domenica 31 marzo 2019

LE TESTIMONIANZE SULLA STORICITÀ DI GESÙ di Arthur DrewsL'“Unicità” e la “Non-inventibilità” del Ritratto Evangelico di Gesù.

I Metodi della Critica Storica.

4. L'“UNICITÀ” E LA “NON-INVENTABILITÀ” DEL RITRATTO EVANGELICO DI GESÙ. 

In assenza di ogni criterio oggettivo è necessario che il teologo faccia affidamento sul sentimento soggettivo e cerchi in questo la prova irrefragabile della storicità del Gesù evangelico. Particolarmente qui dobbiamo incontrare l'affermazione enfatica che il ritratto di Gesù è “unico” e "non avrebbe potuto essere inventato”.

Quanto all'unicità, la frase è utilizzata così ovviamente allo scopo di elevare la personalità di Gesù al di sopra di tutti gli altri uomini, a dispetto della sua natura puramente umana e storica, e di fornire qualche compensazione alla perdita della fede nella sua divinità, che non dobbiamo soffermarci su di essa. Perfino un teologo come Paul W. Schmiedel riconosce: “Per parte mia non ho mai sostenuto che Gesù fosse unico; o non significa assolutamente nulla, poiché ogni uomo è unico, oppure potrebbe sembrare affermare fin troppo”. [1] E lo storico Seeck osserva che ogni uomo ha il suo simile, e perciò non ci sono personalità uniche nel senso in cui i teologi impiegano la parola qui. [2] Faust, Amleto, Lear e Calibano, e i loro simili, sono unici; sono perciò personalità storiche?

Il punto principale, tuttavia, è che la figura di Gesù, come descritta nei vangeli, “non avrebbe potuto essere inventata”. Questo è ripetuto incessantemente, non solo nelle discussioni popolari, ma anche da esperti come von Soden, Jülicher, Weiss e persino Harnack. Quanta verità c'è in essa è stato dimostrato da Steudel nel suo lavoro contro von Soden. Non sarebbe facile trovare una frase più ridicola o un argomento più debole. In nessun'altra inchiesta storica qualunque si accetterebbe un tale argomento come prova della storicità di una certa persona o di un certo evento. Nessuno, se non uno storico teologico, si azzarderebbe ad usare una tale argomentazione, ed è deplorevole che possa trovare appoggio da parte degli storici profani. Come se si potessero definire a priori i limiti della facoltà umana di inventare! Come se la figura di Gesù nei vangeli figurasse veramente a parte dal confronto con ogni altra! Se l'inchiesta storico-religiosa ci ha comunicato qualcosa, ha dimostrato che questo è il contrario della verità. Il Salvatore dei vangeli trova un parallelo in altre divinità redentrici, alle quali a volte assomiglia così tanto da essere identico a loro. Il suo fato  è interamente correlato a quello di Attis, di Adone, di Dioniso, di Osiride, di Marduc, ecc. Infatti, in molti e importanti punti riconosciamo una personalità umana nei salvatori delle religioni non-ebraiche, e più la ricerca avanza in quel campo più diventa chiaro che i tratti distinti della figura di Gesù hanno la loro controparte, in parte nella mitologia antica, in parte e specialmente nell'Antico Testamento, e così è assurdo dire che non potevano essere inventati. Una storia così bella come quella dei discepoli di Emmaus (Luca 24:13), che tratta del Cristo risorto, non del Cristo vivente, e quindi deve certamente essere non-storica secondo i teologi critici, poteva essere “inventata”. [3] Anche la storia della donna adultera, che si trova solo in Giovanni (8:1), è riconosciuta essere un'invenzione successiva. [4] Anche la piacevole storia delle due sorelle, Maria e Marta (Luca 10:38), come Smith ha mostrato nel suo Ecce Deus, è una semplice allegoria dei rapporti del paganesimo e dell'ebraismo con il culto di Gesù, il primo che lo riceve con gioia, il secondo che si occupa molto di usanze e di cerimonie e pretende lo stesso servizio dalla sua “sorella”. [5] Se queste tre storie — tre delle perle dei vangeli — furono inventate, che cosa vi è che non potrebbe essere stato inventato? 

Tuttavia, si ha la sensazione che gli storici teologici non siano davvero molto sinceri con questo argomento. Lo usano soltanto a volte come un espediente retorico, e per via dell'impressione che è capace di fare sulla massa irriflessiva della gente. Anche Weiss sembra non essere del tutto a suo agio con esso (pag. 15), e Schmiedel riconosce espressamente che l'affermazione che la figura di Gesù nei vangeli non poteva essere inventata “non è un argomento valido nella sua forma generale”. “Noi dobbiamo”, dice, “limitarlo a certi passi in cui è indiscutibilmente valido. Ne conto nove di questi passi e, per sottolineare la loro importanza, assegno loro un nome speciale: li chiamo i pilastri principali di una vita realmente scientifica di Gesù”. [6]

NOTE

[1] Die Person Christi im Streite der Meinungen der Gegenwart, 1906, pag. 29.

[2] Geschichte des Untergangs der Antiken Welt, III, pag. 183.

[3] Si veda Niemojewski, Warm eilten die Jünger nach Emmaus? (1911).

[4] Confronta Christianity and Mythology di Robertson, pag. 457.

[5] Per di più, la circostanza per cui Marta (“padrona”) si preoccupava trova a sua volta espressione nel nome del luogo, Betania, dove, secondo Giovanni, si suppone che l'episodio sia accaduto. In aramaico significa “La dimora di colei che si preoccupa”.

[6] Die Person Jesu im Streite der Meinungen der Gegenwart. Si veda anche l'opera di Schmiedel, Das vierte Evangelium gegenüber den drei ersten, pag. 16. 

LE TESTIMONIANZE SULLA STORICITÀ DI GESÙ di Arthur DrewsI Metodi della Critica Storica.

La Testimonianza della Tradizione.

3.  I METODI DELLA CRITICA STORICA.

(a) I Principi Metodici della Storia Teologica.  — Da ciò che abbiamo visto constatiamo che i critici sono convinti della storicità dei vangeli a priori, prima di indagare sull'argomento. Tutto quello che devono fare, quindi, è cercare il “nucleo storico” nella tradizione. Come si fa? “L'elemento cristiano”, dice Weinel, “deve essere spogliato dalla figura di Gesù prima che egli possa essere scoperto. Ma questo significa solo l'elemento cristiano in un certo senso. Gesù non era un ebreo, ma qualcosa di nuovo; l'elemento cristiano deve essere rimosso da lui nel senso di pensieri, idee e tendenze che potevano solo essere intrattenuti da una comunità successiva” (pag. 28). Oppure, come leggiamo in un altro passo: “L'unico criterio con cui il critico storico può discriminare tra il genuino e il corrotto è mettere da parte come spurie quelle caratteristiche della tradizione che non potevano essere dovute all'interesse di Gesù, ma solo all'interesse della comunità” (pag. 30).

Nota fin quanto si presume in tutto questo: che Gesù fosse un personaggio storico, che non fosse un ebreo, che fosse “qualcosa di nuovo” e, soprattutto — “l'interesse di Gesù”. Come fa Weinel a sapere così bene l'interesse di Gesù prima di iniziare la sua inchiesta che pensa di poter determinare con questo test cosa è spurio nella tradizione e cosa no? Si sia sinceri. Non è un problema dell' “interesse” della teologia storica e della Chiesa piuttosto che di Gesù? I vangeli, a quanto pare, devono essere compresi da “l'anima di Gesù”, non dall'anima dei loro autori! Avrei dovuto pensare che in una rigorosa inchiesta storica “l'interesse” e “l'anima” di Gesù potessero essere raccolti solo nel corso dell'indagine. Lo “storico” teologico, tuttavia, assume fin dall'inizio proprio quello che dovrebbe dimostrare e dedurre — l'esistenza e la conoscenza della natura più intima dell'uomo Gesù. Non solo Weinel lo fa, ma pure Clemen formula, per l'impiego nell'interpretazione storico-religiosa del Nuovo Testamento, il famoso “principio metodologico” — che un'interpretazione storico-religiosa è impossibile quando conduce a conseguenze insostenibili (vale a dire, la negazione della storicità di Gesù o dell'autenticità delle epistole paoline) oppure parte da queste premesse. [1] J. Weiss lo dice ancora più chiaramente quando riconosce che in tutte le sue indagini inizia con l'assunzione “che la storia evangelica in generale ha una radice storica, che è cresciuta dal terreno della vita di Gesù, risale a testimoni oculari della sua vita, e gli si avvicina così tanto da poter contare su reminiscenze storiche” (pag. 125). Non c'è da meravigliarsi se si trovano “scientificamente” costretti ad aggrapparsi alla storicità di Gesù, e considerano il cosiddetto metodo storico che usano il solo metodo corretto, perché esso sembra stabilire questa storicità. La verità è che non si tratta di un risultato, ma di un presupposto del loro metodo; il metodo è organizzato in anticipo in modo da confermare il presupposto, e non è in virtù del metodo che l'inchiesta termina in una convinzione dell'esistenza di un Gesù definito, ma perché questo era l'obiettivo tenuto in mente sin dall'inizio.

Questo, tuttavia, non è tutto ciò che dobbiamo dire riguardo al metodo teologico di indagare sulla storicità di Gesù. C'è un ulteriore principio, per cui tutto ciò che sembra possibile al critico teologico nelle narrazioni evangeliche potrebbe essere di colpo definito come reale. Quindi Weinel considererebbe valida una tradizione nella misura in cui “non sia chiaramente vista come impossibile”. Ma non ci sono un sacco di cose nelle tradizioni che sono possibili, eppure potrebbero non essere per niente reali? La storia di Tell è possibile, la storia dei sette re di Roma, o di Semiramide o di Sardanapalo; e fintanto che non esistevano documenti indipendenti, si riteneva che fossero storie reali. In effetti, sulla base di questo criterio di “possibilità” potremmo dimostrare che Ercole era un personaggio storico e tentare di estrarre un “nucleo storico” dal guscio della leggenda. Perché non poteva esserci stato un uomo con quel nome che strangolò un leone, trascinò un cinghiale selvatico, catturò una cerva viva, uccise un pericoloso serpente, ripulì una stalla e compì altre azioni eroiche, sacrificandosi infine sulla pira? Il fatto che l'idra avesse più di una testa, e che al taglio di una due nuove crescessero al suo posto, è, naturalmente, dovuto all'immaginazione successiva; forse ha avuto origine in una “visione” da parte di Ercole. Non sappiamo che era un forte bevitore? Bene, in uno stato di intossicazione le cose si vedono spesso raddoppiate, o addirittura triplicate. In tal modo sarebbe possibile dare un'interpretazione “storica” del mito di Ercole sulla base del suddetto principio. Il principio, tuttavia, trascura il fatto che, sebbene tutto ciò che è reale sia allo stesso tempo possibile, le leggi della logica ci impediscono di tracciare un'inferenza nella direzione opposta, dalla possibilità alla realtà. Eppure è semplicemente su una deduzione del genere, a parte da considerazioni dell“interesse di Gesù”, che sono basate tutte le costruzioni teologiche della vita di Gesù. Le storie nei vangeli vengono prima esaminate per vedere se sono possibili, e vengono poi trattate come realtà storiche, la cui storicità è ritenuta essere stata dimostrata dimostrando che sono possibili.

