giovedì 31 dicembre 2020

IL PUZZLE DEI VANGELIIl Cristo delle Scritture

 (segue da qui)

3° Il Cristo delle Scritture

Bisogna davvero ammettere che, se non ne fossimo informati dagli stessi evangelisti, noi non ci saremmo probabilmente sognati di andar ad attingere dall'Antico Testamento certi testi, del tutto irrilevanti, per confrontarli a ciò che se ne è ricavato. La natura profetica di un frammento dell'Antico Testamento non è una qualità apparente, dipende dalle meditazioni dei dotti ebrei (o esseni), molto adatti a edificare una costruzione inaspettata sulla frase più banale. In effetti, la natura profetica di un testo si riconosce per noi dal fatto che è stato utilizzato come tale.

È il più delle volte Matteo che ce ne informa, insistendo sulla realizzazione delle profezie; di solito ci dice che una tal cosa è accaduta «perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta». [57] Nei casi di questo genere, non ci possono essere dubbi sull'utilizzo del testo dell'Antico Testamento, e di conseguenza sullo stesso utilizzo fatto da Marco o Luca, anche se questi non citano la loro fonte. Si è talvolta sorpresi di tutto quel che è stato costruito su un testo banale, ma l'immaginazione degli esegeti era allora fertile, come testimonia il «commentario di Abacuc» scoperto a Qumran. Lo stesso procedimento, con riferimento, si trova anche in Giovanni. [58]

Altre volte, i nostri autori non citano la loro fonte, ma un confronto permette di constatare che in realtà si sono serviti di un passo dell'Antico Testamento, senza che noi sappiamo perché hanno preferito tacere la loro dipendenza.

A volte infine vediamo testi dell'Antico Testamento richiamati o utilizzati senza alcun vantaggio apparente. Confesso che diversi confronti mi sarebbero sfuggiti, se non fossero segnalati dalla Sinossi. Per esempio, era necessario ricorrere ai profeti per sostenere l'espressione dei sinottici che fanno dire a Gesù: «ogni cosa è possibile a Dio» ? [59]

Senza poter enumerare qui tutti i testi dell'Antico Testamento usati nei vangeli, mi sembra interessante segnalare e analizzare i principali, per far emergere meglio il procedimento. Mi limiterò ai prologhi della natività e ai racconti della passione.

I PROLOGHI — Trascuriamo innanzitutto il «Magnificat» che canta Maria [60] nel prologo di Luca, [61] benché contenga non meno di dieci riferimenti biblici, perché i testi antichi vi conservano ancora la loro natura profetica o di anticipazione. Non è lo stesso per il prologo di Matteo, dove i richiami sono presentati come prove di ciò che si è già realizzato:

a) l'intera concezione verginale di Maria si basa su un passo di Isaia: «Ecco, la giovane ragazza concepirà e partorirà un figlio», [62] nel quale la traduzione greca ha introdotto un controsenso sostituendo alla parola «giovane ragazza» la parola «vergine». Matteo, utilizzando la Septuaginta, dà nondimeno questo testo come prova, [63] come se il dogma della nascita verginale derivasse da questo errore di traduzione; [63*

b) Marco, che fa apparire Gesù adulto al suo primo capitolo, come Marcione, non aveva da preoccuparsi del luogo di nascita, ma gli dà Nazaret come luogo di origine. [64] Quando si aggiunsero a Matteo e a Luca dei prologhi destinati a precisare, contro Marcione, il fatto della natività, la questione del luogo si pose. Lo scrittore di Matteo conosce la profezia [65] secondo la quale il Messia doveva uscire da Betlemme di Giuda. Per realizzare quella profezia, alla quale egli si riferisce espressamente, non esita a collocare la nascita di Gesù a Betlemme, al tempo del re Erode. [66] Ma Luca vuole spiegare lo spostamento di Maria a Betlemme, e ritarda la natività fino al tempo del censimento di Quirino, undici anni dopo la morte di Erode, immaginando quell'assurdità di un editto che imponeva a ciascun ebreo (e anche alle donne) di andare a farsi censire nel proprio luogo di nascita. [67] Tutto ciò che si sa, come si vede, è che bisogna situare l'evento a Betlemme, perché ciò è stato annunciato, ma ciascuno sistema la cosa alla sua maniera; 

c) è perché Osea aveva scritto: «Dall'Egitto ho chiamato mio figlio» [68] che si invierà la sacra famiglia a vagare in Egitto. Ma per giustificare questo viaggio, si inventerà il massacro degli innocenti, facendolo predire da Geremia. [69] Tutti gli storici accetteranno in seguito quella favola, che nessun autore pagano conosce, e che Giuseppe, così ostile a Erode, non segnala nemmeno. Così ciascuno ricama liberamente su un testo, perché questo testo, dal momento che figura nella raccolta, deve essere utilizzato.

LA PASSIONE — È nei racconti della Passione che l'utilizzo sistematico dei testi profetici appare più netto. Sembra però che le circostanze della morte di Gesù avrebbero dovuto lasciare ricordi precisi: i nostri autori non sanno praticamente nulla che non sia stato predetto. [70]

Gesù fa dapprima un'entrata a Gerusalemme, in groppa ad un asinello: curioso equipaggio, ma che non risulta da ricordi reali. Ciò accadde, spiega Matteo, [71] «perché si adempisse ciò che era stato annunciato dal profeta», nel caso specifico Zaccaria, [72] che menziona in effetti l'asina e l'asinello. Matteo, che esagera sempre, e seguendo peraltro Zaccaria alla lettera, fa persino sedere Gesù su entrambi gli asini alla volta, cosa che doveva essere una posizione scomoda: «egli vi montò sopra». Marco e Luca si accontentano dell'asinello.

Gesù si reca al Tempio, cosa che può sembrare normale per un pio ebreo, ma questo perché Malachia aveva predetto: «E subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate». [73] Egli caccia i mercanti dal Tempio, invocando al contempo Isaia e Geremia riuniti, [74] come ho segnalato. I due testi erano certamente uniti nella raccolta, poiché i tre sinottici li accostano qui. [75] Ma potrebbe darsi che si sia anche utilizzato Zaccaria: «E in quel giorno non ci saranno più mercanti nel tempio di Jahvé». [76]

Il tradimento di Giuda è naturalmente annunciato dalla Bibbia nei suoi minimi dettagli: il traditore è colui «che mangia il mio pane (e che) ha alzato contro di me il suo calcagno», [77] e il prezzo del tradimento, trenta denari (o sicli) era anche stato predetto da Zaccaria. [78]

Gesù può ritirarsi solo sul Monte degli Ulivi, poiché un testo famoso di Zaccaria, che utilizzarono altri presunti Messia, [79] lo aveva annunciato: «In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi». [80] Presumendo il peggio, egli sa solo citare il Salmo: «La mia anima è triste», [81] o, se preferite la versione di Giovanni, il verso seguente dello stesso Salmo: «La mia anima è abbattuta» (o piange). Gesù, poteva d'altronde agire diversamente dal suo antenato Davide, che era salito di notte sul monte degli Ulivi, piangendo, dopo il tradimento di Achitofel ? [82

Dopo il suo arresto, i suoi discepoli si disperdono, come aveva predetto Zaccaria. «Percuoti il pastore e le pecore saranno disperse». [83] Un soldato ha levato la spada contro di lui, in applicazione dello stesso testo: «Insorgi, spada, contro il mio pastore».

Al momento dell'arresto, vediamo in Marco un giovane, vestito solamente di un lenzuolo, a cui si toglie questa veste e che fugge tutto nudo. [84] Questo episodio, totalmente inutile, sarebbe un ricordo autentico? No, è ricavato dal profeta Amos. [85] Siccome doveva figurare nella raccolta, Marco ha creduto di doverlo utilizzare, ma Matteo o Luca, non vedendo l'interesse, l'hanno lasciato cadere.

Gesù è condannato da Pilato, come l'aveva annunciato Isaia, di cui parlerò più oltre. Come in Isaia, egli non si difende, «come un agnello che è condotto al macello». [86]

È colpito da bastoni, come l'aveva previsto Michea: «Colpiscono con la verga la guancia del giudice d'Israele», [87] e, come l'aveva annunciato Isaia, «non ha sottratto il suo volto agli insulti e agli sputi». [88]

Contrariamente alla legge ebraica, viene ucciso sul posto, benché sia il tempo della Pasqua, a causa del simbolismo dell'agnello pasquale. Ma che bisogno c'è di far uccidere, nello stesso giorno proibito, due ladri comuni ? È, precisa Marco, [89] affinché fosse ancora realizzata la profezia, molto approssimativa, di Isaia: «Gli si diede sepoltura con gli empi», [90] o forse anche «è stato annoverato fra i malfattori». [91]

Durante il suo supplizio sulla croce, i passanti si deridono di lui scuotendo la testa, poiché conoscono bene, pure loro, il Salmo: «Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo». [92] Egli ha sete, e voi pensate che questo sia normale in questo stato; no, è perché lo stesso Salmo lo aveva previsto: «È arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola». [93] Allora gli si dà da bere una singolare bevanda, miscuglio difficile da improvvisare: dell'aceto con del fiele. Questo perché un altro Salmo aveva predetto: «Mi hanno dato da bere aceto per dissetarmi», [94] e Matteo, che ricama sempre, vi ha aggiunto il fiele di sua propria autorità; Marco vi aggiunge solo della mirra, [95] e Luca ignora la bevanda.

