giovedì 21 febbraio 2019

Il Cristo è esistito?Conclusione (IX)

(Questo è l'epilogo della traduzione italiana di un libro del miticista E. Moutier-Rousset, «Le Christ a-t-il existé?». Per leggere il testo precedente, segui questo link)


Indice dei Contenuti

Cap. I. — Credulità generale
Cap. II. I documenti

Cap. III. Gli autori profani
Flavio Giuseppe
Filone
Giusto di Tiberiade
Plutarco
Tacito
Svetonio
Seneca
Plinio il Giovane
Giovenale, Persio, Marziale

Cap. IV. — Gli scrittori sacri
San Paolo
Gli Atti degli Apostoli
Le epistole apocrife:
San Paolo
San Pietro
San Giovanni
San Giacomo
Apocrifi
Le Sibille

Cap. V. — I vangeli
Gli evangelisti:
Marco
Matteo
Luca
Giovanni


Cap. VII. — La moneta nei vangeli


Cap. IX. — Conclusione

CAPITOLO IX

CONCLUSIONE

In sintesi, da tutte queste ricerche risulta con la massima evidenza:
1° — Che nessuno dei cronisti profani ebrei, greci o latini del primo secolo parla di Gesù e che fanno menzione a malapena dei cristiani in due o tre passi eccessivamente vaghi, dal significato dubbio e di cui si potrebbe a buon diritto sospettare l'autenticità, anche quando l'interpolazione non è affatto indiscutibilmente dimostrata;
2° — Che gli autori sacri, il cui nome e financo la patria sono rimasti segreti, se si dilungano parecchio sugli insegnamenti che attribuiscono al Messia, lasciano interamente da parte la persona di Gesù, ad eccezione degli evangelisti, tutti altrettanto sconosciuti e che a loro volta, non danno su di lui che dei dettagli vaghi e discutibili che sono di poca importanza e ci mostrano solo un'immagine nebulosa; che sono, in effetti, pressappoco silenti sulla biografia propriamente detta del Salvatore; sappiamo, inoltre, che si sono copiati gli uni dagli altri, fatto che rimuove ogni valore alle leggende dei tre meno vecchi; che gli stessi fatti raccontati da Marco, il primo in ordine di tempo, presentano solo una minuscola probabilità, diminuita ulteriormente dalle contraddizioni dei suoi successori;
3. — Che l'assenza completa di date in tutto il Nuovo Testamento, sia che provenga da una decisione deliberata oppure dall'irrealtà degli eventi, aumenta ulteriormente l'oscurità dei racconti ed aggiunge alla loro inverosimiglianza;
4°. — Che i personaggi nominati dagli scrittori canonici sono completamente ignorati oppure se, per caso, i nomi di rari attori storici si riscontrano sotto la loro penna, i redattori della Buona Novella dimostrano chiaramente di averli sentiti pronunciare solo in una maniera molto indistinta; incessantemente, confondono i titoli di questi personaggi e offuscano le epoche in cui li collocano;
5°. — Che l'imprecisione assoluta dei luoghi dove si suppongono che siano avvenute le avventure più straordinarie della carriera di Gesù, come ci sono raccontate dagli evangelisti, che l'assenza di qualsiasi colore locale nella totalità dei dettagli dell'ambientazione della scena, provano sovranamente che questi scrittori non hanno mai potuto accompagnare il Salvatore, tantomeno percorrere, più tardi, la regione  dove realizzò la sua missione, ma ancora che hanno potuto documentarsi solo da chi era così poco a conoscenza della Palestina; la Chiesa stessa non osa sostenere troppo che tutti gli evangelisti hanno seguito il Cristo.

Questa è la ragione per cui è ben difficile vedere in queste leggende nebulose qualcos'altro rispetto alla personificazione delle speranze messianiche degli ebrei di quel tempo, mescolate alla memoria favolosamente alterata della predicazione rivoluzionaria di alcuni agitatori della Palestina, come il Battista, per esempio, oppure Teuda e Giuda il Gaulonita (Atti 5:37). Vedremo, in seguito, molti passi dei vangeli che sono inspiegabili nell'ipotesi della realtà del Redentore.

Se è impossibile negare in una maniera certa che Gesù sia esistito, poiché non si può trovare una negazione, in ogni caso, si è almeno autorizzati ad affermare con forza che egli non ha lasciato alcuna traccia certa della sua esistenza e che, se ha vissuto, è passato completamente inosservato e ignorato, persino in Giudea (Atti 25:19).
“Io vedo, nella vita di Gesù, solo un fatto che sia assolutamente indiscutibile, che fu messo sulla croce per ordine di Ponzio Pilato; ma, ad eccezione di questo fatto unico, io non credo che si sia prodotta, a proposito di Gesù, una sola affermazione che non sia soggetta a dei dubbi serissimi” (Havet, le Christian. et ses Origin. IV, pag. 14).
Contrariamente a quanto avanza lo storico erudito delle Origini del Cristianesimo, siamo convinti che questo fatto unico non sia affatto ben assicurato di per sé. Oltre agli evangelisti, così poco degni di credito e così distanti da eventi e da luoghi, non troviamo altro che una parola di Paolo che menziona il supplizio del Redentore: “Noi predichiamo il Cristo crocifisso” (1° Corinzi 1:23), ma l'apostolo è qui solo un riflesso della leggenda nazarena che egli si è  sempre evitato di verificare; non conosce né Caifa né Pilato: ne sa ancor meno di Tacito sul Cristo. Abbiamo visto in precedenza quanto il  passo dello storico romano sul Salvatore sollevi dei sospetti. D'altra parte, il racconto della comparsa di Gesù davanti al Sinedrio, poi il secondo giudizio davanti a Pilato, come ce li presentano gli evangelisti, il resoconto dell'esecuzione, il ruolo del sommo sacerdote e quello del procuratore, contengono troppe peculiarità inammissibili perché si possa attribuire loro il minimo valore storico e gli autori della Buona Novella sono troppo poco d'accordo tra di loro “perché non siano soggetti a dei dubbi serissimi”, perfino nei dettagli che non offrono nulla di soprannaturale. Non percepiamo, in realtà, alcuna traccia indiscutibile dell'esistenza di Gesù, nemmeno negli scrittori sacri: gli evangelisti sono i soli a parlarne come di un essere che è vissuto, ma tutte le gesta che gli prestano sono miracolose. Il resto del Nuovo Testamento, dal suo canto, rimuove dall'azione del Messia, tutto ciò che contiene di umano, per quanto sia meraviglioso e inaccettabile, per occuparsi solo del Cristo risorto e del regno di Dio che ha promesso a coloro che credono alla sua parola. Se ci si astrae dal cosiddetto Marco, dalla realtà così incerta e di cui gli altri evangelisti sono solo l'eco alterata; se rifiutiamo di prestare fede alla sua testimonianza così incredibile, non ci resterà dunque di più o meno autentico che una confusa menzione del nome di Cristo, in Tacito e, supponendo che quella non sia stata affatto interpolata, ipotesi che non manca per nulla di verosimiglianza, noi non sappiamo da quale fonte l'annalista ha potuto basare questa informazione. Si ammetterà che ci sono delle ben magre prove per asserire una convinzione e che le ragioni per dubitare sono di gran lunga più solide.