(b) Il Metodo di J. Weiss. — J. Weiss è un maestro nell'applicazione di questo metodo meraviglioso. Il suo modo di interpretare i miracoli di Gesù non deve essere ignorato. 

Weiss parte dal carattere generale dell'età in cui si suppone che i miracoli siano stati compiuti, dalla sua credulità e dalla sua sete di miracoli, un'età “per la quale salvatore e medico sono quasi la stessa cosa”. È vero che egli concede che le cure improvvise e straordinarie operate da Gesù non possono essere controllate nel loro corso ulteriore. “Non sentiamo di un solo paziente che comunichi qualcosa della sua vicenda successiva” (pag. 119), che è per lo meno molto curioso, e non dice molto della loro gratitudine. Pensa, tuttavia, che “molti [!] contro uno riconosceranno che Gesù era parecchio occupato a guarire i malati. Abbiamo, è vero, “non una buonissima idea” del modo in cui si faceva. Possiamo solo immaginare la maniera in cui Gesù ha agito. Costituisce, tuttavia, “uno scetticismo abbastanza irragionevole dire che quelle scene, a causa della difficoltà di immaginarle, e l'opera di guarigione di Gesù in generale, dovrebbero essere relegate nella leggenda. Che Gesù fosse considerato e ricercato come un guaritore dei malati siamo tenuti ad assumerlo, al pari dell'effetto popolare della grande impressione che fece sugli uomini”, la quale a sua volta è semplicemente assunta in questo paragrafo. “L'unica [...] possibile spiegazione è che fosse ricolmo della convinzione di essere alleato della forza divina; la sua fiducia nell'aiuto miracoloso di Dio, il suo “entusiasmo” in questo senso, deve essere stato [!] forte e sincero, e deve [!] essere stato basato sull'esperienza reale” (pag. 117).

Prendi, per esempio, il posseduto nella sinagoga di Cafarnao. Weiss pensa di poter spiegare la sua liberazione coll'entusiastica natura messianica della predicazione di Gesù, “grazie alla quale il paziente, identificandosi con il demone dentro di sé, sente di essere personalmente minacciato, ma allo stesso tempo attratto; e così un parossismo è provocato, ed è seguito da tranquillità. In questo”, esclama, “come abbiamo superato i limiti dell'interpretazione storica? Cosa vi è di improbabile nell'episodio?” Gesù impose il silenzio sul demone “in virtù dello spirito divino che egli sentiva in sé stesso”. Se qualcuno si avventura a differire da lui, Weiss replica aspramente: “Ognuno che dica che quelle idee ed emozioni religiose sono inconcepibili è meglio che ritragga la mano dalle questioni di storia religiosa; non ha attrezzature per trattare con loro” (pag. 121). Poi c'è la guarigione della suocera di Pietro. “Io non possiedo”, dice Weiss, “nessuna esperienza in materia [Che peccato! Quanto avrebbe potuto insegnarci se fosse stato in grado di sperimentare sulla propria suocera!]; ma non vedo che ciò che è descritto qui sia impossibile” (pag. 122). [2] È vero che si può considerare la cura di un paziente del genere tramite un'influenza ipnotica “del tutto possibile, e persino probabile”. Ma quale sorta di “scienza” sia ridurre l'intero contenuto dei vangeli a mere possibilità di questo tipo ci si deve permettere a riguardo di tenere la nostra opinione personale.

Forse il “metodo” tramite cui i teologi critici provano l'esistenza del loro Gesù non può essere studiato meglio che nel caso del Das älteste Evangelium di Weiss. Weiss prova a dimostrare che l'autore del nostro vangelo di Marco stia semplicemente incorporando una tradizione già esistente. “Non senza certe supposizioni”, ammette, “noi ci occupiamo dell'inchiesta. Siamo stati preparati dalla tradizione della Chiesa primitiva, specialmente dalle prove di Papia [!], a scoprire che nel vangelo che ci è pervenuto sotto il nome di Marco troveremo un'eco delle dichiarazioni di Pietro. Di qui [!] approcciamo il nostro argomento con la domanda particolare di quanto  lontano le reminiscenze di Pietro formino i fondamenti” (pag. 120). “Il mio obiettivo, lo ammetto candidamente, è di rintracciare il testo di Marco nelle sue linee generali [!] ad una tradizione precedente. Per quanto è possibile [!], tento di ricondurlo al modo di Pietro di guardare alle cose, e di comprenderlo nel modo più storico possibile. Io sono, perciò, un partigiano del mio autore — lo concedo ad una certa misura” (pag. 122). Adesso ascoltiamo.

“Ora, dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne in Galilea, predicando il vangelo del regno di Dio” (Marco 1:14). “Così Pietro potrebbe aver cominciato il suo resoconto” (pag.136). Poi c'è il resoconto della chiamata dei primi discepoli. Qui identifichiamo una certa quantità di manipolazione letteraria; la storia ci rammenta con fin troppa sorpresa la chiamata di Eliseo da parte di Elia (1 Re 19:19). Non è sicuro che la frase “pescatori di uomini” sia stata pronunciata in questa occasione. Ma potrebbe essere stata detta in un'altra occasione, e l'intero racconto potrebbe scaturire da una reminiscenza di quel “momento indimenticabile” in cui la parola di Gesù ha indotto Pietro a seguirlo. La frase tecnica “gettare le reti”, ci assicura Weiss, è significativa; lui sembra ritenere improbabile il fatto che nient'altri che un pescatore dovesse usare questa frase davvero poco familiare o sapere qualcosa di un'occupazione così insolita. In questo caso potremmo avere la prima parte di quelle narrazioni di Pietro che Marco a detta di Papia avrebbe usato. Ora per il sabato a Cafarnao, la guarigione del posseduto nella sinagoga e della suocera di Pietro, le guarigioni di sera, la fuga nel mattino. Come vi è un'eccellente connessione locale e cronologica tra le storie! Quanto vividamente vengono raccontati i dettagli! Come si sente l'agitazione di tutti i coinvolti nel racconto! Da tutto questo “il solo metodo scientifico, l'unico punto di vista prudente e critico”, deduce che (tremiamo dalla curiosità) si è qui in possesso di una “eccellente tradizione” — di fatto, i ricordi di Pietro — perché (dobbiamo completare l'argomento) nessun altro uomo avrebbe potuto inventare quelle cose, o almeno non averle comunicate in quella maniera.

Nel secondo capitolo abbiamo la strana storia dell'uomo paralitico che non poteva raggiungere Gesù per via della folla, così che dovettero rimuovere il tetto della casa e farlo calare al guaritore all'interno. Siccome la scena è a Cafarnao, e c'è “menzione di una casa”, secondo Weiss è naturale supporre che fosse la casa di Pietro! Un'altra delle reminiscenze di Pietro, perciò. La parabola del seminatore appartiene alla stessa categoria? “Ci piacerebbe crederci, a causa dell'introduzione realistica [!]. La reminescenza richiama una località descritta molto chiaramente [il fatto è che si ritiene che Gesù abbia pronunciato la parabola da una barca presso la riva], e il suo tempo è determinato a sua volta da 4:35 [“In quel medesimo giorno, verso sera”]. Era un giorno perfettamente definito [?] in cui quei fatti si svolsero” (pag. 178). La barca (4:1) era, naturalmente, la barca di Pietro, anche se questo non è detto nel testo.

Nella storia della figlia di Giairo la guarigione della donna con una perdita di sangue è intrecciata in maniera piuttosto artistica. Questa combinazione artistica non può essere un espediente letterario, ma dipende da una vera reminiscenza storica. “Era indimenticabile il fatto che un evento così curioso dovesse svolgersi sulla via per la casa di Giairo” (p.180). Poi c'è la calma della tempesta. La storia è così improbabile, e suggerisce così fortemente Giona 1:3 e 5, che la maggior parte dei critici sin da  Strauss l'hanno considerata una semplice leggenda, e si è disposti a domandare, con Weiss: “Se Pietro poteva raccontare cose di quel genere, che utilità ha per noi?” Nondimeno, perché non dovremmo osservarvi alla base ancora una volta un episodio reale, e supporre che l'evangelista in seguito vi abbia dato i primi tocchi di qualità miracolosa? Allo stesso modo, la storia del posseduto di Gadara dovrebbe essere basata su “una solida tradizione” (la tradizione è sempre “solida” quando si adatta allo schema teologico). Osserva come sia assunta la familiarità dello scrittore con la località. Che descrizione realistica! Monti che scendono verso la riva e che cadono precipitosamente nel mare! [3] “Questa descrizione poteva originarsi solo tra coloro che avevano familiarità con quelli aspetti della regione”. Marco non avrebbe potuto descriverli così a meno che la tradizione non glielo avesse permesso; da qui la storia deve essere vera, e Pietro deve esserne il narratore. E poi la descrizione dell'uomo posseduto! I sintomi sono totalmente diversi da quelli del posseduto nella sinagoga; si tratta di “isteria epilettoide” (questo a sua volta lo “storico” sembra aver trovato nella Real-Encyclopädie di Eulenburg). Il resoconto, inoltre, deve essere stato dato dal paziente stesso dopo la sua guarigione o da altre persone; quindi — ancora una volta abbiamo una “solida tradizione”. Il solo difetto della descrizione dell'evangelista è che è fin troppo interessato ai porci, troppo poco all'uomo. “La storia è interessante in ogni caso, e se qualcuno ne è disturbato, gli si può dire che fu narrata proprio per quello” (pag. 189). 

Questo per quanto riguarda lo “storico” Weiss. Dopo questi esempi della sua esegesi critica potremmo astenerci dal seguirlo più oltre lungo questo sentiero, sebbene ci sia molto nella sua opera che non meriterebbe di venir dimenticato; la sua interpretazione, ad esempio, della confessione di Pietro a Cesarea di Filippo — la località è “attinta dalla vita”, il dettaglio è “completamente concreto”; possiede, come direbbe von Soden, “l'odore stesso del suolo della Palestina”, così che siamo costretti ad ammettere la sua realtà storica — e la sua concezione della trasfigurazione di Mosè, che deve, naturalmente, essere stata una “esperienza visionaria da parte di Pietro”.

Potremmo aggiungere, al credito della scienza, che lo sforzo di Weiss per ricostruire la forma fondamentale della narrazione di Marco mediante un'analisi esegetica e per dimostrare che Pietro e i suoi amici ne fossero responsabili, ha incontrato la resistenza più violenta anche tra i suoi stessi colleghi. Wellhausen trova che la tradizione di Marco per quanto riguarda la Galilea e le narrazioni galilee sia di una natura tale da non poter essere riferita ai discepoli primitivi. “È possibile”, egli chiede, “che Pietro fosse l'autorità per l'improvvisa vocazione dei quattro pescatori di uomini? — Che raccontò della passeggiata sul mare, della cacciata dello spirito maligno nei porci, della guarigione della donna con una perdita di sangue per la virtù delle sue vesti, e dei sordi e dei ciechi per mezzo di sputi? E perché non ci comunica di più, e in modo più dettagliato, a proposito del rapporto del maestro con i suoi discepoli? Non sembra probabile che la tradizione narrativa in Marco si sia originata tra i compagni di Gesù?”. [4] Otto Schmiedel si trova a sua volta indotto a mettere più di un punto interrogativo dopo le dichiarazioni di Weiss, e osserva: “Non sappiamo con così tanta fiducia (nonostante Papia) che Pietro fosse l'autorità di Marco”. [5] In realtà, l'intero metodo è sospeso in aria, ed è abbastanza inutile tentare di ricavare la storicità delle narrazioni evangeliche dalla loro natura.

