sabato 29 giugno 2019

«La Leggenda di Gesù» (E. Moutier-Rousset) — CONCLUSIONE

(questo è l'ultimo capitolo da me tradotto del libro del miticista E. Moutier-Rousset, La Leggenda di Gesù. Per leggere il testo precedente, segui questo link)

INDICE

CAPITOLO I. — PAOLO

§ 1.La Predicazione di Paolo

§ 2. L'Opera di Paolo

§ 3.La Testimonianza di Paolo

CAPITOLO II. — L'AUTORE DEGLI ATTI

§ 1. I Viaggi di Paolo 

§ 2.Pietro e gli Apostoli 

CONCLUSIONE



CONCLUSIONE

Per terminare, ripeteremo quello che stavamo facendo al principio di questo studio (Il Cristo è esistito?):

“Si è dunque portati a credere che, in questa formazione (della nuova religione), questa leggenda fluttuante dal principio, che non si basa su alcuna realtà esterna e non avviene in alcuna regione specifica, in alcun contesto storico, ha dovuto nutrirsi e accrescersi per l'assimilazione di una grandissima quantità di elementi attinti dai culti orientali che si erano infiltrati ovunque, soprattutto quello di Mitra, così diffuso in tutto l'Impero, per oltre un secolo, particolarmente nelle province orientali, dove si sviluppò dapprima del cristianesimo e che controbilanciò per un momento la religione del Redentore; inoltre, all'antico strato principale delle speranze messianiche che, dopo la cattività di Babilonia (—588), gli ebrei avevano propagato tra gli innumerevoli giudaizzanti del mondo conosciuto, si aggiungevano naturalmente le storie più o meno alterate dei tentativi falliti di agitatori come il Battista, Simone, Teuda, ecc..., che finirono tutti miseramente. E questo amalgama non è mai stato così intimo perché non si possa scoprire ancora abbastanza facilmente gli elementi che lo compongono. In questo insieme, si erano mescolate, come un lievito, le fantasticherie mistico-sociali dei miserabili che soffrivano una situazione intollerabile. Se questa spiegazione non è che un'ipotesi, offre, almeno, una probabilità infinitamente maggiore di quella della realtà di Cristo”. 

Lungi da noi il pensiero di cercare di diminuire il valore del lavoro degli esegeti. Nessuno, più di noi, rispetta e ammira i ricercatori pazienti che esaminano così minuziosamente i testi biblici. Certamente, il lavoro non è stato affatto infruttuoso e ha prodotto dei risultati di primaria importanza: ma non sono delusi quando sperano di far emergere una certezza? Lo studio, così approfondito e così dotto, dell'Iliade e dell'Odissea, potrà mai informarci della storicità di Achille o di Ulisse? Un testo, così preciso e così certo che si voglia ammettere, non è affatto una prova assoluta della realtà dei fatti che riferisce; è necessario, almeno, che non si scontra contro un'impossibilità materiale: altrimenti, non vedo proprio su cosa ci si appoggerebbe per negare il diluvio biblico o le avventure di Giona nel ventre della balena.

Inoltre, l'autore di un testo, anche se sincero, porta solo una testimonianza scritta, vale a dire una semplice affermazione, che spesso non è di prima mano, e sappiamo che questa base, già così poco solida in ciò che concerne la storia secolare, è ancora molto più fragile quando si tratta della storia delle religioni, dove l'ignoranza, la superstizione, la malafede, il pregiudizio, la passione, gli interessi si manifestano più liberamente.

Non abbiamo affatto cercato, come siamo stati accusati, “un successo assicurato tra gli uomini che trovano nella negazione dell'esistenza di Cristo un mezzo radicale per sbarazzarsi della religione cristiana”; e si deve deplorare che degli uomini di alto valore cerchino un argomento nel sospetto della sincerità di coloro che non condividono affatto le loro convinzioni. Inoltre, questo insulto, anche se fosse meritato, non si vede proprio come l'indegnità di un matematico indebolirebbe le sue dimostrazioni geometriche: anche se fosse agli arresti, i teoremi che avrebbe insegnato non resterebbero affatto meno veri. In realtà, abbiamo soltanto tentato, secondo i nostri fragili mezzi, di delucidare un punto di Storia, all'esempio di coloro che contestano a Shakespeare la paternità dei suoi capolavori e che sarebbero molto stupiti se li si accusasse di voler cancellare la letteratura inglese. Il signor Guignebert è stato più giusto nel dire “che non è affatto una maniera accettabile di entrare in discussione quella di sminuire l'avversario accusandolo di incompetenza, di pressapochismo e di dilettantismo... Parecchi negazionisti, senza essere degli specialisti di carriera, sono dei lavoratori pazienti e robusti, che hanno acquisito un'erudizione molto seria” (Le Problème de Jésus, pag. 7).

Siamo molto lontani dall'avere la pretesa di contare tra gli esegeti, anche i più umili. Non abbiamo affatto, come i maestri in quest'arte, una  conoscenza completa dell'ebraico, dell'aramaico, della teologia (queste letterature ci sono completamente chiuse), né la scienza di un perfetto ellenista oppure di un latinista emerito. Ma ci sono delle questioni che ogni uomo di qualsiasi cultura, può approcciare alla luce della sua ragione, e i nostri più eminenti critici sono tacitamente d'accordo, poiché sottopongono le loro pubblicazioni al giudizio del grande pubblico. Forse pure (ma lo diciamo solo tremando), questi eruditi troppo specializzati hanno lo svantaggio di non percepire più la realtà se non attraverso il campo del loro microscopio e lo strumento, facendogliela vedere molto ingrandita, non evita di deformarla un po'. Un matematico, per il quale l'universo è solo un'equazione differenziale, lo conosce meglio del pastore che fissa distrattamente le stelle?

Siamo quindi soddisfatti di vedere uno dei nostri migliori critici non appellarsi all'argomento dell'autorità, che può essere buono da opporre ai partigiani della tradizione, ma che, dal punto di vista scientifico, è assolutamente nullo. Il gran numero di testimonianze e la loro gravità non sono affatto una garanzia sufficiente della verità delle dottrine: Aristotele, Newton, cento altri, tra i più grandi, hanno pronunciato delle enormità che non si perdonerebbero affatto ora, agli alunni delle nostre scuole primarie. 

***

Gli avversari della nostra tesi — non stiamo parlando affatto dei credenti, perché la fede non si discute — le oppongono un gran numero di argomenti di valore diverso, dunque discuteremo quelli che sono parsi i più seri.

In primo luogo, si rimprovera a tutti coloro che negano la storicità di Gesù di non aver affatto stabilito nemmeno la verosimiglianza della loro affermazione. Pensiamo che i nostri avversari capovolgono la questione; come ha detto ottimamente il signor S. Reinach: “Spetta a coloro che ammettono la storicità della Passione, di appoggiarla su alcuni passi decisivi... Dopo aver a lungo riflettuto, non credo che ci si riuscirà”. Una negazione, infatti, non ha bisogno di prove e non si potrebbe darle  di inattaccabili; ma ve n'è bisogno per affermare che l'esistenza di Gargantua è una leggenda? Sta a noi esigere delle prove dai nostri avversari e non a loro domandarle da noi. 

Ma queste prove, loro non possono fornirle; i partigiani della realtà di Cristo sono ridotti ad appoggiarsi unicamente su dei testi di cui loro stessi riconoscono l'estrema fragilità. Il signor Loisy confessa che è “tutt'altro vero che i Vangeli e gli Atti siano autentici e siano stati conservati integralmente, che siano delle opere originali, una testimonianza diretta sull'azione di Gesù e su quella degli uomini che, predicando Gesù Cristo, sono stati i fondatori della Chiesa” (Les Livres du Nouveau Testament, pag. 257).

“I Vangeli sono, per certi aspetti, e soprattutto nella loro parte più importante, i libretti di un dramma liturgico, molto più che il resoconto di ricordi solidi relativi ai fatti commemorati in questa liturgia” (Idem, pag. 630).

“Gli studi critici sulle affermazioni evangeliche sono tanto più negativi quanto più sono scientificamente condotti” (Ch. Guignebert, Manuel d'hist. anc. du Christianisme). 

Nei Vangeli, infatti, la personalità di Gesù scompare sotto l'impossibile, sotto l'improbabile e sotto il grottesco al punto che il signor Binet-Sanglé e il signor J. Soury hanno potuto seriamente sostenere la tesi che Gesù era affetto da follia. [1]

Inoltre, i testi dei Vangeli e degli Atti, anche se si ammettesse la loro conservazione integrale e l'intera buona fede di autori troppo creduloni e incapaci di modificare la leggenda, e di non inventare nulla di loro iniziativa (e noi sappiamo che questa assunzione indulgente fa loro troppo onore), questi testi, diciamolo, non possono che assicurarci dell'esistenza di favole anteriori a loro, e per nulla al mondo, della certezza dei fatti narrati o della storicità dei personaggi citati. Qual è lo storico della Grecia mitica che oserebbe sostenere la realtà di Agamennone, di Achille, di Aiace o di Ulisse e degli altri eroi omerici, appoggiandosi sui canti dell'aedo ellenico? Ancora, la cornice dell'Iliade è ben nota e le località nominate in questo poema sono esistite, ciò che non si può pretendere dei luoghi indicati nei Vangeli. Si conosce la posizione esatta di Sparta, di Argo, di Itaca, ecc., Ma quella di Nazaret, di Cafarnao, di Cana, ecc., è sicuramente solo un mito. Non si è mai trovata la tomba del Signore, nemmeno l'altura del Golgota, o Calvario, che fu inghiottita senza dubbio nelle “tenebre che coprirono la terra”, al momento della morte di Gesù. Al contrario, a Micene, la capitale del suo regno, si è riesumata, se non la tomba di Agamennone, il re dei re coalizzati contro Troia, almeno quella di un despotès di quel tempo.

I testi profani, ebraici, greci o latini ci danno ancora meno documenti e sono ancora meno convincenti: Flavio Giuseppe è stato grossolanamente interpolato; Svetonio ci dice solo qualche parola, che difficilmente si possono collegare a Gesù, morto venti anni prima, a proposito di un certo Chrestus, che visse a Roma, al tempo dell'imperatore Claudio; il passo di Tacito, a nostro avviso (si veda IL CRISTO È ESISTITO? pagine 44-54), è dei più sospetti; la famosa Lettera di Plinio il Giovane è molto probabilmente falsa (Si veda HAVET, Le Christianisme et ses Origines, tomo IV, pagine 421-431 — BOISSIER, Revue archéologique, 1876, pag. 115). Inoltre, questi testi, se fossero indiscutibilmente autentici, non potevano che essere un'eco delle voci che circolavano allora sui cristiani, e non proverebbero nulla.

I seri esegeti che ammettono la storicità di Gesù pensano di trionfare mettendo in evidenza le contraddizioni e le spiegazioni a volte un po' troppo infantili, si deve ammetterlo, dei negazionisti, perfino i più autorevoli, della leggenda. Ma le loro argomentazioni a loro, sono sempre più solide?

“Come mai”, ha detto il signor GUIGNEBERT, “nelle loro polemiche contro i cristiani, gli ebrei non avevano mai negato l'esistenza di Gesù? Questa sola negazione, ben fondata, conteneva un elemento radicale e tale che l'avversario doveva solo tacere. Ora, gli ebrei non l'hanno mai impiegata”.

Come, risponderemo, gli ebrei avrebbero potuto provare o soltanto affermare che Gesù non era mai esistito? Avrebbero potuto dire, tutt'al più, che non lo avevano affatto conosciuto. D'altra parte, e i loro poveri argomenti ne fanno fede, lo spirito critico non esisteva affatto al loro tempo, e la prima tendenza della mentalità umana è quella di credere ad ogni affermazione avanzata con una ferma assicurazione. Certo, l'argomento dell'esegeta erudita, se fosse rivolto agli uomini del diciannovesimo secolo, di una così alta cultura scientifica, di uno spirito critico così acuto come il suo, avrebbe un'autorità molto grande; ma rivolgendosi a degli ignoranti dell'inizio della nostra era, esso perde ogni valore. I monaci più istruiti del Medioevo non si sono mai sognati, mettendo gli stregoni alla tortura, di negare i pretesi miracoli di questi miserabili o di mettere in dubbio l'esistenza del Diavolo. Non abbiamo forse visto, quasi oggigiorno, in pieno sedicesimo secolo, la creazione della leggenda di Guglielmo Tell, di cui nessuno, finora, ne contesta la verità? Gli austriaci avrebbero avuto buon gioco, tuttavia, a respingere questa favola offensiva per loro e per il loro principe Alberto I. Non si vede tuttavia che l'abbiano mai fatto ed è dalla Svizzera che sono usciti i primi negatori di questa mistificazione — proprio come è tra i cristiani, e non tra gli ebrei, che si sono trovati i primi liberi pensatori abbastanza audaci da discutere la realtà di Cristo. Si potrebbero citare cento personaggi, mille fatti, cosiddetti storici, che la  critica serrata del nostro secolo, ha rigettato nel nulla, senza che i contemporanei della loro nascita, si fossero sognati un solo istante di esaminarli. Quando Evemero pretese che gli Dèi erano solo dei sovrani importanti, divinizzati dopo la loro morte, e che il loro mito era solo una meravigliosa distorsione di avvenimenti storici — tesi identica a quella che sostengono ancora alcuni partigiani della realtà di Gesù — si è incontrato qualcuno, durante quasi venti secoli, che mettesse in dubbio l'esistenza di Giove, di Poseidone, di Plutone, in quanto uomini? Il testo della Bibbia non è ancora sufficiente, agli altri tanto quanto ai credenti, per dimostrare la storicità di Noè, di Giacobbe, di Abramo, di Mosè, dall'esistenza così favolosa come quella di Gesù, e che i difensori sperano di servirsene per sostenere la realtà del Redentore?

