giovedì 30 dicembre 2021

IL DIO GESÙL'immolazione preliminare

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L'IMMOLAZIONE PRELIMINARE

Abbiamo detto che, se i Romani crocifiggevano vivi, l'antica crocifissione sacrificale palestinese si praticava dopo la morte ed era solo il complemento dell'immolazione. Si potrebbe sostenere, in una maniera generale, che essendo il principio del sacrificio espiatorio l'effusione del sangue, non vi potrebbe esserci sacrificio espiatorio senza immolazione; non entreremo in quella discussione, e, per limitarci al caso del cristianesimo, basterà ricordare che, tra gli elementi essenziali del Sacrificio della Croce, la teologia cattolica colloca il sangue versato, e in ciò è fedele allo spirito evangelico come pure allo spirito paolino. I testi sono troppo numerosi e troppo noti perché sia bisogno di citarli. Quando i vangeli parlano del valore sacrificale della morte di Gesù, è sotto la forma del sangue versato. San Paolo, dal canto suo, ritorna senza posa al sangue versato. Si può dire che il sangue di Gesù ha ossessionato l'immaginazione dei primi cristiani.

Ma la crocifissione, di per sé, non comporta effusione di sangue. La vittima muore per i disturbi causati dalla contrazione del corpo, dalla congestione del cervello, dal sovraffaticamento del cuore; in nessun caso si può parlare di effusione di sangue. 

Dovremo ripiegare sui dettagli del supplizio? L'inchiodatura di mani e di piedi, per esempio? Le gocce di sangue che possono sgorgare dai fori dei chiodi, o dai colpi di frusta, o dalle lacerazioni di una corona di spine, sono il minimo indispensabile per significare il sangue versato. Come, in epoche primitive, quando il rito si è istituito, ci si sarebbe accontentato di una così piccola quantità di sangue, quando non si doveva, se oso dire, che abbassarsi per prenderne? Come infine intendere, diversamente dal flusso di sangue che sgorga sotto il coltello sacro, il famoso testo, al quale presto ritorneremo?

 Il suo sangue sia su di noi e sui nostri figli!

Ma l'inchiodatura stessa sembra essere stata praticata solo eccezionalmente. Il corpo della vittima era più spesso legato alla croce; le mani talvolta erano inchiodate; i piedi, molto raramente. Ora, bisogna che le persone che non hanno studiato da vicino i testi cristiani sappiano: che non si parla mai dell'inchiodatura nelle epistole paoline; che non se ne parla nemmeno nei primi tre vangeli; che nel quarto vangelo e nell'apocrifo secondo San Pietro, si parla per la prima volta dell'inchiodatura delle mani, e soltanto delle mani; che l'inchiodatura dei piedi è asserita per la prima volta, a metà del secondo secolo, nelle opere di San Giustino. [1]

Il colpo di lancia è un altro «dettaglio» della crocifissione di Gesù, che potrebbe essere considerato come avente fornito alla fede dei primi cristiani, quanto o meglio dell'inchiodatura, l'effusione del sangue. Si ricorda come il quarto vangelo racconta [2] che uno dei soldati, vedendo che Gesù era morto sulla croce, gli trafisse il costato con una lancia, e che ne scaturì subito del sangue e dell'acqua.

L'episodio appare, in tutta evidenza, come l'adempimento dell'antica profezia che l'evangelista cita lui stesso:

Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto. [3]

Se manca nei tre precedenti vangeli, allusione vi è fatta in un testo anteriore al quarto, il testo dell'Apocalisse 1:7:

Ecco, egli viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo hanno trafitto.

Si dice generalmente che questo testo riguardi l'inchiodatura; a guardare da vicino, esso riguarda il colpo di lancia e appartiene alla stessa tradizione del quarto vangelo, come lo prova l'impiego dello stesso verbo ἐξεκέντησαν e lo stesso riferimento alla profezia di Zaccaria.

La tradizione risale ad un'epoca antica? Sembra difficile supporlo, innanzitutto, perché essa si dà come l'adempimento di una profezia; inoltre, perché presenta il lancio della lancia come posteriore alla crocifissione e persino alla morte di Gesù; infine, perché essendo stati scritti l'Apocalisse e il quarto vangelo entrambi in Asia Minore, è probabile che sia nata tra le comunità di quella regione.

Siamo così portati a concludere, quanto al colpo di lancia nonché quanto all'inchiodatura, per una tradizione relativamente tardiva.

L'assenza dell'inchiodatura e del colpo di lancia in San Paolo e nei primi tre vangeli, la presunzione che ne risulta che la tradizione primitiva conoscesse un Gesù legato e non inchiodato all'albero della croce, rafforza l'ipotesi della crocifissione per sostituzione, vale a dire che la crocifissione sarebbe stata praticata nel corso di un dramma sacro per mezzo di un sostituto.

Una finta crocifissione è una cosa possibile; un uomo può essere e restare legato senza grandi sofferenze ad una croce per un'ora, mediante certe precauzioni, ad esempio se l'inguine e i piedi riposino su degli appoggi, un attore cinematografico si presta a prove più difficili, — ma all'espressa condizione di essere legato e non inchiodato alla croce.

L'episodio del narcotico sembra condurre alla stessa conclusione. Il vangelo secondo San Marco racconta che si diede al crocifisso un vino aromatizzato con mirra, che poteva essere solo un narcotico; [4] e la cosa è inconcepibile se si tratta di un'esecuzione giudiziaria. Non si immaginano i soldati romani ansiosi di diminuire le sofferenze di un suppliziato; le avrebbero prolungate piuttosto.

Il sangue versato necessario al sacrificio espiatorio, come lo ha postulato la Chiesa primitiva, poteva essere in realtà fornito solo se la vittima veniva immolata prima di essere crocifissa; l'usanza della Cappadocia di un'immolazione posteriore alla messa in croce confermerebbe la necessità dell'immolazione.

Ora, quella immolazione la si trova nell'Apocalisse, dove noi la studieremo ulteriormente; ma non la si trova né nei racconti evangelici, né nelle epistole paoline. Tanto nelle epistole quanto nei vangeli, la crocifissione appare come se fosse, di per sé, una messa a morte.  

Si deve riconoscere in questo fatto un argomento contro il carattere sacrificale della morte di Gesù? In alcun modo, e sarà facilissimo comprendere, innanzitutto, perché l'immolazione preliminare è scomparsa dalla tradizione cristiana, e, secondariamente, come l'effusione del sangue sia stata ottenuta artificialmente con l'inchiodatura delle mani e in seguito dei piedi, e anche con il colpo di lancia. Un rapido sguardo su ciò che si potrebbe chiamare la storia della crocifissione in Palestina vi basterà. 

Da più di un secolo e mezzo prima dell'anno 1, per non risalire più indietro, la crocifissione-supplizio, quella che non crocifiggeva i morti, imperversava in Palestina. Allorché Antioco Epifane si impadronì di Gerusalemme nel 168 prima della nostra era, Giuseppe racconta che egli fece mettere in croce, dopo averli fatti flagellare e mutilare, gli ebrei che gli resistevano.

Mezzo secolo più tardi, Alessandro Ianneo, a detta di Giuseppe, fece crocifiggere ottocento prigionieri sotto gli occhi del popolo.

I Romani arrivarono e ripresero l'orribile tradizione. Nell'anno 37 prima della nostra era, a detta di Dione Cassio, essi crocifissero il re Antigono, l'ultimo degli Asmonei, su richiesta di Erode. Un re messo in croce, quale ossessione doveva restare nelle anime ebraiche! 

Intorno all'anno 1, la spaventosa serie di croci, duemila ebrei crocifissi da Varo dopo la rivolta di Giuda il galileo. Più tardi, ad essere crocifissi sono, sotto Alessandro Tiberio, due figli di Giuda il Galileo; poi i giudei arrestati da Cumano; sotto Felice, è un numero infinito di briganti. Alla vigilia dell'insurrezione, Floro fece crocifiggere i sediziosi, «in massa», scrive Giuseppe. Si deve spingere l'immagine fino all'assedio di Gerusalemme; il dolce Tito, delizia del genere umano, non trovava abbastanza legno per fabbricare le croci, dice Giuseppe il suo panegirista. 

La crocifissione era stata lo strumento di terrore impiegato dai re siriani; fu quello dei principi nazionali di Giudea; fu quello dei Romani.

E, accanto a queste crocifissioni politiche, il supplizio mai interrotto dei miserabili condannati dal diritto comune, nonché la punizione inflitta agli schiavi per crimini domestici!

Ecco lo spettacolo che per più di duecento anni i Palestinesi ebbero sotto gli occhi. Allorché a metà del primo secolo Paolo dipinse davanti ai Galati Gesù crocifisso, non aveva, si sa, assistito allo spettacolo di cui si accingeva a eseguire la raffigurazione; si intuisce, per contro, quanti modelli viventi aveva potuto incontrare nel corso dei suoi viaggi.

Lo spettacolo ininterrotto di quella realtà atrocemente concreta doveva avere ragione dell'antica tradizione sacrificale. Di fronte a queste migliaia di crocifissioni in cui il crocifisso, legato vivo alla croce, vi moriva, in cui la crocifissione era di conseguenza una messa a morte, come i praticanti dell'antica crocifissione sacrificale in cui si attaccava al legno un cadavere potevano mantenere la loro tradizione? Come l'idea non sarebbe venuta loro che la crocifissione era, di per sé, una sufficiente messa a morte? Come l'immolazione preliminare poteva non divenire una aggiunta irrisoria?

Intravediamo due possibilità.

O l'immolazione preliminare era scomparsa prima dell'anno 1, e il sacrificio che si è praticato nell'anno 27 non l'avrebbe comportata.

Oppure era persistita e il sacrificio dell'anno 27 aveva comportato la messa a morte prima della crocifissione; ma il ricordo di quella immolazione preliminare sarebbe scomparso abbastanza rapidamente perché non ce ne fosse più traccia nelle epistole di San Paolo. E niente sarà più facile da intendere.

Rappresentiamoci i primi cristiani.

Gli uomini del gruppo galileo, San Pietro, i Dodici, quelli tra i quali nell'ipotesi sacrificale il rito della morte espiatoria è stata praticata nella primavera dell'anno 27, costoro hanno visto, con gli occhi del loro corpo, come le cose si sono svolte. Ma gli altri, quelli che non erano là, gli Ellenisti, Santo Stefano, San Barnaba, quelli di Antiochia, quelli di Damasco, San Paolo stesso, quelli non hanno visto; bisogna che immaginassero le cose, vale a dire che figurassero l'oggetto della loro fede. Sappiamo che le rappresentazioni religiose sono il prodotto della legge della Figurazione, vale a dire della necessità psicologica in cui, nei grandi movimenti religiosi, il credente si trova a immaginare da sé stesso, concretamente, l'oggetto della sua credenza.