NOTE

[1] Die religionsgeschichtl. Erklärung des N. T., 1909, pag. 10.

[2] Nella sua opera, Das älteste Evangelium (1903), Weiss ci comunica che si trattava “probabilmente di un caso di febbre malarica”, e ci riferisce alla Real-Encyclopädie der ges. Heilkunde di Eulenburg, pag. 146.

[3] Marco 5:11 e 13.

[4] Einl. in die drei ersten Evangelien, 1905, pag. 52.

[5] Die Hauptprobleme der Leben-Jesu-Forschung, 2 Aulf., 1906, pag. 62.

venerdì 29 marzo 2019

LE TESTIMONIANZE SULLA STORICITÀ DI GESÙ di Arthur DrewsLa Testimonianza della Tradizione.

Le Fonti dei Vangeli.

2. LA TESTIMONIANZA DELLA TRADIZIONE.

Su quale terreno generale i teologi affermano che i vangeli contengono Storia? Su nessun altro terreno che non sia quello che è l'opinione generale. “Ci viene chiesto”, esclama Weinel, “di dimostrare che Gesù era un personaggio storico; in altre parole, dobbiamo sacrificare una tradizione storica di secoli, contro la quale nel suo complesso ... non una sola obiezione fu portata fino a Bruno Bauer nel 1841 e fino ad Albert Kalthoff nel 1902” (pag. 10). Dice che costituisce un “deprezzamento della tradizione” mettere in discussione la storicità delle narrazioni evangeliche (pag. 10). Weinel sembra non aver mai sentito parlare degli gnostici, la cui resistenza alla tradizione nascente di un Gesù storico ha procurato così tanti problemi alla Chiesa nel secondo secolo. Non sembra sapere che non sono stati Bruno Bauer e Kalthoff a mettere in discussione o a negare per primi la storicità di Gesù, ma filosofi che vissero cento anni prima di Bauer, Bolingbroke e i Deisti inglesi. Abbiamo sentito parlare del detto di Papa Leone X, all'inizio del sedicesimo secolo sulla “favola di Cristo”. Anche un governante così illuminato come Federico il Grande non sembra essere stato interamente convinto della storicità di Gesù . Parla della “commedia” della vita e della morte e ascensione di Cristo, e dice: “Se la Chiesa può sbagliare riguardo ai fatti, vedo una ragione per dubitare se ci sia una Scrittura e un Gesù Cristo”. [1] Weinel non ha mai sentito parlare di Dupuis e di Volney, che hanno avanzato una spiegazione mitico-astrale della “storia” evangelica nell'ultimo decennio del diciottesimo secolo?

Difatti, l'esistenza di Gesù è stata assalita dal momento in cui l'indagine storica ha cominciato a opporsi ai modi di pensare ecclesiastici prevalenti — vale a dire, dal diciottesimo secolo. Ciò è del tutto naturale, poiché nessuno aveva fino ad allora creduto in un Gesù puramente storico, e il Cristo dogmatico della tradizione ha dato poche occasioni per contestare la sua realtà storica; potrebbe essere accettato o rifiutato, ma non per motivi storici. “Proprio perché la teologia liberale ha costruito”, dice Ernst Krieck, “il suo Gesù in opposizione all'intera tradizione cristiana, abbiamo il diritto di chiederne prove; proprio perché, come ammette Weinel (pag. 22), i documenti sono carenti riguardo al loro Gesù, in confronto a come sono generalmente usati per provare la realtà di personaggi storici, l'esigenza di prove non è così assurda come Weinel la rappresenta”. [2]

È una completa perversione dei fatti quando Weinel e i suoi colleghi sostengono che la tradizione sia dalla loro parte. La tradizione dei primi diciotto secoli del cristianesimo conosce solo un dio-uomo, non l'uomo Cristo. Lublinski giustamente richiama l'attenzione al fatto che “nei primi secoli il sangue dei martiri cristiani era versato principalmente perché i cristiani primitivi fanatici e rabbiosi consideravano il culto degli imperatori l'orrore degli orrori, dal momento che significava l'adorazione di un uomo. Tuttavia, essi adorarono il loro Cristo e morirono per lui perché lo consideravano non un uomo, ma un dio-uomo. Chi è più vicino alla tradizione, colui che fa di Gesù un uomo terreno, oppure colui che si accontenta di dire che era fin dall'inizio un essere mitico, un simbolo in una parola, l'uomo-Dio?” [3] È proprio una delle obiezioni sollevate dagli ortodossi contro i cristiani liberali il fatto che essi sono in opposizione a tutta la tradizione cristiana! Quali antichi scritti cristiani ci sono, a parte i vangeli, che mostrano l'esistenza di un Gesù storico? Non c'è un solo antico documento cristiano che parli, non del dio-uomo Gesù Cristo, ma inequivocabilmente del semplice uomo Gesù quale lo concepisce essere stato la moderna teologia liberale. Weinel fa appello ai vangeli apocrifi, ai testi dei “padri apostolici”, agli apologeti del secondo secolo (Giustino, per esempio); tutti mostrano il contrario di ciò che afferma (pag. 103). È proprio uno degli argomenti più forti di coloro che negano la storicità di Gesù il fatto che né gli Atti né l'Apocalisse, né le epistole, né gli apologeti, ecc., riportano il minimo fatto che possa riferirsi con sicurezza ad un Gesù puramente storico. Per quanto riguarda gli apologeti, in particolare, loro non sanno, dice il professor W. B. Smith nel suo Ecce Deus, “nulla di nulla circa la pura esistenza umana miracolosa in Galilea e in Giudea. Non un singolo evento è menzionato, né una singola prova, né una singola spiegazione, né un'esortazione, né un suggerimento, né un singolo motivo hanno derivato dalla vita incomparabile che avrebbe dovuto affascinare i discepoli e persino il sanguinario Saulo. Il moderno predicatore, perfino il critico moderno, a distanza di 1900 anni, riempie tutti i vasi del suo discorso presso questa fonte pura e inesauribile della personalità e della vita di Gesù. Ma gli antichi apologeti, che vissero sotto gli Antonini e prima della definizione del canone del Nuovo Testamento, non conoscono nulla di questa fonte nei loro dibattiti con re e imperatori, con filosofi e rappresentanti del loro stesso gruppo. Non ne attingono una sola goccia d'acqua; la  menzionano raramente, persino lontanamente. Sembrerebbe quasi che, se mai esistette, fosse confinata a una fonte esoterica, non essoterica. È vero, troviamo un po' di scarsi riferimenti a certi insegnamenti che sono “conosciuti”, ma sono tutti di una natura più o meno meta-empirica, come ad esempio il mistero di 1 Timoteo 3:16. Non troviamo alcuna conoscenza di una vita umana come quella che i teologi moderni e ortodossi rendono la base della loro teoria del Nuovo Testamento”.

Basare la storicità di Gesù sulla tradizione equivale semplicemente a fare della tradizione il fattore decisivo nel problema perché è tradizione. “La storia”, dice Weinel (pag. 22), “dipende dalla tradizione”. Ma quando la tradizione è così isolata come nel caso dei vangeli, abbiamo tutto il diritto di chiederci se alla sua base ci siano dei fatti storici di sorta. Persino Weinel ammette che la storicità di una tradizione non può essere mostrata da “qualche semplice logica”. Tale dimostrazione può essere data solo “per mezzo di documenti”. Tuttavia, non ce ne sono nessuno per la vita di Gesù. È stato detto che Socrate e Platone potrebbero essere eliminati dalla Storia con la stessa facilità di Gesù, dal momento che ci sono opere spurie tra coloro che recano il nome di Platone, ed è impossibile dimostrare che le altre siano autentiche. Ma noi siamo certi dell'esistenza di Socrate, non solo grazie a Platone e a Senofonte, ma anche al commediografo Aristofane, e non c'è il minimo motivo per dubitare della sua esistenza storica. E l'esistenza storica di Platone è accreditata, non semplicemente dalle opere a lui attribuite, ma in altri modi, come pure quella di qualsiasi personalità nella Storia. Non dovremmo nemmeno avere motivo per dubitare della sua storicità se tutte le opere del filosofo fossero spurie. Quanto all'esistenza di Lutero, di Federico il Grande, di Goethe o di Bismarck, non abbiamo solo documenti di loro propria mano, la cui genuinità non è soggetta a discussione, ma una marea di prove da parte dei contemporanei. [4] Tutto questo è mancante nel caso di Gesù. Egli non ha lasciato dietro di sé una sola riga. Ha, come dice Jülicher, “scritto nella sabbia”, e non esiste un solo documento affidabile che ci permetta di fidarci dei vangeli, dai quali soltanto apprendiamo qualcosa intorno alla sua vita. È perciò proprio altrettanto lecito dubitare come ammettere l'esistenza di una tale persona; ed è un'indizio infelice della superficialità e del pensiero frivolo del nostro tempo il fatto che persino i leader della scienza non hanno esitato a introdurre nel campo, per dimostrare la storicità di Gesù, questo folle riferimento alle personalità storiche. [5]

NOTE

[1] Friedrichs des Gr. Gedanken über Religion, 1893, pag. 87 e 92.

[2] Die neueste Orthodoxie u. d. Christusproblem, pag. 47.

[3] Das werdende Dogma, pag. 82.

[4] Si veda Jülicher, pag. 14.

[5] Steudel, Wir Gelehrten vom Fach, pag. 6, Lublinski, Das werdende Dogma, pag. 47. 

giovedì 28 marzo 2019

LE TESTIMONIANZE SULLA STORICITÀ DI GESÙ di Arthur DrewsLe Fonti dei Vangeli

Il Problema dell'Autenticità.

 LA TESTIMONIANZA DEI VANGELI

Il valore probatorio degli scrittori profani e delle epistole paoline rispetto all'esistenza di un Gesù storico si è dimostrato illusorio. L'autenticità delle epistole paoline non è affatto stabilita. Anche se fossero state scritte davvero dall'apostolo negli anni cinquanta e sessanta del primo secolo, non avrebbero dato testimonianza allo storico essere umano Gesù. Il fatto che l'apostolo abbia in mente una tale persona, e non un essere celeste, un Gesù dio-salvatore, che è diventato uomo, non può essere dedotto dalle epistole, ma è letto in loro, cosicché l'esistenza di un Gesù storico è semplicemente assunta. Ora, questa assunzione è basata sui vangeli e, pertanto, le epistole paoline non possono a loro volta servire a provare l'esistenza del Gesù dei vangeli.