Ci resta da indagare come il nome di un personaggio così elusivo, così inconsistente, abbia potuto divenire il perno di una religione distinta, vale a dire, resta da studiare al meglio, l'ambiente nel quale si è propagata la nuova credenza e da rimarcare quanto fosse favorevole alla sua schiusa e al suo sviluppo; cercare di rendere conto delle idee, delle superstizioni, della situazione, delle aspirazioni delle masse popolari dove il cristianesimo si è per prima diffuso, dell'anarchia morale e materiale del governo dei Cesari, riconoscere che le massime disperate del vangelo sono solo il riflesso di sofferenze intollerabili; infine, esaminare l'azione e le opere degli scrittori dell'Antico Testamento. Tutto questo studio porterà a rafforzare la convinzione già ben assicurata dal silenzio della Storia, che la leggenda di Cristo è una favola inaccettabile.

Il Cristo è esistito?Il racconto della Passione (VIII)

La moneta nei vangeli

CAPITOLO VIII

IL RACCONTO DELLA PASSIONE

L'eccessiva credulità degli evangelisti dimostra che non si può accordare il minimo credito alla loro testimonianza; prendono per leggende inaudite i racconti di bambini che ci riportano e non hanno mai avuto per un solo momento, il minimo dubbio, o il pensiero di controllare i fatti. Ai loro occhi, i prodigi sono tanto più convincenti quanto più sono meravigliosi e incredibili, e li ingrandiscono senza ragione apparente e spesso in contraddizione. Le ingenuità, le puerilità, le incoerenze, le ripetizioni puerili brulicano nella loro opera. Ma proprio ciò che, nella loro mente, è una prova convincente della veracità del loro libro, è per la nostra intelligenza moderna, la dimostrazione palpabile, inconfutabile, che il testo sacro è stato composto da degli uomini di stoltezza senza pari, persino ammettendo che non siano affatto stati dei ciarlatani senza vergogna.
Quindi questa ingenuità o questa frode ci mette in guardia contro gli scrittori sacri, anche quando ci raccontano degli avvenimenti che non sono affatto fisicamente impossibili: anche supponendo che non abbiano inventato nulla da zero (e le genealogie di Cristo sono già una prova del contrario), e che si siano fatti solamente l'eco di favole popolari senza fondamento, questa ipotesi indulgente è una minima garanzia di accuratezza e di imparzialità, anche quando le avventure che riferiscono non hanno nulla di essenzialmente inverosimile o assurdo.
A maggior ragione, come non dubitare affatto di leggende come quella della Passione, la sola tuttavia dei vangeli che abbia qualche apparenza storica, in cui i dettagli sono di una stravaganza così evidente, anche se la loro impossibilità assoluta non è affatto dimostrata? Secondo Marco, seguito in questo da Matteo (26:67-68) quando Gesù, venduto da Giuda, compare davanti al Sinedrio, [1] supremo tribunale dei più alti dignitari del clero e della nazione (i Capi dei Sacerdoti, i Dottori della legge o Scribi, gli Anziani o Senatori), e presieduto dal Sommo Sacerdote, “Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: Indovina. I servi intanto lo percuotevano” (Marco 14:65). “Non è affatto molto probabile", ha detto l'eminente esegeta Alfred Loisy, con un sacco di moderazione (Evang. Synopt. II, pag. 613), “che una parte del Sinedrio si fosse precipitato su Gesù per coprirlo di sputi e sommergerlo di percosse; l'improbabilità è al suo culmine nel primo vangelo, dove Caifa e tutto il Sinedrio fanno ciò che Marco ha detto solamente di alcuni”. Anche se Marco, tramite la parola “alcuni”, ha voluto designare solo una parte piccola di presenti (ammettendo che le sedute del Sinedrio fossero state pubbliche), è quasi difficile da credere che Gesù sia stato così scandalosamente oltraggiato, in presenza del Sommo Sacerdote, così venerato dagli ebrei e che quest'ultimo abbia lasciato impunemente trasformare il pretorio in sala da boxe senza intervenire. Questo ci rappresenta una strana Corte d'Assise.
Luca è meno sinistro (Luca 22:63-64-65); nel suo racconto, il Salvatore non è affatto brutalizzato sotto gli occhi del Sommo Sacerdote; il terzo evangelista si accontenta di lasciarlo maltrattare dalle guardie che lo arrestano e lo custodiscono; questo pestaggio è qui di gran lunga meno inammissibile. Giovanni passa egualmente sotto silenzio queste scene tanto orribili quanto incredibili e dice solamente che uno dei gendarmi ha sferrato un colpo a Gesù, mentre, nel cortile della casa di Anna, egli risponde troppo fieramente all'ex-Sommo Sacerdote; costui, inoltre, non fa alcun rimprovero allo spregevole soldato. Ma se Giovanni si mantiene qui pressappoco nei limiti della verosimiglianza, si rifà largamente nella scena della comparsa davanti a Pilato, dove supera per incoerenza e per ridicolo il più maldestro dei suoi colleghi. Infatti, mentre Marco (15:2) e Matteo (27:12) riducono l'interrogatorio più che la conclusione del procuratore alla sola domanda: “Sei tu il re dei Giudei?” alla quale Gesù risponde: “Tu lo dici”, e che Luca (23:9), di gran lunga meno preciso, si limita a riassumerla in una frase: “(Pilato) li rivolse molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla”, il quarto evangelista (18:33-38) fa al contrario conversare il Signore, diluisce il verso conciso dei suoi predecessori e ne fa derivare un dialogo intero abbastanza inappropriato per le circostanze. Ci ritorneremo tra un attimo.
Come credere anche che i Capi dei Sacerdoti (Marco 15:1 — Matteo 27:2 — Luca 23:1), gli Anziani e gli Scribi, tutti personaggi di valore, svolgono la funzione di valletti del boia e legano loro stessi Gesù per condurlo davanti a Pilato? Senza dubbio, si può obiettare che gli evangelisti hanno voluto dire che i membri del Sinedrio hanno solamente ordinato di legare strettamente il Cristo e di portarlo dal procuratore: la loro responsabilità, moralmente identica, diventa così materialmente meno ridicola. Tuttavia, la parte attiva che essi assumono in tutto il dramma, la precisione del testo, non più che l'espressione della frase greca difficilmente permettono questa attenuazione del significato del passo. In Giovanni, il primo interrogatorio, per così dire, del Redentore, si svolge con Anna soltanto, e nel cortile della sua casa; Caifa non gioca alcun ruolo, non più degli altri membri del Sinedrio e non è affatto chiaro perché l'imputato sia in seguito condotto da lui (Giovanni 18:24). Giovanni sopprime parimenti il giudizio del tribunale ebraico.
Pilato, padrone onnipossente in Giudea, è più straordinario dei procuratori; interroga Gesù che non risponde nulla, se non di essere il re dei Giudei (Marco 15:2 — Matteo 27:12); malgrado queste parole sediziose e di una gravità capitale, il magistrato imperiale afferma che l'imputato è innocente, ma invece di farlo rimettere di conseguenza in libertà, come ha il diritto e il dovere, tanto quanto il potere, questo giudice poco razionale lo fa frustare, senza dire perché (Marco 15:14-15 — Matteo 27:26 — Giovanni 18:38 e 19:1): è inimmaginabile. Luca si appoggia ancora più pesantemente a queste sciocchezze: “Pilato disse: Non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate (nessuno degli evangelisti, tranne Luca (23:2) specifica questi crimini), e neanche Erode, infatti ce l'ha rimandato. Perciò, dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò” (Castigato per quale errore?). — (Luca 23:14-15-16) — E più oltre (Luca 23:22), aggiunge: “Ed egli, per la terza volta, disse loro: Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò”.
È un ammirevole giudizio e ben motivato!
Tuttavia, il procuratore non insiste affatto per far rispettare il suo arresto dagli ebrei, e, benché abbia assolto l'accusato, “lo abbandonò alla loro volontà” (Luca 23:25).
Ma il più grottesco dei racconti della Passione è ancora quello di Giovanni. [2] Siccome gli ebrei, presi da scrupoli religiosi, non vogliono affatto entrare nel pretorio (27:28), il procuratore, despota tanto accomodante quanto assoluto, spinge la condiscendenza fino a sospendere la seduta, a lasciare il suo tribunale, a venire a ricevere per la strada le deposizioni dei querelanti e a domandare loro di quale crimine accusano [3] Gesù (Giovanni 18:29). Gli ebrei (quali ebrei? questi non possono essere tutta l'intera popolazione della città, ma solamente alcuni fanatici con i quali è grottesco veder Pilato abbassarsi a discutere), gli rispondono con un adorabile candore che “se Cristo non fosse un malfattore (18:30), non lo avrebbero dato nelle sue mani”. Il divertente magistrato, i cui studi di Diritto sembrano essere stati così tanto trascurati, pensa che questa logica sia inconfutabile e che gli ebrei abbiano dimostrato con questa risposta un'imparzialità indiscutibile e una conoscenza della legge che oltrepassa la sua conoscenza. Così trova opportuno rinunciare senza indugio a tale complicato affare e proporre agli accusatori di giudicare loro stessi l'accusato secondo questi equi principi (18:31). Non si comprende per nulla affatto, dopo ciò, perché costoro, presi dagli scrupoli, dovrebbero rifiutarsi.