Ora, come i primi cristiani, se non avevano assistito di persona al sacrificio, potevano figurare la crocifissione, se non come la vedevano praticare spaventosamente tutt'attorno a loro, qualunque racconto abbia potuto essere fatto loro di un dio dapprima immolato, poi crocifisso? Sarebbe stato necessario che Santo Stefano, San Barnaba, San Paolo fossero degli archeologi per rappresentarsi un Gesù crocifisso dopo la sua morte. Quanto alla questione dell'errore storico, non si poneva nemmeno.

I Dodici? essi non potevano che seguire. Anche su di loro doveva agire, con qualche ritardo soltanto, lo spettacolo delle crocifissioni romane. E a coloro che potevano ancora esitare, Alessandro Tiberio, pochi anni dopo la conversione di San Paolo, si sarebbe incaricato una volta di più di far intendere come conveniva realizzare il programma di una messa in croce.

Era tutto altrimenti del carattere sacrificale della crocifissione. Evidentemente, le crocifissioni alla romana che i cristiani avevano sotto gli occhi erano tutte dei supplizi, mai dei sacrifici religiosi. Ma la differenza non era concreta, non era evidente come quella tra un crocifisso morto e un crocifisso vivo. E poi, il carattere sacrificale era un elemento di fede troppo importante per poter scomparire o modificarsi così facilmente. Lo spettacolo delle crocifissioni-supplizi non poté ottenere dalla tradizione cristiana, e lentamente, e difficilmente, e tardivamente, se non la combinazione delle due idee, supplizio e sacrificio, nella formula più tardi adottata dalla Chiesa: un sacrificio che si è operato sotto le specie di un supplizio... ed è ciò che constateremo più tardi.

Restava la questione del sangue versato.

L'inconscio dei primi cristiani supplì alla scomparsa dell'immolazione preliminare, utilizzando ciò che avevano a loro disposizione: l'inchiodatura e, secondariamente, il colpo di lancia.

Nella questione dell'inchiodatura, come in quella dell'immolazione preliminare, il punto di vista dello storico delle religioni non deve essere confuso con il punto di vista dei primi cristiani. Abbiamo detto quanto fosse difficilmente concepibile, da una parte, che il sacrificio espiatorio potesse compiersi senza una effusione di sangue, e, d'altra parte, se i fori dei chiodi, le ferite di una frusta o delle spine abbiano potuto originariamente bastare a procurarlo, quanto fosse inconcepibile che il sangue prezioso non sia sgorgato sotto il coltello del sacrificatore. Ma i primi cristiani non avevano alcun senso di quella necessità ierologica; si inchiodava solo eccezionalmente il corpo del crocifisso; lo si inchiodava però qualche volta; i cristiani immaginarono Gesù inchiodato sulla croce. L'inchiodatura sostituì l'immolazione.

Per le persone più esigenti, vi era il colpo di lancia. 

NOTE

[1] Si parlerà qualche riga più oltre del testo di Apocalisse 1:7.

[2] Giovanni 19:33-37.

[3] Zaccaria 12:10.

[4] Marco 15:43. Il vangelo secondo San Matteo trasforma il vino mischiato con mirra in vino mischiato con fiele; San Luca e San Giovanni sopprimono tutto. La spugna impregnata di aceto è altra cosa.

domenica 26 dicembre 2021

IL DIO GESÙLa crocifissione, rito sacrificale

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II

LA CROCIFISSIONE, RITO SACRIFICALE

Il pubblico letterato non immagina nella crocifissione altra cosa rispetto ad un supplizio; Salambò corrobora i vangeli. Se però la morte di Gesù è stata un sacrificio espiatorio nel senso esatto, e non un'esecuzione giudiziaria alla quale si sarebbe accordato più tardi il valore di un sacrificio, occorre che la crocifissione sia stata in certe epoche e in certe regioni un rito sacrificale; e la cosa non sembra contestabile; all'origine, e in particolare in Palestina tra i Semiti antichi, essa è stata un complemento dei sacrifici espiatori. Dopo essere stata sgozzata, la vittima del sacrificio era a volte bruciata; altre volte era immediatamente sepolta; ma, altre volte, era messa in croce per alcune ore prima di essere sepolta. La crocifissione era allora un rito di esposizione.

Si avrebbe torto a rappresentarsi la croce alla maniera del crocifisso di Place Saint Sulpice, come un pezzo di legno ben squadrato sul quale il corpo del crocifisso è inchiodato simmetricamente. L'antichità, in fatto di croce, conosceva solo l'assemblaggio grossolano di due pezzi di legno intrecciati e spesso un albero sul quale si attaccava il corpo. Di là l'espressione: Infelix arbor, infelix lignum, e semplicemente, il legno. L'essenziale era che il corpo fosse elevato al di sopra del suolo e che non toccasse la terra. È in questo senso che si dice che il crocifisso era appeso al legno.

La crocifissione è menzionata diverse volte nella Bibbia. Il testo celebre del Deuteronomio [1] fissa le regole della crocifissione; quelli del libro di Giosuè [2] riportano la crocifissione del re di Ai, dei cinque re di Makkedah e del re di Gerico. È, in ebraico, la talah.

La iaqah menzionata altrove [3] sembra essere stata piuttosto l'impalamento.

Infatti, l'intero testo di Deuteronomio 21 contiene, al completo, il rituale semitico palestinese della crocifissione.

Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l'avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio.

Nei testi del libro di Giosuè, i re sono prima messi a morte, crocifissi, rimossi al tramonto e sepolti sotto le pietre.

Nessuno dei modi di crocifissione sopra enumerati, a dire il vero, è dato come facente parte di un sacrificio rituale, ma non c'è da dubitare che rappresentano le sopravvivenze di una pratica sacrificale. Si sa, infatti, che in un'epoca anteriore e primitiva ogni esecuzione criminale è stata un sacrificio espiatorio; all'epoca in cui i racconti jahvisti ed elohisti sono scritti, l'esecuzione criminale non è più un sacrificio, ma ne ha conservato il processo. Il carattere di esposizione delle crocifissioni bibliche è ancora attestato dal fatto che sono praticate post mortem, fatto sul quale dovremo ritornare e che è esplicitamente affermato dai testi sopra indicati. Infine, il testo legislativo del Deuteronomio 21, ancora più chiaro degli altri, nel dire che il crocifisso è «maledizione di Dio», testimonia che originariamente la vittima è stata consacrata al dio; si sa che, nelle religioni primitive, maledizione equivale a consacrazione.

Nessun testo post-biblico, almeno a mia conoscenza, menziona la crocifissione come parte di un rituale sacrificale. Infatti, la crocifissione sacrificale non poteva più praticarsi, in epoca post-biblica, se non in oscure sopravvivenze come quella che dobbiamo studiare. 

Per contro, la crocifissione-supplizio era fiorita tra i Persiani, gli Egiziani, i Cartaginesi; i principi asmonei ne avevano fatto un orribile uso, e i Romani l'avevano adottata. Non c'è bisogno di ricordarne le descrizioni. La crocifissione-supplizio si differenzia essenzialmente dalla crocifissione sacrificale in quanto, come abbiamo appena visto, la crocifissione sacrificale, almeno in Palestina, si praticava dopo la morte, mentre, nella crocifissione penale, si crocifiggeva vivo; ed è una cosa atroce immaginare che la morte non arrivasse così presto. Nessuna ferita grave era fatta; l'inchiodatura stessa (quando si inchiodava) non toccava nessun organo vitale, e il disgraziato poteva agonizzare per diversi giorni.

Un'altra differenza, egualmente essenziale, tra l'antica crocifissione sacrificale palestinese e la crocifissione penale: nella prima, il cadavere era staccato il giorno stesso, prima del tramonto del sole; i testi dell'Antico Testamento sono formali e unanimi. Al contrario, nel secondo, il crocifisso, attaccato vivo alla croce, non era staccato se non dopo la sua morte e restava così più spesso diversi giorni sul patibolo. 

E quella osservazione ci fa toccare concretamente, nei racconti evangelici, la prima traccia di una tradizione sacrificale primitiva.

Gesù, nei racconti evangelici, crocifisso al mattino, muore alla sesta ora, vale a dire a mezzogiorno, ed è rimosso la sera stessa, come precisano i vangeli secondo San Matteo e secondo San Marco. [4] Ora, la cosa è del tutto inverosimile.  La leggenda evangelica non lascia indovinare alcuna ragione per la quale non sarebbe vissuto uno o più giorni sulla croce come gli altri condannati. Ciò, ognuno lo sapeva, nel primo secolo; non senza ingenuità, San Marco lo testimonia raccontando che Pilato è «stupito» di quella morte rapida.  

Perché i due primi vangeli si sono sentiti obbligati a riportare un fatto che uno di loro riconosceva improbabile?

Perché una tradizione, ed era precisamente l'antica tradizione sacrificale, riportava che il corpo della vittima era stato rimosso prima del tramonto del sole.

Il vangelo secondo San Giovanni ha sentito la difficoltà; racconta che gli ebrei chiesero a Pilato che si affrettasse la morte dei suppliziati, al fine di non lasciare in croce i loro corpi un giorno di Sabato; come se i Romani ne fossero imbarazzati! Ma la cosa più strana è che Pilato mette dei legionari al servizio della «judaica superstitio».

L'antica tradizione secondo la quale gli dèi che morivano e risorgevano dovevano percorrere in tre giorni il ciclo che li conduceva dalla morte alla resurrezione, è legata all'obbligo legale di rimuovere prima del tramonto del sole i corpi dei crocifissi. Così come la tradizione sacrificale, essa ha costretto gli evangelisti, contro ogni verosimiglianza, a far morire Gesù appena messo in croce. 

NOTE

[1] Deuteronomio 21:22-23.

[2] Giosuè 8:29; 10:26-27 e 10:1 e 28-30.

[3] Numeri 25:4 (Baal-Peor); 1 Samuele 31:10 (Saul) e 2 Samuele 21:6-9 (i sette figli di Saul).

[4] Matteo 27:59 e Marco 15:46. 

giovedì 23 dicembre 2021

IL DIO GESÙLe due tradizioni

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LE DUE TRADIZIONI

Esistono dunque nei libri cristiani due tradizioni quanto alla messa a morte di Gesù. Una la dà come una esecuzione giudiziaria, l'altra come un sacrificio espiatorio. Entrambe si ritrovano nei vangeli; la seconda è la sola che si ritrova nelle epistole di San Paolo.

Si potrebbe trarre argomento da questo che le epistole di San Paolo, essendo state scritte un quarto di secolo prima dei vangeli, rappresentano una tradizione anteriore; ma alcuni ribatterebbero che il documento più antico per la data della sua stesura non è necessariamente il più antico per la data del suo contenuto, il che apre una disputa interminabile, e il nostro obiettivo è stabilire non solo che la tradizione evangelica è posteriore alla tradizione paolina, ma che la presuppone ed effettivamente ne deriva. Basta, per contro, aver constatato che l'esecuzione giudiziaria è assente, ben più, è sconosciuta nelle epistole paoline, e che la dottrina sacrificale persiste nei vangeli, accanto all'esecuzione giudiziaria, per arrivare a questo: la crocifissione di Gesù è un sacrificio rituale che è stato trasformato in esecuzione giudiziaria avente il valore di un sacrificio.