Non c'è altra fonte del credo in un Gesù storico, se non i vangeli. La credibilità dei documenti storici del cristianesimo non trova alcun sostegno al di fuori di loro stessi. Per uno storico quella è una situazione deplorevole. Perfino Weiss sente di dover offrire qualche scusa nel citare i vangeli come testimoni, siccome gli scettici potrebbero obiettare che un testimone difficilmente può testimoniare a suo proprio favore. Lui si consola indicando la grandezza e la bellezza dei vangeli come qualche assicurazione della loro verità, dimenticando che la verità soltanto rivendica sé stessa, e non i suoi autori. Per quanto possiamo stimare il contenuto dei vangeli, questo apprezzamento non getta la minima luce sulla storicità delle dichiarazioni fatte in loro. Per quanto molto la figura di Gesù, come è introdotta negli atti e nelle parole della narrazione evangelica, possa muovere e ammaliare i sentimenti del lettore, non si può concludere da quei sentimenti che una personalità storica fosse il modello del personaggio. Altrimenti dovremmo descrivere gli eroi di Omero, l'Amleto di Shakespeare e il Faust di Goethe come personalità storiche perché sono rappresentati in modo così vivido, e fanno una così “forte impressione” sulle anime sensibili. Il tentativo di provare la storicità di Gesù è senza speranza se non ci sono a suo favore altre fonti storiche oltre ai vangeli, perfino se la tradizione evangelica sia così vicina ai fatti storici da poter avere a che fare con reminiscenze storiche. Osserviamo, perciò, quanto sia importante per coloro che mantengono la storicità di Gesù avere altri testimoni oltre ai vangeli, e comprendiamo i frenetici sforzi dei teologi “storici” per trattenere le prove di storici profani e di Paolo, per quanto siano sottili e discutibili. L'importanza dell'inchiesta sui documenti evangelici è impostata così nella sua vera luce. Non si tratta semplicemente del problema di stabilire nei dettagli la credibilità storica delle narrazioni evangeliche, ma di assicurare in generale un fermo terreno storico in cui poter ancorare la tradizione. Ricavare qualche assicurazione della natura storica dei vangeli è una materia di vita e di morte per la fede storica del cristiano. Da qui accade che ogni appiglio venga accolto con entusiasmo, e in questa materia gli “storici” teologici tradiscono una soddisfazione e una liberalità che non sarebbero tollerate in nessun ramo della Storia profana.

1. LE FONTI DEI VANGELI 

Un tale appiglio, riguardo al credo nella storicità dei vangeli, è la testimonianza spesso citata di Papia. È, com'è noto, uno dei risultati “più sicuri” (sebbene affatto indiscussa) della discussione moderna della vita di Gesù il fatto che il vangelo di Marco sia il più antico dei quattro sopravvissuti. In confronto agli altri vangeli, mostra “la massima freschezza” e “vividezza”, il “carattere pittoresco” più impressionante, e una tale abbondanza di dettagli banali che dà l'impressione di “suggerire direttamente la narrazione di un testimone oculare”. È, quindi, una felice coincidenza, ci assicurano i teologi, [1] che Papia, vescovo di Ierapoli intorno all'anno 150, faccia una dichiarazione su Marco, l'autore del vangelo, che concorda mirabilmente con quell'impressione. Dice: “Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che egli ricordava delle parole e delle azioni di Cristo; poiché egli non aveva udito il Signore, né aveva vissuto con Lui, ma, più tardi, come dicevo, era stato compagno di Pietro. E Pietro impartiva i suoi insegnamenti secondo l’opportunità, senza l’intenzione di fare un’esposizione ordinata dei detti del Signore. Cosicché non ebbe nessuna colpa Marco, scrivendo alcune cose così come gli venivano a mente, preoccupato solo d’una cosa, di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire alcuna menzogna a riguardo di ciò”.

In questa maniera l'origine del vangelo più antico sembra risalire molto vicino al tempo di Gesù, e la sua natura storica sembra essere accreditata. Il solo interrogativo è fino a che punto possiamo fare affidamento sulla dichiarazione del Vescovo di Ierapoli. Ora Papia fa appello al sacerdote Giovanni [Presbitero Giovanni] come sua autorità. Chi è il sacerdote Giovanni e da dove ha ricavato la sua conoscenza? Secondo Girolamo e Ireneo, era identico a Giovanni l'evangelista. Lo stesso Papia, tuttavia, lo nega quando ci assicura che lui stesso non ha mai visto né sentito i santi apostoli, ma doveva la sua conoscenza ai loro amici, gli anziani. Quindi Papia ricevette le sue informazioni sull'origine del vangelo da Giovanni, Giovanni da Marco, e Marco ricevette le sue informazioni su Gesù da Pietro, che a sua volta disse solo ciò che sapeva di Gesù. Vedendo che, inoltre, gli scritti di Papia sono andati perduti, e che sappiamo di lui solo da Eusebio (del quarto secolo), quella è chiaramente una prova troppo complicata per meritare un'accettazione senza riserve. Inoltre, non apprendiamo da Papia se Pietro abbia raccolto dalla sua esperienza personale di Gesù ciò che egli comunicò a Marco, oppure, se non lo ha fatto, da dove questo testimone originale abbia derivato la sua conoscenza del Salvatore. Dalle parole di Papia non risulta che Pietro fosse un discepolo personale di Gesù, per quanto enfaticamente Eusebio possa considerarlo tale, e per quanto Papia possa averlo pensato. Il buon vescovo non era affatto il tipo di uomo in possesso di un'idea chiara di una cosa del genere. Secondo Eusebio e Ireneo, era proprio “di mente limitata”, e le altre cose che raccoglieva dagli anziani nella forma di parabole e di insegnamenti di Gesù e di atti degli apostoli, pur di avere quante più informazioni possibili su Gesù e i suoi seguaci, sono così discutibili e miracolose che persino Eusebio è obbligato a relegarle nella provincia della favola. [2]

C'è un'altra materia che apprendiamo riguardo al vescovo da Eusebio (2:15), e anche questo dovrebbe aiutare a dimostrare la connessione del vangelo di Marco con il Gesù storico. Papia dice che, quando Pietro giunse a Roma e sconfisse il mago Simone nel loro conflitto, i suoi ascoltatori si rivolsero a Marco, che accompagnò Pietro, nel loro zelo per il vangelo, e lo implorarono di lasciare loro un memoriale scritto dell'insegnamento che era stato oralmente consegnato a loro, ed egli lo fece. L'apostolo, dice, apprese questo da una rivelazione dello Spirito Santo (!), gioì del loro zelo, e impartì che lo scritto dovesse essere utilizzato nelle chiese. “Perché”, domanda Lublinsky, “Pietro dovette apprendere dallo Spirito Santo il fatto che il suo costante compagno aveva scritto un vangelo, invece che dallo stesso Marco, il quale avrebbe dovuto prima chiedere al suo maestro di esaminare un'opera così sacra e importante? Inoltre, sarebbe impossibile per l'apostolo confermare e raccomandare un'opera che non fu scritta nel giusto ordine della vita del Salvatore. Tale noncuranza è ancora più difficile da credere quando riflettiamo sul fatto che è detto che gli ebrei avevano già assunto un atteggiamento di ostilità nei confronti dei cristiani, e certamente avrebbero denunciato di colpo ogni falsità o inesattezza da parte cristiana. Erano vivi ancora fin troppi testimoni degli eventi perché chiunque osasse correggere la materia persino di poco” (pag. 62).

C'è, infatti, molto da dire a proposito della congettura di Lublinski sul fatto che ci sia menzione di un vangelo appartenente alla prima metà del secondo secolo, a cui si cercò di dare un certo prestigio canonico facendolo risalire a Pietro e allo Spirito Santo, e sul fatto che la storia dell'attività pedagogica di Pietro fosse stata inventata per coprire la disconnessione del suo materiale. Farlo risalire direttamente all'apostolo, come il primo vangelo fu attribuito a Matteo e il quarto a Giovanni, era impossibile per qualche ragione. Era, perciò, attribuito al nome di Marco, di cui era detto nella cosiddetta prima epistola di Pietro: “La chiesa che è in Babilonia eletta come voi, vi saluta; e così fa Marco, il mio figlio”, proprio come il terzo era ascritto al medico Luca, e quindi messo in relazione con l'apostolo Paolo. [3]

In ogni caso, è impossibile provare la connessione dei vangeli con il Gesù storico da quei due riferimenti di Papia, come sono conservati da Eusebio. Perfino se l'informazione in Papia fosse meglio accreditata di quanto sia, la sua dichiarazione non è dovuta sorgere indipendentemente dalla natura letteraria del vangelo di Marco. È detta concordare perfettamente con quella natura. Ma non sappiamo se il vangelo non fosse stato attribuito precisamente a Marco, e connesso così a Pietro, perché al momento della sua apparizione questa natura accidentalmente concordante del vangelo impressionò i suoi lettori, se non era stato espressamente scritto nel senso petrino.

Oltre al riferimento all'origine del vangelo di Marco, abbiamo in Eusebio anche uno all'origine del vangelo di Matteo; un riferimento a cui la teologia storica attribuisce la massima importanza e di cui l'autore è ancora Papia. “Matteo”, ha detto, “scrisse i detti del Signore in lingua ebraica; e ciascuno poi li interpretava come poteva” (3:40). I teologi presumono di colpo che questi “detti del Signore” siano detti del Gesù storico; ed è possibile che Papia intendesse questo, anche se non menziona il nome Gesù, e abbiamo nella letteratura cristiana antica (come l'Insegnamento dei Dodici Apostoli e l'epistola di Giacomo) parole del Signore che non sono citate come parole di Gesù, ma sono chiaramente detti di precedenti maestri profetici, i cosiddetti apostoli. L'espressione “detti del Signore” spesso significa i detti di importanti personalità religiose che erano attribuiti alla diretta influenza dello Spirito Santo; persino le citazioni dell'Antico Testamento sono chiamate “parole del Signore”, cioè, del Dio di Israele. [4] Inoltre, l'identità del Matteo che a detta di Papia ha scritto le parole del Signore con l'evangelista Matteo non è certa, poiché quest'ultimo attingeva da fonti greche, e il pubblicano che Gesù chiama (Marco 2:14) e in cui dovremmo identificare l'autore del vangelo, non si chiamava Matteo, ma Levi, figlio di Alfeo, e sembra non essere stato identificato con l'apostolo Matteo fino a un periodo successivo. [5] Questo è ciò che i teologi definiscono “una tradizione solida”! Non possiamo evitare il sospetto che quei presunti detti di Gesù, le “parole del Signore” di Papia, che si dice Matteo abbia raccolto, non erano le parole di un singolo individuo specifico o di un Gesù storico, ma erano semplicemente poste sulle sue labbra in seguito. [6] In tal caso, questo secondo passo di Papia riferito a Matteo è altrettanto incapace di mostrare una connessione storica dei vangeli con la vita di un Gesù storico. Non ne apprendiamo nulla se non che c'erano “parole del Signore” nel secondo secolo in numerose versioni differenti e che queste differenze erano spiegate dal fatto che fossero dovute a traduzioni diverse di una fonte comune, l'autore della quale era ritenuto essere stato un certo Matteo, il cui nome figurava tra i cosiddetti discepoli di Gesù.