Morendo, Gesù poteva solo citare un Salmo, non si sa benissimo quale, purché questo sia una citazione. Marco gli fa citare il Salmo di Davide: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», [96] e Matteo riprende la stessa citazione. Ma ciò non è piaciuto a Luca, che ha preferito un'espressione più dignitosa: «Nelle tue mani io rimetto il mio spirito». [97] Giovanni, probabilmente consapevole dell'improbabilità di tali citazioni in un tale momento, gli fa solamente bere l'aceto, siccome ciò era stato predetto, e constatare allora: «Tutto è compiuto». [98]

Restano però ancora alcune profezie da realizzare. Ecco perché i soldati si spartiranno le vesti del condannato tirandole a sorte, siccome ciò era stato annunciato: «Hanno spartito fra loro le mie vesti, e hanno tirato a sorte la mia tunica». [99] Contrariamente all'uso, non gli si spezzeranno le ossa, poiché un Salmo aveva così deciso: «Egli preserva tutte le sue ossa, non se ne spezza neanche uno». [100] E siccome i sinottici hanno dimenticato un testo insignificante: «Essi guarderanno a colui che hanno trafitto», [101] si approfitterà della stesura tardiva del IV° vangelo per aggiungervi il colpo di lancia del soldato romano. [102

Tutto è ben fatto, in effetti, vale a dire si sono utilizzati tutti i testi profetici della raccolta. Cosa pensare di un racconto così composto di citazioni? Che si sia arrivato a comporre un racconto coerente, con l'aiuto di questi riferimenti riuniti artificialmente, potrebbe sorprenderci, se non sapessimo che esisteva un canovaccio, un'idea ispiratrice tratta dal testo di Isaia.

ISAIA — È meditando sul capitolo 53 di Isaia che si era fabbricata l'immagine, piuttosto eccezionale in ambiente ebraico, di un Messia umiliato e martirizzato:

«Non aveva né dignità né bellezza, per attirare gli sguardi.

Non splendore per poterci piacere;

Disprezzato e reietto dagli uomini...

Disprezzato, non lo abbiamo tenuto in considerazione.

Eppure egli ha preso su di sé le nostre malattie,

Si è addossato i nostri dolori...

Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità;

Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui,

per le sue piaghe noi siamo stati guariti...

Maltrattato, si lasciò umiliare,

Non aprì la sua bocca,

Come un agnello condotto al macello...», ecc. 

Guignebert aveva messo in dubbio l'utilizzo di questo testo, [103] col motivo che non era certo che si sia attribuito a Isaia una natura profetica. L'obiezione è sorprendente: un riferimento esplicito al capitolo 42 di Isaia figura in Matteo, [104] e Guignebert non aveva letto la lettera di Clemente ai Corinzi, in cui l'autore romano cita integralmente, [105] come unico racconto della passione, il capitolo 53 di Isaia? Ma se sussistevano alcuni dubbi, sono stati rimossi dopo la scoperta dei manoscritti del mar Morto, che ha permesso di confermare la natura profetica di Isaia, almeno per gli Esseni: «È ormai certo — e questa è una delle più serie rivelazioni dei ritrovamenti del Mar Morto — che il giudaismo, nel I° secolo PRIMA di Gesù Cristo, ha visto fiorire, attorno alla persona del Maestro di Giustizia, tutta una teologia del Messia sofferente, del Messia redentore del mondo». [106]

Certamente, quella concezione del Messia che soffre e muore per il riscatto degli uomini poteva allora essere elaborata solo dai mistici, come lo erano i solitari di Qumran. La maggioranza del popolo ebraico, appoggiandosi ad altre profezie più vantaggiose, aspettava un altro Messia, una sorta di signore della guerra che avrebbe ristabilito Israele nella sua potenza. Ma dopo il disastro del 70, era necessario davvero ripensare queste profezie, riconoscere i propri errori: è allora, in una nazione umiliata, oppressa, che l'idea di un Messia sofferente apparirà come l'unico mezzo per non far mentire le profezie. Allora si rimprovererà di non aver sufficientemente meditato su Isaia, che solo alcuni (in particolare gli Esseni) avevano compreso. Nessun dubbio che al momento della stesura dei vangeli, Isaia, e in particolare il suo capitolo 53, abbia ampiamente figurato nella raccolta che servirà a costruire il racconto della vita e della morte di Gesù. 

NOTE

[57] Matteo 1:22. Si veda anche 2:5, 2:15, e 17, 3:3, 4:14, 13:35, 21:4, ecc. 

[58] Per esempio Giovanni 19:36-37.

[59] Marco 10:27, Matteo 19:26, Luca 18:27. L'espressione può provenire da Zaccaria (8:6) o da Giobbe (42:2).

[60] Negli antichi manoscritti, il Magnificat è attribuito a Elisabetta.

[61] Luca 1:46.

[62] Isaia 7:14.

[63] Matteo 1:23.

[63*] Già rilevato dall'ebreo Trifone nel suo dialogo con Giustino. Non è escluso che la Settanta abbia un po' «cristianizzato» Isaia.

[64] Marco 6:1.

[65] Michea 5:1.

[66] Matteo 2:1.

[67] Luca 2:3.

[68] Osea 1:1.

[69] Matteo 2:18, con riferimento esplicito a Geremia 31:15.

[70] Tranne il processo davanti al Sinedrio, che sarà inventato più tardi per incolpare gli ebrei.

[71] Matteo 21:4-7.

[72] Zaccaria 9:9.

[73] Malachia 3:1.

[74] Isaia 56:6 e Geremia 7:11.

[75] Marco 11:17, Matteo 21:13, Luca 19:46.

[76] Zaccaria 14:21.

[77] Salmo 41:10.

[78] Zaccaria 11:12.

[79] Come quell'Egiziano (certamente ebreo) che, al tempo del procuratore Felice, vi avrebbe radunato 4000 sicari (Atti 21:38) o 30000 secondo Giuseppe (Guerra Giudaica, 2:13:5, si veda Antichità 20:8:6). Si trattava di una insurrezione armata, che fu severamente repressa. 

[80] Zaccaria 14:4.

[81] Salmo 42:6-7.

[82] 2 Samuele 15:30-31.

[83] Zaccaria 13:7.

[84] Marco 14:51-52.

[85] Amos 2:16.

[86] Isaia 53:7.

[87] Michea 4:14.

[88] Isaia 50:6.

[89] Marco 15:28.

[90] Isaia 53:9.

[91] Isaia 53:12.

[92] Salmo 22:8.

[93] Salmo 22:16.

[94] Salmo 69:22.

[95] Marco 15:23.

[96] Salmo 22:2.

[97] Salmo 31:6.

[98] Giovanni 19:30.

[99] Salmo 22:19.

[100] Salmo 34:21, citato da Giovanni 19:36. Si veda anche Esodo 12:46.

[101] Zaccaria 12:10.

[102] Giovanni 19:34-37.

[103] GUIGNEBERT, Jésus, pag. 71.

[104] Matteo 12:17-21.

[105] Epistola di Clemente 16:3-14.

[106] DUPONT-SOMMER, Aperçus préliminaires sur les manuscrits de la mer Morte, pag. 116.

IL PUZZLE DEI VANGELIIl problema dei «logia»

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2° Il problema dei «logia»

Numerosi esegeti hanno sottolineato che i tre sinottici raccontano spesso, sostanzialmente, gli stessi episodi della vita di Gesù, ma che ne modificano il contesto, le circostanze; che mettono spesso in bocca a Gesù parole chiaramente simili, ma che gliele fanno pronunciare in condizioni di tempo e di luogo molto diverse. Riscontri così precisi sarebbero impossibili, se ciascuno scrittore avesse lavorato isolatamente, ma così grandi differenze rimangono inspiegabili, se gli ultimi due hanno semplicemente ricopiato il primo. L'unica spiegazione logica è che i nostri tre autori avrebbero disposto di una o più fonti comuni, che ciascuno avrebbe utilizzato a suo modo.

Siccome l'accento è stato messo per lungo tempo sulle «parole» attribuite a Gesù, si è presa l'abitudine di chiamare logia quella fonte comune; la parola greca logia, che è passibile di diversi significati, è presa qui nel senso primitivo di parole, discorsi o detti.

Ma la parola logia può anche tradursi con «profezie», e ciò ci porta al problema, completamente diverso, dell'esistenza, alla fonte dei vangeli, di una raccolta di profezie messianiche attinte dall'Antico Testamento.

Sono due questioni ben distinte.