E i lettori non specialisti, lungi dallo scandalizzarsi o persino dal meravigliarsi, vi riconosceranno il fatto stesso della formazione religiosa.

Abbiamo spiegato che le affermazioni della fede e le definizioni dogmatiche della Chiesa sono le forme simboliche con cui si rivestono, per il loro tempo e per il loro luogo, le verità sociologiche, e a qual punto l'idea di frode è inimmaginabile alla base dei grandi movimenti rivoluzionari che furono i grandi rinnovamenti religiosi. Se ne dedurrà che le proposizioni della fede sono in un perpetuo divenire, così come le necessità profonde che esprimono, e che la loro essenza è di cercarsi, di riprendersi, di trasformarsi senza posa.

Il famoso quod semper, quod ubique, quod ab omnibus è il magnifico postulato di cui la Chiesa si è servita per stabilire l'autorità dei suoi dogmi; è una formula politica; questa non è una formula religiosa; storicamente, è il più grande errore che sia stato lanciato in faccia agli uomini. 

Le verità della fede non sono; esse diventano. Ma ciò che è vero per tutto il ciclo delle religioni lo è infinitamente di più per la loro giovinezza.

Così si spiegano i tentennamenti senza fine che riconosciamo nel corso dei cento anni (e anche dei centocinquanta anni) che hanno seguito l'anno 27, e durante i quali il cristianesimo si è costituito — tentennamenti, vale a dire precisamente trasformazioni.

Mai un solo istante va immaginato lo scrittore di uno dei libri sacri dedito a distorcere di proposito deliberato una tradizione. Non va mai dimenticato che gli autori dei libri sacri non sono in alcun modo scrittori alla maniera degli storici che diciotto secoli più tardi studieranno gli stessi testi, ma uomini incapaci della minima critica e, soprattutto, credenti. La falsificazione non entra nell'instaurazione di una grande religione; persino quando uno scrittore, o un compilatore, o un copista aggiunge, cancella o modifica, non si può dire che falsifichi. La falsificazione non entra nell'instaurazione di una grande religione, in primo luogo perché le operazioni della fede non procedono secondo le stesse regole delle operazioni della ragione; e anche perché la falsificazione non ottiene mai che un effimero successo. La frode, abbiamo detto, interviene quando i politici entrano in gioco; una religione nasce e si sviluppa solo se emana dal profondo. La disonestà è una certezza di fallimento, o miei cari chierici atei!

La trasposizione si fa a poco a poco, lentamente, a immagine stessa degli spiriti in cui si opera; e, quando lo scrittore prende la penna, è divenuta cosa accettata, vale a dire è divenuta la nuova espressione dell'anima collettiva. È da lungo tempo che si è detto che un libro sacro è il testimone, non delle cose che racconta, ma dello stato d'animo del tempo e dell'ambiente al quale appartiene.

Il compito dello storico è di ritrovare, sotto la tradizione evoluta, la tradizione primitiva. 

domenica 19 dicembre 2021

IL DIO GESÙLe epistole di San Paolo

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LE EPISTOLE DI SAN PAOLO

La messa a morte di Gesù non è «raccontata» nelle epistole di San Paolo. Abbiamo detto che le epistole di San Paolo sono lettere indirizzate dall'apostolo alle prime chiese cristiane verso la metà del primo secolo, vale a dire da venti a trent'anni dopo la crocifissione; ma queste lettere, benché essendo scritti di circostanza, non sono lettere missive ordinarie; sono state scritte per essere lette solennemente nelle comunità, come oggi i mandati di un vescovo; meglio ancora, sono state scritte per essere salmodiate, perché sono ritmate (almeno nella loro parte originale). Ma non si deve in alcun modo rappresentarsi San Paolo sotto le specie di un prelato occupato a mettere i suoi mandati in versi, foss'anche in versi liberi; il P. Jousse ha provato che la ritmica di San Paolo era dello stesso ordine di quello degli ispirati primitivi, profeti e dervisci. In una forma che pare come scaturita dal suo inconscio, San Paolo tratta le questioni che si presentano, senz'altra volontà che di dare alle comunità che ha creato le direttive che gli ispira lo «Spirito». La difficoltà è di riconoscere in queste lettere ciò che è di San Paolo e ciò che è aggiunto. Spingendo al limite la critica soggettiva (ma astenendosi da ogni considerazione filologica), il signor Henri Delafosse ha preteso togliere al maestro tutto ciò che gli è originale, per accordarlo a Marcione il discepolo; niente è più falso, e niente è più insostenibile; in realtà, né Marcione né i Marcioniti hanno interpolato e hanno dovuto interpolare le epistole di San Paolo, salvo beninteso qualche dettaglio, per la ragione che essi vi hanno attinto gli elementi della loro dottrina, e che il marcionismo non è che un paolinismo sviluppato. Le interpolazioni sono di mani cattoliche, e soprattutto destinate a correggere i passi che parvero precisamente alla Chiesa sospetti di marcionismo. [1]

Per discernere nelle epistole ciò che è originale e ciò che è interpolazione, la critica dispone di numerosi criteri; abbiamo già rimarcato che essa non impiega sufficientemente il criterio artistico. Ci sono nelle epistole versi ammirevoli di passione: ce ne sono di banali, di sovrabbondanti, di sorprendentemente ferventi (come quelli che abbiamo citato, 15:56-58 della prima epistola ai Corinzi); non esiteremo mai a riconoscere nelle cose belle la mano dell'autore, e quella dell'interpolatore nelle banalità. Il criterio più sicuro è ovviamente il criterio filologico; ma quale erudizione vi occorre! Un altro criterio sarebbe quello del ritmo, se non sollevasse ardue difficoltà. Ed ecco cosa sconvolge il signor Delafosse, le belle cose sono quelle che dichiara essere marcionite, vale a dire quelle che si riferiscono al sacrificio espiatorio, alla follia della croce; le banalità, quelle che riguardano il messianismo. L'avventura del signor Delafosse è, in verità, un decisivo esempio di ciò che può costare ad uno studioso la mancanza di senso artistico oltre che di  conoscenze filologiche.

Nei versi che sono la sua opera, San Paolo appare come uno scrittore di non minor genio dell'autore anonimo del più antico vangelo; ma egli presenta con lui un contrasto completo. L'evangelista è un narratore che ha l'anima di un drammaturgo; mette in scena e racconta. San Paolo non è né un narratore né un drammaturgo; è un visionario, ma è un profeta; vuole persuadere, e lo vuole con tutta la violenza della sua passione; è un poeta, ma è un poeta che mira all'azione.

Lo stile dell'evangelista era tutto limpida semplicità. Al contrario, lo stile di San Paolo è goffo, incoerente, persino caotico. In una lingua più barbara di quella di ciascuno degli scrittori del cristianesimo primitivo, in mezzo alle peggiori scorrettezze, con una inverosimile povertà di vocabolario e di sintassi, egli trova le parole, le combinazioni di parole più potentemente suggestive che nessun poeta ha realizzato fino a Pascal e fino a Rimbaud. Così, volendo parlare, seconda epistola ai Corinzi 5:5, dei barlumi di spiritualità che Dio accorda ai cristiani per sostenerli tra l'oppressione delle cose della terra (e impiego di proposito la misera metafora dei «barlumi» che verrebbe alla penna di un qualunque scrittore), San Paolo dice le «primizie dello Spirito». Si traducono i vangeli così facilmente come non importa quale narratore, e così facilmente come Omero; non si traduce San Paolo. La maggior parte delle traduzioni francesi che sono a scopo di edificazione, come Segond, si sforzano di attenuare le dissonanze; la traduzione del signor Loisy è letterale, ma, con tutto il suo talento, il signor Loisy non ha il senso della grande scrittura. 

Ora, ecco la domanda: come le epistole rappresentano la crocifissione di Gesù? 

Una volta, San Paolo ricorda ai Galati che egli ha «raffigurato» loro Gesù crocifisso; quella raffigurazione, che ci sarebbe così infinitamente preziosa, non ha ricevuto, ahimè, ahimè, nei suoi scritti la forma letteraria che l'avrebbe resa popolare al pari della tradizione evangelica, e non troviamo nulla nel corso di dieci epistole se non l'affermazione astratta che Gesù è stato crocifisso. La sola indicazione che apporta una precisazione è quella della prima epistola ai Corinzi 2:8, dove leggiamo che Gesù è stato crocifisso dai demoni, asserzione che ha bisogno di essere studiata e non fornisce, presa isolatamente, alcuna informazione; si vedrà, nel prossimo volume, che la crocifissione ad opera dei demoni è lo stadio intermedio tra la crocifissione puramente rituale delle origini e la crocifissione come la rappresentano i vangeli; senza soffermarsi qui, si constaterà soltanto che una crocifissione ad opera dei demoni può difficilmente essere assimilata ad una esecuzione capitale ordinata dall'autorità giudiziaria.

Quel che ne sia, bisogna rassegnarsi a constatare che non esiste nelle epistole alcuna descrizione, anche sommaria, della crocifissione di Gesù nelle epistole. Ma se non è facile apprendere dalle epistole come San Paolo immaginava la crocifissione di Gesù, sarà, per contro, facilissimo riconoscere come non la immaginava. E per ciò basterà prestare attenzione a ciò che chiamerei la malattia armonizzatrice, per non dire l'armonisalgia. Quella malattia, che affligge universalmente e tanto i critici razionalisti quanto i critici ortodossi, consiste nel prestare ad uno scrittore dati che appartengono ad un altro.

Un esempio ci farà comprendere. Sappiamo dai vangeli che Gesù è stato tradito da Giuda; d'altra parte, leggiamo in San Paolo che egli è stato «consegnato»... Senza ulteriore esame il critico affetto dalla malattia armonizzatrice comprende «consegnato da Giuda» e afferma che San Paolo conosce il tradimento di Giuda. Egli ha armonizzato San Paolo e i vangeli. Ma San Paolo non parla mai di Giuda, e per una buona ragione.

Allo stesso modo, quando il buon curato che sa che Gesù è il figlio della Vergine Maria, legge nelle epistole che Gesù è nato da una donna, intende immediatamente nato da una vergine, cosa di cui le epistole non proferiscono parola. 

Il P. de Grandmaison scrive, nel piccolo libro già citato, che «le lettere di San Paolo prendono per tema fondamentale Gesù di Nazaret, la sua vita e la sua morte». San Paolo, sia detto di passaggio, non pronuncia nemmeno una sola volta la parola Nazaret o Nazareno; ma quanto a prendere per tema fondamentale la «vita» di Gesù, ci premureremo di stabilire nel prossimo volume che le epistole la ignorano assolutamente; esse conoscono la morte di Gesù; esse non conoscono la sua vita; e chi lo contesterà sarà pertanto obbligato a confessare che la carriera di Gesù è singolarmente assente dall'orizzonte delle epistole. Ma quando il P. de Grandmaison, che è nondimeno uno dei più notevoli studiosi cattolici di questo tempo, legge un'epistola di San Paolo, non la legge che con uno solo dei suoi due occhi; l'altro, nello stesso istante, segue i testi evangelici.