È su questa “solida tradizione” che i teologi critici moderni basano la loro ipotesi delle due fonti. Essa suppone che il vangelo di Marco, o una sua precedente versione, il cosiddetto “Marco Primitivo”, sia una fonte dei nostri tre vangeli sinottici; descrive le azioni di Gesù. L'altra fonte è la fonte dei discorsi o dei detti, il documento che Papia attribuisce a Matteo, il cosiddetto “Matteo Primitivo”. I nostri attuali Matteo e Luca hanno preso indipendentemente il loro resoconto delle azioni di Gesù dal vangelo primitivo di Marco, e hanno preso le parole di Gesù dall'altra fonte, e combinato le due fonti. Ognuna di loro, tuttavia, ha la sua “proprietà privata”, qualcosa che non si trova nelle fonte di detti o nel Marco primitivo, ma si deve probabilmente alla tradizione orale. Nell'elaborare questa ipotesi i teologi differiscono considerevolmente l'uno dall'altro. Alcuni dicono che c'erano storie della vita di Gesù anche nel Matteo primitivo e discorsi di Gesù nel Marco primitivo. Altri pensano che oltre ai Matteo e Marco primitivi ci fosse una forma primitiva di Luca; secondo Arnold Meyer, questa potrebbe essere stata più antica del Marco attuale, e aver contenuto, oltre alle storie della nascita e dell'infanzia di Gesù, le parabole e le storie che tendevano a glorificare la povertà e a svalutare la ricchezza. Otteniamo così un “Vangelo Ebionita” o un vangelo “dei Poveri”, che si ritiene sia stato usato particolarmente da Luca. Recentemente, se possiamo interpretare così un passo in Weiss (pag. 155), il vangelo di Giovanni, che è stato quasi completamente escluso dalla discussione sulle fonti della vita di Gesù per più di mezzo secolo, sembra far ritorno al gruppo delle fonti. Sarebbe un altro esempio del fatto che “tutto quanto tornerà ad accadere”, come ha detto Nietzsche. Il gioco di combinare le varie possibilità sembra essere una parte essenziale della discussione teologica delle fonti. In tutti i casi, il continuo lavoro dei teologi ha complicato così tanto il problema delle fonti della vita di Gesù che è quasi impossibile parlare ancora di un'“ipotesi delle due fonti”, e parlarne liberamente.

Qualunque cosa si possa dire dal punto di vista filologico quanto al valore dell'ipotesi delle due fonti, di cui i teologi critici tedeschi sono così orgogliosi, essa non ha alcun valore, come hanno dimostrato le considerazioni precedenti, nella misura in cui è interessata la storicità di Gesù. Non ne avrebbe nemmeno se i contenuti esatti delle fonti ci fossero noti, come sembra pensare Weinel, e se la ricostruzione delle fonti nella traduzione tedesca di Harnack, che non è in alcun modo generalmente ammessa, fosse qualcosa di più di un semplice tentativo ipotetico, e se le analisi corrispondenti di Wernle non fossero congetture velate e incerte. Non importa fin quanto il metodo dei teologi storici sarà migliorato in futuro, esso non può fare di più. Che nei vangeli abbiamo davvero a che fare con la “tradizione di una personalità” — precisamente, il Gesù storico — non può essere mostrato nemmeno dalla più acuta critica filologica e dalla più perfetta padronanza dell'apparato tecnico. Il tentativo dei teologi storici di raggiungere il nucleo storico dei vangeli con mezzi puramente filologici è senza speranza, e deve rimanere senza speranza, perché la tradizione evangelica fluttua nell'aria; la fede nel suo valore storico non è confermata da una singola testimonianza esterna che possieda la minima pretesa di fiducia.

NOTE

[1] Wernle, Die synoptische Frage, 1899, pag. 204.

[2] Storia Ecclesiastica 3:40.

[3] Si veda Gfrörer, Die heilige Sage, I, 3-23, 1838; anche Lützelberger, Die kirkliche Tradition über den Apostel Johannes, 1842, pag. 76-93.

[4] Matteo 10:20; Marco 13:11. Confronta anche Apocalisse 19:10: “La testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia”.

[5] Wernle, opera citata, pag. 229.

[6] Steudel, Wir Gelehrten vom Fach! pag. 37; Im Kampf um die Christusmythe, pag. 56. 

mercoledì 27 marzo 2019

LE TESTIMONIANZE SULLA STORICITÀ DI GESÙ di Arthur DrewsIl Problema dell'Autenticità.

Paolo non un Testimone della Storicità di Gesù.

3. IL PROBLEMA DELL'AUTENTICITÀ. 

Il Cristo paolino è un principio metafisico, e la sua incarnazione è solo un'idea, un elemento immaginario del suo sistema religioso. L'uomo Gesù è in Paolo l'idealizzato servo sofferente di Dio di Isaia e il giusto della Sapienza, uno stadio intermedio di evoluzione metafisica, non una personalità storica. Quando ammettiamo questo, eliminiamo l'ostacolo principale che finora ha impedito ai teologi di studiare seriamente il problema della falsità delle epistole paoline. Ciò che hanno detto sull'argomento fino ad oggi mostra tutto fuorché un'indagine priva di pregiudizi in merito. La teologia storica ha bisogno di autentiche epistole paoline, per basare su di esse la sua fede in un Gesù storico, e perciò esse non devono essere false. Ma come faranno a dimostrare che sono autentiche? Non ci sono testimonianze non cristiane. Il silenzio di Filone e di Flavio Giuseppe intorno ad un apostolo che si suppone abbia gettato gli ebrei in scompiglio per tutta la terra (Atti 24:5), che sia stato perseguitato da loro con l'odio più acuto, e che sia stato trascinato in tribunale più di una volta, coinvolgendo le più alte autorità ebraiche e romane, non è stato ancora spiegato dai nostri avversari. Che dire delle testimonianze cristiane? Ce ne sono “abbastanza di loro”, dice J. Weiss. Sfortunatamente, ciò che i teologi avanzano —, come la lettera di Clemente ai Corinzi, su cui si affida Weiss — è stato a lungo dimostrato inaffidabile dagli olandesi, specialmente da Loman, [1] Van Manen e Steck. [2] Non c'è alcuna prova dell'esistenza delle epistole paoline prima di Giustino, e rimane una questione aperta se Giustino avesse qualche conoscenza di tali epistole. Papia a sua volta tace sulle epistole di Paolo, anche nel punto dove sarebbe stato costretto a menzionarle se le avesse conosciute. [3] È anche materia di riflessione il fatto che già nel secondo secolo esistevano sette eretiche, come i Severiani, che dichiaravano che fossero false tutte le epistole di Paolo.

(a) Argomentazioni Emozionali per la Autenticità. — Possiamo, perciò, solo cercare di dimostrare l'autenticità delle epistole paoline mediante argomenti interni, tramite considerazioni filologiche o analisi del loro stile. Ma come possiamo stabilire in questo modo che le epistole fossero state scritte davvero dall'apostolo Paolo e appartengano alla metà del primo secolo, visto che non abbiamo esempi indipendenti della scrittura di Paolo, è difficile dirlo. Quando un filologo come Wilamowitz deduce l'autenticità delle epistole dal loro stile vivido e personale, e dice, categoricamente, “Questo stile è di Paolo, e di nessun altro", [4] abbiamo semplicemente un'altra dimostrazione della dipendenza di tutta la nostra scienza sulla teologia. In che modo il filologo conosce la natura e la personalità di Paolo se non dalle epistole pubblicate sotto il suo nome? Trova quindi la prova della autenticità nelle epistole stesse; e quando scopre che le epistole soddisfano naturalmente questo test, pensa di aver stabilito la loro autenticità. “Viene usato un paradigma”, dice Van Manen, “che è stato preso dall'epistola o dalle epistole la cui autenticità è in discussione, e gli studiosi procedono come se l'immagine dell'apostolo delle genti che devono alla tradizione, alle descrizioni da terze persone, o alla loro ricerca personale, sia stata ricavata separatamente dall'epistola o dalle epistole a cui è applicata. Esclamano: Paolo alla vita! Riconoscono un tratto dopo l'altro. Ma cosa hanno veramente dimostrato? Si sono semplicemente imbrogliati”. [5]

Ma che dire della “possente personalità”, della “originalità non-inventabile”, dell'“anima” che vive nelle epistole? Quando i nostri avversari non trovano altro argomento, devono fare affidamento naturalmente sull'originalità, sull'unicità, sull'impossibilità di inventare lo stile delle epistole. Su questo punto troviamo von Soden, Jülicher, Weiss e tutti gli altri in pieno accordo. “Allora l'impressione generale fatta dalle epistole”, esclama J. Weiss, estaticamente — quasi lo vediamo con gli occhi levati al cielo e la sua mano posata sul testo di Paolo — “questa ricchezza di toni e ombre, questa straordinaria originalità che ogni uomo che non può percepire accusa sé stesso di una grande incultura del gusto e del giudizio letterario” (pag. 100).

Ma chi nel mondo contesta una parola di questo? Ciò che contestiamo è la deduzione dell'apostolo Paolo da quelli aspetti delle epistole. Non importa quanto “personale” possa essere lo stile delle epistole, esso non ci dà la minima certezza che le epistole siano state scritte dall'uomo il cui nome appare a capo di ciascuna. Né deriva dalla “natura originale dello stile” il fatto che non avrebbero potuto essere prodotte da una scuola o da un gruppo. Lo stile della letteratura giovannea non è ancora più originale? Oppure i poemi omerici devono essere stati composti da un singolo Omero perché hanno tutti lo stesso stile? A dirla tutta, inoltre, le epistole non si accordano tra loro, né c'è completa armonia entro i limiti di una singola epistola. [6] Quanto all'originalità, van Manen osservò: “Essere originali in qualsiasi forma, in qualsiasi lingua o età, è proprio altrettanto possibile, a condizione che l'uomo abbia le capacità necessarie, per chi si copre con la maschera di qualche altra persona come per uno che scrive nel suo stesso nome e in persona, per lo scrittore pseudonimo proprio altrettanto bene che per lo scrittore sincero” (pag. 188). Sui principi dei nostri avversari, l'opera di Nietzsche, Così Parlò Zarathustra, deve essere stata scritta dall'antico fondatore religioso persiano, perché è così personale, così originale, così ricca di toni e ombre. Sugli stessi principi, il quarto vangelo fu scritto evidentemente dall'apostolo Giovanni; e, difatti, fino alla metà del secolo scorso i teologi fingevano di percepirvi il vero battito del cuore del discepolo che Gesù amava. “Il che”, come dice Van Manen, “dovrebbe renderci più cauti, e sollevare il problema se non siamo a volte troppo rapidi a identificare una vecchia opinione di lunga data con l'impressione fresca e genuina che l'opera, l'epistola, farebbe su un lettore imparziale. È quantomeno certo che nessuno è ancora riuscito a definire l'elemento “personale” in maniera tale che qualsiasi gruppo moderato sia d'accordo nella descrizione. Un ritratto soddisfacente di Paolo è una delle cose che non sono altro che pii desideri” (pag. 189).