Allora Pilato, senza insistere presso di loro, perché non voleva contrariare nessuno, rientra nel suo palazzo, fa comparire Gesù e si decide infine a interrogarlo: avrebbe potuto cominciare da là! E che interrogatorio! è un modello di incoerenza. Gesù interroga egualmente il procuratore, che non si offende affatto e ciascuno dei due interlocutori sembra, nelle sue risposte, non aver affatto inteso ciò che ha domandato l'altro. Solo, una frase di Gesù colpisce Pilato che si interroga sul significato: “Che cos'è la verità?” (18:38). Ma, persuaso senza dubbio in anticipo che il povero contadino galileo che ha davanti agli occhi sia incapace di risolvere questo problema astruso di alta filosofia, se ne va senza attendere una spiegazione, e questo è un peccato, perché, come risultato di questa deplorevole indifferenza, abbiamo perso un'occasione unica per conoscere una definizione indiscutibile di questo termine. Dopo aver interrotto la sua inchiesta, e come se fosse la cosa più naturale del mondo, ridiscende nella strada per discutere di nuovo con la canaglia ebraica e dichiararle “che egli non trova alcuna colpa nell'accusato” (Giovanni 18:38). Sicuramente, non è affatto un tale interrogatorio che potrebbe chiarirlo molto. Beninteso, dopo aver dichiarato innocente il Salvatore, fatto che ripete altre due volte (19:4 e 6), l'ineffabile giudice non trova niente di più equo che decidere di farlo frustare e di lasciarlo martirizzare dai soldati di guardia al palazzo di giustizia (19:1-2-3).
Il procuratore che, decisamente, gradisce a malapena il suo posto, tenta allora una terza volta (Giovanni ha dimenticato di dire che era rientrato, ma il lettore intelligente supplirà da se stesso a questa lacuna); egli intravede Gesù in mezzo ai soldati che hanno messo in scena un'infame mascherata a spese del Redentore, l'hanno coronato di spine, ricoperto per scherno da un mantello scarlatto e schiaffeggiato; senza apparire minimamente indignato o solamente stupito di questa abominevole commedia, senza apparire scioccato da questa mancanza di disciplina, senza irritarsi per il fatto che i suoi subordinati calpestano apertamente sotto i piedi i sentimenti di pietà e di giustizia che egli ha mostrato pubblicamente a riguardo del triste giocattolo del fanatismo popolare, egli conduce con lui nella strada, fatto che era quantomeno inutile, la vittima di questa parodia crudelmente grottesca e lo presenta ai capi dei sacerdoti, dicendo semplicemente: “Ecco l'uomo” (Ecce homo). — (Giovanni 19:5). [4] I capi dei sacerdoti gli gridano di crocifiggere Gesù: [5] “Crocifiggetelo voi stessi, perché io non trovo in lui alcuna colpa”, risponde Pilato con disinvoltura, come se, prima di ogni esecuzione, una sentenza di comanda a morte non fosse affatto indispensabile e come se la sua opinione, la decisione di lui stesso, il giudice senza appello, non avesse alcun valore. Poi, senza stancarsi, ritorna nel suo tribunale a mettere in discussione di nuovo  la deplorevole caricatura che ha sotto gli occhi, riconoscendo senza dubbio a pensarci bene, che il primo interrogatorio lascia molto a desiderare. Il secondo è ridicolo, poiché il procuratore ha appena abbandonato Cristo alla furia dei sacerdoti. Uscendo infine una quarta volta dal pretorio, egli conduce ancora Gesù con sé, sempre nella sua tenuta da pagliaccio che doveva cozzare stranamente con la maestà e l'aspetto severo di una corte imperiale, ma, questa volta, per consegnarlo definitivamente ai capi dei sacerdoti, affinché essi lo crocifiggano (19:13, 16). “Allora (i capi dei sacerdoti) presero Gesù e lo condussero [6] verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero” (Giovanni 19:16-18) “e con lui altri due, uno da una parte e uno dall'altra, e Gesù nel mezzo. Questa volta, noi non ci lamenteremo affatto della mancanza di precisione.
Si noti che in Giovanni, i capi dei sacerdoti hanno dimenticato di levare dal Salvatore i suoi orpelli e di fargli indossare un costume più adatto prima di torturarlo; non lo hanno nemmeno liberato dalla sua corona di spine. Matteo (27:31) e Marco (15:20) hanno pensato a questo dettaglio, tranne in ciò che concerne la corona. Questo tribunale  e le scene che seguono sono degne di un opera buffa.
Il giudice e gli accusatori sembrano sfuggiti da un manicomio di alienati; il Cristo è perso nel suo sogno e sembra estraneo a ciò che sta accadendo intorno a lui: a parte l'interrogatorio in cui Pilato gli strappa a malapena qualche parola, non dice mai una sola parola in sua difesa, non protesta la sua innocenza. È vero che quelli che lo hanno condotto davanti al tribunale non lo accusano di nulla del tutto.
Ma certo, giudice e parti in causa, si dovrebbero legare tutti assieme.
Gesù non profitta nemmeno, come fa Paolo davanti a Festo e ad Agrippa (Atti 26:1-23) di questa occasione critica quando un uomo ha il diritto di dire tutto, per esporre le sue dottrine davanti ad un pubblico d'elitè, o per raccontare una di quelle parabole di cui è stato così prodigo prima.
Che dire ancora dei soldati romani del procuratore che, anche se il loro capo Pilato si è mostrato apertamente favorevole all'accusato e cerca ostentatamente di salvarlo (19:12), si trasformano sotto i suoi occhi in carnefici, senza che egli intervenga, e aggiungono odiosi abusi agli insulti della popolazione, benché nessuna condanna sia stata pronunciata contro la loro vittima? (Matteo 27:27-30 — Marco 15:16-10 — Giovanni 19:2, 3). Luca ha il buon gusto di sopprimere queste assurdità. Si può immaginare che dei romani, così rigidi osservatori della legge e così formalistici, che dei legionari abituati ad una disciplina spietata si siano abbandonati a questa farsa disgustosa? Cosa diremmo di un autore che ci racconterebbe di aver visto, in Francia, i gendarmi che assistono alle esecuzioni e mantengono l'ordine tra la folla, sostituirsi a Monsieur de Paris e prendersi gioco del condannato, dell'imputato, per essere più precisi? Tuttavia, non sarebbe affatto più incredibile. In Marco (15:31-32), in Matteo (27:41-42-43), in Luca (23:35), i magistrati stessi arrivano a deridere il torturato che agonizza sulla croce e lo insultano! È assolutamente folle!
Ciò che ben dimostra tutta l'artificialità di questa messa in scena e tutto lo sforzo della composizione è che in qualsiasi istante ritorna come un leitmotiv, [7] il cliché: “affinché le profezie fossero adempiute” (Marco 14:49; 15:28 — Matteo 27:9,35 — Giovanni 18:32, 19:24, 28). — “La condanna di Gesù da parte del Sinedrio è quindi sospetta; a maggior ragione, la doppia seduta e la doppia condanna” (Alfred Loisy, Evang. Synopt. II, pag. 694). La comparsa davanti a Pilato, le sue discussioni con l'accusato, la sua debolezza e la sua familiarità con la popolazione ebraica, almeno proprio come ci è riportato nei vangeli, è ancora più inaccettabile. [8]
È curioso che, nel racconto degli evangelisti, non vi sia alcuna allusione all'esecutore delle alte opere, benché sembri impossibile rinunciare ai suoi servizi per la messa a morte legale di un condannato. Ma Marco e Matteo, senza battere ciglio, fanno torturare il loro eroe dai soldati che lo scortano; Luca lo fa crocifiggere da tutto il popolo (!); Giovanni, il che è ancora più divertente (19:18), dai capi dei sacerdoti. [9] È completamente folle! Si vedono i magistrati della Corte di Cassazione, o perfino di una semplice Corte d'Assise, andare a ghigliottinare con le loro mani, lo sfortunato di cui hanno appena pronunciato la sentenza!
Dobbiamo egualmente sottolineare che Gesù, se è stato punito per blasfemia (Marco 14:64), avrebbe dovuto, secondo la legge ebraica, essere lapidato e non crocifisso, dato che il supplizio della croce non esisteva tra gli ebrei e la sanzione mosaica del sacrilego era la lapidazione. D'altra parte, se il Cristo è stato punito come perturbatore dell'ordine dalle autorità romane (Luca 23:2, 14), il processo davanti a Caifa diventa una pura invenzione, i procuratori non devono affatto domandare il permesso dei governi locali per tutto ciò che concerne i crimini o delitti commessi contro il potere imperiale. “Il processo davanti a Caifa è una finzione apologetica” (Alfred Loisy, Evang. Synopt. II, pag. 111).
Si potrebbero citare ancora un sacco di altre improbabilità e di altre contraddizioni nella leggenda della Passione, ma enumerandole, non faremo che ripetere ciò che è già stato messo in luce più volte dalla critica. Tuttavia, ci soffermeremo su una di loro che, a nostra conoscenza, non è mai stata segnalata.
Se raccogliamo tutti i frammenti della vera croce che i diversi tesori delle Chiese cristiane presentano all'adorazione dei fedeli — e che sono di tipi molto diversi —, “ci sarebbe il carico di dieci asini”. Ma si può, senza fare mostra di uno scetticismo esagerato, dubitare della loro autenticità. Cercheremo quindi solamente di valutare il peso di uno strumento di tortura di questo tipo, e così arriveremo a dei risultati che non mancano affatto d'interesse. L'insieme consisteva di due pali incrociati ad angolo retto, a ognuno dei quali, data l'altezza di un individuo di media taglia (e la tradizione fa di Gesù un uomo abbastanza alto), non possiamo garantire, pur restando molto avari, meno di due metri di lunghezza: le raffigurazioni di Chiesa danno loro quasi sempre molto di più; per esempio, in un trittico di Roger van der Weiden, al Museo di Anversa, il pezzo verticale misura quattro metri dal suolo; la Grande Crocifissione di Beato Angelico, al convento di san Marco, a Firenze, gli attribuisce la stessa dimensione; e Luini, nel suo Calvario, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, a Lugano, va fino a cinque metri da terra.