Questo è l'esempio che dobbiamo sforzarci di non seguire. E conviene aggiungere che la difficoltà non sarà grande. La malattia armonizzatrice è una di quelle malattie che si trattano per mezzo dell'igiene e che è sufficiente evitare per non esserne affetti.

Attenendoci attualmente alla morte di Gesù, e la questione essendo così strettamente limitata, sembra possibile affermare, e nella maniera più categorica, che le epistole paoline [2] sono mute quanto ad un arresto, un processo, una condanna penale, e quanto al carattere giudiziario della messa a morte di Gesù. [3] E non solo le epistole autentiche sono mute quanto all'arresto, al giudizio, alla condanna e al carattere giudiziario dell'esecuzione, ma non vi fanno alcuna allusione, per quanto lontana sia.

I lettori non specialisti e che non sono familiari con la letteratura paolina apprenderanno, non senza curiosità, che San Paolo, mentre è ricolmo della crocifissione, non nomina mai Pilato, né i Romani, né Caifa, né il Sinedrio, né Erode, né Giuda, né le pie donne, né qualche personaggio che sia della Passione evangelica; e che non solo non li nomina, ma non vi fa mai allusione; infine che non menziona assolutamente nessuna delle circostanze della Passione, né direttamente, né per via di allusione. Intendiamoci, perché sembra necessario insistere su una constatazione di cui ciascuno comprenderà l'estrema importanza; San Paolo parla in tutte le pagine delle sue epistole, parla per così dire senza sosta della crocifissione di Gesù; e mai, direttamente o indirettamente, una frase si riferisce a qualcuno degli attori messi in scena dai vangeli; mai una riga si riferisce all'intervento degli ebrei o dei Romani; mai il minimo degli episodi è un istante evocato di ciò che si definirebbe oggi l'affare Gesù.

In due parole, chi avrebbe letto solo le epistole di San Paolo saprebbe che Gesù è stato crocifisso; ma ignorerebbe, e nella maniera più radicale, che egli è stato accusato di un crimine qualunque, che è stato arrestato, che è comparso davanti ad uno o più tribunali, che è stato condannato e che la sua morte ha avuto la forma di un'esecuzione giudiziaria. 

Tre dettagli sono eppure stati addotti. Vediamoli. 

Primo dettaglio: San Paolo dice [4] che Gesù è stato oltraggiato... Ecco la prova tangibile che Gesù è stato condannato dal procuratore e consegnato da lui agli insulti dei soldati... Ma San Paolo, se dice «oltraggiato», non dice da chi, e sostituire «dai soldati del procuratore» è un nuovo caso di malattia armonizzatrice. Gli oltraggi inflitti al dio nel corso della sua Passione sono, altrettanto bene, un episodio perfettamente regolare e conosciuto di un gran numero di drammi sacri. [5]

Secondo dettaglio: le epistole dicono che Gesù ha sofferto [6]... Prova decisiva di un supplizio penale... Ma, come per ciò che concerne gli oltraggi, quella cosiddetta sofferenza va contro la tesi giudiziaria. La parola e i suoi derivati che impiega San Paolo nei testi considerati è precisamente il termine tecnico che esprime le «Passioni» divine; [7] San Paolo non parla in alcun modo delle «sofferenze» che avrebbe sopportato Gesù, ma della sua «Passione», vale a dire del dramma sacro.

Terzo dettaglio: Gesù è stato crocifisso «a causa della sua debolezza» [8] ... Gesù era quindi debole... In realtà, San Paolo vuole dire che Gesù, avendo rinunciato momentaneamente alla sua forma di dio, come ciò è esposto nel celebre brano dell'epistola ai Filippesi 2:7-8, ha preso la forma e la debolezza di un servo; e insegna che dobbiamo essere deboli con lui al fine di risorgere gloriosamente con lui.

E tali sono i tre tratti che, secondo il razionalismo evemerista, proverebbero che le epistole rappresentano Gesù condannato a morte per ordine del procuratore Pilato ed ucciso dai legionari... I miei lettori non specialisti si domanderanno se tutto ciò non sia uno scherzo...

La conclusione è dunque molto ferma: nessuna traccia, in San Paolo, del processo, della condanna e dell'esecuzione giudiziaria. Dappertutto, al contrario, l'idea del sacrificio espiatorio. Se non sono date sul sacrificio espiatorio stesso più precisazioni che sulla crocifissione; se persino, a rigore, il termine tecnico, ἱλαστήριον, che è impiegato, [9] può passare per una metafora, è nondimeno universalmente riconosciuto, tra gli studiosi indipendenti e gli studiosi cattolici, che non soltanto la dottrina del sacrificio espiatorio si ritrova in tutte le pagine delle epistole, ma che le ispira da un capo all'altro.

Per dimostrare che San Paolo ha conosciuto l'esecuzione giudiziaria di cui mai parla, i razionalisti usano lo stesso argomento degli ortodossi, ed eccolo.

Le epistole sarebbero, con una differenza di grado o di punto di vista, nella stessa situazione dei vangeli; allo stesso modo dei vangeli, esse supporrebbero che il sacrificio espiatorio si sia operato sotto la forma eccezionale di un arresto, di una condanna e di un'esecuzione giudiziaria; ma, mentre i vangeli hanno giustamente per scopo di raccontarne gli episodi, San Paolo, che è un predicatore e non un narratore, li supporrebbe conosciuti dai suoi ascoltatori, vale a dire dai suoi corrispondenti.

Sia! Ma ciò spiega l'assenza di ogni indicazione, di ogni allusione?... Come, neanche una sola volta, nel corso di tutte queste epistole, nemmeno una sola volta San Paolo ha avuto l'occasione di fare di passaggio, per caso, un'allusione, perfino minima, a questi episodi, a questi personaggi?... Che in un gran numero di epistole l'occasione non si sia presentata, ammettiamolo... Ma in nessuno!... Niente, mai niente, ovunque si sia, dell'arresto, del processo, dei giudici, della folla, della terribile via della croce, di questo dramma indimenticabile?...

Ed ecco la risposta razionalista:

San Paolo non si interessava a questi dettagli...

Non ridiamo; e traduciamo in stile esegetico.

San Paolo, non avendo in vista che il Gesù secondo lo spirito, vale a dire l'essere divino, non ha voluto sapere nulla di ciò che è avvenuto al Gesù secondo la carne, vale a dire al Gesù uomo.

C'è in quella risposta, se la si medita, uno strano abuso di nozioni. San Paolo, si dice con ragione, si interessa solo ad un Gesù secondo lo spirito; evidentemente, il sacrificio espiatorio realizzato dalla sua morte concerne in primo luogo le cose secondo lo spirito; ma in che modo il fatto che la morte redentrice abbia avuto luogo sotto forma della crocifissione concerne lo spirito più degli altri episodi della morte redentrice? Ci si intenda. O San Paolo si disinteressa di ciò che è accaduto secondo la carne, e allora si accontenterà di annunciare Gesù sacrificato, e vorrà ignorare la forma di crocifissione che ha preso il sacrificio, come ignorerà il resto; oppure San Paolo si interesserà alla forma che ha preso il sacrificio, e si interesserà tanto agli episodi formidabili della Passione quanto al fatto stesso della crocifissione. Se la tragedia della Passione appartiene alle cose «secondo la carne», l'operazione della messa in croce non vi appartiene di meno. Se la crocifissione appartiene alle cose «secondo lo spirito», gli altri episodi della tragedia vi appartengono egualmente.

È certo, e noi arriviamo ad una considerazione sulla quale avremo da ritornare, è certo che il punto di vista della fede in sé è indifferente alla maniera in cui si è materialmente svolto il sacrificio. Ma si dimentica che la fede dei grandi mistici come San Paolo, come San Francesco d'Assisi, come Santa Teresa, è una fede visionaria, eminentemente avida di immagini, e delle immagini più concrete. Cosa c'è che, nel sacrificio della croce, allucina San Francesco d'Assisi? Le sacre e sanguinolente stigmate rispondono sufficientemente. I dettagli materiali della Passione, nel loro orrore fisico, sono il cibo di cui avrebbe necessariamente dovuto alimentarsi la fede di San Paolo, come se ne è alimentata la fede di San Francesco d'Assisi e di Santa Teresa e di San Giovanni della Croce.

E concludo: se San Paolo avesse conosciuto la tragedia della Passione, se ne sarebbe nutrito.

Per prendere i fatti dal punto di vista della semplice verosimiglianza, noi immaginiamo difficilmente nel nostro XX° secolo l'orribile supplizio che era la crocifissione, uno dei più atroci che la malvagità umana abbia inventato; ma mal si comprende come un cristiano, che visse all'epoca stessa in cui Gesù l'avrebbe subita, che non ebbe assistito allo spaventoso evento, ma che conobbe i testimoni che vi avrebbero assistito, non ne abbia mai espresso l'orrore. Ma se si pensa all'angoscia quasi fisica che le peripezie del dramma raccontato dai vangeli hanno ispirato, durante i secoli, nei credenti, ci si domanda come un mistico, un esaltato come San Paolo sarebbe stato il solo a non trovare, non fosse che una sola volta, nel corso di dieci epistole, una parola per evocarne l'allucinante incubo. E chiunque tenterà, al posto di rinchiudersi in uno studio libresco, di realizzare le cose, non potrà dedurne che questo: quel terrificante supplizio, egli non lo ha conosciuto; egli ha conosciuto solo un rito di sacrificio, — ciò solo — e nulla di più. 

Il lettore si dirà che ci si dà qui molta pena per provare che la cosa che è assente da un testo fosse assente dal pensiero del suo autore. Perché se mai la prova sembra dover essere a carico di una delle parti, è a carico di quella che dichiara: San Paolo non fa mai allusione al racconto evangelico della Passione, ma lo conosceva perfettamente.

Sarebbe facile per noi dimostrare similmente che la condanna giudiziaria e l'esecuzione di Gesù non sono solamente ignorate dalle epistole di San Paolo, ma anche dalla maggior parte degli scritti cristiani antichi, salvo beninteso dai vangeli e da una parte (da una parte solamente) degli Atti. Il silenzio dell'Apocalisse è in particolare lo stesso di quello delle epistole paoline; quanto all'epistola agli Ebrei, una vaghissima allusione vi appare al supplizio penale. Da cui risulta che la tradizione dell'esecuzione giudiziaria era lontana dall'essersi imposta all'epoca stessa in cui fu scritto il più antico vangelo.

Nel prossimo volume, esamineremo come San Paolo concepisce la crocifissione in un modo già evoluto e che già non è più esattamente quello dell'antico dramma sacro. Ci basterà qui aver stabilito che la crocifissione di Gesù non è per lui un'esecuzione giudiziaria ma un sacrificio espiatorio.

E tutto ciò riceverà una conferma sovrabbondante, quando si sarà in seguito stabilito che la carriera umana prestata a Gesù dai vangeli non è meno completamente ignorata dalle epistole paoline del suo supplizio penale.  