LE RACCOLTE DI DETTI — Che siano esistite una o più [40] raccolte di parole o detti attribuiti a Gesù, dalle quali gli autori dei sinottici avrebbero attinto, era un'ipotesi estremamente probabile; la sua necessità si impone ancor di più dal momento che si sa la data tardiva di stesura dei vangeli, poiché sarebbe impossibile che l'insieme delle parole prestate a Gesù sia sopravvissuto per così tanto tempo con una tale concordanza nella forma. Era quindi molto plausibile che l'essenziale di quello che si diceva essere l'insegnamento del maestro sia stato consegnato in una piccola raccolta, o in più raccolte, che avevano circolato nelle comunità cristiane. Non cerchiamo ancora di svelare l'origine di questo insegnamento.

L'ipotesi era del resto confermata dal fatto che gli autori del II° secolo, come Clemente il Romano, l'autore della Didaché e Giustino, benché non conoscendo ancora i vangeli, conoscevano nondimeno dei logia che saranno utilizzati nella stesura di queste opere. 

L'ipotesi è stata trasformata in certezza dalla scoperta dei manoscritti gnostici dell'Egitto intorno al 1945: tra questi manoscritti figura, in effetti, una raccolta di logia, intitolata «Vangelo secondo Tommaso». Non si tratta di un vangelo propriamente detto, poiché allinea senza alcuna circostanza biografica parole attribuite a Gesù. Delle 114 sentenze o parabole così allineate, molte figurano nei sinottici, ma con delle varianti. [41] È molto degno di nota, per esempio, il fatto che i detti raccolti da Matteo nel Discorso della montagna vi sono ancora sparsi. Ma altri detti non sono stati ripresi nei canonici, come per esempio quello che dichiara che «le donne non sono degne della vita» (eterna). [42]

Sono certamente esistite altre raccolte simili, il cui contenuto doveva variare. Queste raccolte di detti morali hanno largamente preceduto le «vite» di Gesù. Ma, disponendo di tali raccolte, gli evangelisti ne hanno ripartito le espressioni a seconda della loro fantasia, senza la minima preoccupazione per le circostanze in cui potrebbero essere state pronunciate, poiché le loro fonti non precisavano queste circostanze.

Beninteso, quella spiegazione non fa che rimandare il problema, e si deve domandarsi da dove provengono queste raccolte di detti. Si deve vedervi una stesura (per quanto tardiva) delle parole autentiche di Gesù? Per rispondere a quella domanda, si dovrebbe conoscere la data, almeno approssimativa, della stesura dei logia; sfortunatamente essa non può essere fissata, neppure con qualche verosimiglianza.

È necessario, quindi, guardare al problema in modo diverso, e chiedersi se, nel complesso, i detti attribuiti a Gesù contengano un insegnamento originale in cui emergerebbe una personalità, o se, al contrario, ricordino altre espressioni ben conosciute altrimenti. I credenti hanno tendenza a vedere, nelle espressioni evangeliche, il segno di un'originalità e di una profondità che testimoniano la forte personalità del loro autore. All'opposto, la critica razionalista è stata severissima nei riguardi dei detti, e pretende di non trovarvi nulla che non esistesse già prima del cristianesimo. La questione non mi sembra ben posta sotto quella forma: esiste, in molti detti e proverbi anonimi, una forma originale e una raccolta di queste espressioni potrebbe dare l'illusione di provenire da un grande scrittore. Ciò che va apprezzato è lo spirito generale, la coerenza e la novità che emergerebbero eventualmente dal tutto. Supponiamo che il manuale di Epitteto sia rimasto di autore ignoto, noi vi riscontreremo ancora un'opera della scuola stoica, il che ci permetterebbe di classificarlo immediatamente.

La raccolta dei detti evangelici forma un insieme coerente? E in questo caso, a cosa si può paragonarla o confrontarla? 

Il vangelo secondo Tommaso è lontano dal formare un insieme coerente; esso è al contrario un amalgama di detti di provenienze diverse: vi troviamo, senza ordine, un buon numero di parole che passeranno senza difficoltà nei nostri vangeli, ma vi scopriamo anche espressioni nettamente gnostiche, come quella in cui Gesù si qualifica: «colui che non è nato da una donna», [43] o ancora l'insegnamento sulla riunificazione dei sessi. [44]

Se scartiamo le infiltrazioni gnostiche, restano un buon numero di detti morali abbastanza conformi a quelli dei vangeli. Da dove provengono questi detti? Per il loro spirito e la loro forma, si è indotti a vedervi una sintesi della morale essena. Tale sarà anche il caso del discorso della montagna.

Preciserò quella origine parlando delle fonti essene, ma è molto caratteristico che la morale evangelica, lungi dal costituire una novità, sia così vicina alla dottrina di Qumran e alle precisazioni che dava Flavio Giuseppe sulla moralità degli Esseni.

In queste condizioni, il problema dei logia (in questo senso) si trova sufficientemente risolto, poiché sono sicuramente esistiti manuali di moralità esseni. Non è nemmeno concepibile attribuirne la stesura ad una personalità originale, si trattava soltanto di manuali che raccoglievano, in vista dell'insegnamento, l'essenziale di una dottrina peraltro ben conosciuta. L'attribuzione dei detti al «Signore» poteva del resto concordare con l'abitudine che avevano gli Esseni di attribuire (a torto o a ragione) tutta la loro dottrina al Maestro di Giustizia.

LA RACCOLTA DI DETTI — Se lasciamo ora l'insegnamento attribuito a Gesù per interessarci al racconto della sua vita che sembrano contenere i vangeli, un'osservazione importante ci colpisce: i dettagli di quella vita (e di quella morte) sono riportati nei testi che l'Antico Testamento considera profetici della venuta del Messia, e che sono ritenuti realizzare. A meno di ammettere che tutti i dettagli della vita di Gesù siano stati in effetti predetti con diversi secoli di anticipo, si deve davvero accettare razionalmente una spiegazione più semplice, ossia che sono precisamente questi testi che hanno servito a costruire e a raccontare la vita di Gesù.

I vangeli non hanno per scopo di raccontare la vita umana di un saggio, come Senofonte e Platone hanno fatto per Socrate; pretendono di raccontare quella di un dio, e danno come prova il fatto che tutto ciò che è accaduto era stato predetto. Non è per semplice vanità di letterati ebrei che i loro autori segnalano la concordanza tra i loro racconti e la Bibbia, è a titolo dimostrativo: ciò è accaduto affinché fosse realizzata tale profezia, spesso citata dall'autore a sostegno della sua prova.

Certo, a leggerli obiettivamente e nel loro contesto, nessuno dei frammenti così utilizzati dice ciò che gli si fa dire. Considerata annunciatrice del Messia, e ancor più specialmente del Gesù evangelico, «neppure una citazione può essere accettata. In tutto ciò che è stato annunciato dai profeti, in tutto ciò che è stato cantato dai Salmisti o raccontato dagli storici, nei racconti reali, nei miti o nelle leggende, non si trova una parola che possa applicarsi a Gesù... Per applicarli agli eventi e rendere le concordanze più perfette, si sono inventati dettagli, si sono fabbricati discorsi...». [45] Ma questo è il caso di tutti i testi considerati profetici, che richiedono, per essere accettati, una gran parte di immaginazione del lettore. Quanta gente crede, ancora nel XX° secolo, di scoprire nell'Apocalisse o in Nostradamus dei versi che annunciano Hitler, Stalin o Mao Tse-tung? Non si tratta di sapere se i testi utilizzati annunciassero realmente ciò che se ne è ricavato — ovviamente no —, ma di constatare che essi sono stati utilizzati in questo senso. 

La vita di Gesù è fondata così su numerosi testi ai quali una natura profetica è riconosciuta dagli evangelisti. Ben più, nel vasto campo della Bibbia, sono fondamentalmente gli stessi passi che sono stati trattenuti e considerati annunciatori di Gesù.

Ne consegue che si poteva scrivere una vita di Gesù con l'aiuto dei soli testi dell'Antico Testamento, considerati riferiti al Messia, a condizione di estrarli dalla Bibbia e di riunirli. Ora, questo è precisamente ciò che è stato fatto. 

Questa raccolta di profezie non ci è pervenuta, [46] ma l'esistenza di questo assemblaggio di testi, che si è chiamato Testimonia, è richiesta nello stesso tempo dalla logica e dall'esame dei testi.

L'attesa del Messia doveva evidentemente suscitare molte domande tra gli ebrei su questo personaggio, ed è del tutto naturale che si sia cercato di farsene in anticipo un'idea collezionando ciò che l'Antico Testamento sembrava annunciare. Che queste profezie non siano tutte concordi è ciò che non poteva mancare di verificarsi, con testi presi a caso e che non avevano per nulla come scopo di dire ciò che si faceva loro dire. Così non bisogna stupirsi che delle divergenze abbiano potuto prodursi sulla concezione del Messia. Sappiamo che ne sono esistite almeno due, quella del Messia trionfante che doveva dare agli ebrei una supremazia temporale (e che fu rovinata nel 70 dalla presa di Gerusalemme), e quella di un Messia sofferente e umiliato, che era almeno quella degli Esseni. È la seconda ad essere passata nei vangeli, con le tracce della prima. Ma in che modo, per quale via questo passaggio si è operato? 