Inoltre, così come hanno constatato tutti coloro che hanno avuto l'opportunità di piantare o far piantare dei pioli, è necessario spingerne almeno un quarto nel terreno, se si tiene al fatto che non cadano da sé oppure che non siano rovesciati dalla forza del vento. Nel caso che ci interessa, si doveva assicurare al patibolo una stabilità ancora maggiore, in quanto il palo doveva sopportare, in questa posizione, il peso di un torturato le cui convulsioni disordinate tendevano a imprimere del violento movimento d'oscillazione all'apparato, se il legno non era stato fissato molto solidamente. Riteniamo pertanto di essere assai moderati stimando a tre metri l'altezza totale del palo verticale e, in questa ipotesi, i piedi del condannato arrivavano quasi a toccare terra. Le proporzioni figurate nelle rappresentazioni di Gesù sulla croce conducono ad ammettere almeno venti centimetri di larghezza per dieci di spessore per la squadratura dei pezzi e queste dimensioni sono molto accettabili.
Certo, i pittori non avevano alcuna intenzione di esibire un'opera realistica e l'accuratezza o la plausibilità dei dettagli era ciò che li toccava di meno; ma, istintivamente, hanno sentito che la scena che hanno voluto rendere sembrava grottesca se avessero dato alla croce le dimensioni usuali e hanno sacrificato inconsciamente la verità volgare all'effetto teatrale: nella loro composizione lo strumento di supplizio è più o meno grande, in rapporto solamente all'impressione che hanno avuto l'intenzione di produrre.  Accade così che, se nelle raffigurazioni della Crocifissione, la Croce è spesso più alta di quanto è necessario e più elevata, beninteso, dei patiboli dei due ladroni, contrariamente ad ogni probabilità  e contrariamente alla tradizione (Invenzione della Santa Croce), in maniera da imprimere indelebilmente nell'immaginario una sensazione di apoteosi che la realtà non poteva evidentemente comportare, al contrario, nelle scene raffiguranti Gesù che sale al Calvario, essa è quasi sempre talmente piccola che sarebbe impossibile utilizzarla. Questa riduzione esagerata delle dimensioni probabili è evidentemente comandata imperiosamente dalla necessità logica di non collocare sulle spalle del condannato un fardello che oltrepassa troppo visibilmente le forze umane.
In effetti, un legno di questa sorta non deve affatto avere, senza dubbio, meno di cento decimetri cubi e peserebbe 80 chilogrammi, se la croce fosse di quercia molto secca, o 65 chili, se fatta di legno di pino, tipi abbastanza comuni in Giudea. Ci vorrebbero 220 sterline nel primo caso e 180 nel secondo, se il legno fosse appena abbattuto, ipotesi di gran lunga più probabile, perché non è affatto credibile che i romani abbiano preso la precauzione di ricercare del materiale asciutto, sempre più costoso da acquisire e più difficile da trovare, per stabilire una costruzione sommaria che deve sussistere solo poche ore. È egualmente difficile supporre che i commercianti della città avessero avanzato in magazzino, un articolo di una vendita così rara. Trascureremo il peso del titulum, così come quello del supporto per i piedi, perché lo strumento reale del supplizio non comportava affatto quest'ultimo accessorio: era sostituito da un grosso piolo passante tra le gambe del paziente. Beninteso, nessun dipinto raffigura questo dettaglio, perché questo realismo indurrebbe delle grida di indignazione alle anime devote. È pur vero che il supporto tradizionale lascia quasi tutto il peso del corpo sospeso per i chiodi delle mani che non avrebbero affatto tardato a lacerarsi e a lasciar cadere il disgraziato sottomesso a questa tortura, fintantoché il piolo centrale, più appropriato, avesse sostenuto la quasi totalità del torturato e le mani non avessero più da sostenere il carico delle braccia.
Anche un uomo di un vigore eccezionale non avrebbe potuto sopportare  questo assurdo fardello, ma nessuno degli evangelisti sembra aver sospettato questa difficoltà che le Viacrucis hanno messo più tardi in evidenza; è ancora più inammissibile che il Messia, annientato dalla flagellazione che era già un terribile supplizio che conduceva a volte alla morte della vittima, rotto dalle torture morali che ha subito dal giorno prima, abbia potuto tollerare così a lungo un carico simile che avrebbe fatto ritirare un forte della Halle: da solo non avrebbe affatto potuto sollevarlo. Perfino con l'aiuto (di cui Giovanni non parla) di Simone il Cirenaico (Marco 15:21), schiavo astuto che, sempre secondo le raffigurazioni sacre, ha cura di non portare che la parte della croce più leggera, questa impresa era al di sopra delle forze di un mortale. È assolutamente incredibile che il Cristo, così schiacciato sotto il carico, abbia potuto attraversare la distanza che separava il tribunale di Pilato dalla cima del Golgota, distanza che noi non conosciamo, è vero, se non secondo delle tradizioni assai discutibili, [10] ma che non poteva essere inferiore ai sei o settecento metri, e su un sentiero molto ripido. “Il luogo era vicino alla città”, dice Giovanni (19:20). È inconcepibile così che i soldati che requisiscono un passante con tanta facilità, non abbiano affatto avuto l'idea di prendere un asino o un mulo. I picconi, le pale, le scale, i martelli, i chiodi, ecc., tutti gli utensili in definitiva indispensabili per ricavare i tre strumenti di tortura, avrebbero giustificato, da loro soli, i servizi di due o tre bestie da soma.
In nessuno dei vangeli, in effetti, si dice che i due ladri fossero stati sottoposti allo stesso processo del Redentore, e quasi nessuna via crucis li fa figurare sul percorso del Golgota con questo fardello sulle spalle. [11] Ignoriamo che cosa abbia guadagnato loro questo favore apprezzabile, ma possiamo supporre che il pittore non abbia per nulla voluto, mediante una tripla ripetizione dello stesso motivo, indebolire l'interesse che deve concentrarsi sulla figura principale.
Non pensiamo affatto, del resto, che questa fosse la consuetudine tra i romani, di far portare lo strumento del loro supplizio ai Condannati, sull'esempio del figlio di Abramo, e molte ragioni ci obbligano a credere che era impossibile che fosse così. È piuttosto probabile che le croci fossero disposte in anticipo, poco tempo prima dell'esecuzione, sia dagli aiutanti del carnefice, sia dai falegnami della località, o più probabilmente ancora, almeno vicino alle grandi città dove le condanne capitali potevano essere frequenti, che fossero stabilite in modo permanente sul luogo del supplizio, così come le forche patibolari di Montfaucon, a Parigi, oppure le forche feudali del medioevo.
Certamente, gli autori ingenui che hanno riprodotto questo racconto, non hanno assistito né al giudizio, né all'esecuzione e non sono stati affatto informati neppure da dei testimoni oculari.
Ciò che forse colpisce di più nei dettagli incredibili, è che, mai, l'autore, che sia Marco, Matteo, Luca o anche Giovanni, si lascia sfuggire un grido di indignazione o di orrore; che non hanno mai una parola di pietà per il martire o di collera contro i suoi aguzzini; la narrazione è di una insensibilità, di una freddezza, di una impassibilità rivoltante, di un'indifferenza inquietante: le stesse donne che Marco e Matteo conducono sul luogo dell'esecuzione, Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salomè (Marco 15:40 — Matteo 27:56) sono là, non si sa neppure perché e senza giocare alcun ruolo; non si lamentano affatto, non piangono affatto, non dicono nulla. Luca scrive pure (23:27) che una grande moltitudine di popolo e di donne piangono e si commuovono, ma questi figuranti anonimi non contano per nulla al racconto, non hanno alcuna ragione personale di disperarsi e il loro dolore esagerato è fin troppo affettato rispetto all'attitudine glaciale dei suoi intimi, proprio come contraddice in maniera eccessivamente scioccante il verso che precede quasi immediatamente (23:23) e nel quale tutto il popolo reclama a gran voce la morte del Salvatore ed estorce la sua condanna da Pilato. Nel testo di Giovanni, il solo degli scrittori canonici che (malgrado ogni probabilità) assiste la Vergine Maria alla Passione, la madre di Cristo resta così calma e placida come le altre Marie. [12] Quanto agli Apostoli, e ai discepoli, sono scomparsi prudentemente dalla scena, tranne Giovanni (e solamente secondo il libro posto sotto il suo nome), che ovviamente è là solo per ben mettere in evidenza il preteso autore del quarto vangelo. Il “prediletto” non mostra, del resto, affatto più afflizione degli altri spettatori. Si sente che questi dettagli orribili non si presentano per nulla nel loro rilievo spaventoso al pensiero tranquillo dei redattori della Buona Novella: il loro cuore non ha affatto un singhiozzo, i loro occhi non hanno affatto una lacrima; è solo la parte dogmatica della leggenda che li interessa e il loro secco fanatismo soltanto è in gioco. Una serenità del genere è più che incredibile e dimostra abbondantemente l'assenza di qualsiasi realtà oggettiva: un autentico testimone oculare racconterebbe con più emozione le sofferenze di un cane.