Constatiamo infine che se gli ebrei non hanno mai tentato di negare Gesù, i Doceti, dalla fine del primo secolo, insegnavano che egli era solo un'apparizione, un fantasma. Resta ancora un'allusione a questa dottrina, nel Nuovo Testamento (2 Giovanni 7), e sant'Ignazio (morto intorno al 110) la combatte. Si vede che non è così nuova come la si pretende. 

“Benché si tratta solo di un'impressione personale, sembra impossibile negare che agli occhi di ogni lettore disinteressato, dai Sinottici non emerge una figura distinta e originale, che riflette la vita e può a malapena fuoriuscire dall'immaginazione mitologica”. Si è visto che siamo arrivati attraverso l'esame del testo a delle conclusioni diametralmente opposte. Non le riprodurremo qui, avendole già ampiamente sviluppate nelle nostre opere precedenti.

“È un uomo, un uomo autentico e che si mostra tutt'intero: è affaticato, affamato; dorme, domanda, gioisce, si affligge, trema, piange, è irritato; conosce i limiti del suo potere come del suo sapere. Non è affatto così che si presenterebbe l'immagine di un possente dio intercessore...”

Tutte queste affermazioni sono fondate sui testi evangelici, senza alcuna autorità, e in aggiunta, è proprio così che si presenta l'immagine degli Immortali nell'Iliade: anche loro, dormono, mangiano, bevono, domandano, gioiscono, si affliggono, tremano, piangono, si irritano. Tutti, Giove stesso, sanno che il loro potere non è affatto illimitato. Se, per definizione, non possono morire, possono essere feriti e soffrire. Apollo è schiavo di Admeto. Ciascun Dio è dappertutto, in tutti i tempi, fatto a somiglianza dell'uomo!

“Se veramente la nuova religione non è che la forma religiosa di una potenziale rivolta sociale, perché inscrive in testa alla sua legge, il divieto della violenza, l'obbligo della sottomissione alle autorità e della rassegnazione sociale? Predica l'amore fraterno e la carità... È probabile che un movimento all'origine del quale si colloca Spartaco, che cerca la sua ispirazione nel messianismo ebraico, un movimento provocato dalla più scandalosa disuguaglianza e dalla lotta di classe più implacabile, abbia generato proprio una religione di pace [2] che, ripudiando ogni rivendicazione sociale, consente di sopportare tutto sulla terra, nella speranza di una felicità oltremondana?”

“È difficilmente concepibile che l'esasperazione causata da lungo tempo, per una sfortuna cronica, nelle masse proletarie dell'Impero romano, si sia trasformata, al tempo di Augusto, e così spontaneamente, in un sentimento religioso e le abbia spinte a costituire una religione che cambia il loro immediato desiderio di benessere terreno nella speranza della felicità celeste”. 

Abbiamo visto (La Prétendue morale dans l'Evangile), che cosa si deve pensare della proibizione della violenza, della fraternità, della carità evangelica e della rinuncia ad ogni rivendicazione sociale. Il Vangelo, al contrario, ci sembra un libro di odio furibondo contro i beati di questo mondo. La carità che si crede di leggervi era raccomandata solo verso gli adepti e Paolo ci dice che dobbiamo abbassarci molto, anche in questo caso particolare. Il cantico della carità in Paolo “ha ogni probabilità di non essere suo”, secondo il signor Loisy, e l'eminente esegeta ha detto altrettanto del passo sulla sottomissione dovuta alle autorità. Del resto, anche se fossero indiscutibilmente usciti dalla penna dell'Apostolo, questi versi proverebbero solamente che i suoi discepoli avevano spesso bisogno che li si richiamasse alla bontà e all'obbedienza.

L'esasperazione delle masse proletarie non era affatto cessata al tempo di Augusto e dei suoi successori e non poteva cessare, poiché le cause che l'avevano provocata continuavano; è sufficiente leggere senza pregiudizio le minacce forsennate degli evangelisti contro i ricchi, per esserne convinti. Ma i miserabili hanno troppo spesso riconosciuto a loro spese l'inutilità e i pericoli di una rivolta aperta per rischiare di nuovo; in mancanza di meglio, si accontentano di odio e di insulti. La speranza delle felicità celesti non li fa abbandonare il sogno di un immediato miglioramento della loro sorte: “In verità, io vi dico, tutto questo arriverà su questa generazione” “Poi noi viventi..., ...verremo rapiti sulle nuvole”  (1 Tessalonicesi 4:17) — “Quando Cristo... ...avrà ridotto al nulla ogni impero, ogni dominazione ed ogni potenza (1 Corinzi 15:24) — ecc.

L'attesa di un Salvatore era inoltre diffusa nel mondo soggetto a Cesari, che sperava in un miracolo la fine di una situazione intollerabile: non c'è nulla di sorprendente nel fatto che una popolazione così disperata abbia agognato con ardente desiderio  un Redentore che discendesse dal Cielo per alleviare il suo tormento, dal momento che le forze umane erano impotenti e Roma era invincibile.

A quel tempo, tutti gli atti della vita, anche i più volgari, i più intimi, erano accompagnati da una manifestazione religiosa, in una misura di cui abbiamo difficoltà a farci un'idea ora. Così, il movimento di protesta contro il dispotismo romano doveva prendere fatalmente la forma di una manifestazione teologica, e la folla si era rivolta, per appoggiare le sue rivendicazioni, al giudaismo, il cui Dio si mostrava così ostinatamente ostile alle divinità dei ricchi e dei potenti, agli dèi che proteggevano la Città Eterna. Solo in effetti, tra tutti gli Dèi dei popoli conquistati, Jahvè rimase devoto e minaccioso; lui solo aveva ancora la forza di radunare i ribelli. Da lì, questo impulso, in un primo momento incomprensibile, verso il giudaismo e, ancor più, verso la nuova religione che, entrambi, con lo stesso gesto di disprezzo e di odio, rigettavano assieme nel nulla, gli Dèi impotenti dei vinti che non avevano saputo difendere i loro fedeli contro le armi di Roma, e le odiose divinità del detestato conquistatore.

A sostegno di questo punto di vista, si deve aggiungere che, al di fuori del pesante dominio latino, il cristianesimo non fa proseliti!

“Bisogna ammettere che questa storia si è costituita in territorio ebraico, dal momento che il racconto che possediamo, resta, dopo molte ricerche, così ricolma di parole e di costumi ebraici, indifferenti e persino incomprensibili a tutti gli altri tranne che agli ebrei, dirò perfino agli ebrei palestinesi”.

Crediamo che ci sia una confusione qui. Il cristianesimo non si è affatto stabilito in territorio ebraico, ma nell'ambiente di culto ebraico, tra i giudaizzanti, nelle sinagoghe per metà ellenizzate d'Oriente: “Io parlo a gente esperta della Legge”, ha detto Paolo, rivolgendosi ai cristiani di Roma (Romani 7:1). Il contenuto di questa Epistola mostra che Paolo scrive a dei pagani giudaizzanti, ma nati fuori dalla Giudea e che hanno già fatto volentieri a meno della circoncisione. Questa atmosfera è ben diversa e spiega meglio la miscela incoerente che ricolma i Vangeli, di elementi ebraici e di idee greche, mescolati con l'ignoranza di tutto ciò che riguarda la Palestina, e combinati con la conoscenza superficiale dei costumi religiosi degli ebrei.

Se i Vangeli non sono affatto dei documenti storici — e difficilmente lo si può contestare — se questi sono solamente delle opere di fede; se gli Atti sono solo una “leggenda informe” (LOISY), non resta da consultare nel Nuovo Testamento che le Epistole di Paolo, poiché gli altri opuscoli non valgono affatto la pena di una confutazione. Di nuovo, seguendo l'esempio di molti critici, ritorneremo solo alle Epistole Cardinali, dato che le altre sono più o meno sospette. Ammettiamo dunque la loro autenticità (a parte alcuni passi molto probabilmente rimaneggiati o interpolati). Non dimentichiamo, tuttavia, che le date di tutti questi scritti, perfino delle Epistole meno contestate, sono molto vaghe e molto discusse, il che non facilita affatto la soluzione del problema: ci si rende conto facilmente, anzi, che le considerazioni che si possono ricavare, devono differire essenzialmente se si attribuisce all'Epistola ai Galati la data del 55 (LOISY), oppure la metà del secondo secolo (DREWS); se il Vangelo di Marco può essere fatto risalire fino a prima del 70 (nel 50 secondo Clemente), o spostato fino all'ultimo quarto del 2° secolo.

Non ci resta quindi più nulla, come abbiamo appena detto, se non le Epistole di Paolo. È nelle sue Lettere (quasi tutti gli esegeti ne convengono) che si trova il nodo della questione, la soluzione approssimativa del problema. Questa è l'unica testimonianza che merita attenzione. Ma le asserzioni più precise di questo visionario sono solo delle allucinazioni e, lui stesso, non le dà per nient'altro. Come abbiamo visto in questo libro, Paolo non parla mai di Cristo come di un essere reale e non ci fa apprendere nulla su Gesù che egli abbia intravisto al di fuori delle estasi.  “La conoscenza che ne ha è gnosi, scaturita tutta dalla rivelazione diretta; essa appartiene alla teosofia, alla teologia, alla metafisica, affatto alla Storia. Non è minimamente probabile che la popolazione intelligente delle città marittime dell'Asia Minore, dove predica Paolo, si sarebbe volta, alla sua voce, verso il cristianesimo, se lui avesse annunciato del tutto semplicemente che, dieci o venti anni prima, un Galileo, di nome Gesù, si era fatto riconoscere per il Messia, da una banda di pescatori e di manovali; ma, al contrario, si comprende che avrebbe risposto a una predicazione che le presentava, sotto i tratti del Cristo celeste, il Salvatore divino di cui aveva già un'idea familiare”.

Come mai Paolo, del resto, che si suppone abbia vissuto in contatto con i presunti apostoli, i compagni e gli amici di Gesù, non ha fatto la minima allusione ai loro rapporti con il profeta galileo? Come mai non ha appreso nulla da loro sulla vita terrena di Cristo, sui suoi insegnamenti? Come mai, nel Concilio di Gerusalemme, come lo racconta, né lui né Pietro citarono l'opinione del Maestro divino su questa questione essenziale della Circoncisione, da cui dipendeva tutto il futuro della cristianità? Perché i due successori di Gesù non parlano mai di lui, come se fossero convinti tanto quanto noi che la sua vita è soltanto una favola? Gli stessi Atti, così attenti a nascondere la gravità del conflitto tra i due capi nazareni, non fanno più menzione del Redentore nel loro racconto edulcorato. Molto meglio, in tutto il libro degli Atti, si vede che né Pietro, né Paolo, né alcun apostolo conobbe in Gesù nient'altro che il Cristo sognato da Paolo.

Oltretutto, perfino concedendo, contro ogni probabilità, la realtà della Passione, è ammissibile che dopo la morte del profeta galileo, i suoi amici e coloro che lo avevano frequentato, avrebbero potuto pretendere che fosse risorto, che l'avessero visto vivo per sei settimane e ne avessero fatto un Dio? Questa vasta mistificazione non era certamente alla portata di poveri pescatori. L'antichità ha conosciuto un sacco di eroi risorti, ma non sono mai stati i contemporanei ad averne inventato la storia.

Tutti i tentativi di ricostruzione della vita di un personaggio così vago, per quanto leggermente si tenta di tracciarne i tratti, sono dunque condannati in anticipo ad un deplorevole fallimento, perché non si può ricavare dai Vangeli un singolo evento indiscutibile, una sola parola che si possa attribuire con qualche probabilità al Salvatore. Renan ha scritto la più bella, se non la più falsa di queste ricostruzioni: ha fatto del suo eroe, una sorta di Fourier o di padre Enfantin (per non dire proprio un Renan del primo secolo), ma la magia dello stile non è abbastanza per nascondere la fantasia puerile della fabbricazione. L'autore è un poeta meraviglioso, ma anche se avrebbe potuto fare un serio lavoro di critica, non lo ha tentato affatto.

Forse, infine, le differenze di opinione sulla realtà di Cristo provengono dal fatto che la questione non è stata posta molto chiaramente:

Evidentemente, non si tratta per nulla di indagare se sia esistito, all'inizio della nostra era, un uomo chiamato Gesù, che aveva predicato in qualche angolo ignorato della Galilea: niente di più facile da concedere e possiamo, se lo si desidera, concedere partita vinta su questo punto ai partigiani della realtà umana del Messia; ma non è affatto probabile che si accontenterebbero di così poco. È tuttavia impossibile fare un passo avanti e accordare loro di più: non vi è il minimo indizio storico dell'arresto di questo Gesù a Gerusalemme, del suo processo, della sua condanna o della sua tortura, e ciò che ci raccontano i Vangeli, opere di autori sconosciuti e molto posteriori agli eventi che riportano, è talmente avvolto da contraddizioni, da fatti incredibili e da assurdità che non si può trattenere nulla. 

