elementi dei vangeli ai loro scopi, ed elimina la «Personalità».

In ultima istanza, la soluzione sarà il prodotto di tutto il lavoro onesto che vi è stato speso, sia dai tradizionalisti che da razionalisti senza vincoli. Che la pressione principale della vituperazione debba cadere nel frattempo su coloro che proclamano la legge della scienza come la sola autorità da riconoscere rientra nel corso ordinario della storia della cultura. 

Certo, sarà detto loro, come dal reverendo decano Inge, che stanno sradicando gli elementi che fanno reggere la società; che stanno facendo il gioco dei Bolscevichi, che hanno cercato nel loro modo insensato e inutile di sopprimere la religione proprio come la religione ha normalmente cercato di sopprimere ogni dissenso dal suo dominio. Il decano non spiega la sua profezia. Il Bolscevismo è sorto e ha commesso i suoi crimini nell'area stessa della forma più indurita della religione cristiana; e in nome di quella religione sono state realizzate le guerre più atroci da mille anni, come il Decano ha ammesso lui stesso. Non è facendo il Giuramento di odiare la Scienza, non più che facendo il Giuramento di odiare la Dimostrazione, che la civiltà sarà salvata. 

Un poeta che, essendo un grande esperto innovatore di ritmo, mancò un riconoscimento generale come tale durante la sua vita, ha cantato per noi la risposta al lamento che il mondo ha perso la sua speranza con l'affondamento della grande nave Immortalità: 

Migliaia di ali intorno ai suoi archi

Come lei ha gettato via l'abisso,

La stella del mattino dondolava da un'asta

E ogni vela addormentata......


Nessuna spuma nella tua scia purpurea

Sulla strada solitaria verso il polo;

Bianca come la vela spiegata su di lei

Che prestò le ali alla tua anima......


Apollo.

Com'era fatta, quella tua barca

Così fiera sul mare?

Com'era fatto lo scafo e il ponte?

Che vele aveva?


Marinaio.

Il suo tratto di vela così bianco, così bianco,

Da nessuna mano d'uomo spiegata,

Era il Cielo!


Apollo.

E i ponti che hai tenuto così luminosi?


Marinaio.

Per noi, l'affollato Mondo.


Apollo.

E le stive e la cabina di pilotaggio fuori dalla vista,

Buio pesto e maleodorante,

Pieno di amici del tuo piacere?


Marinaio.

Quella era la fossa dell'Inferno!


Abbiamo letto ciò che i tradizionalisti non leggeranno favorevolmente, la storia del mondo dominata da quella tradizione: abbiamo

Osservato l'orrore di quei ponti

Insanguinati di vino mistico;

e, sapendo che l'uomo non ha mai vissuto veramente bene per mezzo dell'illusione, siamo ragionevolmente sicuri che non lo farà mai. Ma in quel credo non c'è nulla di rivoluzionario: è il messaggio dell'Evoluzione, in base a cui gli stessi ierofanti stanno iniziando curiosamente a dichiarare di agire — proprio nello stesso atto di resistenza. Infatti anche loro costruiscono meglio di quanto sanno, trasportati come sono dall'onda del cambiamento.

Le maree degli uomini obbediscono ad un fantasma,

Il fantasma del non nato; [21]

anche quando stanno prestando omaggio ai fantasmi fabbricati dall'Uomo del passato. Il dottor Montefiore, il migliore di ebrei o cristiani, dopo aver concesso l'irrealtà di oltre la metà della sostanza dei sinottici, si allontana dalla rovina che crolla per assicurare a sé stesso e a noi che il genio in un insegnamento non è una questione di contenuto profondo, e che qui abbiamo un qualcosa al di là dell'eco della parola scritta, una specie di «plusvalore» non noto nemmeno all'economia marxista. E di quell'x elusivo, egli pensa, «noi abbiamo bisogno», e non possiamo farne a meno. Eppure il dottor Montefiore deve essere consapevole che ci sono ora in vita milioni di uomini istruiti che non hanno il suo «bisogno»; che affrontano l'universo senza sognarsi valutazioni nei termini dei luoghi comuni religiosi dell'antichità, e che hanno smesso di tenere il suo presentimento ereditato e inculcato di un «Padre» nei cieli. Una simile omelia non può valere per uomini veramente pensanti.