Gli evangelisti, così prodighi di parole di collera e di odio  contro i ricchi e i farisei che non hanno fatto loro alcun male, non hanno una sola parola di condanna a riguardo di Caifa e di Pilato che hanno inviato il loro padrone alla morte, nemmeno un grido di indignazione contro i miserabili soldati che si sono presi gioco in modo così abominevole dello sfortunato martire. Se la leggenda popolare ha maledetto il procuratore, Marco e i suoi emuli, al contrario,  cercano chiaramente di scagionarlo completamente: hanno la ferma intenzione di far ricadere l'intera responsabilità del deicidio sui soli ebrei, presi in generale: essi sono tutti colpevoli, in blocco, almeno moralmente: è la tesi degli scrittori sacri e sacrificano ogni verosimiglianza a questa determinazione settaria. Luca, tuttavia, la dimentica per un momento, e si contraddice, quando racconta (23:27) che una grande moltitudine di popolo e di donne piangeva e si batteva il petto.
Tutto sommato, dal principio alla fine, e senza parlare nemmeno dei miracoli, la loro opera non è altro che un tessuto di assurdità ed è impossibile attribuire il minimo valore storico agli scritti degli evangelisti. Il dramma della Passione soprattutto, è un'invenzione che non ha più consistenza dei prodigi che l'accompagnano. In presenza dell'impossibilità manifesta di un resoconto del processo di Gesù davanti al Sinedrio e davanti al procuratore, davanti ai dettagli inauditi dell'esecuzione, cosa resta dunque della tragedia raccontata dagli evangelisti? In assenza di ogni documento diverso dal testo incredibile del Libro Sacro, su cosa Havet potrebbe basare  l'affermazione che “nella vita di Gesù, resta un solo fatto assolutamente indiscutibile, che egli è stato messo in croce per ordine di Ponzio Pilato” ? Cosa ha questo fatto di più sicuro, di più probabile, rispetto a tutti gli altri eventi della carriera di Cristo, di cui l'eminente storico del Cristianesimo e delle sue Origini, fa, giustamente, così tanto a meno?