NOTE

[1] Si veda sopra, pagine 32 e seguenti.

[2] Resta convenuto che noi non intendiamo mai, sotto il nome di epistole paoline, se non le prime dieci epistole al massimo, ad esclusione delle tre epistole pastorali riconosciute posteriori dall'unanimità dei critici indipendenti.

[3] Per quel che è del testo di 1 Tessalonicesi 2:15, si veda sopra, pagina 33; con un gran numero di critici, lo stesso signor Loisy lo considera interpolato; ma se fosse autentico, sarebbe solo una testimonianza ben approssimativa del carattere giudiziario della messa a morte di Gesù.

[4] Romani 15:3.

[5] Il lettore sarà forse divertito nel constatare a quali abbagli può condurre la malattia armonizzatrice. Il signor Cullmann scrive (Revue d'Histoire et de Philosophie religieuse, 1925, VI, pagina 570) che San Paolo «menziona solo gli eventi della vita di Gesù che si riferiscono alla Passione». A parte il fatto stesso della messa in croce, domando al signor Culmann quali sono «gli eventi» che «menziona» San Paolo. In nota, il signor Culmann ne adduce uno, uno solo, e precisamente gli oltraggi, ma scrive: «gli oltraggi che Gesù ha accettato senza mormorare». «Senza mormorare» dà evidentemente alla cosa una piccola aria di realtà umana; ma «senza mormorare» non è di San Paolo; «senza mormorare» è un'invenzione del signor Cullmann.

[6] 2 Corinzi 1:5 e 7; Romani 8:17; Filippesi 3:10.

[7] Si veda sopra, pagine 96 e seguenti.

[8] 2 Corinzi 13:4.

[9] Romani 3:25.

martedì 7 dicembre 2021

IL DIO GESÙI racconti evangelici

 (segue da qui)


I RACCONTI EVANGELICI

È possibile sapere quale, dei nostri quattro Vangeli, è il più antico scritto? O, per parlare con più precisione, quale è quello degli scrittori evangelisti che, utilizzando gli elementi che gli forniva la tradizione, ha raccontato per prima, nel contesto che gli altri hanno ereditato e hanno conservato, e che il folclore ha arricchito, la vita e la morte di Gesù?

Il vangelo secondo San Matteo, il primo nell'ordine del canone, è passato a lungo per esser stato egualmente il primo nell'ordine cronologico. La priorità è generalmente accordata oggi, tra gli studiosi razionalisti, a quello secondo San Marco. Sotto le loro forme attuali, i vangeli secondo San Luca e secondo San Giovanni sono evidentemente posteriori; ma alcuni studiosi hanno potuto avanzare recentemente l'opinione che queste forme ricoprivano stati più antichi che essi considerano primitivi. Essi stessi, i vangeli secondo San Matteo e secondo San Marco possono benissimo essere nuove edizioni di testi più antichi. Non è infine affatto inimmaginabile che un Proto-vangelo sia esistito, anteriore a quelli che possediamo e il cui testo sarebbe andato perduto. Si vede quale incertezza e quali difficoltà pesano sul problema.

Stessa incertezza quanto alla lingua nella quale ha potuto essere scritto il vangelo originale. A lungo il testo greco del vangelo secondo San Matteo è stato considerato una traduzione o una trascrizione dell'aramaico. La stessa ipotesi è stata sostenuta quanto a quello secondo San Marco; è egualmente possibile, come ha suggerito il signor Couchoud, che esso sia la traduzione di un testo latino originariamente destinato a quei cristiani di Roma che parlavano il latino o piuttosto la forma popolare dialettica del latino. Aggiungiamo che i recentissimi lavori del P. Jousse hanno dato un rinnovato interesse all'ipotesi di un testo aramaico primitivo.

Ma se è difficile indicare, tra i nostri quattro vangeli, quello che, essendo primitivo, ha servito agli altri da modello o quello che si avvicina di più ad un vangelo primitivo scomparso, e se non è meno difficile decidere in quale lingua sia stato scritto, abbiamo il diritto di affermare, e nella maniera più categorica, che questo vangelo primitivo, di cui non possiamo dire il nome, che è forse uno dei nostri quattro vangeli, o di cui uno dei nostri quattro vangeli è forse la trasposizione, è stato uno dei più grandi capolavori della letteratura umana.

Un capolavoro, perché, in tutta certezza, è stata una creazione oltre che una realizzazione.

Sappiamo che gli elementi che costituiscono i racconti evangelici sembrano provenire, gli uni da una raccolta di Detti che Gesù avrebbe pronunciato, gli altri da una raccolta di Testimonianze, vale a dire da profezie prese dall'Antico Testamento e che Gesù avrebbe adempiuto. Da questo doppio caos, il vangelo originale ha ricavato il dramma, unico al mondo, di cui gli altri vangeli sono le trascrizioni e lo sviluppo. E un istante di riflessione è sufficiente a far intendere che per concepire ed eseguire una tale opera, occorreva, in effetti, che lo scrittore fosse dotato dei più rari doni della creazione e della realizzazione.

La creazione fu il contesto nel quale organizzò gli elementi che gli forniva la tradizione, e fu la vita prodigiosa con cui li animò. Così Shakespeare ha ricevuto da altri i soggetti di Amleto, di Romeo e Giulietta, di quasi tutti i suoi drammi, e ha compiuto la sua opera mettendoli in drammi. Ma il paragone fa torto all'evangelista; se Shakespeare ha ricevuto da altri embrioni di drammi, domandiamoci ciò che il più antico evangelista aveva ricevuto dalla tradizione.

Quanto alla morte di Gesù, equivarrebbe ad anticipare le nostre conclusioni mostrare mediante quali tentativi ed errori e quali incoerenze era necessariamente passata la tradizione nell'opera di trasformazione che finiva appena di completare, quando il primo evangelista prese la penna. Ma, qualunque ne sia di quella questione, gli studiosi razionalisti sono d'accordo sul fatto che la maggior parte degli episodi della Passione sono, altrettanto bene degli episodi della carriera di Gesù, adempimenti di profezie, illustrazioni di logia e petizioni della fede delle comunità; mi basterà dunque seguire le conclusioni alle quali è arrivata la critica indipendente, sia quanto ai racconti della morte che quanto ai racconti della vita di Gesù.

Si deve cercare di immaginare la tediosa compilazione che poté essere la raccolta dei Detti, il manuale delle Testimonianze ricavate dalle Scritture. Si legga, per farsene un'idea, i Logia recentemente scoperti in Egitto e che sembrano essere stati la continuazione dei Logia primitivi...

Il Signore ha detto... (segue una sentenza).

Il Signore ha detto... (segue un'altra sentenza).

Il Signore ha detto... (segue una nuova sentenza).

E quanto al manuale delle Testimonianze, nient'altro che un'arida serie di «scritture» prese dagli antichi Profeti, e che Gesù avrebbe adempiuto. «I sordi udranno, gli zoppi cammineranno, i ciechi vedranno», e la semplice, banale e astratta deduzione che i sordi hanno udito, che gli zoppi hanno camminato, che i ciechi hanno visto, senza che venga mai detto chi fossero questi sordi, questi zoppi e questi ciechi, e come avessero recuperato l'udito, il cammino e la vista.

Una profezia, e poi una profezia, e poi un'altra profezia.

Un precetto, e poi un precetto; una rivendicazione, e poi una rivendicazione; un'invettiva, e poi un'invettiva; una promessa, e poi una promessa. 

Ecco il libro dei Detti; ecco il libro delle Testimonianze.

Non l'ombra di un'azione.

Non un fremito di sensibilità.

Non un soffio di vita.

E non parliamo delle novità cultuali, oppure liturgiche, che si trattava di legittimare...

Una sola cosa vivente: i temi leggendari che correvano nell'Oriente ellenistico.

Nell'anima visionaria del primo degli evangelisti, ciascuna profezia realizzata diventa un evento, ciascun detto diventa un episodio, e ciascun evento, ciascun episodio è esso stesso, nel contempo, un quadro, un racconto e una scena drammatica. Nell'anima visionaria del poeta, il luogo e l'epoca si precisano; il lago, le barche, la tempesta sorgono; il cielo e le colline appaiono; un'atmosfera si dispiega; e, nello stesso momento in cui gli scenari si profilano, i personaggi spuntano dal nulla; vanno; vengono; parlano tra loro; la folla passa, talvolta lontana, talvolta che si mescola all'evento; i discepoli mostrano i loro volti; le pie donne si affrettano; infine, Gesù, Gesù stesso si leva dalle sue tenebre secolari, ed ecco il colpo di genio: si direbbe che è un uomo, e resta misteriosamente un dio; e, in verità, ha il cuore di un uomo, e così profondamente vero nelle sue mille sfaccettature, nella sua psicologia infinitamente sfumata, di una voce così risonante, che solo un grande poeta poteva estrarne dalle sue viscere la realtà.

Creazione di una cornice, creazione del luogo e dell'epoca, creazione di venti personaggi, creazione di un eroe più vivo di qualsiasi eroe di dramma o di romanzo. Ho nominato Shakespeare; si pensi ad Omero che raccolse chissà quali embrioni di epica e che narrò l'Iliade; si pensi a Richard Wagner, che prese dalle saghe chissà quali insipidi racconti, e che realizzò l'opera incomparabile di creare, in pieno XIX° secolo, una leggenda. Ma l'opera dell'evangelista è più straordinaria, che da una raccolta di massime, da un vademecum di propaganda e da un manuale liturgico trae la tragedia della vita e della morte di Gesù.

Un racconto, a dire il vero, o piuttosto una successione di brevi racconti isolati, pressappoco indipendenti, e che lega la figura del personaggio principale, e in cui prendono vita i temi leggendari tramite cui gli uomini hanno da ogni tempo espresso la loro concezione del divino. Ma il miracolo è che, al contrario di un Omero, di un Wagner e di uno Shakespeare, l'opera è quella di un uomo che fu, nessuno potrebbe dubitarne, un incolto. Che il vocabolario sia povero e indigente la sintassi è, in effetti, un segno di incultura; ma questa non è affatto la prova che il genio abbia fatto difetto. E alzo le spalle quando vedo alcuni critici mettere tale scrittore sacro al di sopra di tal altro sotto il pretesto che quest'ultimo arrotonda meglio le sue frasi!

Una cosa eppure manca generalmente nei testi evangelici, e quella considerazione tenderebbe a far ammettere che i più antichi siano stati delle traduzioni: non vi si trovano le parole possenti ed evocative, le citazioni imperiose che sono la caratteristica dei grandi scrittori e che abbondano al contrario nelle epistole di San Paolo. Ma sotto la semplicità un po' corsiva della forma, quale limpidezza! Mai fiume più puro è sceso, e mai più carico di mistero. 

Ho parlato fin qui solo dell'invenzione, della composizione, della realizzazione letteraria; resterebbe da mostrare come quella realizzazione, quella invenzione, oltrepassando tutto ciò che uno Shakespeare ha potuto produrre, sia servita ad esprimere la più alta spiritualità religiosa. Vertice quasi unico dove l'arte ha dato la mano alla preghiera.