Si potrebbe evidentemente immaginare che gli evangelisti, conoscendo bene la Bibbia, siano andati ad attingervi, ciascuno direttamente, i testi che invocano. Ma sarebbe ben improbabile che abbiano così utilizzato gli stessi testi. Al contrario, se avevano in mano una raccolta di profezie già estratte dalla Bibbia, essi possedevano, come ha detto Alfaric, un «cantiere in buon ordine», [47] una autentica vita del Messia che dovevano solo attualizzare, — anche se Marco e Luca, a differenza di Matteo, dimenticano più spesso di citare le loro fonti bibliche. 

La prova che hanno utilizzato una tale raccolta, si può ricavarla dai testi stessi. Per esempio, Marco [48] attribuisce al solo Isaia la profezia seguente: «Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri». Ma se la seconda frase è davvero di Isaia, [49] la prima figura in Malachia. [50] Possiamo quindi pensare che questi due testi siano stati riuniti, e che l'autore di Marco li abbia presi per una citazione unica. Ancora Matteo e Luca non hanno commesso, questa volta, lo stesso errore; [51] ma ecco dei raggruppamenti comuni ai sinottici.

Alle domande poste dal Battista dalla sua prigione, il Gesù di Matteo e di Luca [52] risponde con una citazione piuttosto approssimativa di Isaia, ma quella raggruppa in realtà tre frammenti diversi di Isaia. [53] Sarebbe molto difficile immaginare che gli scrittori di Matteo e di Luca avrebbero riunito, ciascuno a modo suo, esattamente tre testi così distanti nell'originale, citandoli con le stesse deformazioni. Sembra certo che essi hanno utilizzato una fonte che raggruppava già questi tre estratti.

Allo stesso modo ancora, quando i tre sinottici fanno dire a Gesù: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti. Voi invece ne avete fatto un covo di ladroni», [54] raggruppano arbitrariamente due citazioni distinte, una da Isaia sulla casa di preghiera, [55] l'altra da Geremia sul covo di ladroni. [56] Un tale confronto avrebbe potuto imporsi a tre autori distinti, se non avessero ricopiato la stessa fonte?

Ma, soprattutto, l'esistenza della raccolta di profezie è postulata dall'utilizzo che ne è stato fatto. Questa raccolta esisteva prima dei vangeli: è ad essa che si riferisce espressamente Clemente il Romano, che vi trovava in primo piano il testo di Isaia che aveva servito da schema al racconto della passione.

Così, quando si vorrà scrivere, contro gli Gnostici, una vita del Gesù carnale, si troverà un documento già pronto, che conteneva già TUTTO ciò che si racconterà della vita di Gesù (salvo alcuni miracoli) e della sua morte. 

Ci si può chiedere se questa raccolta non corrispondesse ai logia che, secondo Papia, Matteo avrebbe raccolto in lingua ebraica, e che «ciascuno interpretava come poteva» (quella espressione si applica meglio alle profezie che alle «parole» dichiarate tra l'altro chiarissime!) Questa non è che un'ipotesi, poiché gli evangelisti non citano mai la Bibbia se non nella sua traduzione greca.

NOTE

[40] I frammenti del papiro di Ossirinco potrebbero provenire da una di queste raccolte.

[41] Per esempio: «Nessun profeta è benvenuto nel proprio villaggio» (logion 31). «Beato l'uomo che ha sofferto» (e non «che soffre», logion 58). «Beati quelli che sono stati perseguitati nei cuori» (logion 69), ecc.

[42] Logion 114.

[43] Logion 15.

[44] «Quando farete dei due uno, e quando farete l’interno come l’esterno... quando farete di uomo e donna una cosa sola, così che l’uomo non sia uomo e la donna non sia donna... allora entrerete nel Regno» (logion 22).

[45] Henri ROGER, Les religions révélées, volume I, Le Judaïsme, pag. 349-352 (Parigi, 1934).

[46] Si sono trovati a Qumran dei frammenti di una raccolta di questo genere.

[47] Aux origines du christianisme, Cahier du Cercle E. Renan, 3° trimestre 1961, pag. 1.

[48] Marco 1:2-3.

[49] Isaia 20:3.

[50] Malachia 3:1.

[51] La frase di Isaia è stata conservata nello stesso punto (Matteo 3:3, Luca 3:4), ma quella di Malachia è stata separata e utilizzata altrove (Matteo 11:10, Luca 7:27).

[52] Matteo 11:5, Luca 7:22. Marco ignora l'episodio.

[53] Isaia 26:18-19, 35:5-6 e 61:1.

[54] Marco 11:17, Matteo 21:13, Luca 19:46.

[55] Isaia 56:7.

[56] Geremia 7:11.

martedì 29 dicembre 2020

IL PUZZLE DEI VANGELILa presunta tradizione

 (segue da qui)

1° La presunta tradizione

Per la Chiesa, questo problema non si pone. Matteo e Giovanni, discepoli di Gesù, avrebbero riportato i loro ricordi personali; Marco, discepolo di Pietro, sarebbe stato direttamente informato dall'apostolo; si esita di più sull'informazione di Luca, ma si assicura che l'avrebbe avuta da testimoni diretti.

Quella tesi è completamente rovinata dalla prova della stesura tardiva dei vangeli: dopo il 150, gli scrittori avrebbero potuto raccogliere, al limite, solo le parole dei nipoti dei testimoni della passione (se la si colloca nel 29-30 circa). Una tradizione orale attraverso tre generazioni non è assolutamente impossibile, soprattutto in Oriente: si deve quindi ricercare se gli evangelisti abbiano veramente raccolto una tradizione orale. Notiamo solamente quanto quella spiegazione perda il suo valore con la distanza nel tempo e nello spazio, e anche con il cambiamento di lingua che suppone: cosa poteva raccogliere, a Roma dopo il 150, uno scrittore greco su fatti che sarebbero avvenuti 120 anni prima nella lontana Palestina, in pieno paese ebraico? Cosa poteva restare di vero nelle parole così raccolte?

Domandiamoci prima di tutto come quella tradizione si sarebbe formata e sarebbe sopravvissuta. Un autore cristiano ce lo dirà con ingenuità:

«Per anni e anni, in queste prime ferventi comunità, ci si accinse a raccogliere piccoli dettagli, venuti da non si sa quale tradizione orale, o molto spesso senza dubbio semplicemente immaginati, su tutti i temi che appassionavano gli spiriti. I viaggiatori se li trasmettevano da una città all'altra, dall'una all'altra chiesa. I presunti ricordi locali, trasportati per migliaia di leghe, prendevano l'apparenza di verità stabilite... La preoccupazione per la verità storica non è mai stata molto viva nella coscienza delle masse; si può pensare che allora l'indifferenza ai metodi di critica fosse quindi assoluta». [2]

È un non-credente chi scrive queste righe? Affatto, ma un autore cattolico, pubblicato sotto il patrocinio di Daniel-Rops. Ha dunque un accesso di lucidità? No, poiché egli tenta solamente di spiegare l'origine dei vangeli... apocrifi. E, accecato dalla sua fede, non scorge che tutto quello che dice sugli apocrifi lo si può dire altrettanto bene dei canonici, che non abbiamo alcuna ragione a priori di considerare diversi. Se, per esempio, come ci dice per scusare l'ingenuità degli autori di apocrifi, si mostrava in Egitto la casa dove Maria e Giuseppe si erano rifugiati con il bambino Gesù, quale garanzia migliore abbiamo dell'autenticità dei racconti canonici che si basano su una stessa credulità? Egli dovrebbe almeno poter dimostrare che l'informazione, trasmessa con questo mezzo così incerto, risalga ad una fonte autentica. Vedremo che non lo è affatto.

LA CHIESA PRIMITIVA — Una delle più grandi sorprese che attendono lo storico delle origini cristiane è l'ignoranza totale, riguardo a queste origini, dei primi autori cristiani, relativamente vicini alle fonti. Giustino non sa nulla della Chiesa primitiva. Ireneo e Clemente di Alessandria riproducono, sull'origine dei primi due vangeli, l'espressione di Papia, e non hanno raccolto alcun ricordo aggiuntivo. Il secondo non menziona nemmeno la presenza nella sua città della tomba di Marco, il che rende molto discutibile la morte dell'evangelista ad Alessandria. Nessuno sa quel che è divenuto Matteo, non più peraltro della maggior parte degli apostoli: è da apocrifi tardivi che apprendiamo che Pietro sarebbe stato crocifisso a testa in giù a Roma, [3] che Andrea sarebbe stato legato (e non inchiodato) su una croce, [4] e che Tommaso sarebbe morto in India, che era andato a evangelizzare. [5] La Chiesa stessa respinge questi racconti edificanti.