Jülicher dice, in riferimento alla “netta variazione di tono, agli umori, alle allusioni a cose note solo alle persone a cui è rivolta l'epistola, e agli scoppi di una rabbia quasi sinistra nelle epistole paoline” (pag. 25), che nessun uomo potrebbe mettersi nei panni di un altro in questo modo. In questo egli mostra semplicemente il fatto che un moderno professore di teologia seduto alla sua scrivania è incapace di farlo, non che un appassionato gnostico del secondo secolo, nel mezzo della lotta contro l'ebraismo legale e che cerca ardentemente di rivendicare la sua concezione del vangelo, non avrebbe potuto “inventare” quelle cose. Non è necessario, quindi, considerarlo un “falsario” che “opera con incredibile finezza e crea i monumenti più straordinari di un grande entusiasmo” (pag. 26). Ha bisogno solo di porre in parole i suoi sentimenti e pensieri, e, siccome non era raro al tempo, pone sull'opera il nome dell'apostolo Paolo, col quale sente un'affinità spirituale, o che ha scelto per qualche altra ragione; e ciò che sembra impossibile a Jülicher è realizzato.

(b) Argomentazioni per la Autenticità dei Tempi. — I difensori della autenticità delle epistole paoline sarebbero in una cattiva situazione se non avessero avuto altri argomenti oltre alle considerazioni estetiche che abbiamo appena esaminato. Ne hanno altri, comunque. Secondo von Soden, nessuno ha mai dato una teoria comprensibile dell'origine di quelle epistole nel secondo secolo. “Hanno a che fare con fin troppe cose, e con l'interesse più vivo, che nessuno nella cristianità considerò seriamente nel secondo secolo, come apprendiamo da altri documenti affidabili” (pag. 29). Jülicher dice anche: “Non si adattano a nessun altro periodo se non agli anni tra il 50 e il 64”. Altri, tuttavia, in particolare gli esperti olandesi, sono dell'opinione contraria. Hanno sottolineato, tra le altre cose, la ricca vita interiore delle comunità a cui l'apostolo rivolge le sue epistole, e la complessa organizzazione e le istituzioni ecclesiastiche, che sono difficilmente coerenti con l'idea che quelle fossero comunità appena fondate e piuttosto giovani; indicano piuttosto che erano state in esistenza da molto tempo. Van Manen in particolare ha descritto la condizione della comunità romana come una che non possiamo concepire nell'anno 59, in cui si suppone che l'epistola ai Romani sia stata rivolta ad essa (pag. 155); e Steck ha mostrato lo stesso riguardo alla comunità di Corinto (pag. 265). [7] Tali istituzioni come il battesimo per procura per i morti (1 Corinzi 15:29) e la legge ascetica del matrimonio (1 Corinzi 7) puntano piuttosto al secondo secolo, con la sua influenza gnostica, che alla metà del primo; a meno di ammettere che il culto di Gesù sia molto più antico di quanto i nostri teologi siano disposti a pensare, e che lo gnosticismo sia la radice dell'intero cristianesimo. Anche le divisioni e le fazioni della comunità di Corinto, che l'apostolo è desideroso di conciliare, e la cui natura non è ancora riuscita a spiegare, danno l'impressione che “sono semplicemente descritte schematicamente sotto nomi che erano familiari dai tempi apostolici, e lo scopo generale dell'avvertimento contro le divisioni ecclesiastiche era proprio come il periodo successivo rese ovunque necessario”. [8] È stato detto che il dono delle lingue che è menzionato in 1 Corinzi 12-14 fosse “del tutto scomparso” nel secondo secolo, e questo si avanza come prova del fatto che le epistole paoline devono essere state scritte nel primo secolo. [9] Ma il fenomeno “estatico o metodista” delle lingue è così generale, e ricorre così costantemente in periodi di eccitazione religiosa, trovandosi persino tra certe sette religiose e istituzioni del nostro tempo, che il silenzio riguardo ad esso del resto della letteratura del secondo secolo non ci autorizza a concludere che le epistole paoline siano autentiche. Conosciamo il dono delle lingue dalle epistole, che si presume appartengano al primo secolo. Ma come si può dire che queste epistole debbano appartenere al primo secolo perché si tratta in loro del dono delle lingue? Il problema della circoncisione, inoltre, non era affatto irrilevante nel secondo secolo, come dice Clemen [10]; è fin troppo chiaro dal Dialogo di Giustino con l'ebreo Trifone (cap. 47). Vi si solleva il problema se i giudeo-cristiani che si attengono alla legge possano essere salvati, e la risposta è che non vi è alcun motivo per cui non dovrebbero esserlo, a condizione che non impongano la legge sui cristiani gentili con il pretesto che essi altrimenti non potrebbero essere salvati, e non rifiutino di vivere con i cristiani gentili. Ciò indica che verso la metà del secondo secolo le due fazioni della cristianità si sono ancora affrontate tra loro proprio come le troviamo intente nell'epistola ai Galati. [11]

Come è noto, l'atteggiamento del cristiano verso la legge e la sua relazione con l'ebraismo è una preoccupazione centrale del sistema paolino. Ora, durante tutto il primo secolo, almeno fino alla distruzione di Gerusalemme, non c'era opposizione tra ebrei e cristiani riguardo alla legge. Vivevano amichevolmente l'uno con l'altro, si visitavano, si sposavano e si sostenevano l'un l'altro — in caso di malattia, per esempio. Così, tra molti altri, ci conferma Chwolson — e ha studiato attentamente la materia — nel suo lavoro su The Last Passover. Nell'anno 62, secondo il resoconto di Flavio Giuseppe, il sommo sacerdote Anano fece uccidere Giacomo, e questo dispiacque ai farisei. Secondo Atti (15:5), alcuni dei farisei si unirono alla setta. Infatti, intorno all'anno 58, gli scribi tra i farisei si levarono a favore di Paolo, e riconobbero di non aver trovato alcuna offesa in lui (Atti 23:9). Infatti, il testo di Atti non sa nulla di una differenza fondamentale tra Paolo e il resto degli apostoli in relazione al loro atteggiamento nei confronti dell'ebraismo, e persino il resoconto dei suoi viaggi — la parte di Atti che ha la pretesa più forte di essere considerata genuina — tace su qualsiasi differenza di pensiero tra Paolo e i primi discepoli di Gesù, e non tradisce con una sola sillaba il fatto che Paolo abbia promulgato un vangelo molto più progredito di quello degli apostoli originali e superando i loro sia nella ricchezza dei suoi contenuti che nella profondità dei suoi pensieri. Confronta con questo il vigore con il quale le epistole paoline attaccano la legge mosaica, la profonda opposizione tra le idee di Paolo nelle epistole e quelle degli ebrei, specialmente dei farisei, il suo rifiuto e la sua fresca interpretazione dell'idea ebraica più antica del Messia, la sua glorificazione del Gesù crocifisso e risorto a costo di tutto ciò che fosse caro al sentimento religioso degli ebrei; e poi rifletti se un tale sistema fosse più probabile che si sviluppasse nel primo secolo, pochi anni dopo la morte di Gesù, oppure nel secondo secolo — se non si adatta a nessun altro periodo se non agli anni tra il 50 e il 64!

Effettivamente, come affermano gli ebrei, e come hanno dimostrato Lublinski e altri, fu la distruzione di Gerusalemme ad aver portato alla rottura tra ebrei e cristiani. Fu solo quando, dopo la caduta della città santa, l'organizzazione sacerdotale ebraica e la vita religiosa furono costrette a separarsi, e gli ebrei, pur di mantenere la purezza e la forza della loro fede sconfitta, si misero in disparte, e cercarono in un accresciuto servizio della legge qualche compenso per la perdita del tempio, che i cristiani, con la loro idea più liberale del culto, la loro moralità interiore alimentata dai profeti, e il loro più forte senso di penitenza a causa della loro attesa di una imminente fine del mondo, cominciarono a separarsi dagli altri ebrei, dai quali non erano ancora stati essenzialmente distinti, e si resero conto di costituire una particolare comunità religiosa in opposizione all'ebraismo. Questa separazione aumentò fino all'inimicizia mortale e all'odio inconciliabile quando, verso la fine del primo secolo, la parte dei cristiani contrari alla legge prese il sopravvento, quando i cristiani arrivarono a negare la validità della legge e la sua indispensabilità per la salvezza religiosa; quando, negli ultimi conflitti decisivi degli ebrei contro i romani, i cristiani si schierarono al fianco di quest'ultimi e, abbandonando le loro speranze nazionali della restaurazione di Gerusalemme e della liberazione politica di Israele, cercarono di impedire la ricostruzione del tempio, e così si separarono apertamente dai loro compatrioti. Gli ebrei ora rifiutavano di avere qualsiasi rapporto con i cristiani; maledissero e bruciarono le loro Scritture, e li espulsero dalle comunità. I cristiani si vendicarono di questa condotta etichettando gli ebrei come induriti. Li rimproverarono di essersi tagliati fuori dalla promessa, e contrapposero sé stessi come gli  eletti dal cielo ai loro ex compatrioti come reietti di Dio e dannati. Questa è proprio l'idea che pervade le epistole paoline. Idee simili a quelle esposte in Romani 9 fino a 11, che comunicano che gli ebrei, a dispetto delle promesse fatte ai loro padri, non avranno alcuna parte nelle benedizioni del cristianesimo, non hanno avuto alcun fondamento di sorta nel tempo intorno all'anno 59. La domanda sul perché gli ebrei furono esclusi dalla salvezza non poteva sorgere e trovare una risposta finché essi non furono effettivamente fuori dal cristianesimo. Tuttavia, nel momento in cui si suppone che l'epistola ai Romani sia stata scritta, la missione ai gentili era appena stata pienamente sviluppata, e almeno quelli tra gli ebrei che vivevano nella diaspora non avevano ancora avuto l'opportunità di apprendere il vangelo. In che modo, allora, Israele poteva essere descritto a quel tempo come “staccati dal tronco” (Romani 11:17-21)? Come si poteva parlare di una “caduta” degli ebrei, i quali stanno per essere colpiti dalla “severità di Dio”? Questo, come osserva van Manen, presuppone la caduta di Gerusalemme, “il primo fatto importante dopo la morte di Gesù in cui i cristiani potrebbero vedere una punizione” (pag. 159).

La tendenza cristiana che si opponeva più strenuamente all'ebraismo era lo gnosticismo. Le sue radici risalgono, come hanno mostrato Friedländer [12] e altri, al periodo dell'origine del cristianesimo. Ma non è fino al secondo secolo che lo incontriamo come una teoria filosofico-religiosa pienamente sviluppata o una teosofia. Ora il paolinismo ha la più stretta affinità con lo gnosticismo, come hanno dimostrato Holsten, Pfleiderer, Weizsäcker e altri. In entrambi l'idea della fede si trasforma nell'idea della conoscenza; questa conoscenza si basa sulla rivelazione divina: la salvezza dell'anima dipende dal riconoscimento di certi fatti della rivelazione. In entrambi troviamo un sistema completamente dualistico, in cui Dio e il mondo, la legge e la grazia, la morte e la vita, lo spirito e la carne, ecc. sono posti in netto contrasto e la tendenza al misticismo e all'ascetismo va di pari passo con la ricerca di un'interpretazione speculativa dei fatti dell'esperienza religiosa. Oltre alla loro idea di Dio e alla loro cristologia e dottrina della redenzione, hanno in comune un gran numero di idee, come la gnosi, la grazia, il pleroma, l'ectroma, la vita, la luce, ecc. Concordano anche, non solo nel loro facile disdegno della Storia, ma anche nella loro ostilità verso l'ebraismo e il loro deprezzamento — anzi, il rifiuto — della legge. In un caso, il legame tra lo gnosticismo e Paolo è così evidente da poter essere citato come una prova del fatto che Paolo non sapeva nulla di un Gesù storico; è il passo in 1 Corinzi 2:6, dove l'apostolo parla dei “principi di questo mondo”, che non sapevano che cosa fecero quando “crocifissero il Signore della gloria”. È stato riconosciuto parecchio tempo fa da van Manen e da altri che per questi “principi” noi dobbiamo intendere, non le autorità ebraiche o romane, né alcun altro potere terrestre di sorta, ma i “nemici di questo mondo”, le potenze superiori demoniache, le quali governano la terra per un po', ma “passeranno” prima del trionfo imminente del Dio-salvatore. [13] Questa è precisamente l'idea gnostica della morte del Redentore, ed è qui esposta da Paolo; da ciò possiamo dedurre che egli non concepì la vita di Gesù come un evento storico, ma come un dramma metafisico generale, in cui cielo e  terra lottano per il dominio.