La tesi della non esistenza di un Cristo umano rimuove tutte queste difficoltà, ma le sostituisce, è vero, da quella, ben minima tuttavia, di spiegare il movimento che portò, a poco a poco, le masse proletarie del mondo romano verso un sogno di felicità immediata. Per noi, sono i giudaizzanti dell'Asia greca che, nelle loro sinagoghe, hanno costruito il loro Messia secondo le profezie della Bibbia che l'annunciavano. Sotto la pressione di un'intensa propaganda, risalente a diversi secoli, portarono da loro le popolazioni afflitte dalla atroce tirannia latina. Ma quelle masse proletarie che adoravano il Messia ebraico non hanno affatto conosciuto la Palestina, più di quanto la conoscessero coloro che le indottrinavano. I Vangeli sono una favola ebraica recitata in un ambiente greco, proprio come il Fedro o l'Andromaca di Racine sono dei drammi francesi sotto dei nomi ellenici.

Noi crediamo dunque che le ragioni per dubitare dell'esistenza di Gesù restano tutte e che si può opporre ai negazionisti soltanto l'assenza di prove dirette della non-realtà del personaggio, prove che non si possono evidentemente fornire e che è illegittimo domandare. Inoltre, i nostri avversari hanno da obiettarci solo degli argomenti estratti da testi falsificati e abilmente presentati. Quale che sia il significato più o meno probabile che tentano di far derivare, essi sono impotenti a far nascere una convinzione solida, persino a scalfire lo scetticismo ragionato. Che si ritrovi un passo di Giuseppe, di Tacito o di qualche altro, la cui autenticità sia accettabile, noi ci inchineremo e ci arrenderemo di buon cuore e senza esitazione. I pii esegeti sono talmente del nostro avviso sulla debolezza delle pretese prove avanzate al punto che si aggrappano disperatamente alla certezza di qualche riga riscontrata nella Storia della Guerra Giudaica e negli Annali. Essi sentono, così proprio come noi, che non vi è altro terreno solido, dal momento che la Chiesa stessa non osa più riferirsi ai resoconti apocrifi di Pilato o alla Lettera di un cosiddetto Lentulo.

Ecco perché, alla domanda posta nel nostro primo volume: Il Cristo è esistito? noi ci crediamo in diritto, nello stato attuale della scienza storica, di rispondere coraggiosamente:

NO!


E. MOUTIER-ROUSSET.


NOTE

[1] “A volte si sarebbe detto che la sua ragione fosse turbata” (Renan, Vie de Jésus, 331).

[2] Religione di pace! Si crede di sognare leggendo queste parole e quando si pensa allo stesso tempo a diciotto secoli di disordini, di massacri, di guerre atroci, civili o esterne, che dal primo giorno fino ad ora, hanno insanguinato gli annali della cristianità!

«La Leggenda di Gesù» (E. Moutier-Rousset) — Pietro e gli Apostoli

(continua da qui)

§ 2. — PIETRO E GLI APOSTOLI

Se, negli Atti, ci sono dei racconti ammissibili in ciò che riguarda le avventure di Paolo, è impossibile, in compenso, trattenere, per quanto di poco, delle favole concernenti Pietro. Ci si può anche sorprendere di vedere, così pochi giorni dopo la morte di Gesù, Anna e Caifa, i sacerdoti, gli Anziani e gli Scribi, vale a dire i membri dello stesso tribunale che arrivarono così facilmente a condannare Cristo a morte, non infliggere alcuna punizione al successore del Messia e agli altri undici apostoli che resuscitavano con tanto zelo e ancor più audacia l'opera rivoluzionaria soffocata di recente nel sangue del Redentore, e accontentarsi di ammonirli senza punirli (4:21), dopo averli fatti comparire davanti a loro. Li fanno anche arrestare una seconda volta (5:18), poi una terza (5:26), per recidiva e, sempre li rilasciano con la stessa mansuetudine. Questa indulgenza inspiegabile è tanto più straordinaria dal momento che, mentre il figlio di Maria è stato ucciso, anche se non ha mai osato prendere il titolo sedizioso di Cristo, e neppure permesso che glielo si attribuisse, [1] Pietro e gli altri apostoli, al contrario, gli danno regolarmente e pubblicamente questa qualifica rivoluzionaria e blasfema agli occhi del Sinedrio (Atti 2:36, 38 — 3:18, 20) e financo in tribunale (Atti 4:10). L'autorità romana stessa, così inquietante per tutto ciò che riguarda la sua supremazia, non si preoccupa più di questa propaganda di una gravità capitale dal suo punto di vista tanto quanto da quello degli ebrei. Il popolo, che gli Evangelisti ci hanno rappresentato mentre urla delle grida di morte contro Gesù e mentre forza la mano a Pilato per strappargli una condanna, prende questa volta, ogni volta, al contrario, la parte dei successori del Galileo ucciso il giorno prima ( 4:21 - 5:26), cosa che, del resto, non gli impedisce affatto, qualche giorno più tardi (6:12 e 7:57) di lapidare Stefano che non ha fatto di più. Abbiamo in queste dissonanze, una nuova prova che il processo del Messia è un'invenzione miserabile.

E, mentre lasciano gli Apostoli ben tranquilli, questi strani giudici che arrivano a condannare Stefano alla lapidazione per questi stessi atti di proselitismo sacrilego, eseguono in tempo e con le loro stesse mani la loro crudele sentenza (7:56-57); poi Paolo, che sembra essere stato il loro strumento fino al giorno della sua conversione, fa gettare in prigione una folla di fedeli e “disperdere tutti gli altri, salvo gli Apostoli(8:1-2). Queste continue precauzioni nei confronti dei Dodici, [2] capi di uno scisma così pericoloso per l'ortodossia israelita, sono del tutto incomprensibili quando le si paragonano alla furia impiegata senza pietà contro gli eretici di minor peso. Su ordine del Sommo Sacerdote, Paolo si reca perfino a Damasco, con l'intenzione di far arrestare e condurre a Gerusalemme i nazareni che vi aveva scoperto. È una fortuna per l'agente di Caifa, [3] che l'apparizione sulla via di Damasco gli abbia fatto cambiare idea, perché è probabile che sarebbe stato accolto molto male nel tentativo di compiere la sua missione in una città che non riconosceva per nulla l'autorità del sommo sacerdote israelita, ma era soggetta al re Areta IV, morto nel 40 (2 Corinzi 11:32), del tutto devoto ai Romani e nemico dichiarato degli ebrei. Evidentemente questo principe avrebbe trovato molto grave il fatto che il sovrano pontefice del regno di Erode osasse interferire così nella polizia interna del suo Stato, e il perturbatore ebreo lo avrebbe imparato a sue spese. Qualche anno più tardi, in effetti, Paolo, che era venuto a disturbare la tranquillità di Damasco, fuggì con grande difficoltà alla severità del monarca arabo (Atti 11:25 — 2 Corinzi 11:33). (Fu solo nel 105 che il minuscolo principato fu riunito alla provincia di Siria).

Un fatto ben degno di attenzione, è la nullità del ruolo che gli scrittori sacri, senza eccezione, conferiscono agli Apostoli, i cosiddetti primi propagatori del cristianesimo; le stesse liste del collegio dei Dodici date da Marco, Matteo, Luca e gli Atti, non concordano affatto tra loro: Matteo e Lebbeo sono nominati solo nel primo Vangelo; Taddeo figura solo nel secondo; Giuda di Giacomo, solo nel terzo. Il quarto vangelo ignora la maggior parte di questi nomi e perfino quello di Giovanni, a cui la tradizione cristiana attribuisce la composizione. Paolo non conosce nessuno dei quindici personaggi dei vangeli ai quali è concessa la qualità di apostolo, al di fuori di Pietro e di Giovanni; ancora, nel testo delle sue Lettere, nulla ci assicura che egli voglia parlare dei pretesi compagni di Gesù e che il Cefa delle Epistole sia il Simone dei Vangeli. Quanto a Giovanni, lo menziona solo una volta (Galati 11:9), come uno delle “colonne” della Chiesa di Gerusalemme. Ma questi due nomi erano troppo comuni in Palestina perché si sia in diritto, senz'altra indicazione, di identificare due individui che li portavano. In compenso, Giacomo, “il fratello del Signore”, attore irrilevante nei vangeli e che, secondo Giovanni (7:5) non credeva che Gesù fosse il Cristo, è messo dall'autore delle Epistole, sullo stesso rango di Pietro e perfino al di sopra (Galati 2:9, 12), mentre gli Atti non lo conoscono nemmeno. D'altra parte, Paolo non esita a prendere, di sua propria autorità il titolo di apostolo (rappresentante di Cristo), al quale egli non ha alcun diritto, secondo la leggenda evangelica; egli sembra addirittura contestarlo agli altri: “Paolo, che si pretende apostolo non da parte di uomini, ma per mezzo di Gesù Cristo” (Galati 1:1), il che sembra dire abbastanza chiaramente che Pietro, Giacomo e Giovanni, suoi concorrenti, non sono apostoli che per la sola scelta dei loro seguaci, senza che Gesù vi sia per niente. [4] L'Autore degli Atti, tranne che in un unico verso (14:13), si mantiene nella tradizione dei Sinottici; Giovanni, al contrario, non accorda questo onore a nessuno; evita accuratamente di servirsi di questo termine e chiama semplicemente “discepoli” (in greco Mathêtês) i Dodici scelti dal Signore (6:71). Impiega indifferentemente questa stessa qualifica per designare i partigiani del Battista e quelli del Redentore, quale che sia la loro importanza: il nome di Apostolo dunque non ha ancora acquisito, al suo tempo (fine del secondo secolo),  in tutti gli ambienti cristiani il significato preciso che ha preso più tardi e che i Sinottici riservano gelosamente ai primi dodici seguaci del Crocifisso di Nazaret.

Gli Atti, che raccontano con tanto dettaglio gli inizi della Chiesa cristiana, non menzionano mai il nome di un apostolo tra quelli dei primi esportatori della predicazione della Buona Novella, nemmeno per attribuire loro uno dei miracoli di cui il Libro è così prodigo. Al di fuori di Pietro, tutti i personaggi che porteranno la buona parola alle nazioni sono ignorati dagli Evangelisti. Nessuno di coloro che dovrebbero aver frequentato il Salvatore, aver ascoltato i suoi insegnamenti, aver ricevuto dalla sua bocca l'ordine di evangelizzare la terra, si preoccupa di propagare la dottrina del Maestro e, tranne che in alcuni scritti apocrifi, non vi sarà mai più menzione di loro. Sono delle persone che non hanno visto, né sentito Cristo, che diffusero il cristianesimo nel mondo, invece che coloro a cui questo ruolo era stato affidato apparentemente dal Risorto. La fine di tutti gli apostoli è così sconosciuta come la loro azione: delle tradizioni ridicole li fanno portare il Vangelo e subiscono il martirio nei paesi barbari, al di fuori del mondo romano, [5] dove ogni controllo è impossibile e dove non esistette mai nessuna chiesa, mentre, presso di loro, nell'Impero dei Cesari, il compito era così facile e così fruttuoso. È in regioni quasi favolose, dove non si comprende né il latino, né il greco,  né l'aramaico, che questi ignoranti che parlano solo il loro dialetto galileo, predicheranno nell'idioma locale. Gli Atti, è vero, trasformano elegantemente questa difficoltà con l'invenzione del miracolo del dono delle lingue (2:3-15).

Sembra quindi chiaro che i Dodici apostoli non hanno più realtà del loro maestro e che sono stati inventati per corrispondere alle Dodici Tribù di Israele (Matteo 19:28): non hanno altra ragion d'essere nella leggenda del Messia. Questa cifra è talmente fatidica che, sebbene Gesù, mediante la sua prescienza divina, sappia molto bene che Giuda lo tradirà (Matteo 26:21-25), egli non lo esenta affatto dalla sua promessa. Dopo la morte del traditore, i suoi colleghi non possono lasciare incompleto il numero convenzionale, lo ricostituiscono immediatamente (Atti 1:26) ed eleggono un nuovo apostolo, un certo Mattia che gli evangelisti non hanno affatto conosciuto e di cui non vi è mai più menzione al di fuori di questa circostanza, in modo da mantenere ad ogni costo il numero sacramentale. Dopo Mattia, mai alcun'altra elezione ha luogo per rimpiazzare gli antichi apostoli morti. [6]

NOTE

[1] Nel Vangelo di Marco (14:61, 62), seguito in ciò da Matteo, Gesù che, fino ad allora (Marco 3:12 — 8:30), ha impedito severamente che lo si chiamasse Cristo, rivendica questo titolo in un'occasione molto mal scelta: e quando il sommo sacerdote che cerca una scusa per perderlo, gli domanda: sei tu il Cristo? È piuttosto improbabile che il Salvatore faccia così gratuitamente e così maldestramente il gioco dei suoi nemici e che prenda proprio un momento così inopportuno per assumere la terribile responsabilità che ha respinto fino ad allora con tanta cautela e in circostanze molto meno critiche.