Quella assenza di informazione, già alla fine del II° secolo, non mancò di colpire Clemente di Alessandria, che ne dà una ragione sorprendente: «I misteri sono come Dio, non si confidano allo scritto, ma alla parola», in tal maniera che «molte cose ci sono sfuggite per non essere state scritte». Ma a riguardo degli scritti che conosce, e specialmente dei vangeli, testimonia una indifferenza quasi totale. Tutt'al più crede che Matteo e Luca furono scritti prima di Marco perché essi contengono le genealogie di Gesù (le cui contraddizioni non lo sorprendono).

Al tempo di Ireneo e di Clemente, quindi, non si sapeva già più nulla delle origini, e non si era nemmeno curiosi di saperne di più. 

La storia della Chiesa primitiva è stata ricostruita, con un sacco di immaginazione, nel IV° secolo da Eusebio di Cesarea, che non disponeva di alcun documento che non ci sia pervenuto: 

«Ciò che ci sembra molto più grave dell'ignoranza dei pagani e degli ebrei a riguardo della prima storia cristiana è quella degli stessi scrittori cristiani. Non appena si studiano, per esempio, gli apologeti del II° secolo, ci si rende conto che sembrano non sapere nulla di più rispetto a noi... Eusebio che, all'inizio del IV° secolo, disponeva senza dubbio di tutto ciò che l'Oriente conosceva ancora di libri, nelle biblioteche di Gerusalemme e di Cesarea, non ci dice quasi nulla sulle origini che noi non sappiamo da altra parte». [6]

L'essenziale della nostra informazione sulla Chiesa primitiva risiederebbe nel racconto degli Atti degli Apostoli, ma questo racconto composito è posteriore ai vangeli: è sconosciuto agli autori del II° secolo e ha potuto essere scritto solo verso la fine di quel secolo.

TRADIZIONE DI GERUSALEMME — Importerebbe però sapere se una tradizione, più o meno distorta, potesse risalire fino ad una chiesa primitiva in Palestina. Ma quella comunità è mai esistita? È passata inosservata da Flavio Giuseppe, e si può essere sorpresi del fatto che quella «casa madre» non abbia mai inviato alcuna istruzione, alcuna informazione al mondo esterno. Nessuno sostiene più seriamente l'autenticità delle epistole canoniche attribuite a Petro, Giacomo, Giovanni e Giuda; per di più il loro contenuto è insignificante.

Dovremmo quindi fare un'ammissione di ignoranza, se non disponessimo di un testo capitale: il racconto del viaggio dell'apostolo Paolo a Gerusalemme (nella misura, beninteso, in cui questo racconto provenga veramente da Paolo).

Quattordici anni dopo l'inizio delle sue predicazioni, Paolo racconta che è andato a Gerusalemme, non per informarsi, ma per regolare una disputa. Vì ha trovato un piccolo gruppo, di cui Giacomo era il capo assistito da Giovanni e da Pietro. Questi personaggi, dice con disprezzo, si prendevano per «colonne», [7] ma non gli insegnarono «nulla di nuovo». [8] Come mai Paolo poteva parlare così di uomini che sarebbero stati i testimoni diretti della vita di Gesù?

Altrove Paolo si oppone a loro, attribuendo la preferenza alla missione che egli ha ricevuto per ispirazione: «Sono servitori di Cristo? Io (parlo come uno fuori di sé) lo sono più di loro». [9] Se si ricorda che Paolo conosce solo un Cristo celeste, ecco un linguaggio strano nei confronti di coloro che avrebbero conosciuto Gesù nella carne! Peraltro, questo primo «pellegrino» di Gerusalemme non si interessa per nulla ai fatti per quanto recenti, di cui avrebbe potuto trovare testimoni; non cerca di rimettere i suoi piedi sulle orme di Gesù, di vedere il luogo del supplizio o la tomba. Non ha visto nulla, non gli si è insegnato nulla.

Ecco quale potrebbe essere la fonte della cosiddetta tradizione! Secondo il tipo di vita condotta da quella piccola comunità (forse un gruppo di dodici persone?), si può pensare che si trattasse di un gruppo esseno, che praticava la comunità integrale e obbligatoria dei beni, [10] avente a capo tre «Anziani». [11] Se avessero avuto delle rivelazioni da fare, nessun dubbio che le abbiano esposte a Paolo, per abbassare il suo orgoglio. Ma non avevano nulla da insegnargli.

Al di là di ogni ricordo reale, la localizzazione a Gerusalemme della morte di Gesù sarebbe stata imposta, sia a titolo simbolico, sia soprattutto quando ci si sforzò di attribuirne la responsabilità al Sinedrio.

Ma i ricordi di uccisioni reali hanno potuto contribuirvi, poiché non ne mancarono nella città santa: quella di Stefano, se è autentica, [12] in ogni caso quella di Giacomo, o dei due Giacomi se si vuole che ve ne siano stati due, — forse anche quello di Pietro, che scompare in maniera ben sorprendente negli Atti, [13] il che ci porta a pensare che si sarebbe celata la sua morte, e probabilmente anche quella di Giovanni, la cui sopravvivenza a Efeso sembra proprio un'invenzione tardiva. E poi anche quelle che ordinò Pilato, che non era il vile dipinto dai nostri vangeli, ma che si attirò a tal punto l'odio degli ebrei coi suoi abusi che l'imperatore dovette revocarlo. In breve, i precedenti non mancavano.

Aggiungiamovi, nella tesi che identifica Gesù al Maestro di Giustizia, l'uccisione di questo personaggio, che ebbe certamente luogo a Gerusalemme, [14] benché il ritardo nel tempo sia un serio argomento contro quella identificazione.

Ma nel 70 la città di Gerusalemme fu presa dall'esercito di Tito. L'intera popolazione perì, sia di fame nel corso dell'assedio, sia massacrata dai Romani. Giuseppe assicura che questa carneficina «superò in una volta tutte le calamità di origine umana o divina». [15] I pochi sopravvissuti, condotti in cattività, furono condannati ad uccidersi l'un l'altro negli anfiteatri per il divertimento dei vincitori, infuriati per la durata della resistenza e le atrocità della guerra.

Cosa sarebbe potuto restare del piccolo gruppo conosciuto da Paolo? Scomparve senza lasciare traccia. Nello stesso conflitto scompare anche la comunità essena di Qumran, che non è più tornata a raccogliere i suoi preziosi manoscritti. La guerra degli ebrei contro i Romani fu una guerra di sterminio, e la rovina di Gerusalemme lasciò profonde impronte nel pensiero ebraico, ma non vediamo da nessuna parte che abbia giocato un qualche ruolo nel cristianesimo primitivo. Paolo aveva cominciato a predicare a partire da Antiochia, non come missionario di una comunità di Palestina.

Così è dimostrata l'inesistenza di una tradizione palestinese, di cui gli scrittori evangelici abbiano potuto avere conoscenza. Per di più, quella tradizione sarebbe ben inconsistente: a parte ciò che attingeranno dall'Antico Testamento, gli evangelisti non portano alcun fatto nuovo, neanche il minimo dettaglio che non sia stato attinto da testi precedenti per la «vita di Gesù» che sono creduti raccontare.

DIVERSITÀ DELLE TRADIZIONI — Vi è ancora di più grave: troviamo, nei testi cristiani, riferimenti, non ad una sola tradizione, ma a tradizioni diverse e inconciliabili. Paolo, per esempio, non vuole conoscere che la sua, e mette in guardia contro le altre. [16] Egli ne conosce almeno altre due, che associa a Pietro e ad Apollo, [17] sa che esistono «falsi apostoli». [18] Ci dice persino che i suoi avversari si sarebbero spinti fino a fabbricare false lettere che gli si attribuiva, per ingannare le comunità male informate. [19]

L'autore dei primi capitoli dell'Apocalisse comincia anche lui col mettere in guardia contro gli insegnamenti fuorvianti, come quelli dei Nicolaiti, [20] benché altrove ci venga rappresentato Nicola come un diacono cristiano. [21] E se usciamo dai testi canonici, vediamo che diverse tradizioni pretendono di risalire a Giacomo, o anche a Maria Maddalena che avrebbe tenuto un insegnamento segreto dell'angelo dell'annunciazione!

I Naasseni, setta gnostica conosciuta da Ippolito e da Celso, pretendevano di tenere la loro tradizione da Giacomo, fratello del Signore, per mezzo di una certa Mariamne [22] che alcuni assimilano a Maria Maddalena. Sembra che questi Naasseni [23] si confondano un po' con la setta degli Ofiti, conosciuta da Ireneo, [24] benché Ippolito li distingua. In generale, del resto, tutti gli autori gnostici pretendevano di tenere il loro sapere da una tradizione risalente ad uno dei discepoli del Signore. Basilide si appellava ad un certo Glaucia, interprete di Pietro: siccome Basilide negava l'incarnazione, si deve concluderne che l'apostolo Pietro non vi credeva? Valentino si raccomandava ad un discepolo di Paolo, chiamato Teuda, ecc.