È risaputo che gnostici eminenti come Basilide, Valentino e, in particolare, Marcione, si appellano fiduciosamente a Paolo. La simpatia di Marcione per Paolo gli ha valso il nome di “apostolo degli eretici”. Tutto questo si potrebbe spiegare nel fatto che lo gnosticismo del secondo secolo ebbe una fonte in Paolo, e si è appropriò delle sue idee nell'esposizione delle proprie dottrine. Ma è proprio altrettanto possibile che sia il paolinismo che lo gnosticismo appartengano alla stessa età, e siano solo diversi rami della stessa radice. Questo mi sembra più probabile quando riflettiamo su quanto bene il terreno debba essere stato preparato per le lettere dell'apostolo se dovessero essere capite nelle comunità. Tali difficili disquisizioni dogmatiche come quelle nella epistola ai Romani implicano un lungo periodo di evoluzione, durante cui le idee dell'apostolo devono essere state parecchio discusse nelle comunità. Suggeriscono una familiarità con il paolinismo che è difficilmente credibile, specialmente nella lontana Roma, nel momento in cui si suppone che l'epistola sia stata scritta. “Il paolinismo”, dice van Manen, “sembra essere un fenomeno generalmente familiare e molto discusso. Ha i suoi sostenitori e i suoi oppositori, le sue parole d'ordine e le sue frasi stereotipate, il suo proprio linguaggio, che non ha bisogno di spiegazioni perché si assume che i lettori lo capiscano” (pag. 141). Senza alcuna spiegazione l'apostolo usa un certo numero di espressioni che sarebbero state comprese di colpo nei circoli gnostici del secondo secolo, ma che non potevano forse essere state comprese a metà del primo secolo, alcuni decenni dopo la morte di Gesù, in lettere rivolte a comunità appena fondate.

Ma è particolarmente singolare il fatto che Paolo stesso avrebbe dovuto acquisire una conoscenza così tanto dettagliata e sistematica delle idee gnostiche subito dopo la tragedia del Golgota. Basta ricordare i punti fondamentali del sistema paolino per constatare che van Manen ha ragione nel dire che “un lungo tempo deve essere trascorso dall'apparizione dei primi discepoli prima che potesse nascere una nuova tendenza di questa natura. Abbiamo qui più di un semplice trionfo sulla ripugnanza alla croce, grazie alla quale  pii ebrei sono stati messi in grado di accettare l'ideale di un Messia sofferente, di salutare Gesù di Nazaret come il Messia promesso ai loro padri e di unirsi alla nuova fratellanza. Noi abbiamo qui una completa rottura con l'ebraismo, un sistema nuovo e sostanzialmente completo, che necessita solo di essere elaborato in dettaglio e adattato alle esigenze di una generazione successiva, una riforma profonda del sistema prevalente, sicuramente il frutto di una profonda esperienza di vita e di un lungo periodo di fervente pensiero”. Si suppone che questa riforma, secondo l'opinione prevalente, abbia avuto luogo alcuni anni dopo la morte di Gesù, che sia stata provocata da un uomo che, lui stesso un ebreo e allievo degli studiosi ebrei, è ritenuto aver vissuto interamente nell'ebraismo fino a quel momento, e che sia sorta in circostanze che avrebbero potuto ostacolarla invece che favorirla! Ciò sembra essere piuttosto incomprensibile dal punto di vista psicologico. “È semplicemente inconcepibile”, dice van Manen, “che Paolo l'ebreo, che perseguitava la comunità con convinzione, abbia provocato una rivoluzione così straordinaria nella fede di questa comunità quasi immediatamente dopo averla accettata. Non è concepibile che questo ardente zelota per il Dio di Israele, per le leggi, la morale e le usanze di Israele, debba percepire così all'improvviso, quando ha vinto la sua ripugnanza della croce, che questo Dio non era il più alto, ma deve far strada al padre, che né gli ebrei né i gentili avevano conosciuto prima della venuta di Cristo [?]; che questo Cristo non era quello promesso ai loro padri, il Messia, ma un essere soprannaturale, il figlio stesso di Dio, che per un certo periodo assunse l'aspetto di un uomo come noi; e che la legge, con tutte le sue prescrizioni e le sue promesse, poteva e doveva essere messa da parte in quanto priva di valore o di significato. Non dobbiamo dimenticare che tutto questo è nuovo nel vangelo paolino, e non ha alcun rapporto con la “fede” dei primi discepoli, che erano ancora ebrei purosangue nelle loro attese messianiche. Tentiamo di capire cosa significa per un ebreo sincero e pio, come il convertito Paolo, abbandonare il Dio dei suoi padri e inchinarsi a uno che fino ad allora era stato sconosciuto. Considera la dipendenza del pio ebreo sulla legge e sulla morale e sui costumi che essa prescrive. Immagina cosa è necessario per far accettare ad un uomo come un essere soprannaturale, come lo stesso figlio di Dio, uno che aveva poco prima considerato un impostore e che era morto in croce come un criminale alcuni anni prima, anche se ora riconosce la sua innocenza e la sua elevata natura di unto di Dio. Una credenza nella resurrezione e nella vita trasfigurata di Gesù non poteva realizzare questo, non più di quanto abbia portato i primi discepoli a divinizzare il maestro, perché si credeva che anche Enoc, Mosè ed Elia fossero stati elevati in cielo; non avevano cessato per quel motivo di avere una natura umana nella mente dei credenti. In questo possiamo chiaramente discernere l'influenza di idee di un'origine non ebraica, le idee della gnosi orientale, che a loro volta erano entrate in contatto con la filosofia greca e le nozioni pagane della divinità. Non abbiamo qui nessun caso di ordinaria “deificazione”, per la quale una pia immaginazione potrebbe fornire il materiale. Se il cristianesimo non fosse entrato in contatto con la gnosi attraverso ‘Paolo’, se fosse rimasto permanentemente sotto la guida dello spirito ebraico, il monoteismo di Israele l'avrebbe ammonito contro la deificazione del suo ‘fondatore’, proprio come ai tempi dei loro padri Mosè, il fondatore della religione di Israele, fu risparmiato dalla deificazione”. [14]

Quali sforzi hanno compiuto i critici storici per rendere più o meno comprensibile l'improvvisa conversione di Paolo dopo la visione di Damasco! Ma né le risorse della dialettica hegeliana, usate da Baur e, in un certo senso, da Pfleiderer, né quelle della psicologia moderna, impiegate da Jülicher, da Weiss e da altri, hanno permesso alla teoria prevalente di dare persino plausibilità alla loro idea dell'origine della cristologia paolina, e di colmare di considerazioni psicologiche e storiche la lacuna, la cui realtà J. Weiss non nega, [15] tra la dottrina di Paolo e quella dei cosiddetti discepoli di Gesù. Che la luce che Paolo vide, e le parole che udì, lo portassero a condannare tutto il suo precedente pensiero, esistenza, fede e speranza, e lo convertissero in una “nuova creatura”, è difficilmente credibile. Un evento del genere sarebbe così “unico” nella storia mondiale che ogni uomo che lo ammette non ha bisogno di negare altri “miracoli” nel Nuovo Testamento, o di considerare incredibile ognuna delle sue affermazioni. È stato recentemente suggerito che lo stesso Gesù storico possa essere stato coinvolto nella conversione; sentiamo a proposito della “forte impressione” che Gesù deve aver fatto su Paolo, e Kölbing [16] e J. Weiss parlano di “un'azione spirituale della persona di Gesù” — alcuni addirittura suggeriscono un incontro da qualche parte tra i due. Tale teoria non trova alcun sostegno in Atti o nelle epistole paoline; anzi, come ho detto prima, renderebbe l'apostolo non veritiero, siccome egli dice ripetutamente ed enfaticamente che ha ricevuto il suo vangelo solo tramite una rivelazione interiore (Galati 1). Anche i teologi vedono nel “miracolo di Damasco” un'altra prova della “grandezza e del significato insuperabili” del loro Gesù, e cercano di cogliere l'“impressione ineffabile” che Paolo deve aver avuto di Gesù, pur di trovare in questa maniera qualche  giustificazione del loro culto di Gesù. L'evento, tuttavia, non è reso più plausibile in questo modo, perché la difficoltà consiste precisamente in come fosse possibile per una mente monoteista, per un ebreo zelante, divinizzare un uomo che era morto non molto tempo prima, non un personaggio di antichità remota tale come Mosè, Elia o Enoc. E la difficoltà non viene rimossa supponendo che l'apostolo avesse incontrato in un luogo o in un altro il Gesù crocifisso. Paolo non aveva mai conosciuto Gesù personalmente. Il cristianesimo che fu collegato a Paolo nel suo sviluppo successivo non può essere ricondotto ad un'azione personale di Gesù sull'apostolo. Ciò è dimostrato inequivocabilmente dai documenti, dagli Atti degli Apostoli e dalle epistole. Ogni uomo che nega questo sta leggendo nei documenti qualcosa che non contengono; anzi, essi dicono il contrario. Chiunque in loro legga questo sta semplicemente introducendo nei documenti una concezione di Gesù che ha ottenuto altrove, interpretandoli in un senso che non giustificano, e non può lamentarsi se i suoi avversari considerano una ridicola allucinazione e presunzione la sua pretesa di essere “logico” e “privo di pregiudizi”.

(c) La Falsità delle Epistole Paoline. — Se Paolo si riferisce nelle sue epistole ad un Gesù storico, quelle epistole, che recano il suo nome, forse non possono essere state scritte dall'apostolo che fu mutato da Saulo a Paolo dalla visione di Damasco. Perché è inconcepibile che un individuo storico, subito dopo la sua morte, debba essere elevato dall'apostolo alla dignità di un secondo Dio, di un cooperatore nella creazione e nella redenzione del mondo. Se le epistole furono scritte veramente da Paolo, il Gesù Cristo che è una figura centrale in loro non può essere una personalità storica. Il modo in cui il presunto ebreo Paolo parla di lui è contrario ad ogni esperienza psicologica e storica. O le epistole paoline sono autentiche, e in tal caso Gesù non è una personalità storica; oppure egli è una personalità storica, e in tal caso le epistole paoline non sono autentiche, ma scritte in un periodo molto posteriore. Questo periodo successivo non avrebbe avuto difficoltà ad elevare alla sfera della deità un uomo dei tempi passati che gli era conosciuto solo per una vaga tradizione. E se le epistole non provengono da Paolo, appartengono ad una cerchia totalmente diversa da quella degli ebrei convertiti, e sono piuttosto, come dice Steck, l'opera di un'intera scuola di gnostici anti-nomianisti del primo quarto del secondo secolo, che mirava a distaccare il cristianesimo dal suo ceppo materno ebraico, e a farne una religione indipendente; in quel caso i loro riferimenti a Gesù non hanno valore storico, e non possono essere citati come prova del Gesù storico.