Luca, evidentemente imbarazzato da questa difficoltà, la evita facendo prendere tempo al Signore e, alla domanda così terribilmente precisa che gli pone il sommo sacerdote, l'evangelista rappresenta il Redentore che risponde in modo enigmatico: “Anche se ve lo dico, non crederete” (22:67). Giovanni sopprime domanda e risposta in questo interrogatorio, non si sa esattamente perché dal momento che, nel suo testo, Gesù assume coraggiosamente la qualità del Messia, sin dall'inizio della sua missione (4:25, 26); ma Giovanni si diparte sempre più dalla tradizione rispetto ai suoi predecessori.

Risulta chiaramente da queste contraddizioni e da queste incoerenze del mito evangelico che, nessuno, al tempo dei Sinottici, osava ancora pretendere che Gesù si era dato come Cristo e che è solo dal tempo degli Atti e del quarto Vangelo, vale a dire un secolo dopo, che si comincia a fargli affermare questa qualità.

Paolo, è vero, chiama costantemente Gesù, Cristo (che è la traduzione della parola ebraica Messia); ma noi sappiamo che il “Cristo secondo la carne” non esiste affatto per lui e che egli ignora o vuole ignorare tutta la leggenda dei Vangeli.

[2] I Dodici sono menzionati solo una volta in Paolo: “apparve a Cefa, poi ai Dodici (1 Corinzi 15:5), il che dimostrerebbe, o che Paolo non considerò affatto Pietro come facente parte dei dodici della leggenda evangelica, oppure che Pietro non è affatto lo stesso personaggio di Cefa. Altri testi, meno sicuri, recitano: “poi agli Undici” oppure “poi a tutti gli apostoli”. Il senso esatto richiederebbe: “poi agli altri Dieci apostoli”, dal momento che Giuda Iscariota è morto e non è stato ancora sostituito, — “così che ci si potrebbe chiedere se queste parole non siano un'aggiunta fatta in seguito, da qualcuno che, avendo letto i Vangeli, non comprese affatto che l'apparizione ai Dodici fu dimenticata da Paolo” (Havet, Le Christianisme et ses Origines, tomo IV, pagina 29).

[3] “La missione affidata a Paolo è semplicemente inconcepibile” (Loisy,  Les Livres du Nouveau Testament, pag. 485).

[4] Tutte le Epistole Cardinali, senza eccezione, cominciano con queste parole: “Paolo, apostolo per la volontà di Dio”.

Il tribuno di Tarso spesso insiste sui diritti che si arroga in base a questo titolo, di cui sembra molto geloso (Romani 1:5, 1 Corinzi 9:1, 2, 5, 15:9, 2 Corinzi 12:12). Eppure, lo dà anche ad Andronico e a Giulia (una donna!), personaggi ignorati dagli Atti e dai Vangeli (Romani 16:7), “che si sono segnalati fra gli Apostoli”, mentre cita con un certo disprezzo, Pietro, Giacomo e Giovanni, tra coloro chesembravano i più ragguardevoli” (Galati 2:6, 9).

[5] In queste stesse leggende, gli Apostoli che devono portare la Buona Novella si astengono accuratamente di mostrarsi nelle province romane: non si vede nessuno venire in Spagna (salvo Giacomo, nella tradizione spagnola), nessuno in Gallia, nessuno in Italia (salvo Pietro, secondo una favola tanto tendenziosa quanto campata in aria), nessuno in Inghilterra, in Germania, in Illiria; in Mesia, in Dalmazia, in Pannonia, in Rezia, in Sicilia, in Corsica, in Sardegna, a Creta, in Macedonia, a Cipro. È in paesi sconosciuti, sui quali non abbiamo alcun documento né alcun mezzo di controllo, come la vaga Scizia, l'Etiopia selvaggia, la Babilonia così lontana, la Partia, interdetta ai Romani, e dove nessuna verifica poteva essere tentata, se gli apocrifi oppure i Padri dirigevano le orme degli apostoli.

La tradizione continua ad essere così indecisa che i pittori del Rinascimento che cercano di riprodurre i lineamenti degli apostoli, non sanno come immaginarli: ne “L'Ultima Cena” (Museo del Prado) di Juarrès di Valencia, pittore spagnolo (1523-1579) l'artista è talmente imbarazzato che non trova niente di meglio, per trarsi d'impaccio, che scrivere rozzamente il nome di ciascun apostolo sopra la sua testa e, senza questa precauzione, si potrebbe facilmente confondere il Cristo stesso con due dei suoi discepoli, tanto rassomiglia loro.

[6] Secondo la tradizione cattolica, i papi rappresentano proprio la successione ininterrotta dei successori di Pietro, ma i protestanti e la Chiesa greca la contestano. Gli altri apostoli non hanno lasciato una posterità eletta.

venerdì 28 giugno 2019

«La Leggenda di Gesù» (E. Moutier-Rousset) — I Viaggi di Paolo

(continua da qui)

CAPITOLO II. — L'AUTORE DEGLI ATTI

 § 1. — I VIAGGI DI PAOLO

Se l'assenza del meraviglioso nelle Lettere di Paolo ci autorizzano a concedergli una fiducia abbastanza grande, le improbabilità, le contraddizioni e la profusione di racconti di miracoli elargiti nei Vangeli, ci consigliano di non consultarli che con la più estrema circospezione, perché sono stati evidentemente composti da scrittori di una creduloneria incomparabile che non hanno visto nessuno degli eventi che riportano e non hanno pensato per un solo istante di verificare queste favole. Inoltre, non pretendono per nulla di esserne stati i testimoni [1] e, se possiamo dubitare della loro intelligenza, non abbiamo così tante ragioni per accusarli di malafede. È diverso per ciò che concerne l'autore degli Atti degli Apostoli. [2]

Se il redattore di questo opuscolo è il Luca del terzo Vangelo, così come lo crede ora la Chiesa [3] e così come permettono di supporlo il prologo degli Atti (1:1), la conformità delle teorie comuniste e la stessa creduloneria puerile, [4] ne risulta che anche questo scrittore non ha conosciuto Gesù e non appartiene alla stessa generazione. Dato che il terzo vangelo non può risalire a prima dell'anno 100, gli Atti che gli sono posteriori, devono essere fatti risalire all'inizio del secondo secolo e, di conseguenza, è ben difficile ammettere che essi siano l'opera di un contemporaneo di Paolo il quale, secondo la leggenda, effettivamente più che dubbia, benché accettata dai credenti, fu martirizzato nel 64, ma che, in ogni caso, non poteva essere ancora in vita, al momento in cui scriveva il preteso Luca; tutt'al più, si oserà sostenere, con un sacco di compiacenza, che l'autore, che si presenta (16:10) come l'assiduo compagno di Paolo (a partire dall'anno 50 circa), riportasse nella sua tarda vecchiaia, il ricordo di avventure che gli erano capitate quando era pressoché bambino; ma sfortunatamente per il suo credito, gli eventi che riporta sono troppo spesso incredibili, il che toglie un sacco di peso a quelli eventi che noi non abbiamo alcuna ragione plausibile di rifiutare. Il confronto con le Epistole suggerisce dei nuovi dubbi. È così che il silenzio di Paolo a proposito della visione sulla Via di Damasco, ci costringe a respingere il racconto degli Atti, benché, a priori, non vi abbia nulla di inaccettabile.

Ma quando (17:19-34), il redattore degli Atti ci assicura che Paolo, ad Atene, fu ammesso ad esporre le sue convinzioni in pieno Areopago, [5] siamo ben obbligati a concludere che aveva inteso parlare solo in una maniera molto vaga del tribunale supremo della città di Minerva e che lo confonde con un'assemblea di passaggio; quando certifica che i Licaoni presero Paolo e il suo discepolo Barnaba per degli Dèi (14:10-12) e che vollero offrire loro dei sacrifici, dobbiamo proprio riconoscere che lo scrittore sacro fa eco ad un una favola ridicola, se non l'ha inventata da zero, il che è ancora più probabile; quando (a intermittenza) si presenta come uno dei compagni di Paolo durante i suoi viaggi (16:10-17 — 20:6, 8, 13, 14, 15 — 21:1-9 — 27:2-8 — 15-20 — 26-37 — 28:1-16) siamo giustificati nell'accusarlo di una insolita sfrontatezza, dal momento che pretende di essere il testimone oculare dei miracoli che racconta e che è impossibile che abbia visto, come l'incredulo colpito da cecità (13:11), la guarigione del paralitico (14:7,9), la resurrezione di Eutico (20:9-18) e la favola della vipera che morde Paolo senza che costui provi il minimo male (28:3, 4, 5). Si potrebbe credere di più al fatto che il preteso Luca abbia visto, a Filippi (16:25, 26), la terra tremare, le stesse porte della prigione aprirsi  e le catene di Paolo spezzarsi, non appena si mette in preghiera? Tutti questi racconti da nutrice ci rendono dunque l'autore degli Atti degli Apostoli più che sospetto. 

Tuttavia, d'altra parte, ci sono in questo opuscolo degli eventi che sono perfettamente possibili e perfino probabili: il libro degli Atti non possiede affatto la deplorevole imprecisione dei Vangeli che ci parlano sempre di una Galilea da sogno, senza alcuna realtà tangibile, senza località note o semplicemente indicate; questa differenza tende ugualmente a farci supporre che l'autore del terzo vangelo, così nebuloso, così ignorante in geografia e in storia, non possa essere lo stesso di quello degli Atti, così chiaro e così preciso nella menzione dei luoghi e dei personaggi storici. Questo tuttavia non è affatto una prova assoluta, dal momento che Newton ha potuto scrivere le assurdità dei suoi commentari dell'Apocalisse (“per consolare l'umanità della superiorità che aveva su di lei”, disse Voltaire), con la stessa mano che derivò i Principi Matematici della Filosofia Naturale e il Trattato della Quadratura delle curve.

Luca, in effetti, nella narrazione dei viaggi di Paolo, mostra una conoscenza ampia e molto sicura della Geografia del bacino del Mediterraneo orientale. Il fatto che questi viaggi siano immaginari, che non sempre concordano con ciò che si può ricavare dalle Epistole, ciò non toglie nulla alla loro accuratezza geografica ed è per questo motivo che li consideriamo.

Ecco il riassunto degli itinerari che descrive; aggiungiamo le distanze e, per quanto possibile, le date probabili:


ITINERARIO


dei Viaggi di Paolo, secondo gli Atti:


 9:3 — da Gerusalemme a Damasco; conversione di Paolo; (anno 35); Damasco è a nord—est di Gerusalemme ......………………………………….

220 k. 
 9:26 — gli ebrei di Damasco complottano per assassinarlo, egli si salva e tornano a Gerusalemme (anno 38) 

220 k.
 9:30 — dato che gli ebrei di Gerusalemme cercano di ucciderlo, si rifugia a Cesarea di Palestina, un porto a nord—ovest di Gerusalemme; poi a Tarso di Cilicia, oggi Tarso (anno 38):

da Gerusalemme a Cesarea ...………………………………………………….
 100 k.
 da Cesarea a Seleucia di Siria ...……………………………………………… 
 470 k.
 da Seleucia a Anchiale ...……………………………………………………...
 140 k.
 da Anchiale a Tarso ...…………………………………………………………
  30 k.

 ________  740 k.                           
 11:25 — Barnaba porta Paolo ad Antiochia di Siria (oggi Antakya), a nord di Gerusalemme; vi rimarrà un anno (11:26) ...…………………………………...

 210 k.

Prima Missione

13:4 — Paolo si reca a Seleucia, un porto ad ovest di Antiochia, e da lì ...……... 



30 k.
 13:5 — si imbarca per Salamina di Cipro (Constanza) — (anno 50) ...…………
 240 k.
13:6 — attraversa l'isola di Cipro, fino a Pafo o Citèra (oggi Kouklia) ...……….
 170 k.
13:13 — Va a Perge di Pamfilia, a nord—ovest di Pafo:
da Pafo ad Attalia ………………………………………………………………...
310 k.
da Attalia a Perge ......…………………………………………………………….
30 k.

 ____ 340 k.   
13:14 — poi ad Antiochia di Pisidia (oggi Yalvaç), a nord di Perge, da dove viene cacciato ......………………………………………………………………………...

160 k.
13:51 — si dirige allora su Iconio (oggi Konya), la capitale della Licaonia, dove dimora a lungo (14:3); ma, siccome la gente del posto vuole lapidarlo (14:5) ...….

170 k.
14:6 — si rifugia a Listra di Licaonia; ma lì, lapidato dagli ebrei, si trascina, mezzo morto, fuori dalla città (14:18) ...…………………………………………………...

100 k.
14:19 — e se ne va a Derbe di Licaonia, a sud—est di Iconio ...………………….. 
 40 k.
14:20 — e ritorna in seguito a Listra, a Iconio e ad Antiochia di Pisidia ......……...
310 k.
14:23 — poi, attraversando la Pisidia:
da Antiochia di Pisidia a Perge ...………………………………………………….. 

160 k.
da Perge ad Attalia ...……………………………………………………………….
30 k.