Se ci limitiamo agli unici autori ammessi dalla Chiesa, troviamo ancora tradizioni divergenti, tra le quali la Chiesa si è riconosciuta il diritto di scegliere. Sappiamo da Eusebio che Papia, che visse intorno al 135 e pretendeva di risalire, per mezzo di Giovanni il presbitero, fino alle fonti apostoliche, possedeva una tradizione orientale che non concordava con quella che fu raccolta a Roma: «Egli ci fornisce altre notizie pervenute a lui dalla tradizione non scritta, alcune strane parabole e alcuni insegnamenti del Salvatore, e altre cose piuttosto favolose». [25] Ma in nome di chi Eusebio respingerà la tradizione di Papia, se non perché conosce una tradizione diversa? Il tempo e l'unificazione romana hanno operato una selezione, e la presunta tradizione dei vangeli ci sembra oggi la sola valida; ma  si è imposta solo per mezzo dell'autorità, per il rigetto sistematico di tutto ciò che non concordava più con la dottrina trionfante. Quante sorprese avremmo se scoprissimo tante opere scomparse, come quella di Papia, che confuse Eusebio!

Tutto ciò, Ireneo lo sa bene, e quando gli «eretici» pretendono di opporre le loro tradizioni alle Scritture, egli risponde che, tra queste false tradizioni, non ve n'è che una sola che sia vera, quella che è stata trasmessa dai «presbiteri»: così Policarpo è più degno di fede di Valentino o Marcione, «e di tutti gli altri che si ingannano». Vi è dunque solo una pura affermazione da opporre alle altre affermazioni. Per di più, aggiunge, la tradizione non può essere accettata senza che la si discuta, [26] e nel dubbio è alla Chiesa che spetta di definire la verità. [27]

Ireneo conosce d'altro canto su certi punti una tradizione diversa da quella dei vangeli, benché l'abbia ricevuta direttamente dal vecchio Policarpo. Abbiamo già visto che ricava dagli Anziani che il Signore sarebbe morto a più di 50 anni, e alla fine della sua opera adotta un «millenarismo» tratto da Papia, [28] tradizione che la Chiesa ha condannato. In quella occasione, egli fa di Papia un ascoltatore diretto dell'apostolo Giovanni, mentre, secondo Eusebio, Papia riconosceva lui stesso di non essere stato l'allievo degli apostoli, [29] ma soltanto di un presbitero Giovanni. È dunque il presbitero, e non l'apostolo, che avrebbe insegnato il millenarismo, almeno secondo Eusebio; ciò non ha impedito a Tertulliano, Lattanzio, Ilario, Commodiano e Ambrogio di accettare quella tradizione. 

Come distinguere, in tutto ciò, una tradizione vera e autentica? Ciascuno faceva dire agli «apostoli» ciò che gli conveniva. E anche se gli evangelisti avessero raccolto una tradizione, che ci garantisce che avrebbe più valore, per esempio, di quella di Marcione che veniva dall'Asia Minore?

LA QUESTIONE DI PASQUA — Non è inquietante infine constatare che i vangeli stessi hanno conservato, sulla questione di Pasqua, tradizioni divergenti, organizzate attorno ad un culto già costituito? Poiché infine, può esserci solo una tradizione autentica, e non due. ma questo problema dividerà Roma e le chiese d'Oriente fino alla fine del II° secolo, ciascuna delle due parti invocando una tradizione antica.

Gesù ha potuto morire solo il 14 o il 15 del mese di nisan, ma non in entrambi i giorni. Una differenza così piccola sarebbe trascurabile dal solo punto di vista della cronologia, ma diventa capitale per le sue conseguenze. Se Gesù muore il 14 in Giovanni, è perché tutto il suo racconto della settimana santa deve essere conforme al rituale ebraico della Pasqua, perché la morte di Gesù deve riprodurre l'immolazione dell'agnello. Anche l'apostolo Paolo conosceva questo simbolismo. [30] Questo è perché Giovanni fa morire Gesù il 14 verso la sera [31] e non, come Marco, il 15 alla 9° ora (cioè verso le 15); questo è perché, aggiunge, non si dovevano spezzargli le ossa, [32] perché doveva essere sepolto nel luogo stesso del supplizio. [33] Siamo quindi in presenza di un racconto simbolico, di preoccupazioni rituali, non di ricordi reali.

Ma possiamo credere di più al racconto dei sinottici? Marco situa la messa in croce alla 3° ora, le tenebre alla 6° e la morte alla 9°, insistendo su questi numeri, il che sembra molto artificiale. Ma vi è di più grave: secondo Marco, siamo due giorni prima della Pasqua, [34] poi bruscamente, senza che nulla sia accaduto, siamo nel giorno del pasto pasquale, [35] vediamo preparare questo pasto; [36] assistiamo al pasto, Gesù che annuncia il tradimento di Giuda, «mentre erano a tavola e mangiavano». [37] Ma non si parla dell'agnello, e Gesù spezza un pane ordinario (artos) e non un pane azzimo, benché questo sia il giorno degli Azzimi. [38] Contrariamente alla legge ebraica, vedremo riunirsi il Sinedrio e Simone di Cirene ritornare dai campi, [39] cosicché tutto il simbolismo di Giovanni scompare.

Ci si è sforzati invano di conciliare questi racconti; è chiaro che essi traducono due tradizioni o concezioni diverse. Sappiamo oggi che la differenza di cronologia può provenire dal calendario proprio degli Esseni, ma quella spiegazione non elimina le contraddizioni di fondo.

Bisogna quindi cercare altre fonti rispetto alla presunta tradizione.

NOTE

[2] F. AMIOT, Evangiles apocryphes, introduzione, pag. 13 (Fayard 1952).

[3] Atti di Pietro.

[4] Atti di Andrea, conosciuti grazie a Gregorio di Tours.

[5] Atti di Tommaso, probabilmente del III° secolo.

[6] GUIGNEBERT, Le Christ, pag. 18.

[7] Galati 2:9.

[8] Galati 2:6.

[9] 2 Corinzi 11:23.

[10] Si veda in particolare Atti 2:44-46 e 5:1-11.

[11] Si veda la Regola della comunità di Qumran, 8:1.

[12] Atti 7:57-58. Diversi autori, tra cui Loisy (Les Actes des apôtres, pag. 347 ss.) hanno segnalato gli artifici di questo episodio, ma la persecuzione del gruppo esseno non è impossibile.

[13] Atti 12:17.

[14] I manoscritti lasciano intendere che il Maestro, perseguitato dai soldati, si era rifugiato nelle grotte o gole che dominano Qumran (Inni C:2:25-26) e J:5:29), ma vi fu preso e condotto a Gerusalemme per esservi giudicato, e probabilmente crocifisso. È forse il suo cadavere e quello di suo compagno Sadoc che restarono esposti sulla piazza della grande città «dove il loro Signore è stato crocifisso» (Apocalisse 11:8).

[15] Guerra Giudaica 6:9:4.

[16] 2 Tessalonicesi 3:6.

[17] 1 Corinzi 1:12.

[18] 2 Corinzi 11:12; «alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo» (Galati 1:7).

[19] 2 Tessalonicesi 2:2.

[20] Apocalisse 2:6 e 2:13.

[21] Atti 6:5.

[22] Philosophoumena 5:7; Celso § 65.

[23] Nome derivato da «naas» = serpente.

[24] Ireneo 1:694-700.

[25] Storia della Chiesa 3:39:11.

[26] Haer. 3:857.

[27] Quella espressione sembra ben essere una interpolazione nella traduzione latina.

[28] Ireneo, 5:1208-1124. Il millenarismo è una teoria ispirata dall'astrologia e che si trova in particolare nell'Apocalisse, secondo la quale il mondo, dalla sua creazione, doveva durare 12 volte mille anni, ciascun millennio essendo collocato sotto un segno dello Zodiaco. La creazione aveva assorbito i primi sei. Il Messia doveva aprire l'ultimo, collocato sotto il segno dei Pesci (da cui il suo simbolo). Quella teoria provocò ancora i terrori dell'anno mille (nel 1033). 

[29] Hist. Eccl. 3:39.

[30] «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato» (1 Corinzi 5:7).

[31] Egli è stato condannato alla 6° ora, quindi intorno a mezzogiorno (Giovanni 19:14).

[32] Giovanni 19:33-36. Si veda Esodo 12:46, Numeri 9:12, Salmo 34:21.

[33] Giovanni 19:41. Si veda Esodo 12:46.

[34] Marco 14:1.

[35] Marco 14:12.

[36] Marco 14:13-16.

[37] Marco 14:18.

[38] Marco 14:12.

[39] Marco 15:21.

lunedì 28 dicembre 2020

IL PUZZLE DEI VANGELILe fonti dei vangeli

 (segue da qui)

V — Le fonti dei vangeli

Dire che i vangeli furono scritti dopo il 150 non implica che i loro scrittori avrebbero inventato, in quella data, tutto il loro contenuto, come farebbe un romanziere. Non può essere, come pretendeva Porfirio, che «gli evangelisti sono gli inventori, non gli storici, delle cose che raccontano su Gesù». Dove hanno dunque attinto i discorsi e i racconti che riportano?