E, per terminare, il grande capolavoro, il racconto della Passione; chiedo che lo si rilegga, perché di fatto è della Passione di Gesù che si tratterrà in questo volume.

Dapprima, l'ultima cena; la notte nell'Orto degli ulivi; l'arresto; la comparsa davanti ai due tribunali, l'ebraico e il romano; l'orribile folla; la condanna; la flagellazione; la salita al calvario; la crocifissione; la morte e la sepoltura; la resurrezione.

Si dimentica troppo spesso, tra gli storici delle religioni, a qual punto la potenza d'espressione, vale a dire il valore formale, sia una causa di successo per la propagazione di un'idea. Tutt'altra cosa è sapere se è una prova di storicità. Uno dei grandi poeti di questo tempo mi disse un giorno che la figura di Gesù nei vangeli gli appariva di una così possente verità che non poteva trattenersi dal credere ad una realtà. Mi è stato facile rispondergli (non che la storicità dei fatti della carriera di Gesù che raccontano i vangeli non fosse sostenuta oggi da nessun studioso indipendente, argomentazione che avrebbe mediocremente controbattuto la sua impressione di artista), ma che, il più antico dei vangeli essendo stato scritto quasi mezzo secolo dopo la crocifissione, ad una distanza dal paese che rappresentava allora un viaggio interminabile, e dopo uno dei più grandi sconvolgimenti che conosca la storia, non era concepibile che i mille dettagli infimi il cui insieme dà giustamente alla figura di Gesù la sua verità abbiano potuto essere conservati dalla tradizione; perché non bisogna dimenticare che la verità di un personaggio non risulta mai dalle sue grandi linee, ma precisamente dall'intreccio delle innumerevoli sfumature che alcun ricordo può conservare per cinquant'anni. Mi è stato egualmente facile, da un punto di vista generale, asserirgli che un personaggio reale presentato da uno scrittore fittizio diventa un personaggio falso, e che un personaggio immaginario presentato da un autentico artista diventa un personaggio vero... E il mio amico ha concluso, quanto al vangelo: — L'opera di un grande poeta allora... 

Una risposta analoga dovrebbe essere fatta alla classica obiezione: l'insegnamento che i vangeli mettono in bocca a Gesù non può non essere stata l'opera di una personalità eccezionale. È da moltissimo tempo che Salvador, poi Joseph Cahen, poi Rodrigues hanno provato, testi alla mano, quanto poco nuovo fosse nel primo secolo l'insegnamento prestato a Gesù; e, dopo Salvador, Joseph Cahen e Rodrigues, abbiamo appreso come la raccolta dei Detti fosse costituita dall'aggiunta successiva di ciascuno dei suoi tratti. Ma queste considerazioni non sminuiscono in alcun modo l'insegnamento evangelico. Se ciascun tratto in particolare è sprovvisto dell'originalità che si voleva trovarvi, questo, per contro, è potentemente, è divinamente originale: la scelta, l'accento, la risonanza, quello che chiamerei il valore musicale nel senso più profondo dell'espressione, e, al di sopra di tutto, il valore mistico. E in ciò giustamente si riconosce l'opera di un grande poeta, — di un grande poeta e di un grande mistico.

Se bisogna affidarsi all'impressione artistica per giudicare della bellezza di un'opera, non è dunque in alcun modo su quella impressione che conviene affidarsi per giudicare della sua storicità, ma su una fredda analisi. Ma, se a ciò che chiamerei la lettura artistica o semplicemente la lettura emotiva, vale a dire alla lettura ingenua succede la lettura critica, le improbabilità sorgono e si accumulano. Non c'è motivo di enumerarle qui; ricordiamo solo che Gesù viene arrestato, compare davanti a due tribunali e viene ucciso nello spazio di poche ore; il tribunale ebraico si riunisce durante la notte; e questa stessa notte è una notte di festa religiosa, mostruosità che prova da sé sola quanto lo scrittore fosse lontano dagli eventi che racconta e dai luoghi che descrive. Nessuna forma è rispettata; si commettono cose, violazione ripetuta del Sabato per esempio, che la legge ebraica e il costume ebraico condannavano e proibivano senza riserve e che non si sono mai viste a Gerusalemme. Quanto a Pilato, è una figura dell'immaginario popolare inimmaginabile per un magistrato romano.

Ma è ben altra cosa se si confrontano i primi tre e il quarto vangelo. Nemmeno accordo sulla data, né sul giorno, né sull'anno! Nei primi tre, Gesù è messo a morte un venerdì, che si ritrova essere quell'anno il giorno dopo la Pasqua ebraica; nel quarto, questo venerdì è il giorno stesso della Pasqua; e quella differenza di giorno conduce ad una differenza di anno, gli anni in cui la Pasqua è caduta un giovedì non essendo quelli in cui è caduta un venerdì. Ora, la divergenza è moralmente tanto più inquietante perché i critici sono d'accordo nell'attribuirle cause dogmatiche, e in nessun modo un amore di verità. San Giovanni, secondo loro, avrebbe collocato la morte di Gesù il giorno della Pasqua al fine di fare della sua morte un rinnovamento del sacrificio pasquale e per giustificare la data della Pasqua cristiana osservata nelle comunità d'Asia, mentre la data adottata dai Sinottici pretendeva di legittimare l'osservanza pasquale delle comunità d'Occidente. Si vede quale fiducia tali preoccupazioni possono ispirare nell'informazione di uno storico.

Nona appena ci si ricorda, d'altra parte, gli innumerevoli racconti dei drammi sacri seri o comici che rileva, per esempio, il Ramo d'oro, con i loro re da farsa immolati, oppure i misteri di Osiride, ci si domanda per quale oscura coincidenza l'esecuzione di Gesù avrebbe riunito la maggior parte delle caratteristiche di queste terribili feste.

L'argomento, il più forte, dal semplice punto di vista del buon senso, contro la storicità della Passione non è, infatti, il suo carattere leggendario, il quale potrebbe, a dire il vero, essere aggiunto ad un fondo storico; è che al fondo, al di fuori di ogni aggiunta leggendaria, essa si presenta come una «passione» di un dio morto e risorto; è che possiede essenzialmente tutti gli elementi fondamentali, al contempo tragici e derisori, di un dramma sacro.

La carriera di Gesù che ha preceduto la sua morte, come è raccontata nei vangeli, susciterebbe la stessa ammirazione, ma risveglierebbe gli stessi dubbi, e abbiamo detto a quali conclusioni era arrivata la critica razionalista stessa quanto al suo carattere storico. Ma si tratta in questo momento solo della Passione; comunque la messa a morte di Gesù è il punto di partenza sul quale verte tutt'intero il problema delle origini cristiane.

Che i racconti della Passione nei vangeli non siano altro che una mirabile leggenda senza storicità è dunque la conclusione alla quale tutte le strade ci conducono; la questione è riconoscere di quale tradizione primitiva essi sono la drammatizzazione leggendaria.

I racconti evangelici espongono e la Chiesa insegna che, se Gesù è morto torturato, martirizzato in virtù di una condanna pronunciata dal procuratore Pilato, quella esecuzione giudiziaria è stata il sacrificio espiatorio tramite il quale gli è piaciuto compiere la sua opera redentrice. La morte di Gesù sarebbe quindi, nel contempo, un'esecuzione giudiziaria e un sacrificio espiatorio, o, piuttosto, un sacrificio espiatorio che, invece di compiersi secondo il rituale d'uso, si sarebbe operato sotto le specie di un'esecuzione giudiziaria. Ci si rende conto che non vi è là un'asserzione storica, ma una dottrina teologica, la cosa intendendosi solo in quanto realizzazione di un piano soprannaturale. Avendo Dio padre deciso di inviare suo figlio, o quest'ultimo avendo lui stesso deciso, d'accordo con suo padre, di venire ad espiare i peccati degli uomini, l'esecuzione giudiziaria sarebbe stata il mezzo col quale, dopo l'esame dei vari tipi di morte possibili, le due persone divine, ovviamente assistite dalla terza, avrebbero creduto di dover fare la loro scelta. Lo storico, trovandosi nell'impossibilità di controllare le cose che si sono svolte tra Dio padre e Dio figlio, deve domandarsi se la messa a morte di Gesù sia un'esecuzione giudiziaria interpretata dalla fede in sacrificio espiatorio, o se non sia un sacrificio regolare trasformato in supplizio giudiziario.

Una tradizione giudiziaria e una tradizione sacrificale si ritrovano, in ogni caso, tutte e due, e fianco a fianco, nei racconti evangelici.

Ne è lo stesso nelle epistole di San Paolo? 

domenica 5 dicembre 2021

IL DIO GESÙIl sacrificio espiatorio

 (segue da qui)


TERZA PARTE

L'ALBERO DELLA CROCE

I

IL SACRIFICIO ESPIATORIO

«Ciò che ha conquistato il mondo greco-romano è un mistero di salvezza fondato sulla morte di Gesù concepita come redentrice...». Così abbiamo inteso parlare il signor Alfred Loisy.

«Ciò che è in primo piano nel cristianesimo apostolico, è una dottrina della redenzione per mezzo della morte del Cristo...». Così parla dal canto suo il signor Maurice Goguel; il maestro degli studi cristiani alla Sorbona, il signor Charles Guignebert, non professa un'altra dottrina; ed è la stessa dottrina che professa l'unanimità degli studiosi razionalisti, in ciò d'accordo (per l'essenziale) con gli studiosi cattolici e protestanti dall'estrema destra conservatrice fino all'estrema sinistra più avanzata. E, in verità, non vi è studio critico possibile delle origini cristiane, se non si ha compreso che il sacrificio della croce è il principio fondamentale della propagazione del cristianesimo nel mondo greco-romano.

Questo fatto ammesso, la questione si pone: il sacrificio espiatorio è all'origine del cristianesimo, vale a dire appartiene alla tradizione più primitiva, oppure è posteriore e aggiunto? e su questo, al bell'accordo che abbiamo appena riconosciuto tra gli studiosi succede un non meno evidente disaccordo.

La scienza razionalista professa che la crocifissione di Gesù è stata unicamente un'esecuzione giudiziaria ordinata dalle autorità ebraiche o romane, e che si sarebbe in seguito interpretata in sacrificio espiatorio. Gli studiosi cattolici professano che la crocifissione di Gesù è stata, allo stesso tempo di un'esecuzione giudiziaria, un sacrificio espiatorio. La terza ipotesi, quella che noi tenteremo di stabilire, vuole che all'origine la crocifissione sia stata unicamente un sacrificio espiatorio rituale, e che la tradizione dell'esecuzione giudiziaria sia stata essa stessa posteriore e aggiunta.

Riportiamoci ai documenti.  