E il contrario vale allo stesso modo della pura e semplice speciale difesa letteraria. Il signor Middleton Murry, uno spirito generoso, pensa di salvare la leggenda con un eloquente ditirambo. Gesù, ci dice, diede la sua vita perché gli uomini non avrebbero creduto al suo insegnamento, che veicolava un «mistero» che Gesù stesso «non avrebbe potuto esporre». Ahimè, quando milioni di milioni di uomini hanno dato la vita attraverso i secoli senza il pensiero di rivendicare una Figliolanza divina, cosa significa il motivo o il premio? Più triste, sicuramente, è il pensiero di milioni e milioni di individui che nei secoli furono condotti alla loro morte come sacrifici loro malgrado, per «togliere il peccato del mondo».

Il defunto James Darmesteter, un altro spirito generoso, ha dichiarato più plausibilmente che Giovanna D'Arco era una martire più degna del Gesù evangelico. Tali dibattiti meritano di essere condotti, dopo la Guerra Mondiale?

Più sano e più fruttuoso, sicuramente, è lo sforzo di sapere correttamente che cosa è stata realmente la storia del mondo, come le cose andarono realmente, cos'è falso e cos'è vero; e quindi pensare a cosa per gli uomini costituisce una giusta azione ora, alla luce della conoscenza e del pensiero, non dell'omelia tradizionalista e dell'adorazione del passato. Allora, forse, potremmo pretendere di definire «il meno o più ben calcolato» del merito personale reale o immaginario — se ci sembrasse ancora opportuno provarci.

NOTE

[1] Lettera di Cowper a Lady Hesketh, 12 luglio 12 1765.

[2] Prefazione alla traduzione inglese di Paul del defunto professore W. Wrede, 1907.

[3] Leggi, 10. 

[4] Si veda l'opuscolo del dottor Edward Greenly, The Historical Reality of Jesus, R.P. A., 1927, pag. 10.

[5] Si veda The Jesus Problem, pag. 107-112.

[6] Si veda la sezione sul Mitraismo in Pagan Christs.

[7] Si veda The Evolution of States, pag. 114-115 ; e confronta Pagan Christs, Parte I, capitolo 2; Short History of Christianity, Parte I, capitolo 2, § 4.

[8] Come la mente cristiana di parte reagisce contro questo grande fatto storico si vede nella pietosa dichiarazione di Tulloch: “Il personaggio di Çakya-Mouni,  per quanto possa essere stato puro e nobile e sacrificato, non fu mai una realtà vivente, coerente e comprensibile per i milioni che si sottomisero alle sue dottrine o istituzioni” (Lectures on Renan's “Vie de Jésus”, 1864, pag. 162). 

[9] Come citato dal professore Foakes-Jackson.

[10] Christian Difficulties in the Second and Twentieth Centuries, 1903, pag. 117. 

[11] Il vecchio dogma ortodosso poggiava espressamente su questa base. Edward Irving fu censurato con veemenza perché insegnava che il corpo umano di Gesù fosse “materia peccaminosa”, sebbene ciò fosse logicamente implicito nel dogma dell'umanità di Cristo. Si veda Life of Irving di Mrs. Oliphant.

[12] Si vedano le denunce di Tulloch, Lectures on M. Renan's “Life of Jesus”. 1864, pag. 152-154.

[13] Selected Prose Works of Shelley, edizione di H. S. Salt, R. P. A., pag. 162-163. È difficile datare il “Saggio” di Shelley. Il signor Salt pensa giustamente che esso fu scritto “ad una data notevolmente più tarda rispetto a quella assegnatagli di solito — ossia, l'anno 1815”.

[14] Si veda Christianity and Mythology, 2° edizione, pag. 318 seq

[15] L'autore ha suggerito altrove (C. and M., pag. 361) che la Trasfigurazione può essere stata associata al dramma misterico.

[16] Si potrebbe obiettare che tale mutamento sia un'argomentazione a favore della storicità, in considerazione del fatto che Edward Irving ebbe un immenso successo popolare prima del suo crollo. Ma Irving fece la sua impressione con una grande eloquenza espansiva; e questo non è mai stato detto del Gesù evangelico. Irving, infine, fu deposto dai suoi sottoposti in uno stato di decadenza fisica e di volontà piegata, che non sarà ammesso dai crististi essere esistito nel caso del loro Signore.

[17] Opera citata, pag. 52-53.

[18] Naturalmente i campioni della storicità di Gesù possono rispondere che loro non hanno alcuna difficoltà sulla rozza istruzione del Gesù evangelico.

[19] Professor George Forbes, History of Astronomy, 1909, pag. 26.

[20] Professor Bousset in Encyc. Biblica, art. “Apocalisse”.

[21] Herbert Trench, Apollo e il Marinaio