Si amerebbe poter pensare che, come autentici storici, essi abbiano messo a nudo documenti, verificato atti precedenti. Purtroppo non è per nulla così, e la Chiesa stessa non sostiene che essi avrebbero disposto di fonti scritte autentiche. Quella carenza ha peraltro turbato i cristiani del II° secolo e, per autenticare i vangeli contro i loro detrattori, non hanno esitato a fabbricare falsi atti del censimento di Quirino, un falso rapporto di Pilato, conosciuto da Giustino.  Tertulliano supporrà anche l'esistenza di un rapporto di Pilato a Tiberio, [1] ma quello che conosciamo è un falso manifesto, che nessuno difende.

Il problema delle fonti dei vangeli è stato totalmente rinnovato, da quando si sono scoperti i prestiti effettuati dall'Evangelion di Marcione. Nondimeno, esistono nei sinottici altri elementi oltre a questi prestiti. Da dove vengono? E da dove proviene il contenuto stesso dell'Evangelion? Da dove proviene il contenuto di ogni altra opera il cui utilizzo da parte dei nostri evangelisti apparirebbe alla stessa maniera?

Conviene, infatti, ben precisare questa nozione di «fonti». Quando diciamo che una parte del nostro Marco proviene da un «proto-Marco» conosciuto da Papia, che Matteo utilizza probabilmente il vangelo degli Ebrei, quello di Pietro e una fonte essena, oppure che i tre sinottici derivano in parte da Marcione, non facciamo che rimandare il problema. Ritornerò, studiando ciascuno dei vangeli in particolare, ai testi precedenti che esso sembra aver incorporato, ma là vi è una questione di forma. Cosa importerebbe, dopo tutto, che noi avessimo racconti di seconda mano, se derivassero da fonti degne di fede? Non si tratterebbe più allora che di discernere le deformazioni apportate dagli editori finali all'informazione di base: questa sarebbe solo una questione secondaria. 

Per esempio, quando ci raccontano la seconda guerra punica e le gesta di Annibale, né Polibio né evidentemente Tito Livio (molto posteriore) hanno assistito a questi eventi. Sappiamo che Tito Livio, così come Diodoro di Sicilia e Appiano, hanno largamente seguito Polibio, ma che costui aveva attinto la sua documentazione dalle opere, oggi perdute, di Sosilo di Lacedemone, di Fileno e Fabio Pittore, probabilmente anche dalle memorie di Scipione. Ciò è interessante, ma è molto più importante sapere se questi storici riportano dei fatti autentici, se Annibale ha realmente fatto tutto quello che riportano su di lui. Detto altrimenti, ricercando le fonti storiche, tentiamo soprattutto di risalire ai fatti; il colore e l'interpretazione che danno loro ciascuno storico, quantunque non trascurabili, restano in secondo piano.

Il problema essenziale in ciò che concerne le fonti dei vangeli dovrebbe essere la ricerca dei fatti: un certo Gesù ha realmente fatto e detto tutto o parte di ciò che gli si presta? La veridicità del contenuto, attraverso i testi successivi, dovrebbe essere l'oggetto principale dell'analisi delle fonti. Sfortunatamente, io ho già spiegato che questo era impossibile: noi non sappiamo nemmeno se Gesù sia esistito; perfino nell'ipotesi favorevole alla sua esistenza, nulla di ciò che ci viene raccontato su di lui è assicurato, nessuna delle parole che gli sono attribuite può essere considerata autentica. Si deve quindi approcciare il problema in modo diverso, e domandarci da dove provengono i racconti e le parole che i vangeli attribuiscono a Gesù.

Se, in quella ricerca, potessimo almeno ritrovare un'unica fonte, la questione essenziale sarebbe di valutare la credibilità di quella fonte. Ma, come ho detto, i nostri vangeli sono dei confluenti; per quanto si possa risalire al di là della loro stesura, non è mai una corrente uniforme che ritroviamo, ma una molteplicità di affluenti le cui sorgenti divergono sempre di più nella misura in cui si risale il loro corso nel tempo. 

Dovremo quindi limitarci alla scoperta e all'analisi di ciascuna di queste fonti: ciò che ne emergerà, con una evidenza sempre più pressante, è che il cristianesimo non è una religione fondata, ad una data determinata, da un grande iniziato o un inspirato, ma una sintesi molto imperfetta di elementi provenienti da provenienza diversa.

In queste condizioni, è facile comprendere che non arriveremo mai ad un'origine assoluta. Le varie fonti provengono da paesi e da tempi diversi; a dire il vero, nessuna di esse sarà assolutamente pura, e molto prima della loro convergenza ciascuna di esse avrà subito una lunga evoluzione. Così, non ci sarà questione di risalire molto indietro nello studio di ciascuna delle correnti che sono confluite, ci basterà identificarle, — altrimenti bisognerebbe dedicare a ciascuna di loro un'opera distinta, e allontanarci notevolmente dai vangeli. 

È così che si pone il problema delle fonti, problema complesso di cui la maggior parte dei lettori non ha la minima idea, ma la cui soluzione permette da sola di comprendere qualcosa del contenuto dei vangeli, che sarà studiato nel capitolo seguente, e delle sue contraddizioni. 

NOTE

[1] Apologetico, 21:24.

domenica 27 dicembre 2020

IL PUZZLE DEI VANGELIVariazioni ulteriori dei testi

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7 — Variazioni ulteriori dei testi

Ammetto quindi che il testo dei canonici fosse pressappoco fissato intorno all'anno 200. Ma non era ancora definitivo, ha subito ancora modifiche di cui alcune sono identificabili.

Nessun documento ci permette di ricostruire esattamente il testo dei quattro vangeli conosciuti al tempo di Ireneo. Ma già in quell'epoca esso subiva variazioni, di cui Ireneo si preoccupava: per ciò che vi è di più sacro, esortava i copisti a fare attenzione a ciò che scrivevano, denunciava «coloro che si credono più abili degli apostoli e non temono di correggerli». [114]

Le correzioni non erano tutte l'opera di copisti maldestri o presuntuosi. Poco prima, Celso si beffava dei cristiani che «hanno alterato a loro piacere, tre o quattro volte e anche più, il testo del vangelo, al fine di confutare ciò che si obietta (loro)». [115] Celso ha dunque assistito a queste alterazioni e ce ne dà la ragione: nella misura in cui nascevano le obiezioni, si alteravano i testi per rispondervi. Ecco quel che non è minimamente rassicurante sulla concordanza attuale dei nostri testi con la versione iniziale!

Si deve prendere la sua parte: nulla ci permette di risalire al di là delle versioni del IV° secolo, e di ottenere la versione primitiva: è certo che questa differiva dalle nostre, ma non possiamo sapere in cosa ne differiva. Solo la possibilità di una citazione o di un frammento di papiro permette di verificare l'antichità (o la non concordanza) di questo o quel verso: ciò è raro, e non prova nulla per gli altri.

CORREZIONI — Per secoli i vangeli sono stati ricopiati a mano, era inevitabile che numerosi errori risultassero da queste trascrizioni. Il confronto tra i manoscritti ne rivela un grandissimo numero: parole o frasi sono a volte omesse o ripetute, interi passi mancano, l'ortografia dei nomi propri è fantasiosa, ecc.

Tutto ciò non è molto grave, ma bisogna tener conto anche delle correzioni volontarie di uno scriba che, sorpreso di leggere qualcosa di contrario a quanto gli è stato insegnato, lo corregge di sua propria autorità. Ecco due esempi:

— nella versione primitiva della guarigione del lebbroso in Marco, [116] era detto che Gesù «adirato» stese la mano sul supplicante. Questo termine ha scioccato uno scriba, che vi ha sostituito la versione oggi conservata: «mosso da compassione, egli stese la mano e lo toccò». Gli altri due autori sinottici [117] hanno preferito cancellare la parola scomoda senza sostituirla;

— laddove il nostro Luca reca che «Il Figlio dell'uomo è padrone del sabato», [118] un manoscritto [119] reca quella lezione diversa: «Quando vide un uomo lavorare di sabato, gli disse: Uomo, se sai cosa stai facendo, sei benedetto. Ma se non lo sai sei maledetto e trasgressore della legge»

Quest'ultimo esempio la dice lunga sulla libertà che prendevano certi copisti, e ciò resta molto inquietante per la nostra conoscenza del testo primitivo dei vangeli:

«Noi li conosciamo solo tramite copie di copie, e l'esattezza rigorosa degli archetipi stessi è in discussione. Da allora, la negligenza, l'ignoranza o, peggio ancora, la pretesa di intelligenza di molti copisti hanno infierito sullo sfortunato testo, per non parlare della malizia dei correttori che, di deliberato proposito, gli hanno imposto, in un senso o nell'altro, le loro visioni della fede». [120]

ARMONIZZAZIONE — Ciò che il confronto tra i vari manoscritti non può rivelarci è il lavoro di armonizzazione che, a partire dal III° secolo, ha unificato le espressioni, attenuato le divergenze primitive. Non sappiamo fino a che punto i nostri testi siano stati armonizzati. È chiaro che non lo sono stati totalmente, poiché importanti contraddizioni vi sussistono; ma nella forma degli arrangiamenti sono molto probabili. Ora il solo fatto di sostituire «Gesù» o «il Cristo» con l'espressione «Gesù Cristo» può distorcere tutto il senso, o impedirci di conoscere la provenienza di un verso.