_____ 190 k.
14:24 — ritorna a Perge e scende ad Attalia (oggi Adalia o Satalieh), un piccolo porto a SW di Perge, e
14:25 — quindi vele per Antiochia Siria …………………………………………..


600 k.
15: 3 — attraversa la Fenicia e Samaria e 15: 4 — arriva a Gerusalemme ...……...
600 k.

Seconda Missione


15:30 — ritorna ad Antiochia di Siria (anno 52)



600 k.
15:41 — attraversa la Siria e la Cilicia (anno 62), e
16:1 — arriva a Derbe, vicino a Listra (da Tarso) ...………………………………..

400 k.
16:4 — poi, andando di città in città,
16:6 — attraversa la Frigia e la Galazia,
16:7 — viene in Mysia,
16:8 — e, attraversando questa provincia, scende a Troade (l'antica Troia, oggi Hissarlik):
da Derbe ad Antiochia di Pisidia …………………………………………………..





810 k.
da Antiochia a Troade ...…………………………………………………………… 
550 k.

 ________  860 k.
16:11 — si imbarca a Troade e arriva a Samotracia, l'isola a nord—ovest di Troade (oggi Semendrek), e il giorno dopo, sbarca a Neapoli (oggi Kavala), vicino a Filippi:
da Troade a Samotracia ...………………………………………………………….


100 k.
da Samotracia a Neapoli  ...………………………………………………………..
150 k.

 ________  250 k.
16:12 — di là, a Filippi (oggi Filibedijk, vicino all'attuale città di Kavala); viene messo in prigione e scappa, grazie a un miracolo ...……………………………...

20 k.
17:1 — di là, passando per Anfipoli, a sud—ovest di Filippi, poi ad Apollonia di Macedonia, a ovest di Anfipoli,
viene a Tessalonica (oggi Salonicco):
da Filippi ad Anfipoli …………………………………………………………….



60 k.
da Anfipoli ad Apollonia ...……………………………………………………….
50 k.
da Apollonia a Tessalonica ...……………………………………………………..
50 k.

 ________  160 k.
17: 8 — avendo causato dei problemi, lascia la città, dopo che il suo ospite Giasone ha dato cauzione per lui (17:9)
17:10 — e va a Berea, a ovest di Tessalonica, dove una nuova rivolta lo fa partire (18:14) ...…………………………………………………………………………..



70 k.
17:15 — va ad Atene ...……………………………………………………………
600 k.
18:1 — poi, a Corinto ...…………………………………………………………...
100 k.
dove dimora un anno e mezzo (18:11), tra il 57 e il 58.
18:18 — Partendo da Cencrea, uno dei due porti di Corinto (l'altro porto, sul golfo di Corinto, si chiama Lescheo), sul golfo di Saronico, si imbarca per la Siria e la Palestina
18:19 — e arriva ad Efeso di Ionia, sul golfo di Samo ...………………………….




470 k.
18:19 — approda in seguito a Cesarea:
da Efeso ad Attalia ...………………………………………………………………. 

700 k.
da Attalia a Seleucia di Siria ...……………………………………………………..
600 k.
da Seleucia a Cesarea ...…………………………………………………………….
470 k.

 ________  1770 k.

e va a Gerusalemme ...……………………………………………………………... 

100 k.

Terza Missione

poi si reca ad Antiochia di Siria ...…………………………………………………. 



600 k.
18:23 — poco tempo dopo, attraversando di città in città, la Galazia e la Frigia,
19:1 — ritorna ad Efeso, dove insegna per due anni (19:10):
da Antiochia di Siria ad Antiochia di Pisidia ……………………………………….


710 k.
da Antiochia di Pisidia ad Efeso …………………………………………………….
370 k.

 ________  1080 k.
20:1 — Una sedizione lo costringe a partire per la Macedonia (a Filippi, senza dubbio) ……………...……………………………………………………………….

550 k.
20:2 — percorre questa provincia e torna in Grecia, dove dimora per tre mesi (a Corinto, probabilmente).
20:6 — e torna a imbarcarsi a Filippi: da Filippi a Corinto e ritorno ……………….


1860 k.

e, dopo cinque giorni di navigazione, arriva a Troade ……………………………...

270 k.
20:14 — Si unisce ai suoi discepoli ad Asson, poi a Mitilene ……………………...
100 k.
20:15 — e, il giorno dopo, va a Chio, a sud di Lesbo ...…………………………….
 100 k.
poi il giorno seguente, a Mileto, a sud—est di Samo ………………………………. 
140 k.
21: 1 — va in seguito a Cos, a sud di Mileto il giorno dopo a Rodi, a sud—est di Cos ...………………………………………………………………………………...

100 k.
e di là, a Patara, in Licia, a est di Rodi ...……………………………………………. 
100 k.
21: 3 — E salperà di nuovo e va a sbarcare a Tiro, a sud—est di Patara; vi dimora per sette giorni:
da Patara ad Attalia ...……………………………………………………………….. 


240 k.
da Attalia a Seleucia di Antiochia ...…………………………………………………
 600 k.
da Seleucia a Tiro ...…………………………………………………………………. 
380 k.

 ________  1220 k.
21: 7 — da Tiro, passa per mare a Tolemaide, antica Acco, a sud di Tiro …………..
40 k.
21: 8 — poi, per terra, a Cesarea, a sud di Tolemaide ………………………………..
50 k.
21:17 — e infine, a Gerusalemme, a sud di Cesarea; vi è imprigionato (23:10), anno 58, per due anni (24:27) ...…………………………………………………………….

100 k.

Totale ...………………………………………………………………………………. 
________  
16.060 k.

Ultimo Viaggio di Paolo:


23:31 — Le autorità romane lo portano ad Antipatride, città di Samaria la cui situazione esatta è ignorata, ma che si può supporre a metà strada tra Gerusalemme e Cesarea,
20:33 — e di là, a Cesarea ...………………………………………………………... 







100 k.
27:1 — Dopo essere stato interrogato dai procuratori Felice e Festo e dal re Erode—Agrippa II, al termine di due anni, è imbarcato per l'Italia; arriva prima a Sidone (oggi Saida), a 80 chilometri a nord di Cesarea ...…………………………... 


150 k.
27:5 — di là, lo si conduce a Listra di Licia:
da Sidone a Seleucia di Antiochia ...………………………………………………... 

320 k.
da Seleucia ad Attalia ...…………………………………………………………….. 
600 k.
da Attalia a Listra (o Mira) ...………………………………………………………..
140 k.

________    1060 k.
 27:6 — dove è imbarcato per l'Italia:
27: 8 — approda a Beiporti, presso Talassa (?), a Creta ...………………………….. 

600 k.
27:12 — poi, ad Asson (?), altro porto di Creta, a causa del maltempo
27:27 — dopo quattordici giorni di tempesta, il vento di nord—est (!) spinge la nave (27:4) nell'Adriatico (!) e sbarca sull'isola di Malta (!); i passeggeri si salvano a nuoto:
da Beiporti a Malta (in linea d'aria) ………………………………………………….
  



1100 k.
 28:1 — Gli indigeni di Malta trattano Paolo con bontà,
28:11 — e, dopo tre mesi di soggiorno, si imbarca di nuovo (anno 61),
28:12 — approda a Siracusa, dove resta tre giorni …………………………………..


180 k.
 28:13 — di là arriva a Reggio (oggi Reggio Calabria) sullo stretto di Sicilia; il giorno dopo, continua il suo viaggio e perviene, in due giorni, a Pozzuoli, vicino a Napoli; vi rimane sette giorni (28:14):
da Siracusa a Reggio ...……………………………………………………………….



 140 k.
 da Reggio a Pozzuoli ...……………………………………………………………... 
 370 k.

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28:16 — Arriva infine a Roma, dove rimane due anni, dal 61 al 63 (28:30), guardato a vista, ma non prigioniero; a questo punto, gli Atti terminano bruscamente, così che perdiamo improvvisamente ogni traccia di Paolo, di cui nessun altro libro ne parla ….
  


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Se seguiamo sulla mappa questi viaggi dell'Apostolo, constatiamo che il cosiddetto compagno di Paolo conosce molto bene la geografia delle regioni percorse e, fino alla traversata della Frigia e della Galazia, non vi è nulla di inaccettabile nel suo itinerario; soltanto qui, siamo tentati di avanzare delle riserve, benché non vi sia affatto un'impossibilità assoluta in questa escursione: questa spedizione temeraria in terre montagnose e poco sicure, ci lascia dei dubbi, tanto più che l'autore, non soltanto non ci fornisce alcun dettaglio su questo percorso, ma tradisce anche il suo imbarazzo dicendo (16:6) che lo Spirito Santo proibì a Paolo e al suo discepolo Timoteo che lo accompagnava di annunciare la parola di Dio in Asia e anche (16:7), in Bitinia, che è peraltro sulla costa. Si può dunque supporre, tutt'al più, che le Chiese fondate da Paolo, in Galazia, non superassero minimamente l'estrema frontiera meridionale di questo paese, forse a una trentina di leghe da Iconio. In ogni caso, le Lettere Cardinali non fanno mai allusione a queste estreme località all'interno dell'Asia Minore.

Si constata egualmente un sacco di confusione nell'esposizione dell'autore, allorché racconta la traversata da Cesarea a Napoli, ultimo viaggio conosciuto [6] di Paolo; questa rotta parte, infatti, dalle regioni greco-siriane che gli sembrano familiari. La tempesta che descrive sembra irrompere solo per velare la sua ignoranza del luogo, ma non è affatto sufficiente, tuttavia, per giustificare la stranezza dell'itinerario seguito: costeggiando il sud dell'isola di Creta, la nave che trasporta l'Apostolo e il suo discepolo è spinta nel mare Adriatico da un vento impetuoso da nord-est (27:14) che ha soffiato senza interruzione per quattordici giorni (27:27); è difficile spiegarsi come, al contrario, questa lunga tormenta non li abbia gettati, secondo il capriccio del vento, in Cirenaica oppure sulle sabbie delle Sirti, in meno di un giorno. [7] Dettaglio ancora più strano, senza che ci venga detto che la sua direzione è cambiata, questo uragano così violento e di così lunga durata, che ha impiegato quattordici giorni e quattordici notti per far attraversare in barca i seicento chilometri che separano l'isola di Creta dall'Adriatico (infatti non supponiamo, cosa che sarebbe ancora più meravigliosa, che la nave sia stata spinta fino ad Aquileia), questo uragano, ho detto, lo riconduce in sei ore, da mezzanotte (27:27) all'alba (27:39), all'isola di Malta, che si trova  alla stessa distanza dal canale di Otranto, vale a dire, nel primo caso, la nave percorre meno di due chilometri all'ora, mentre, nel secondo, ne supera più di cento. [8] È impossibile, inoltre, credere che dei leggeri velieri di quel tempo, avrebbero potuto resistere a una tale tempesta e questa parte della storia è estremamente inammissibile. Ma, negli Atti, non siamo affatto vicini ad un'improbabilità.

A questo proposito, come viaggiava Paolo? A piedi, senza dubbio, quando non c'era il mare da attraversare, dato che i trasporti a cavallo o a dorso di cammello o di mulo erano riservati a gente in possesso di una grande ricchezza; ma questi incessanti spostamenti, per quanto poco dispendiosi  li si voglia supporre in questo periodo dell'antichità, dovevano finire nondimeno per costare molto caro, data la lunghezza dei viaggi e il tempo necessario per realizzarli, fermandosi in 100 luoghi per farvi la propaganda indispensabile alla fondazione delle Chiese. Le missioni di Paolo, secondo quanto è generalmente ammesso, durarono ventitré anni. Dato che Paolo non chiedeva mai niente a nessuno (1 Corinzi 9:15), sembra dunque essere stato abbastanza ricco; [9] eppure si definisce povero (2 Corinzi 6:10) e pretende di essere sfinito dalla fatica. Attingeva dalla cassa comune e ricavava ciò che gli era utile per coprire le sue spese? Oppure si serviva delle elemosine che gli erano affidate allo scopo di venire in aiuto alle altre Chiese e vi prelevava le sue spese? Se ne astiene quasi sempre, comunque. [10] Secondo il testo degli Atti, Paolo percorre più di sedicimila chilometri, di cui pressappoco la metà per mare, e questo numero deve essere considerevolmente aumentato per tener conto delle inevitabili deviazioni in paesi tutti molto impervi e pressappoco privi di mezzi di comunicazione. La navigazione, che si faceva seguendo da vicino le sinuosità delle coste, senza perdere la terraferma di vista, [11] prolungava altrettanto terribilmente i viaggi marittimi. Se deduciamo i soggiorni a volte molto lunghi che il tenace missionario fece ad Antiochia, ad Iconio, a Corinto, ad Efeso, ecc., possiamo stimare a 1500 chilometri all'anno, in media, tutti i suoi andirivieni, il che è una ben grossa cifra. Sono state accreditate a Paolo le peregrinazioni di parecchi apostoli diversi? È abbastanza probabile che le leggende di solito, riuniscono su un solo nome i fatti e le gesta di vari personaggi dal ruolo analogo. A questo totale, va aggiunto il movimentato tragitto di oltre mille leghe, da Gerusalemme a Roma, che durò sei mesi, e che forse gli poteva essere stato offerto gratuitamente dal governatore romano Festo, benché il caso contrario sia più probabile, poiché fu lo stesso accusato a domandare di venire nella capitale dell'Impero al fine di esservi giudicato da Nerone.