Non si obietti il fatto che le epistole paoline recano inconfondibilmente il marchio della paternità ebraica, e che nel loro schema rabbinico di pensiero e di argomentazione puntano al Paolo degli Atti. Infatti, a parte il fatto che questo non permetterebbe di dimostrare che Paolo ne fosse l'autore, dal momento che l'autore gnostico del secondo secolo potrebbe essere un rabbino farisaico convertito in un apostolo tramite qualche “eccezionale esperienza”, la natura ebraica dell'autore delle epistole e la sua relazione con il rabbinismo non sono affatto così certe come suggeriscono i credenti in Paolo; anzi, anche qui sembra che la maggior parte di loro non sappia nulla del modo di ragionare rabbinico e del metodo di argomentazione, se non dalle epistole stesse. Gli studiosi ebrei, che possono apprezzare il punto, non riconoscono affatto del loro stesso spirito il contenuto delle epistole; negano con forza che il loro autore possa essere stato un allievo dei rabbini. C'è un serio motivo di riflessione nel fatto che, come ha sottolineato Kautzsch nel 1869 e come ha confermato Steck (pagina 212), lo scrittore delle epistole non cita il testo ebraico delle Scritture, ma la traduzione greca della Septuaginta, con tutti i suoi errori, e che per  questo fa dichiarazioni che uno sguardo al testo ebraico gli avrebbe mostrato all'istante come sbagliate. [17] Ciò sarebbe incomprensibile da parte di un ebreo rigoroso e allievo dei rabbini, perché la traduzione dell'Antico Testamento in una lingua straniera era considerata dagli ebrei rigorosi della Palestina un peccato contro la legge, una profanazione della parola sacra.

Paolo conosceva veramente l'ebraico? La domanda sembra essere assurda se l'autore delle epistole fosse davvero l'allievo di Gamaliele e fosse stato un fanatico della legge mosaica. Eppure le epistole non danno traccia di una familiarità con l'ebraico. Nonostante l'assicurazione dello scrittore di essere nato ebreo, egli sembra essere greco in tutto. Pensa come un greco, parla come un greco, usa libri greci; e qualunque cosa ci sia in lui che possa essere spiegata — ci viene detto — soltanto dall'ebraismo è molto più vicino, come dice van Manen, all'ebraismo alessandrino o ellenistico di Filone e della Sapienza, da lui spesso impiegato, che alle idee dell'Antico Testamento, e in nessun modo necessita di essere stato attinto dalla Bibbia ebraica.

Inoltre, questo presunto allievo dei rabbini interpreta la legge in un modo che, come ci viene confermato da esperti ebrei, è tutt'altro che rabbinico. Mentre i rabbini lasciano intatto il significato letterale della scrittura anche nelle loro interpretazioni allegoriche, l'apostolo è estremamente arbitrario sotto questo aspetto; trasforma il significato delle parole dentro e fuori, e cambia un significato chiaro nell'esatto opposto, come mostra Eschelbacher (tra gli altri) nel caso di Galati 4:21 (pag. 546). L'autore delle epistole paoline non possiede né un'accurata conoscenza del testo delle scritture né un interesse, o comprensione, del suo contenuto. Egli stravolge il semplice corso del testo per i suoi scopi del momento, e offende gravemente sia la lettera che lo spirito dei brani in un modo che nessun uomo che fosse passato per le scuole si sarebbe mai arrischiato a fare. “Le interpretazioni delle scritture nelle epistole paoline”, dice Eschelbacher, “non possono, né nella sostanza né nella forma, essere messe in relazione alcuna né con quelle degli esperti palestinesi, né con quelle dei filosofi religiosi giudeo-ellenistici, o con quelle del loro tempo o del periodo successivo. Non c'è nulla di analogo a loro in tutta la letteratura ebraica. Questo si trova solo negli scritti cristiani del secondo secolo, come l'epistola agli Ebrei, l'epistola di Barnaba, gli scritti di Giustino, ecc.” (pag. 550). “Non c'è alcuna allusione di sorta di una conoscenza approfondita delle scritture, o di una familiarità scolastica di ciò che era insegnato nelle scuole ebraiche in Palestina o altrove, nelle epistole paoline” (pag. 668).

Quando esaminiamo tutto ciò che è stato avanzato, specialmente dagli olandesi, contro l'autenticità delle epistole paoline, in particolare la contraddizione tra il testo di Atti e le epistole, [18] non possiamo resistere all'impressione che l'ostinazione con cui la teologia storica si aggrappa alla paternità paolina, e dichiara che ogni attacco contro di essa sia “fuori discussione”, è in realtà dovuta ad un pregiudizio molto comprensibile piuttosto che ai meriti del caso. Agli occhi di questi teologi Paolo è il più grande testimone della storicità di Gesù su cui la loro “scienza” possa contare, quindi nulla può essere “scientifico” che tenda a screditare la testimonianza del loro testimone. Noi che siamo convinti che, perfino se le epistole paoline fossero autentiche, non proverebbero l'esistenza di un Gesù storico, e che probabilmente si riferiscono del tutto a un altro Gesù, siamo solo moderatamente interessati al problema di chi fosse l'autore delle epistole. Non importa a noi se ci fu un unico autore oppure se, come hanno cercato di dimostrare gli olandesi, parecchi cooperarono per fabbricarle; se sono originali, oppure sono semplicemente elaborazioni di lettere più antiche; se in sostanza risalgono ad un apostolo Paolo che predicò il vangelo ai gentili verso la metà del primo secolo, fondò comunità, e fu in una certa misura in opposizione agli “apostoli originali” a Gerusalemme, oppure se siano del tutto prodotti del primo quarto del secondo secolo, e la figura dell'apostolo sia un pezzo di finzione.

È possibile che, come credono Steck e van Manen, esistette davvero un Paolo, un uomo che, sebbene possa aver assunto una posizione alquanto eccezionale nei confronti degli altri apostoli, a malapena può essere stato così decisamente contrario a loro come lo rappresentano le lettere, e i cui aspetti abbiamo descritto, in maniera alquanto didattica, in Atti. Questo Paolo, tuttavia, era in quel caso “un ebreo per nascita, che in qualche misura aveva voltato le spalle all'ebraismo. Predica la circoncisione — vale a dire, la fedeltà ai riti e ai costumi dell'ebraismo, la fedeltà alla legge nonostante la sua accettazione della fede e delle attese dei discepoli di Gesù”. [19] Non c'era così alcun legame diretto tra lui e l'autore delle lettere che recano il suo nome; esse mostrano uno spirito completamente diverso. Ma c'era un legame indiretto nel fatto che il paolinismo, come tentativo di staccare il cristianesimo dall'ebraismo, facendo di esso una religione mondiale e, al tempo stesso, spiritualizzando e approfondendo i suoi contenuti, potrebbe aver avuto un ricordo riconoscente dell'uomo che per primo diede ampia notorietà alle idee della nuova religione. Ma è ugualmente possibile che il nome di Paolo sia solo un titolo generale per un certo numero di scrittori di lettere, i quali inventarono il personaggio per conferire un'aura di autorità ad un sistema religioso che andava oltre il cristianesimo originario. Non sarebbe stato possibile attribuire un sistema così peculiare e nuovo come il paolinismo ad un discepolo immediato del “Signore”, alla cui presunta personalità storica si appellarono gli altri seguaci della nuova religione. Ma qualche sorta di legame con il Gesù “storico” era necessario pur di rimpiazzare il  cristianesimo più antico con le sue propensioni ebraiche, e di basare l'ostilità all'ebraismo su una “rivelazione” che proveniva dallo stesso Gesù. Nacque così il personaggio del Paolo un tempo pio ebreo, che infuria contro i cristiani, ed è poi convertito da una visione, e, da zelota contro la legge, fonda un cristianesimo puramente spirituale, col suo stesso esempio rendendo più facile agli ebrei l'abbandono della legge.

Comunque possa essere stato, le epistole paoline, non dobbiamo ripeterlo, non danno alcun supporto di sorta al credo in un Gesù storico. Anche questo, come abbiamo detto, mette fine all'interesse religioso nella storicità di Paolo, e storici e filologi profani possono essere lasciati in pace per ricostruire, a partire da Atti e dalle cosiddette epistole di Paolo, un quadro della sequenza reale degli eventi che accompagnarono l'ascesa del cristianesimo.

NOTE

[1] Quaestiones Pauline.

[2] Galaterbrief, pag. 287.

[3] Eusebio, Storia Ecclesiastica, 3:40.

[4] Kultur der Gegenw., I, pag. 159.

[5] Römerbrief, pag. 185.

[6] Confronta Steck, pag. 363.

[7] Oltre a van Manen (pag. 14), William B. Smith ha mostrato, in un articolo del Journal of Biblical Literature (1910), che anche Harnack apprezza, che Romani 1:7 recitava in origine: “A voi tutti che siete amati da Dio” invece che “A voi tutti che siete in Roma, amati da Dio, chiamati santi”, cosicché l'epistola di Paolo non era rivolta ai Romani, ma era un messaggio teologico a tutti i cristiani in generale: un'opinione che Zahn ha adottato nella terza edizione del suo Einleitung in den Römerbrief. (Si veda Harnack in Preuschen's Zeitschr., 1902, pag. 83).

[8] Steck, opera citata, pag. 72.

[9] Otto Schmiedel, Die Hauptprobleme der Leben-Jesu-Forschung, pag. 14.

[10] Paulus, sein Leben und sein Wirken, I, pag. 11, 1904.

[11] Steck, pag. 380.

[12] Der vorchristliche Gnosticismus, 1898.

[13] Römerbrief, pag. 124.

[14] Opera citata, pag. 136. Quanto all'impossibilità del Gesù storico di essere deificato da Paolo e alla grande differenza tra questo tipo di deificazione e la deificazione di altre importanti personalità, come per esempio l'Imperatore, ecc., si veda Lublinski, Das werdende Dogma, pag. 49.

[15] Paulus und Jesus, pag. 3 e 72.

[16] Die geistige Einwirkung der Person Jesu auf Paulus, 1906.

[17] Per dettagli ulteriori si veda Eschelbacher, “Zur Geschichte und Charakteristik der Paulinischen Briefe,” nel Monatsschrift für Geschichte u. Wissenschaft d. Judentums, 51 Jahrg., Neue Folge, 15 Jahrg., 1907, pag. 411 e 542.

[18] Schlager, Der Paulus der Apg. und der Paulus der Briefe, nel periodico Die Tat, 2 Jahrg., 1910, Heft 8.

[19] Van Manen, Römerbrief, pag. 206.