INTERPOLAZIONI — Molto più gravi ancora sono le interpolazioni, cioè le aggiunte inserite nel testo. Non è sempre facile individuarle.

L'interpolazione più ovvia è quella che concerne la fondazione della Chiesa, inserita in Matteo. È sufficiente confrontare i passi paralleli dei tre sinottici perché il pezzo inserito in Matteo appaia chiaramente (Si veda la tabella riportata sotto).

Là si sorprende, in flagrante, il lavoro di interpolazione, allo stesso tempo il modo di rivelarla.

Quell'espressione sulla missione di Pietro ha dato luogo a molti commentari. Essa non ha potuto essere scritta prima che fosse concepita, se non realizzata, una «Chiesa» unificata, mentre, fino al III° secolo, non sono esistite che comunità autonome. In bocca a Gesù, l'espressione «io fonderò la mia assemblea» [121] sarebbe stata priva di senso, e anche al tempo in cui furono scritti i vangeli, non esisteva un'Assemblea, ma assemblee locali. Il primo riferimento all'espressione di Matteo figura in Cipriano, vescovo di Cartagine, intorno al 250; anche lui le dà un significato molto diverso da quello che ha assunto, poiché ne ricava la prova dell'uguaglianza di tutti i vescovi. L'espressione ha per scopo di giustificare il primato del vescovo di Roma, e quel tentativo di unificazione sotto la guida di Roma appare in effetti ai tempi di Cipriano, ma l'Oriente ha sempre respinto quella tesi. Quindi l'interpolazione risale al III° secolo, la Chiesa non avendo mai esitato a fabbricare testi secondo i suoi bisogni; ma l'idea del primato di Pietro nel collegio apostolico è già in germe nei nostri vangeli. 

Marco

Matteo

Luca

Egli domandò ai suoi discepoli: Chi dice la gente che io sia? Essi risposero: Alcuni, Giovanni il Battista, altri, Elia, e altri, uno dei profeti.

Ma egli replicò: E voi chi dite che io sia? Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo.

Egli domandò ai suoi discepoli: Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo? Essi risposero: Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri, Elia, altri, Geremia o uno dei profeti.

Disse loro: Voi chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

Egli pose loro questa domanda: Chi sono io secondo la gente? Essi risposero: Per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri uno degli antichi profeti che è risorto.

Allora domandò: «Ma voi chi dite che io sia?». Pietro, prendendo la parola, rispose: «Il Cristo di Dio».

 

E Gesù: Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli.

 

E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno.

Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Egli allora ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno.

Ciò che sorprende di più è che l'interpolazione sia stata fatta in Matteo, e non in Marco che si rappresenta come il compagno di Pietro: il fatto che Marco la ignora è abbastanza grave. Ignoriamo le condizioni nelle quali l'espressione poté essere inserita nel 250 circa in un testo preesistente, e perché fu poi impossibile toccare Marco (e Luca).

Quel che è certo è che l'interpolazione dell'espressione è tardiva quanto l'idea di un'unificazione delle chiese a vantaggio di Roma. Come dice Bultmann: «Le parole messe in bocca a Gesù, e che indicano Pietro come la roccia sulla quale si edificherà la sua Chiesa, sono state elaborate dalla comunità». [122] Si può anche aggiungere, senza rischio di errore: dalla comunità di Roma.

Si obietterà forse che al tempo di Gesù esisteva già un'organizzazione della Chiesa, ossia la comunità essena, sulla quale sembra essere modellata quella della Chiesa cristiana. [123] Ma non abbiamo alcuna prova dell'esistenza di un'unica «assemblea», comune a tutti gli Esseni. E c'è una gran distanza tra le assemblee essene e l'idea di una Chiesa universale, gerarchizzata nell'interesse di un unico capo mondiale. Che l'organizzazione ecclesiastica derivi dalle assemblee essene è probabile, ma ciò ci conduce ancora solo alle assemblee locali, presiedute dagli Anziani [124] e dotate di sorveglianti, [125] come ne esistevano nei primi tempi del cristianesimo. L'idea di una Chiesa unificata deriverà dall'organizzazione dell'impero romano, centralizzata nell'interesse di Roma: quella idea è totalmente estranea all'Essenismo.

LA POLEMICA DEL LOGOS — Sappiamo dai Philosophoumena che al tempo di Callisto, che fu vescovo di Roma tra il 217 e il 222, un grande conflitto dogmatico oppose Ippolito a Callisto: questi due personaggi, canonizzati in seguito (ma Ippolito è appena stato spogliato della sua aureola), si coprirono cristianamente di insulti e si accusarono reciprocamente di eresia.

Spiegherò, in occasione del IV° Vangelo, l'evoluzione della nozione di Logos, dapprima semplice principio razionale in Platone, personificato e divenuto il «figlio primogenito di Dio» nella scuola alessandrina, poi identificato con il Figlio dell'uomo di Enoc, con il Cristo gnostico, infine con il Messia. Che Gesù sia il Logos (in latino Verbum) è ciò che afferma oggi il prologo del IV° Vangelo, che completa l'evoluzione assicurando che «il Logos si è fatto carne» (1:14).

Tutto andò bene fin quando non si approfondì le condizioni di quella incarnazione, ma apparve ben presto che essa conduceva a fare del Logos un dio distinto dal Padre. Gli Gnostici non avevano problemi a riconoscervi un Eone derivato dal Padre, ma allora egli non era Dio. I monoteisti assorbirono il Logos nel Padre, ma ciò condusse alla spaventosa idea che il Padre, essendo anche il Logos, avesse potuto soffrire e morire. Questi interrogativi furono violentemente sollevati nel III° secolo, ed è solo a Nicea nel 325, che si giunse ad una formula di conciliazione. Ciò che ci interessa qui è che l'espressione inserita nel prologo del nostro IV° Vangelo è proprio quella che Callisto finisce per imporre, contro la concezione di Ippolito, accusata di diteismo. Da cui risulta con certezza che questo prologo non era ancora, al tempo della controversia, come lo leggiamo oggi; altrimenti la tesi di Ippolito sarebbe stata insostenibile.

Quello che diceva il prologo di Giovanni alla fine del II° secolo non lo sapremo mai. Celso lo ha conosciuto, poiché rimprovera ai cristiani di aver osato identificare il loro Cristo con il «Logos divino», [126] ma non va oltre. Vedremo che il prologo del IV° Vangelo ha certamente subito modifiche profonde. Quel che è certo qui è che la concezione del Logos che vi figura è quella di Callisto, riconosciuta la sola ortodossa dopo la condanna di Ippolito: risale, quindi, all'inizio del III° secolo.

LA TRINITÀ — Ai tempi di Callisto e di Ippolito, si conoscevano ancora solo due persone divine. Si parlava anche dello Spirito Divino, ma lo Spirito o Soffio di Dio non era una persona distinta, era solo uno dei suoi attributi. Solo pochi gnostici ne hanno già fatto un'emanazione personale. Ci vorrebbe troppo tempo per raccontare qui le controversie che hanno portato al dogma trinitario di Nicea. Quel che è certo è che le due formule trinitarie che si trovano nei testi canonici non possono essere originali.

Ad esempio, laddove Matteo corretto fa dire a Gesù: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo» (28:19), sappiamo che vi si leggeva ancora al tempo di Eusebio: «Andate e insegnate a tutte le nazioni nel mio nome, insegnando loro ad osservare tutto ciò che io vi ho comandato»

L'attuale formula trinitaria è stata quindi inserita verso la metà del IV° secolo.

Come si vede, per la loro stessa complessità, i vangeli pongono, dal punto di vista della loro datazione, problemi molto delicati. Quel che è ben certo è che la stesura che ci è pervenuta contiene molte cose che avrebbero sorpreso o offeso gli autori originali. 

NOTE

[114] Adv. omnes haer. 4:2:1.

[115] Discorso vero, § 20.

[116] Marco 1:41.

[117] Matteo 8:3, Luca 5:13.

[118] Il Codex Bezae.

[119] GUIGNEBERT, Jésus, introd. pag. 43-44.

[121] Il termine greco ecclesia significa «assemblea», ha preso solo più tardi il significato di chiesa.

[122] BULTMANN, Le christianisme primitif, pag. 239, nota 54.

[123] Si veda A. RAGOT, Evêques, prêtres et diacres, Bull. du Cercle E. Renan, novembre 1967.

[124] Greco presbuteroi, che ha dato «prete».

[125] Greco episcopos, che ha dato «vescovo».

[126] Discorso vero, § 22.