Paolo, così come lo vediamo dalle sue Lettere, gestiva con facilità la lingua greca, molto diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo orientale e nelle grandi città dell'Asia Minore. Probabilmente era la sua lingua madre e doveva essergli di un'utilità di prim'ordine nei suoi viaggi di propaganda. Gli Atti degli Apostoli (11:37, 38) ce lo confermano, del resto, indirettamente: ad una richiesta di Paolo (ovviamente fatta in greco), il tribuno [12] Lisia che si reca ad arrestarlo, gli risponde con stupore: “Sai il greco? Allora non sei quell'Egiziano [13] che in questi ultimi tempi ha sobillato e condotto nel deserto i quattromila ribelli?”.

L'Apostolo dei Gentili si esprimeva molto bene in aramaico (Atti 21:40 — 22:2 — 26:14) che era la lingua corrente della Cilicia, della Siria, della Frigia, ecc., e che poteva senza dubbio apprendere senza  sforzo a Tarso, la sua patria; doveva anche essergli di grande aiuto nelle sue missioni in Asia Minore e durante il suo soggiorno a Gerusalemme; questo idioma, infatti, era anche la lingua di tutti gli ebrei, dal ritorno dall'esilio a Babilonia (536 prima dell'Era Comune); Pietro, Giacomo (e Gesù, se è esistito) non conoscevano altro, e le questioni trattate nel famoso Concilio di Gerusalemme si dibatterono necessariamente in questo dialetto.

Paolo sapeva il latino? Il testo del Nuovo Testamento non ci permette di dire nulla con certezza, ma si ha facoltà di supporre che doveva, almeno, possederne alcune nozioni, essendo questa lingua troppo diffusa e troppo utile nel mondo romano perché un uomo di una certa cultura, e obbligato a viaggiare nell'Impero, potesse ignorarla completamente. Se potessimo contare sul racconto degli Atti, saremmo quasi in diritto di affermare che l'Apostolo si serviva comunemente di questa lingua universale, poiché lo vediamo avvalersene, non solo davanti al procuratore Felice  il quale, essendo residente otto anni a Gerusalemme ed avendo sposato (secondo Atti 24:24) un'ebrea, di nome Drusilla, [14] poteva comprendere l'aramaico, ma anche davanti al procuratore Porcio Festo, il quale, arrivato da Roma da un paio di giorni, non doveva intendere una parola in una lingua così diversa dalla sua come quella dei Palestinesi. Tuttavia, potremmo egualmente supporre che Paolo pronunciò la sua difesa in greco davanti ai due magistrati romani, poiché lo studio di quest'ultimo idioma faceva parte di ogni buona educazione nella capitale dell'Impero e, molto certamente, Felice e Festo lo parlavano senza difficoltà. [15]

In ogni caso, malgrado queste conoscenze che gli facilitavano il suo compito, Paolo dovette impiegare un'energia non comune: al di fuori dei pericoli della sua predicazione e delle rivolte che suscitò così frequentemente e che misero parecchie volte in repentaglio la sua vita, i suoi lunghi percorsi lo esposero  a mille sofferenze e a mille perigli. A questo proposito, le Epistole confermano la testimonianza degli Atti: “Fino a questo momento, noi abbiamo fame e sete. Siamo nudi, schiaffeggiati e senza fissa dimora, e ci affatichiamo lavorando con le nostre proprie mani; ingiuriati..., perseguitati...; ,  diffamati..., siamo diventati  la spazzatura del mondo, come degli escrementi;” (1° Corinzi 4:11, 12, 13). “Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte...” (2 Corinzi 1:8-9). “E perché noi ci esponiamo al pericolo continuamente? Ogni giorno io affronto la morte... io ho combattuto a Efeso contro le bestie” (1 Corinzi 15:30, 31, 32).  “Ma in ogni cosa raccomandiamo noi stessi come servitori di Dio, con grande costanza nelle afflizioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle percosse, nelle prigionie, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni;” (2 Corinzi 6:4-5). “Io sono molto di più di loro nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; [16] tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità” (2 Corinzi 11:23, 24, 25, 26, 27). [17]

“Per più di dieci anni ancora, Paolo doveva condurre questa esistenza” (Renan).
Quale forza d'animo, quale indomito coraggio traspaiono in queste righe: Paolo non si lamenta affatto, si inorgoglisce, al contrario, di tutte queste sofferenze e si fa un titolo di gloria per l'averle sopportate! Quale vita ricolma di attività, di energia, di dedizione alla sua causa, percepiamo nell'apostolato di questo Ebreo intrattabile! In che modo il pallido fantasma del Gesù delle leggende evangeliche si affievolisce e svanisce davanti allo splendore abbagliante di questa figura dai tratti così distinti! [18] E quando si riflette sul fatto che i fanatici della specie del fondatore del cristianesimo dovevano pullulare tra gli ebrei proscritti e i giudaizzanti che l'odio di Roma infiammava di una rabbia contagiosa, come stupirsi dei progressi così rapidi della nuova religione, tra tutti coloro che soffrivano così atrocemente della tirannia latina?

Dato che Paolo, nelle sue Epistole, parla solo incidentalmente dei suoi viaggi, non è proprio possibile controllare il testo degli Atti a questo riguardo.

“Ma quando Dio si compiacque…”
(Galati 1:15) “di rivelare in me suo Figlio...” (Galati 1:16), “subito, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco” (Galati 1:17). “In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme” (Galati 1:18). “Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia” (Galati 1:21).  “Ma ero sconosciuto personalmente alle Chiese della Giudea che sono in Cristo” (Galati 1:22).

“...Io ho combattuto a Efeso...” (1 Corinzi 15:32).  “Aquila e Prisca (di Corinto), con cui io dimoro, e con la chiesa che è in casa loro, vi salutano” (1 Corinzi 16:19).
“...Giunto pertanto a Troade” (2 Corinzi 2:12) 
“...Partii per la Macedonia…” (2 Corinzi 2:13). 
“...Da quando infatti siamo arrivati in Macedonia…” (2 Corinzi 7:5). 
“...Recatomi a Damasco...” (2 Corinzi 11:32).
“Ecco, questa è la terza volta che vengo (a Corinto) da voi...” (2 Corinzi 13:1). 
“Quattordici anni dopo, mi recai di nuovo a Gerusalemme…” (Galati 2:1).
“Ma quando Cefa venne ad Antiochia, gli resistei in faccia...” (Galati 2:11).
“...preferimmo restare soli ad Atene” (1 Tessalonicesi 3:1).. Epistola dubbia.

Le Epistole, senza contraddire l'itinerario degli Atti, non lo confermano affatto, il che ci lascia nell'incertezza. Gli Atti, tuttavia, non fanno alcuna menzione del viaggio di Paolo in Arabia (Galati 1:17), che è tuttavia possibile, [19] poiché questa penisola confina con la Giudea; in ogni caso, l'Apostolo non sembra avervi fondato nessuna Chiesa, cosa che è del tutto naturale, dato che il cristianesimo non ha potuto varcare le frontiere dell'impero e le legioni si sono recate solo raramente a disturbare le tribù riottose di questo paese abbandonato. D'altra parte, è abbastanza sorprendente che, nella sua prima lettera a quelli di Corinto (16:19), Paolo dica: “Aquila e Priscilla, presso cui io ho dimorato, vi salutano, fatto che sembra datare questa stessa Epistola di Corinto, poiché Aquila e sua moglie Priscilla, entrambi ebrei espulsi dall'Italia da un editto dell'imperatore Claudio (49), risiedono in questa località (Atti 18:2). Vi è qualcosa di oscuro; ma si può rimuovere questa contraddizione assumendo con gli Atti (18:18), che la prima ai Corinzi è datata da Efeso, dove Paolo, lasciando Corinto, condusse Aquila e sua moglie. Inoltre, le parole “presso cui io ho dimorato”, non sono affatto nel testo greco (RENAN, Paul, pag. 341) e vi sono state introdotte solo dai traduttori.

Paolo, come sappiamo, si è recato a Corinto e forse, secondo gli Atti (17:15) e la 1° Tessalonicesi, ad Atene, [20] dove ha vissuto per un certo tempo. Ma se non lo sapessimo in una maniera quasi indiscutibile, avremmo grande pena a crederci, tanta è nulla l'impressione che gli hanno fatto queste città così importanti per le loro arti, le loro scienze e le loro lettere. Paolo non ne ha visto nulla: non ha potuto uscire dalla cerchia ristretta della sua idea fissa, della sua monomania religiosa. Per lui, non esistono al mondo che i suoi sogni e le sinagoghe ebraiche, dove li espone, e tutte queste assemblee grossolane si rassomigliano.

Egli ignora tutta la letteratura del suo tempo, a parte alcuni passi della traduzione greca della Bibbia, non scorge mai, del resto, la bellezza dello stile e di cui non trattiene che qualche raro frammento che si adatta, bene o male, al suo angusto fanatismo; tutte le scienze gli sono interdette, sconosciute perfino per nome: d'altronde sarebbe stato incapace di apprezzarle. Quanto alle arti, gli fanno orrore: le più meravigliose statue non sono per lui che degli idoli abominevoli, un insulto alla divinità. Non ha affatto un riguardo per il Partenone, per i Propilei, questi monumenti architettonici ineguagliabili della città di Pericle; non un'occhiata ai mille tesori artistici che ancora riempivano Corinto, perfino dopo il saccheggio di Mummio.

Dato l'ambiente in cui si costituivano le prime comunità nazarene, Paolo, del resto, anche se non fosse stato così completamente insensibile al culto della Bellezza, non avrebbe potuto affrontare questa questione davanti ai suoi adepti. I cristiani erano della povera gente, senza la minima istruzione; ben pochi tra loro sapevano leggere, e anche quelli che scrissero i Vangeli erano poco letterati. La maggior parte degli studiosi potevano, tutt'al più decifrare la Bibbia nella traduzione greca dei Settanta, e la massa conosceva solo gli estratti che aveva inteso recitare nelle Sinagoghe. Ogni altra opera era loro sconosciuta e l'alto prezzo dei libri li rendeva inaccessibili. Inoltre, anche se avessero potuto, nella ricca biblioteca di Alessandria, o in quella di Pergamo, in Misia, procurarsi i capolavori della letteratura greca, sarebbero stati incapaci di assimilarne il senso: il racconto delle guerre persiane solleva ancora l'entusiasmo dei moderni, ma questi senza-patria potevano interessarsi a questa magnifica epopea? L'Iliade e l'Odissea potevano fare ammirare le loro bellezze senza rivali a dei mendicanti la cui unica preghiera è: “Padre nostro che sei nei cieli, dacci oggi il nostro pane quotidiano”? I versi erotici o bacchici di Anacreonte, la grazia e la vivacità del poeta potevano raggiungere, a dispetto della perfezione della forma, della gente che aveva fin troppo spesso la pancia vuota e che beveva quasi solo acqua? Avrebbero potuto, se li avessero letti, eccitare di più la loro invidia e il loro odio contro i fortunati di questo mondo. Da molto tempo inoltre, Eschilo, Sofocle, Euripide, dimenticati, avevano ceduto il posto ai mimi, agli istrioni, ai gladiatori, tanto si era abbassato il livello intellettuale, perfino nell'aristocrazia, e i discepoli dell'Apostolo dei Gentili non avrebbero compreso niente.

Le scienze erano ancor più interdette a loro, e se, straordinariamente, questi illuminati avessero sentito parlare delle rare conoscenze positive in uso nel primo secolo, le avrebbero profondamente disprezzate. È certo che non conoscevano affatto, neppure per nome, Euclide, Archimede, Ipparco, Aristotele, ecc. Quegli uomini che credevano così fermamente nei miracoli più folli, che immaginavano  che le stelle marciassero e si arrestassero (Matteo 2:9), che cadessero dal cielo (Matteo 24:29), avrebbero riso in faccia ad un Tolomeo che avrebbe cercato di spiegare loro la loro marcia regolare, inderogabile. La loro ignoranza ha talmente pesato sullo spirito umano che, per più di quindici secoli, la cristianità non ha prodotto un solo astronomo, mentre il mondo musulmano si copriva di osservatori; i chimici saranno perseguiti come maghi fino al 17° secolo. Questi poveri di spirito immaginavano che fossero sufficienti dei segni e delle parole magiche per curare tutte le malattie e avrebbero lapidato Ippocrate.

I piaceri estetici non erano minimamente alla portata dei fanatici settari il cui solo ideale era l'annientamento di una società dove la loro esistenza era intollerabile. Per interessarsi alle belle arti, è necessario avere del tempo libero e avere delle preoccupazioni meno crudelmente imperiose di quelle del ventre.