 NOTE

[1] I farisei che Gesù chiama “razza di vipere” (Matteo 23:33) e contro i quali è prodigo di invettive, erano dediti ad un formalismo stretto ed eccessivo, ma patrioti esaltati. San Paolo (Atti 23:6), al contrario del Messia, si gloria di essere fariseo e figlio di farisei e proclama che questa setta è “la più perfetta della sua religione” (Atti 26:5). Ea una fazione popolare che insegnava la resurrezione dei morti e Paolo che propaga le stesse credenze, è difeso da essa(Atti 23:7 e 9), fatto che sembra straordinario dopo l'accanimento che, secondo i vangeli, questa setta ha impiegato contro il Cristo. I Sadducei, altra setta ebraica opposta ai farisei, respingevano la credenza in un'altra vita; rappresentavano piuttosto l'elemento aristocratico, nemico delle novità e interamente devoto ai sommi sacerdoti. Sembra proprio che le dottrine di Gesù si avvicino più a quelle dei farisei che maledì piuttosto che a quelle dei sadducei di cui non gli importa. Così, queste invettive dei vangeli contro i farisei sorprendono.
All'epoca di Cristo, i Sadducei erano ancora dominanti nel Sinedrio, sorta di Senato che contava 70 membri costituenti una Corte di giustizia suprema e reclutati tra i Capi dei Sacerdoti, gli Scribi o Dottori della Legge e gli Anziani del popolo o Senatori. Spetterebbe dunque a loro e non ai farisei la responsabilità della condanna di Gesù.

[2] Ecco il testo di Giovanni:
18:12. — Allora il distaccamento con il comandante e le guardie dei Giudei afferrarono Gesù, lo legarono 
13. — ...e lo condussero prima da Anna: egli era infatti suocero di Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno. 
15. — ...perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote; 
19. — Allora il sommo sacerdote interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e alla sua dottrina.
20. — Gesù gli rispose: Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. 
21. — Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto
22. — Aveva appena detto questo, che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: Così rispondi al sommo sacerdote? 
24. — Allora Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote.
28. — Allora  essi condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. 

29. — Uscì dunque Pilato verso di loro e domandò: Che accusa portate contro quest'uomo? 
30. — Gli risposero: Se non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato. 
31. — Allora Pilato disse loro: Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge! Gli risposero i Giudei: A noi non è consentito mettere a morte nessuno. 
32. — Così si adempivano le parole che Gesù aveva detto indicando di quale morte doveva morire.
33. — Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: Tu sei il re dei Giudei?