IL DIO GESÙIl Gesù spirituale

(segue da qui)

IL GESÙ SPIRITUALE

Preliminarmente ad ogni altra ricerca, il nostro compito dovrà essere di stabilire, secondo i documenti, che la morte di Gesù è stata originariamente, non un'esecuzione giudiziaria, ma un sacrificio espiatorio praticato ritualmente e periodicamente in un dramma sacro. Così sarà confermata nei testi la storicità spirituale di Gesù. E conviene rendersi conto fin d'ora delle conseguenze di una tale dimostrazione.

Se la morte di Gesù, sin dall'origine, è stata rappresentata come un supplizio penale, la conclusione s'impone: Gesù non è stato, per i primi cristiani, un essere spirituale; è stato un uomo tra gli uomini, un uomo che sarebbe stato condannato dalle autorità romane o ebraiche per aver predicato, se non la rivolta, almeno un messianismo pericoloso. Ho solo da citare qui il riassunto che il signor Loisy ha dato della tesi. [1]

«Gesù non predicava una religione nuova, ma il compimento della speranza di Israele... Paolo predica una religione», la quale «è un'economia di salvezza fondata sul valore mistico della morte di Gesù... Si tratta per noi di vedere come si è potuta fare la trasposizione della dottrina e dell'opera, della vita e della morte di un predicatore ebreo crocifisso per sentenza di Ponzio Pilato, in una religione universale, culto di un essere divino che era ritenuto aver realizzato, da solo e volontariamente, l'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, ciò che raccontavano delle loro divinità mitologiche. ... i settari di Dioniso, gli iniziati di Eleusi, i fedeli della Madre, quelli di Iside e quelli di Mitra».

Tutt'al contrario, se, sin dall'origine, la morte di Gesù è stata rappresentata come un sacrificio espiatorio rituale, la conclusione s'impone: Gesù è stato per i primi cristiani l'essere spirituale che è rimasto per le generazioni che hanno seguito. E dirò pertanto, prendendo strettamente il contropiede del signor Loisy:

I primi apostoli e San Paolo stesso hanno predicato un'economia di salvezza fondata sul valore mistico del sacrificio espiatorio... I loro successori, mezzo secolo più tardi, dopo la rovina del giudaismo, hanno adattato a quella economia di salvezza la buona novella del prossimo compimento della speranza ebraica. Si tratta per noi di vedere come ha potuto effettuarsi, non la trasposizione, ma l'evoluzione della vecchia religione sorella delle religioni di Dioniso, della Madre, di Iside e di Mitra, in una religione complessa che univa questi principi ad un messianismo ebraico rinnovato.

Ho citato il signor Loisy; citerei egualmente il signor Guignebert. Sotto una forma di arringa polemica che copre una dottrina del tutto altrettanto sicura di sé, il signor Guignebert, al proposito del Mystère de Jésus del signor Couchoud, ha esposto [2] la tesi evemerista in termini che riassumo come segue:

Il cristianesimo è primitivamente «la speranza cristiana», in quanto è «uscita dal suolo palestinese»... «Si deve andare a cercarla nei vangeli sinottici», benché vi sia «distorta, mutilata, frammentata, penetrata di miti e di leggende, perché vi ha ricevuto una messa in forma relativamente tardiva; ma, in sé, è molto anteriore alle immaginazioni e alle rivelazioni di Paolo.... Il paolinismo non è, in alcuna misura, la forma primaria del cristianesimo; esso raffigura una tappa della sua evoluzione, compiuta in un ambiente molto diverso da quello in cui la nuova fede è nata».

Allo stesso modo in cui ho preso il contropiede della tesi del signor Loisy, prendo il contropiede della tesi del signor Guignebert, e dico:

Il cristianesimo è diventato solo un mezzo secolo dopo la crocifissione  l'espressione rinnovata dell'antica speranza ebraica, come si deve andare a cercarla nei vangeli sinottici, benché vi sia amalgamata con i dati primitivi della religione misterica da cui ha cominciato ad essere. Il paolinismo è sicuramente solo una tappa della sua evoluzione, ma è in ogni caso anteriore alla combinazione evangelica. 

Alcune parole di spiegazione sembrano qui necessarie.

Durante i primi due terzi del primo secolo, il giudaismo era nel contempo una chiesa considerevole e una imponente nazionalità con una capitale di prima importanza, Gerusalemme. Sostituire il giudaismo è una chimera che non può venire in mente a nessuno tra i cristiani; e San Paolo intravede solo la «riforma», vale a dire la cristianizzazione del giudaismo. Nel 66, rivolta degli ebrei contro la dominazione romana. Dal 66 al 70, guerra fino alla morte. Nel 70, presa e distruzione di Gerusalemme, del suo tempio, dello stato ebraico. Evento di una portata incalcolabile. E, come conseguenza, questo: un posto da prendere per il cristianesimo.

Già San Paolo aveva compreso, con l'intuizione di un genio, che per far accettare il cristianesimo e dargli i titoli che gli mancavano, doveva supportarlo sui libri sacri del giudaismo. Quando, dopo il 70, si tratterrà di sostituire il giudaismo stesso, i cristiani dovranno presentarlo come suo erede, come il «nuovo Israele», e giudaizzarlo fino all'estremo limite delle sue possibilità.

Una delle nostre tesi principali sarà che l'idea messianica, nel senso comunemente usato di liberazione di Israele, non entrò nel cristianesimo fino a dopo il 70, e gli specialisti possono attendersi di vedere utilizzare qui, benché da un altro punto di vista, i lavori celebri tra loro di Wrede, il quale, nel 1901, ha già stabilito che l'idea messianica era, nel vangelo secondo San Marco, sovrapposta alle tradizioni primitive, e altrettanto bene quelli, del tutto recenti, del signor Bultmann. E così apparirà che i famosi giudeo-cristiani, di cui sin da Baur ci bombardano, sono cronologicamente solo un'eresia posteriore, come l'avevano benissimo compreso i Padri della Chiesa, e aggiungerei: un'esagerazione di giudaizzazione nel cristianesimo primitivo.

Gli studiosi ammettono che due concezioni di Gesù sono esistite nel cristianesimo primitivo, una paganeggiante (ed ellenistica), l'altra giudaica, le quali, prima di fondersi, si sono opposte; e questo è ciò che i signori Couchoud e Stahl hanno appena stabilito una volta di più. [3] A quella veduta la nostra teoria apporta nel contempo una conferma e un rinnovamento invertendo l'ordine cronologico delle due concezioni, vale a dire ponendo all'origine la concezione di un Gesù misterico palestinese e ad un'epoca successiva quella di un Gesù giudaizzato in messia d'Israele.

Se però dell'antico dio sacrificale la generazione evangelista ha fatto il liberatore promesso a Israele, essa ha saputo conservarne tutt'intera la spiritualità concentrando la sua fede, la sua speranza e il suo amore nella figura che immaginò; ma, siccome le cose più divine hanno esse stesse il loro rovescio, ha aperto la strada a Renan e all'evemerismo.

Tentiamo di dimenticare un po' il messia e di ritornare al dio sacrificale.

NOTE

[1] Mystères Païens, 205-206.

[2] Impartial Français, 25 ottobre 1924.

[3] Jésus Barabbas, nel Hibbert journal, ottobre 1926. 

giovedì 2 dicembre 2021

IL DIO GESÙOrigine della leggenda di Gesù

 (segue da qui)

ORIGINE DELLA LEGGENDA DI GESÙ

Supporre infine in Gesù una storicità spirituale equivarrà a verificare nei documenti della storia come il mito stesso del dio crocifisso sia nato da un rito di crocifissione del dio. E, conformemente al piano di studi sopra tracciato, questo terzo problema è quello che il presente volume si impegna a trattare, preliminarmente agli altri due.

Ricordiamo brevemente come la questione si pone, e quali risposte sono state date.

Nietzsche diceva e il signor Loisy ha ridetto dopo di lui che un fiammifero ha potuto bastare per incendiare il mondo; ma occorreva il fiammifero. Lo storico e critico d'arte Théodore Duret, a cui spiegai un giorno la formazione della leggenda evangelica, si dichiarava pronto a seguirmi, ma reclamava al principio dell'evoluzione la «piccola cellula primitiva». Si trattava per gli studiosi di mettere la mano sulla piccola cellula primitiva di Duret, sul fiammifero di Nietzsche.

Se la carriera di Gesù che raccontano i vangeli è una leggenda mitica, come vogliono i mitisti e ammettono sempre più le ultime scuole razionaliste, e come noi stessi pretendiamo, quale è stato il punto di partenza di questo mito?

Per porre la domanda con più precisione, essendo data la credenza dei cristiani, attestata dal primo secolo, in un dio che sarebbe venuto sulla terra per esservi sacrificato sotto le specie della crocifissione, quale è stata l'origine di quella credenza?

Il dio morente nell'interesse dei suoi seguaci, il dio sacrificato, e anche il dio risorto, sono fatti universali, comuni a molte religioni; gli studiosi cattolici lo negano, e si può loro accordare che il cristianesimo li abbia enunciati con una precisione maggiore; sono, in ogni caso, fatti di ordine generale, che si spiegano completamente tramite l'evoluzione religiosa dell'umanità. Non c'è da cercarne altrove l'origine.

Tutt'al contrario, il modo di questo sacrificio, la crocifissione, appare come un fatto particolare del cristianesimo; non che il cristianesimo sia la sola religione il cui dio sia stato un dio crocifisso; ma la crocifissione resta la caratteristica del mito di Gesù. Da dove proviene la crocifissione?

Praticamente, ricercare le origini della leggenda o mito di Gesù equivaleva dunque a ricercare perché i primi cristiani si sono rappresentati Gesù come crocifisso.

La risposta dei razionalisti è tanto semplice quanto logica. La leggenda evangelica ha offerto al mondo un dio crocifisso, perché ha il suo punto di partenza nella crocifissione, reale e storica, di un uomo chiamato Gesù. L'idea del dio crocifisso proverrebbe quindi dalla crocifissione, reale e fisicamente storica, dell'uomo di cui in seguito si è fatto un dio. Il supplizio del miserabile agitatore o del minuscolo profeta, ecco il fiammifero che ha incendiato il mondo.

Il successo dell'evemerismo è dovuto all'estrema semplicità delle sue soluzioni; si capisce che esse seducano le menti che non desiderano approfondire i problemi; ci si stupisce che gli studiosi vi trovino la loro soddisfazione, perché se la chiarezza è una delle qualità del reale, non ne è affatto la garanzia.

Si ricordi l'ipotesi un momento ammessa da Sir James Frazer; la leggenda avrebbe la sua origine nella tragicommedia di una sorta di carnevale di cui Gesù sarebbe stato l'eroe. A malapena c'è il bisogno di rispondere che vi è là solo una variante della crocifissione tradizionale; al punto di partenza resta un uomo tra gli uomini, il quale è condannato non più per espiare un crimine di diritto comune, ma per assumere il ruolo piuttosto gravoso del re-dio crocifisso.

Per ripudiare ogni evemerismo, i mitisti hanno nondimeno il compito di spiegare come sia venuta ai primi cristiani l'idea di un Gesù crocifisso, se quella idea non sia stata fornita loro da una realtà storica.