Si comprende assai poco il fatto che Paolo non si sia recato ad Alessandria, viaggio peraltro facile, relativamente a quelli che ha compiuto, a causa dell'intenso commercio e delle relazioni di questa immensa città con le altre città del bacino orientale del Mediterraneo (Atti 27:6), così come la prossimità di questo porto a quello di Cesarea, il cui movimento non era affatto senza importanza; la distanza era meno di cinquecento miglia e Paolo era abituato a delle traversate più lunghe. In questa città, la popolazione ebraica era preponderante e Filone la stima a un milione di anime, ivi compreso senza dubbio i giudaizzanti; certamente, vi si doveva già aver sentito parlare della setta nazarena. Forse Paolo, che, peraltro, non era affatto facile da spaventare, si ritirò davanti all'immensità del pericolo di predicare una dottrina eretica in presenza di una popolazione così fanatica, così turbolenta, costantemente in rivolta e che l'autorità imperiale manteneva a fatica sotto il giogo; forse riflettè sulle poche possibilità di successo che avrebbe avuto il suo apostolato, in mezzo a così tanti ebrei puri, e il fato oscuro della Chiesa di Pietro che moriva di inedia a Gerusalemme, che gli servì da avvertimento, non aveva niente di incoraggiante. Molto probabilmente, come possiamo credere, esisteva già ad Alessandria, una comunità cristiana, come ce n'era una a Roma, e sappiamo che l'Apostolo non amava affatto “edificare sul fondamento altrui” (Romani 15:20). La sua Epistola alla Chiesa di Roma, stabilita da altri, è in effetti, l'ultima di tutte e la si fa risalire abbastanza generalmente all'anno 58, vale a dire fino agli ultimi giorni della sua propaganda, ad un tempo in cui si deve presumere che la foga e l'orgoglio iniziali si fossero notevolmente attenuati nel tribuno invecchiato. Il tono di questa Epistola è, in effetti, più riservato e meno tagliente di quello delle precedenti.

Se la geografia degli Atti è abbastanza soddisfacente, vi è poco da dire sulla parte storica, [21] se non che vi si rilevano pochissimi degli errori [22] biografici così frequenti nei Vangeli; essi citano nondimeno Anna come sommo sacerdote, al tempo di Pilato (4:6) e questo errore sembra derivato da Luca (3:2). Ma Felice e Festo (24:27) furono realmente procuratori della Giudea, l'uno dal 52 al 60 e l'altro, dal 60 al 62; Erode-Agrippa II e sua sorella Berenice vissero egualmente in quel tempo. Tuttavia, è più che improbabile che tutti questi alti dignitari si siano preoccupati di ascoltare le elucubrazioni dell'Apostolo, la cui sottile personalità non aveva certamente la minima importanza ai loro occhi, né di intervenire nel giudizio della sua causa. [23]  La menzione dei loro nomi ha, almeno, la grande utilità di mettere una data precisa negli Atti, e si cercherebbe invano altrettanto nei Vangeli; il sincronismo reale dell'esistenza di queste quattro persone, tra il 60 e il 62, ci fornisce quindi un'informazione preziosa. Gli Atti menzionano anche una regina d'Etiopia, chiamata Candace (8:27) che, secondo gli storici romani, invase l'Egitto sotto Augusto e fu respinta dal prefetto Petronio, nell'anno 22 prima dell'Era Comune; è molto difficile da credere che fosse la stessa regina il cui eunuco fu battezzato da Filippo nell'anno 35 della nostra era; tuttavia, là non vi è affatto un'assoluta impossibilità: soltanto, la principessa etiope doveva essere molto vecchia in quel momento. Tutti gli altri attori dell'opera sono sconosciuti.

In definitiva, e noi scartiamo i miracoli, restano negli Atti delle parti verosimili, in particolare i Viaggi di Paolo, ma ciò non vuol affatto dire che questi passi siano veri. Nulla ci assicura, infatti, che lo scrittore sacro non abbia composto il suo libro prendendo per tema le Lettere Cardinali, abbellendole con avventure fantastiche e rimediando con la sua immaginazione alla sobrietà dell'Apostolo, in modo di fabbricare una biografia completa. Nulla ci prova che non siamo affatto in presenza di un semplice romanzo, come quello degli Atti di Tecla. Abbiamo infatti troppo spesso sorpreso l'Autore degli Atti degli Apostoli in flagrante reato di menzogna per accordare alla leggera la nostra fiducia alle sue parole, anche quando nulla ci autorizza a respingerle. [24]

NOTE

[1] Il passo (Giovanni 21:24), in cui l'Evangelista si pretende sfacciatamente il discepolo “che Gesù amava” è certamente interpolato.

[2] Ecco alcune differenze notevoli tra gli Atti e il terzo Vangelo:

LUCA

   
GLI ATTI
     
non parla affatto del suicidio di Giuda;

Fai della morte del traditore un racconto che differisce totalmente da quello di Matteo;

Questo Vangelo è quello che amplifica di più il ruolo di Maria;

Nominano appena una volta Maria con indifferenza;

Maledice senza posa i Farisei;

Parlano dei farisei con il più alto elogio;

Giuseppe d'Arimatea fa seppellire il Signore;

Non conoscono affatto Giuseppe d'Arimatea e fanno seppellire Gesù dagli ebrei e dai loro capi;

Il Vangelo di Luca sembra di un solo autore;

Gli Atti sembrano redatti da diversi scrittori diversi;

Luca dà qualche importanza allo sposo della Vergine;

Non conoscono il padre putativo di Gesù;

Racconta il processo di Gesù in una maniera improbabile;

Il processo di Paolo dinanzi a Festo è riportato in una maniera molto accettabile; quello dell'Apostolo davanti a Gallione è ancora più probabile;

Luca conferisce agli Apostoli l'evangelizzazione del mondo;

Negli Atti, sono dei personaggi sconosciuti agli evangelisti, e soprattutto Paolo, ad essere incaricati di questo ruolo;

Gli ebrei reclamano con furore la morte di Gesù;

Gli ebrei difendono gli Apostoli;

Luca fa di Gesù il Figlio di Dio;

Gli Atti ne fanno solo un uomo famoso (2:22);

Luca insiste sulla concezione verginale;

Gli Atti non conoscono questo mito;

Luca non cita un solo sogno;

Gli Atti abusano dei sogni;

Gesù appare ai discepoli, a Emmaus e a Gerusalemme, la domenica di Pasqua, e poi riascende in cielo per sempre;

Dopo la resurrezione, Gesù rimane con i suoi discepoli per quaranta giorni e solo in seguito riascende al cielo;

Pilato ordina che Gesù sia crocifisso, conformemente alla richiesta degli ebrei;

Pilato assolve Gesù (3:13);

Pilato ed Erode non hanno trovato Gesù  colpevole di alcun crimine e l'hanno mandato  via;


“Infatti contro il santo tuo servo Gesù si sono uniti in questa città Erode e Pilato”.



[3] Risulta da una testimonianza formale di Fozio (nono secolo) che non si era per nulla d'accordo al suo tempo sull'autore del libro: “Alcuni dicono che è Clemente di Roma; altri Barnaba, altri Luca”. Dunque tutti non si riferivano al preambolo degli Atti (Havet, le Christianisme et ses origines, IV, pag. 300).

[4] Abusa di visioni e di sogni ancor più di Matteo: (8:26 — 9:3, 10, 12 — 10:3, 10 — 12:7 — 18:9 — 16:7, 9 — 22:7, 9 — 23:11 — 27:23). Il LUCA dei Vangeli, al contrario, cosa che lo distingue infinitamente dall'autore di Atti, non riproduce un solo sogno.

[5] Vediamo con grande difficoltà, Renan (Paul, pag. 191), fare degli sforzi disperati per dimostrare che questo fatto “non ha niente di inverosimile”.

[6] Diciamo “conosciuto” perché non sappiamo cosa ne è di Paolo dopo l'anno 65 e non vi è nulla di temerario nel supporre che abbia continuato le sue missioni fino alla sua morte, la cui data è ignorata.

[7] Il testo degli Atti (27:17) dice: “...temendo di finire incagliati sui banchi di sabbia” (eis tên surtin). Ma, per evitare questa difficoltà geografica, le versioni recenti danno: “...incagliati nelle Sirti”, traduzione più logica data la direzione del vento, e che sarebbe accettabile, se il verso precedente non indicasse che la nave si trova sotto una isoletta chiamata Clauda, al largo di Creta, a più di cinquecento miglia dalla grande Sirte, e l'imbarazzo di adattare il testo alla realtà non diventa meno di prima.

Infine, questo vento straordinario, che avrebbe dovuto schiantarli contro le coste dell'Africa, li porta, per nulla affatto a Sud-Ovest, direzione nel quale soffia, ma chiaramente a ovest, a Malta.

[8] Per rimuovere questa contraddizione, alcuni commentatori inglobano con compiacimento nell'Adriatico, il Mar Ionio e persino una parte del Mediterraneo occidentale.

[9] Secondo gli Atti (24:26), il governatore Felice ha tenuto il più a lungo possibile, Paolo in prigione “sperando di estorcergli dei soldi” e, tutto ciò che sappiamo dei procuratori romani in generale e di Felice in particolare, rende questa affermazione molto plausibile. Ma questo fatto sembra anche provare chiaramente che l'Apostolo era ben lontano dal mancare di risorse. A Roma, dove ha chiesto di essere condotto per esservi giudicato, non è affatto imprigionato, ma semplicemente messo in stato di arresto (Atti 28:16); se queste informazioni sono vere, queste considerazioni a lungo termine mostreranno egualmente che Paolo ha goduto di una certa fortuna e di una certa situazione sociale, e che lo si è trattato di conseguenza con particolari riguardi.

[10] Paolo tuttavia confessa (2 Corinzi 11:9) che i fratelli di Macedonia hanno provveduto ai suoi bisogni e nella Epistola ai Filippesi (4:11-18), riconosce di aver ricevuto da loro a sufficienza per vivere nell'abbondanza; ma l'autenticità di questa Epistola non è affatto ammessa da tutti gli esegeti.

[11] Abbiamo visto che la rotta diretta da Creta all'isola di Malta è inaccettabile.

[12] Chiliarchos tes speirès: il tribuno della coorte (Atti 22:31).

“Per la verità, non esisteva, nella milizia romana, nessun tribuno di coorte. È come se, da noi, si dicesse “colonnello di una compagnia”. I centurioni erano alla testa delle coorti, e i tribuni alla testa delle legioni. Spesso c’erano tre tribuni in una legione, che allora comandavano a turno, ed erano subordinati gli uni agli altri” (Voltaire, Dictionnaire philosophique, Articolo Economia di parole).

“Le legioni sono comandate dai consoli, capi supremi dell'esercito romano. Vi sono di solito due legioni sotto gli ordini di un solo console... La legione stessa non ha affatto un comandante speciale; dipende da sei tribuni militari che comandano ciascuno a turno... Al di sotto dei tribuni c'erano i centurioni... che erano con i tribuni, i soli ufficiali delle legioni... Vi erano 60 centurie per legione... Al fianco delle legioni, vi erano le cosiddette truppe ausiliarie. Le truppe alleate erano raggruppate in base alla città che le aveva fornite, dato che ciascuna città inviava la sua coorte, comandata da un uomo del paese (praefectus cohortis)” (Gde Encyclop. III, pag. 995).

“Il nome di tribuno fu anche portato sotto l'Impero dagli ufficiali di qualche corpo speciale: così ciascuna delle coorti pretoriane era comandata da un tribuno; accadeva lo stesso per le coorti urbane e le coorti dei Vigili” (Gde encyclop. XXI, pag. 377).

Questo ultimo punto può spiegare la confusione in cui è caduto l'autore degli Atti, che prende un agente di polizia per un ufficiale dell'esercito romano. Si ritrova un errore dello stesso genere un po' più oltre: Giulio, un centurione nella coorte Augusta (XXVII, n. 1). Non c'era affatto una coorte Augusta, ma due legioni con quel nome.

[13] Questo egiziano, o piuttosto questo ebreo di Egitto, di cui parla lo storico Giuseppe (Antichità Giudaiche 20, 8:6), aveva, poco tempo prima, sollevato trentamila ebrei contro la dominazione romana. Il procuratore Felice aveva distrutto e disperso queste bande indisciplinate.

[14] Renan, senza alcuna prova, fa di questa Drusilla, la sorella di Erode-Agrippa II. Ma l'affermazione degli Atti non è meno discutibile: secondo Tacito (Storie 5:9, sicuramente meglio informato, Felice “sposò Drusilla, nipote di Cleopatra e Antonio”, che non ha nulla in comune con la sua omonima. In più, a parte il fatto che le leggi romane proibivano ai governatori di sposare una donna della provincia che amministravano, un romano non avrebbe mai sposato un'ebrea: l'imperatore Tito, perfino lui, malgrado la sua passione per la principessa Berenice, sorella di questa Drusilla erodiana, malgrado il suo potere assoluto, non osò.

[15] “Erano (i magistrati romani) nell'esercizio delle loro funzioni: non era loro permesso di parlare una lingua diversa da quella di Roma...; i compatrioti di Demostene e di Sofocle arrivavano balbettando davanti al tribunale di un proconsole e si sorprendevano di ricevere gli ordini in latino, nel bel mezzo del Pritaneo” (J. de Maistre, Etude sur la souveraineté, pag. 389).

[16] Non si superava questo numero per non rischiare di uccidere la vittima.

[17] È impossibile non sottolineare qui il completo disaccordo tra le dichiarazioni di Paolo e il resoconto degli Atti:

Questo libro, infatti, non menziona alcuno di quei flagelli ai quali l'Apostolo fa allusione (2 Corinzi 11:24) e parla solo di una delle percosse subite da Paolo (2 Corinzi 11:25).