34. — Gesù rispose: Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?
35. — Pilato rispose: Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?
36. — Rispose Gesù: Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù. 
37. — Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. 
38. — Gli dice Pilato: Che cos'è la verità? E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: Io non trovo in lui nessuna colpa. 
19:1. — Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. 
2. — E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora.
3. — Quindi gli venivano davanti e gli dicevano: Salve, re dei Giudei! E gli davano schiaffi. 
4. — Pilato intanto uscì di nuovo e disse loro: Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa. 
5. — Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: Ecco l'uomo! (Ecce homo). 
6. — Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: Crocifiggilo, crocifiggilo! Disse loro Pilato: Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa. 
9. — Pilato entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù: Di dove sei? Ma Gesù non gli diede risposta.
10. — Gli disse allora Pilato: Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?
11. — Rispose Gesù: Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande.
12. — Da quel momento Pilato cercava di liberarlo...
13. — Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. 
14 — Era la Preparazione della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: Ecco il vostro re!
15. — Ma quelli gridarono: Via, via, crocifiggilo!». Disse loro Pilato: Metterò in croce il vostro re?». Risposero i sommi sacerdoti: Non abbiamo altro re all'infuori di Cesare. 
16. — Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
17. — Essi allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Gòlgota, 
18. — dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall'altra, e Gesù nel mezzo.
19. — Pilato compose anche l'iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: Gesù il Nazareno, il re dei Giudei.
23. — I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. 
24. — Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte. E i soldati fecero proprio così. 

[3] In Matteo (27:2), in Marco (15:2), in Luca (23:3), quando vediamo il romano Pilato, arrivato di recente nel suo governo di Giudea, interrogare il galileo Gesù, possiamo ben supporre che vi aveva un interprete presente al tribunale, dal momento che Cristo parlava solo l'aramaico, lingua sconosciuta al magistrato imperiale. Ma in Giovanni (18, e 19), sembra che il procuratore dialoghi direttamente con l'accusato e con la canaglia ebraica, il che è ben straordinario.

[4] Va notato che il padre Didon, nel suo riassunto della Vita di Gesù, scritto per la Grande Encyclopédie (21, pag. 135), sopprime anche tutti questi scherzi rivoltanti e non parla più delle sevizie odiiose di cui il Salvatore fu la vittima durante la sua comparsa davanti al Sinedrio.  

[5] È molto difficile ammettere che la moltitudine che, nella Domenica delle Palme (Matteo 21:8-9, Luca 19:37-38, Giovanni 12:12-13, Marco 11:8, 9, 10), riceve Gesù con tante manifestazioni di gioia e di entusiasmo, che lo protegge al punto che, né quel giorno né in quelli successivi, i sacerdoti osano farlo arrestare (Matteo 21:46, Marco 19:12; Luca 19:48, 22:2), reclama il suo supplizio con tanta furia e insistenza prima della fine della stessa settimana (Matteo 27:23, Marco 15:13, 14, Luca 23:18, 21; 18:40, 19:12, 15).

[6] Se, nel verso (18:31) di Giovanni, gli ebrei, malgrado l'invito di Pilato, rifiutano di giudicare loro stessi Gesù, sotto il pretesto che non è loro assolutamente permesso far morire qualcuno, nel verso (19:16) dello stesso evangelista, hanno, al contrario, dimenticato i loro scrupoli e vanno senza esitazione, a crocifiggere il Cristo che il procuratore abbandona loro per la seconda volta. Si noti che né il Sinedrio, né Pilato, hanno pronunciato una condanna a morte; solo Marco tra gli evangelisti  (14:64) ha pensato che questa leggera formalità valesse la pena di non essere affatto trascurata e il Sinedrio la soddisfò; ma lo stesso secondo evangelista ha omesso di far confermare la sentenza da parte del procuratore.

[7] È così che i soldati che non si preoccupano affatto di raccogliere le vesti dei due ladri, si spartiscono quelle di Cristo “perché la profezia fosse realizzata”.

[8] Una delle improbabilità più scioccanti dei racconti della Passione, è la precipitazione inaudita degli eventi: Gesù viene arrestato nel mezzo della notte, allorchè è ben silenzioso (Marco 14:49; Matteo 21:55 Luca 22:53), quando era del tutto appropriato catturarlo, al termine delle sue prediche sediziose, nelle sinagoghe o nel Tempio, senza aver bisogno di pagare Giuda per tradire il suo rifugio agli agenti di polizia. Lo si conduce direttamente al Sommo Sacerdote, come se questo magistrato supremo fosse, senza altre formalità e ad ogni ora del giorno e della notte, alla disposizione degli agenti della sicurezza; senza fermarsi, convoca immediatamente i settantuno membri del Sinedrio i quali, a loro volta, sono perpetuamente disponibili, pronti a sedersi e a riunirsi al minuto; i testimoni dell'accusato, senza dubbio avvertiti in anticipo, oppure strappati proprio brutalmente dal loro letto, le deposizioni, il giudizio, tutto questo viene avviato prima dell'alba; di istruzioni, non vi è stato alcun dubbio. Ai primi bagliori dell'alba, questi giudici infaticabili, evidentemente per evitare questo disturbo ai gendarmi che cadono dal sonno, conducono loro stessi Gesù a Pilato, il quale, senza dubbio, si alza molto presto e non ha nulla di più urgente da fare che ricevere immediatamente tutto il mondo in fretta. Il procuratore dimentica di mangiare, o almeno, non gli si dà affatto il tempo. Durante i pochi minuti tra la partenza di Gesù e il suo arrivo presso l'alto funzionario imperiale, Matteo trova ancora il tempo di far sopraggiungere Giuda Iscariota  che, disperato per il suo tradimento così mal retribuito, riporta ai giudici l'argento che gli hanno dato e andrà a impiccarsi altrove. Questi magistrati modello che non vogliono affatto lasciare in sospeso neppure il dettaglio più insignificante, si riuniscono ancora una volta e sul posto, per deliberare sull'uso che faranno di questo introito imprevisto di venticinque franchi.  Non è possibile farsi un'idea di una tale velocità: il Sinedrio si riunisce nello stesso tempo da Caifa e da Pilato. Dal canto suo, il governatore, senza ulteriori cerimonie o ritardi, senza nemmeno sapere (secondo Giovanni 18:29, 30) di cosa si sta parlando, concede, dopo delle lunghe esitazioni d'altronde ben comprensibili, la morte di Gesù, ai suoi accusatori, senza motivo, unicamente per far loro piacere, e lo fa flagellare, pur essendo ben convinto della sua innocenza. L'orribile scena di derisione recitata dai soldati a spese del Salvatore ha dovuto egualmente richiedere un certo ritardo; il doloroso cammino del Calvario, come ci viene raccontato, è certamente durato più di un'ora; la crocifissione non può essere un'operazione rapida, quando si devono fare delle buche assai profonde e sollevare tre pesanti forche al momento dell'esecuzione; queste forche non potevano affatto raccordarsi istantamente a portata di mano. L'agonia di Cristo non poteva essere stata improvvisa, perché, di solito, i torturati sulla croce si dibattevano per giorni contro gli spasimi della morte. Nondimeno, tutto questo dramma, dall'arresto di Gesù fino al suo ultimo respiro, si è svolto e terminato in quindici ore. È solo nei melodrammi dell'Ambigu, dove tutta l'azione si sviluppa e si termina in una serata, che si vede una tale successione così torrenziale di avvenimenti e, ancora, si suppone che gli intervalli siano prolungati a sufficienza per dare qualche credibilità alla parte: ma, nella Passione, gli evangelisti hanno dimenticato gli intervalli.