Ora, occorre dirlo, la risposta evemerista, per quanto inaccettabile, è semplice e chiara; le risposte mitiche fino al presente sono confuse e, non meglio della risposta evemerista, non rientrano nelle leggi della storia delle religioni.

Evidentemente, un movimento religioso nasce nell'anima collettiva... Ma preciso la domanda: un dio venuto sulla terra, e venuto per esservi sacrificato, ciò si intende da sé; ma perché la crocifissione?

L'idea di una falsificazione non può essere seriamente avanzata, e l'ipotesi di un'invenzione concertata tra gli Apostoli è una mostruosità.

La prima spiegazione mitica degna di esame è stata quella brillantemente presentata dal signor Salomon Reinach. L'idea della crocifissione sarebbe stata fornita dalle profezie dell'Antico Testamento che i cristiani pretendevano essere state realizzate da Gesù.

Sia! ma ancora occorrerebbe che queste profezie le si conoscesse.

Si adduce il testo greco (perché il testo ebraico è alterato) del Salmo 22:17: «Hanno forato le mie mani e i miei piedi».

Che questo tratto infimo sia stata la fonte da cui i cristiani hanno attinto la rappresentazione del dio crocifisso, resto confuso. Appare piuttosto come il miserabile ripiego al quale si sono soffermati, e tardivamente, per procurare la profezia che ad ogni prezzo volevano produrre.

Si vedrà nel prossimo capitolo a qual punto l'inchiodatura delle mani e soprattutto dei piedi sia secondaria nella crocifissione. Se le profezie dell'Antico Testamento avessero dovuto fornire il genere di messa a morte di Gesù, esse avrebbero piuttosto suggerito il colpo di spada o il colpo di lancia. [1]

Il signor Couchoud ha presentato, sulla crocifissione, la più seducente delle ipotesi che il mitismo abbia mai immaginato. Appoggiandosi su due testi, uno preso da San Paolo e l'altro da un apocrifo poco conosciuto, egli fa della crocifissione un dramma apocalittico, che si sarebbe svolto nell'etere mistico, tra esseri soprannaturali, sorta di visione dell'apostolo. Vedremo più tardi che, tutt'al contrario, le epistole rappresentano la crocifissione come un atto fisico, che si era storicamente compiuto. Ma è sufficiente constatare che l'ipotesi, per quanto sia suggestiva, non reca una soluzione al problema: perché la crocifissione piuttosto che ogni altro genere di morte? E il signor Couchoud è costretto a ripiegare, al seguito del signor Salomon Reinach, sul Salmo 22.

Mi permetto di dire che gli studiosi mitisti, altrettanto bene degli studiosi razionalisti, hanno sbagliato strada. La soluzione può essere trovata solo nelle leggi della formazione religiosa. Prima di verificare nei fatti della storia come esse si applicano al cristianesimo, ricordiamo e precisiamo quelle che governano la nascita dei miti.

1° legge. — La prima di queste leggi, la più generale, è quella formulata dal signor Loisy: — «I miti religiosi sono un'elaborazione del pensiero credente sulle cose religiose, non sui fatti».

Se ogni formazione religiosa procede dalla mentalità mistica, la nozione del dio crocifisso non può che trovare la sua origine nell'ordine della mistica. L'errore fondamentale dell'evemerismo è di aver posto il punto di partenza di una religione in un evento politico.

Il cristianesimo non è nato da un episodio della Gazzetta dei Tribunali palestinesi, o da un macabro fatto di cronaca dell'Almanacco aneddotico dell'anno 27. 

«I miti religiosi», ha detto il signor Loisy, «sono un'elaborazione del pensiero credente sulle cose religiose, non sui fatti».

Non resta al maestro che applicare quella legge alla formazione del mito cristiano.

2° legge. — La seconda legge, andando più oltre, è quella di Robertson Smith: — I miti nascono dai riti. 

Nessuno studioso dubita oggi che, in un modo generale, i miti derivino dai riti. Basta applicare al cristianesimo le stesse leggi che si applicano a tutte le religioni. E se la soluzione del problema della crocifissione non è saltata agli occhi, è in ragione del privilegio d'eccezione di cui constatiamo che il cristianesimo continua a godere.

Il signor Charles Guignebert scriveva recentemente che «i riti che troviamo nelle religioni misteriche sono anteriori ai miti, che i riti sono esistiti prima e che i miti sono nati dopo per spiegarli». [2] Basterà domandare al celebre storico delle religioni, come abbiamo appena domandato al suo collega, di applicare al cristianesimo la regola che ha consacrato con la sua alta autorità.

Il mito della crocifissione è nato da un rito di crocifissione.

Perché praticavano il rito della crocifissione del loro dio, i fedeli di Gesù lo hanno figurato come un dio crocifisso. E ripetiamo il nostro commentario: essi non lo hanno crocifisso perché lo rappresentavano come crocifisso; lo hanno rappresentato come crocifisso, perché il loro rito era di crocifiggerlo. 

Il signor Loisy ha più volte ripetuto che non vi era all'origine del cristianesimo che un solo fatto certo, «la crocifissione di un uomo chiamato Gesù, per sentenza di Ponzio Pilato, a causa di agitazione messianica». Sì, un solo fatto certo: ma il rito millenario del sacrificio espiatorio, il quale ha la sua base nel sacrificio totemico e il suo coronamento nel sacrificio della messa.

3° legge, quella che abbiamo chiamato la legge del realismo mistico. — Per la fede del credente, la vittima sacrificale non rappresenta il dio, essa è il dio. 

Un'operazione fisica, sotto la quale la fede riconosce una realtà spirituale.

Così, fin d'ora si può immaginare, in una prima veduta sommaria, l'antica religione misterica palestinese analoga a tante altre religioni misteriche, il cui dio è immolato in sacrificio ed è ritualmente crocifisso, poi staccato dalla croce e sepolto; da qui il mito di un dio messo in croce; il quale mito si realizza, incorporandosi al mito, in un dramma sacro dove, tra i canti, gli incantesimi, le danze, le processioni, il dio, sotto le spoglie del suo sostituto, è immolato, crocifisso, staccato, sepolto.

Da secoli, il dramma sacro si rinnova periodicamente. Quando la fede marcisce, l'atto si compie meccanicamente, come vediamo più spesso attorno a noi celebrarsi la messa nella sonnolenta apatia della maggior parte dei presenti. Ma quando la fede si riaccende, il credente riconosce di nuovo il dio sotto il simulacro, il dio in persona, con la stessa certezza con cui sotto l'ostia riconoscerà più tardi il corpo del figlio di Dio, in persona, non in simbolo, ma in realtà.

Il mito della crocifissione ha la sua origine in un rito di crocifissione e la sua realizzazione nel dramma sacro nel corso del quale il dio è crocifisso sotto le specie abituali a tutti i drammi sacri.

Il cristianesimo costruito su un evento storico come un'esecuzione giudiziaria non è una religione. Il cristianesimo nato dal sacrificio espiatorio è una religione nata religione, cresciuta religione, in linea retta, come qualcosa che doveva riempire il mondo. Verum de vero, deum de deo.

I non specialisti comprenderanno, penso, perché la concezione evemerista di Gesù è una mostruosità. Perché? Perché facendo di Gesù un uomo divinizzato, propone all'immensa religione che è il cristianesimo un dio che non è un essere spirituale.

La concezione evemerista di Gesù è un crimine contro lo spirito, perché facendo di Gesù un uomo tra gli uomini, sopprime dalla storia umana la più pura spiritualità che essa abbia mai conosciuto.

Gesù non è un personaggio storico; ma non è semplicemente un personaggio mitico; è un essere spirituale. La leggenda evangelica non è né la deformazione di un evento politico, né un'invenzione dell'intelligenza; essa è la trasposizione concreta di un fenomeno di spiritualità.

Da diciotto secoli, e per un tempo che non sembra vicino a finire, la Chiesa cristiana insegna, e migliaia di milioni di esseri umani hanno creduto, che il cristianesimo fosse l'opera di un dio disceso dal cielo per riscattare con la sua morte i peccati degli uomini. Basta tradurre sociologicamente l'affermazione della fede per riconoscere la storicità spirituale della Passione. L'argomento sociologico non è che una forma modernizzata dell'argomento del consenso universale. 

Un professore di teologia all'Università di Berlino, Hermann von Soden, conosciuto per dei lavori d'esegesi e che occupava un posto d'onore nel protestantesimo liberale, è venuto, nel corso della controversia organizzata nel 1910 dal signor Arthur Drews, [3] a deplorare che negando la storicità di Gesù, si toglieva all'umanità «il fascino di una bella illusione di cui l'umanità civilizzata aveva vissuto da duemila anni»...

Da parte di un evemerista, fosse anche di un evemerista pio, eccola, sembra, una strana sfrontatezza. 

La bella illusione, se si osa dire che illusione vi è, di cui l'umanità ha vissuto da duemila anni, è di aver creduto che un uomo tra gli uomini sia stato spinto alla ridicola altezza della divinizzazione? oppure è di aver creduto che un dio sia disceso dal cielo per riscattare i peccati degli uomini? L'umanità ha vissuto sul dio fatto uomo, oppure sulla truccatura di un uomo in dio?

Si è fin troppo parlato dell'odio che nel corso dei secoli gli ebrei avrebbero provato contro i cristiani. Se Gesù è stato solo un uomo di cui si è fatto un dio, un disprezzo alquanto beffardo sarebbe meglio indicato. E, a dire il vero, ci si domanda quale spettacolo più pietoso il cristianesimo avrebbe potuto offrire allo scherno degli ebrei, dell'incenso che da diciotto secoli avrebbe presentato a uno di loro.

Ma che Gesù sia stato o non sia stato ebreo, la questione della razza avrebbe poca importanza; questo solo è importante: — la buona novella, il vangelo, εὐαγγέλιον, che Renan ha portato agli uomini, è che da diciotto secoli essi bruciano l'incenso dinanzi ad uno dei loro simili.

Tale è l'illusione per cui i von Soden hanno sferrato i pugni.

Quanto a noi, noi tenteremo di dire la divina avventura del dio che ha lasciato il suo bel trono ornato di stelle al fine di rispondere all'appello di un mondo che stava morendo senza di lui e per cui ha dovuto morire... E possa, Signore, il vostro tribunale supremo avere l'indulgenza verso coloro che, avendo riconosciuto la vostra divinità, avranno alquanto dubitato della vostra umanità e non avranno voluto materializzare la leggenda con cui vi è piaciuto adornare la vostra santa spiritualità.

NOTE

[1] Altre argomentazioni potrebbero essere addotte; si veda in particolare M. Goguel, Jésus de Nazareth, pagine 213-215.

[2] Dieux et religions, serie di conferenze pubblicate dalla «Grande Revue», pagina 63. La parola «spiegare» non è esattamente quella che converrebbe; ma la conferenza del signor Guignebert ha un carattere di divulgazione che gli ha permesso di accontentarsi di un'approssimazione.

[3] Lipman, Jésus a-t-il vécu? pagina 55.