I tre naufragi che Paolo subì (2 Corinzi 11:25) sono parimenti sconosciuti all'autore degli Atti, poiché quello che racconta (27) è posteriore alla data in cui l'apostolo scriveva.

[18] Confronta le tribolazioni dell'apostolato di Paolo, le sue lotte, le sue sofferenze, le sue miserie, i suoi pericoli in ogni momento, il suo racconto di un realismo così intenso, con le predicazioni incredibilmente tranquille di Gesù il quale, secondo i Vangeli, non sembra mancare mai di nulla, difficilmente si allontana dal suo villaggio natale e che, fino al giorno del suo arresto, non va incontro che all'opposizione dialettica, alle controversie e alle argomentazioni capziose degli Scribi e dei Farisei. Prima della Passione, mai alcun tumulto, mai alcun reato, alcuna punizione legale, come la prigione, la frusta, le percosse, mai soltanto una minaccia o un'offesa vengono ad avvertirlo dell'imprudenza dei suoi discorsi e a costringerlo a cambiare la sua strada; eppure, a differenza di Paolo, così moderato nelle sue espressioni, egli copre delle più oltraggiose invettive i suoi benevoli avversari e perfino i notabili più rispettabili del suo paese. Commette degli atti di violenza nel Tempio stesso (Marco 11:15-16; Matteo 21:12; Luca 19:45-46; Giovanni 2:14, 15, 16). Non lo si vede che una sola volta in pericolo: gli ebrei di Nazaret, dopo aver ascoltato la sua predicazione nella loro sinagoga, lo cacciano dalla loro città e vogliono ucciderlo (Luca 4:29), furore tanto più sorprendente dal momento che, alcuni versi più sopra (4:22), il terzo evangelista ha appena detto che “tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”. Ancora, gli altri redattori della Buona Novella non parlano mai di questa commovente avventura, in cui il signor A. Loisy (Evang. Synoptiq. I, pag. 849) vede solo un'allegoria.

A lato dell'immensa distesa e delle numerose città attraversate da Paolo, nei suoi viaggi di propaganda, appare la minuscola striscia di terra larga 20 chilometri e lunga 25, diecimila volte più piccola e costellata di rari borghi del tutto sconosciuti, dove “Colui che viene per salvare il mondo” distribuisce i suoi sermoni e le sue parabole? La maggior parte dei nostri curati di campagna esercitano la loro funzione in delle parrocchie di gran lunga più vaste. Cosa contano i pochi discepoli reclutati a fatica dal Redentore, in presenza delle migliaia di proseliti che, alla voce del tribuno di Tarso, fondarono delle Chiese numerose e fiorenti?

[19] Forse Paolo intendeva per Arabia, i dintorni di Damasco, capitale del regno arabo di Areta IV e che allora faceva parte dell'Arabia Petrea, la quale è limitrofa alla Galilea.

[20] La prima Epistola ai Tessalonicesi è l'unica delle lettere attribuite a Paolo, dove si fa menzione di Atene (3:1).

[21] Tuttavia si può rilevare alcuni errori come quello che colloca a Cesarea (10:1), tra l'anno 30 e l'anno 40, una legione Italica che non esisteva affatto in quel tempo: essa fu creata nel 66 e non lasciò mai l'Europa.

[22] Noteremo soltanto, di passaggio, uno dei più grandi, perché dimostra indiscutibilmente che per aver commesso questo errore, l'autore degli Atti non avrebbe potuto abitare la Palestina, né essere tantomeno al corrente della storia contemporanea di un paese in cui questi ricordi così dolorosi per il patriottismo ebraico dovevano essere ancora leniti:

Atti 5:36. “Qualche tempo fa, sorse Teuda”.


37. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo…”

(“Il fatto di Teuda si colloca intorno all'anno 45, almeno una dozzina d'anni dopo che Gamaliele avrebbe parlato di lui al Sinedrio; il fatto di Giuda il Galileo si colloca più di trent'anni prima di quello di Teuda” (Loisy, Les Livres du Nouveau Testament, pag. 482).

“La rivolta di Teuda è dell'anno 44 (Antichità Giudaiche 20, 5:1) e ben posteriore a quella del Gaulonita (Antichità Giudaiche 18, 1:1)” (Renan, Les Apôtres, pag. 29).

[23] Nondimeno, se, nei Vangeli, il dramma della Passione si svolge in un tempo ridicolmente breve e pieno di eventi incredibili (Si veda Il Cristo è esistito?, capitolo 8), ammucchiati senza la minima preoccupazione della loro plausibilità, Il processo di Paolo raccontato dagli Atti è, al contrario, stranamente lungo e non è affatto terminato alla fine di cinque anni; ma offre tuttavia molto meno incoerenza e il racconto procede con sufficiente logica. L'Apostolo è arrestato in flagrante delitto di istigazione ai tumulti e imprigionato immediatamente, ma il tribuno che ha sequestrato la sua persona, lo manda solo il giorno successivo davanti al sommo sacerdote e al sinedrio che si impegnano ad un'apparente procedura; egli non lascia affatto il tribunale per recarsi in seguito al supplizio, così come Gesù, ma per essere riportato nella sua prigione della torre Antonia, il che indica che le autorità romane non si scrollano del caso alla maniera di Pilato, in ciò che concerne il Cristo. Là, attende un secondo interrogatorio. Lungi dal cedere, alla maniera di Pilato, alla furia della folla eccitata, Lisia, l'ufficiale che ha arrestato Paolo, fa caricare la folla dai suoi soldati (24:7) e gli strappa la sua preda che fa partire sotto buona scorta per Cesarea, dove dimora il procuratore. Il lusso delle precauzioni che prende affinché il suo prigioniero arrivi sano e salvo (23:23) prova che si trova in presenza di una serio sollevamento degli ebrei. Questo Claudio Lisia, tra parentesi, se conosce benissimo la disciplina, scrive malissimo i suoi rapporti: quello che invia al procuratore Felice rassomiglia al processo verbale di una guardia campestre ignorante e dimentica, il che è imperdonabile, di scrivervi il nome del colpevole che sta inviando al suo capo (Atti 23:26-30). Il governatore Felice comincia un'indagine, in attesa dell'arrivo del sommo sacerdote Anania, assistito da un malvagio avvocato, di nome Tertullo, che si portano accusatori. Dopo aver ascoltato i testimoni dell'accusa e la difesa dell'accusato, “non è abitudine dei Romani di consegnare alcuno per la morte prima che l'accusato sia stato messo a confronto con i suoi accusatori, e gli sia stato dato modo di difendersi dall'accusa” (Atti 25:16). Felice, che non sembra per nulla un burattino del genere di Pilato dei Vangeli, rimanda la decisione per ulteriori informazioni e fa trascinare le cose a lungo, non senza profitto, probabilmente (Atti 24:26). Al termine di due anni di temporeggiamenti, non ha ancora preso alcuna decisione, ma viene sostituito nel suo ufficio dal procuratore Festo, presso il quale il Sinedrio viene a rinnovare la sua denuncia; dieci giorni dopo, il nuovo governatore, che non si affretta affatto più del suo predecessore, rievoca la causa una seconda volta e, dopo avere confrontato una volta di più gli accusatori e l'accusato, si risolve infine, su richiesta di Paolo, a rinviare il giudizio a Roma. Pochi giorni dopo, comunque, senz'altro motivo che di soddisfare la curiosità di Erode-Agrippa II, fa ancora comparire l'Apostolo davanti al suo tribunale, alla presenza del re ebreo di cui chiede l'opinione. Entrambi son d'accordo nel riconoscere che Paolo “non ha fatto nulla che meriti la morte o la prigione e poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare”, e non avesse così esonerato il procuratore dal caso (Atti 26:31-32). Arrivato a Roma, Paolo non è imprigionato, ma solamente guardato a vista (Atti 28:16), in attesa del giudizio dell'Imperatore, che sembra, del resto, aver completamente perso di vista questa faccenda sottile. Infatti, dopo altri due anni, quando il racconto degli Atti termina, Paolo non è ancora apparso davanti a Nerone, ma nessuno lo tormenta né lo inquieta e, al suo arrivo nella capitale, riprende liberamente la sua propaganda che la sua semi-prigionia non sembra mai aver ostacolato.

Nonostante alcune improbabilità, il processo di Paolo è molto più ammissibile di quello di Gesù e dà un'idea infinitamente meno grottesca della procedura romana. Le sedute del tribunale si succedono con ordine e dignità — tranne la scena (Atti 23:2), dove Anania comanda al pubblico di percuotere Paolo, reminiscenza visibile della Passione — i presenti si guardano bene dal dire una parola e di fare del clamore. L'autore del libro sembra essere stato un testimone, se non del giudizio di Paolo, almeno di situazioni simili, e sembra sapere qualcosa della lentezza e della maestà di un giudizio regolare.

Gli Atti (18:12-17) raccontano anche una comparsa di Paolo a Corinto davanti a Gallione, proconsole di Acaia (52): il magistrato imperiale, si rifiuta di ascoltare l'apostolo che gli ebrei vengono a trascinare davanti al suo tribunale e disdegna di abbassarsi per intervenire tra loro e i Nazareni, in un affare “dove si tratta di questioni intorno a parole, a nomi, e alla vostra Legge, vedetevela voi; io non voglio esser giudice di queste cose” — e li fa uscire tutti dal tribunale, lasciandoli a mangiare per strada, senza curarsene.

Questo Gallione, L. Giunio Anneio Novato, è una figura storica; proconsole annuale di Acaia, nel 51-52, risiedeva a Colonia Laus Corinthus città di recente costruzione, sulle rovine di Corinto: era il fratello di Seneca Filosofo e si suicidò quando lui cadde in disgrazia (62).

Questa narrazione ci dipinge in un maniera che non potrebbe essere più verosimile la condotta che un giudice romano deve aver tenuto, in presenza di questi uomini. È più che probabile che Festo e Agrippa, checché ne dicano gli Atti (da 25:13 a 26:32), doveva agire pressappoco allo stesso modo e che l'udienza solenne accordata da loro all'Apostolo è un invenzione del preteso Luca.

[24] Una delle più notevoli singolarità degli Atti degli Apostoli è che l'Apostolo dei Gentili che questo opuscolo ha designato fino ad allora unicamente con il nome di Saulo cambia bruscamente nome (13:9) subito dopo il suo incontro con Sergio Paolo, proconsole dell'isola di Cipro (13:7): “Allora Saulo, detto anche Paolo...”, e non è mai più chiamato, da quel momento, altrimenti che Paolo. Nelle Epistole, l'Apostolo non si designa mai con un nome diverso da quello di Paolo.

Questa difficoltà ha, ogni volta, imbarazzato i commentatori:

“La supposizione di San Girolamo (De Viris Illust., 5), secondo la quale Saulo avrebbe preso da questo Sergio Paolo il suo nome di Paolo, non è che una congettura; non si saprebbe dire, tuttavia, se questa congettura non sia plausibile” (Renan, Saint Paul, pag. 18). Tuttavia, Renan stesso (Les Apôtres, pag. 164) dichiara che questa spiegazione sembra “poco ammissibile”.

Il signor Salomon Reinach (Orpheus, pag. 304) dice, pressappoco lo stesso, che “Saulo fu ascoltato con simpatia dal proconsole romano Sergio Paolo, e per sottolineare la sua riconoscenza, cambiò il suo nome in quello di Paolo”. Noi obietteremo che gli Atti non dicono nulla che possa sostenere questa ipotesi, perfino nei versi (13:5-12) dove questa spiegazione sarebbe stata peraltro molto bene al suo posto.

Il signor Couchoud (Le Mystère de Jésus) dà un'altra ragione che non sembra molto più sicura: “Saulo Paolo, vale a dire Paolo il Piccolo”. Ma Paulus, nel senso di Piccolo, è eccessivamente raro in latino: il significato preciso è “in piccola quantità, un poco”, e, da parte nostra, non lo abbiamo incontrato in nessuno dei libri a nostra disposizione con il significato di “piccolo di statura”, che si rende con parvus, brevis, exiguus (Dyonisius exiguus = Dionigi il Piccolo). Inoltre, sarebbe bizzarro che Paolo, vivendo in un ambiente giudeo-ellenistico e in un paese di lingua greca, abbia ricevuto un soprannome latino. A Roma stessa, Paulus non era affatto un soprannome, ma il cognome di un ramo della gens Aemilia.

Renan avanza un'ipotesi più accettabile (Saint Paul, pag. 19): “È anche possibile che Paolo, all'esempio di un gran numero di ebrei, avesse due nomi, uno ebraico e l'altro ottenuto per grecizzazione o latinizzazione grossolana del primo...”

In breve, “non si sa perché Saulo abbia cambiato il suo nome in quello di Paolo, né cosa significasse questo nome” (Voltaire).

Aggiungiamo che noi non sappiamo nemmeno se è vero che Paolo abbia cambiato il suo nome, dal momento che non abbiamo altro indizio a questo proposito che un'affermazione degli Atti, il libro meno degno di fede che ci sia. Renan, lui stesso, conserva “alcuni dubbi sulla credibilità dell'episodio” (Saint Paul, pag. 15).