[9] Eppure, nel verso (19:23), Giovanni dice anche che Gesù fu crocifisso dai soldati, in numero di quattro. In generale, nel racconto dell'esecuzione, gli evangelisti non indicano affatto il soggetto dei verbi ed a volte è impossibile sapere giustamente quale egli sia: gli autori stessi sembrano perderlo di vista. Tuttavia, se Giovanni contraddice qui ciò che ha detto più sopra (19:16), la sua seconda versione non è affatto più ammissibile della prima e la probabilità del racconto non vi guadagna affatto granchè. Come, infatti, immaginare che quattro soldati siano sufficienti per contenere la folla, custodire i tre condannati, scavare le buche, issare le vittime sulle tre croci, svolgere la funzione di scavatori e di carnefici? Un soldato per ciascuna funzione, sarebbe già stato ben poco. Gesù e i suoi due compagni di supplizio, ai quali si dovevano inevitabilmente sciogliere le loro catene perchè avessero la facoltà di marciare e di portare le loro croci, dovevano mettere un sacco di buona volontà per lasciarsi crocifiggere in queste condizioni: in un'epoca meno miracolosa, dei detenuti meno docili e meno rassegnati si sarebbero impressionati di far compagnia ai loro guardiani, approfittando del fatto che loro erano assorbiti da così tante occupazioni.

[10] Al di fuori di queste tradizioni, che non sono basate su alcun documento serio, non esiste alcuna opinione difendibile sulla collocazione del Golgota; si ignora perfino se qualche luogo nei dintorni di Gerusalemme abbia portato questo nome. In realtà, sarebbe altrettanto difficile individuare il luogo in cui è detto che il Salvatore fu ucciso, proprio come ritrovare il giardino del Paradiso Terrestre. La locazione tradizionale, nel mezzo della città, è, inoltre, in contraddizione con Giovanni (19:20) e Paolo (epistola agli Ebrei, 13:12).

[11] (Luca 23:32). — “...venivano condotti insieme con lui anche due altri malfattori per essere giustiziati”.

[12] Ancora Giovanni (22:11) pensa a far piangere Maria Maddalena, il giorno dopo.

martedì 19 febbraio 2019

Il Cristo è esistito?La moneta nei vangeli (VII)

La storia e la geografia nei vangeli

CAPITOLO VII

LA MONETA NEI VANGELI

Oltre al loro odio contro la ricchezza, l'imbarazzo col quale gli evangelisti affrontano le questioni di denaro indica che non dovevano vederne spesso il colore. Non si trova, infatti, nel Nuovo Testamento, la menzione di alcuna moneta d'oro: gli stateri greci, così diffusi in Oriente, l'aureo romano, i sicli d'oro ebraici non sono nemmeno nominati. Come moneta di denaro, si parla solo del denario romano del valore di circa 0.83 franchi; della dracma greca grosso modo equivalente al denario e allo statere greco (Matteo 17:27) che si può stimare in 3.30 franchi. Il siclo d'argento d'Israele che si avvicina pressappoco allo statere è ignorato dagli Apostoli, così come tutte le altre monete ebraiche; probabilmente non aveva per nulla corso comune al di fuori della Palestina, regione totalmente sconosciuta ai redattori della Buona Novella. Si noti anche l'assenza straordinaria del sesterzio, l'unità di conto del mondo romano: lo stesso pubblicano Matteo non ne parla affatto!
Mentre, al contrario, gli evangelisti nominano il denario, prezzo del salario giornaliero di un vignaiolo (Matteo 20:10), la dracma, di cui erano necessarie due per assolvere il tributo (Matteo 17:23); l'assarion o asse (circa 10 franchi), prezzo di due passeri (Matteo 10:29 — Luca 12:6); il lepton o spicciolo, offerta della vedova (Marco 12:42 — Luca 21:2) che vale un quarto dell'asse, si vede che essi sanno di cosa si tratta e che queste monete sono loro familiari, benché non abbiano potuto essere sempre nelle loro borse e benché, per rendere più sorprendente e più chiara la loro dimostrazione a proposito del tributo dovuto a Cesare (Marco 12:15 — Matteo 22:19 — Luca 20:24) Gesù sia obbligato a prendere in prestito un denario dai farisei che lo interrogano, il che sembra indicare chiaramente che in quel giorno, né lui, né i suoi discepoli, possedevano, tra di loro, una tale fortuna.
Marco (14:11) e Luca (22:15) non specificano affatto la somma per la quale l'Iscariota vendette il suo maestro; ma Matteo (26:15 — 27:3) ci racconta che Gesù fu consegnato per trenta pezzi d'argento. Giovanni, che doveva essere meno misero di suoi confratelli, ha senza dubbio trovato la somma ridicolmente insufficiente, poiché egli preferisce sopprimere questo passo dai suoi predecessori e non indica affatto il motivo del tradimento, pensando probabilmente e con ragione che, in fatto di passioni malvagie, la cupidità sordida non sia affatto la più tirannica, come se la figurano così spesso i poveri disgraziati. È comprensibile che la somma specificata da Matteo appaia esorbitante agli occhi del primo evangelista e capace di far dannare un santo. [1] Tuttavia, se queste monete sono dei denarii romani o delle dracme greche, come è verosimile, ciò equivarrebbe tutt'al più a venticinque franchi; e anche se, supposizione inammissibile, si trattasse del secolo di Giuda Maccabeo, il prezzo del tradimento avrebbe ancora fruttato solo 85 franchi a Giuda; colui che era l'amministratore e il tesoriere della banda (Giovanni 18:29) e un bel mascalzone (Giovanni 12:6), doveva realizzare dei profitti altrimenti seri facendo, ogni giorno, allentare i cordoni della borsa: si ingannò quindi miseramente nei suoi calcoli, consegnando per così poco il padrone che lo nutriva. [2] Tuttavia, è stato buon contabile, poiché esita, nel vedere Maria, sorella di Lazzaro, disperdere trecento denari (250 franchi) di profumo sui piedi di Gesù e trova, non senza ragione, che si sarebbe potuto fare un impiego migliore di questa somma (Giovanni 12:3, 5). Si può concludere anche da questo passo che Maria deve essere ricca per possedere con lei un articolo di lusso di un così grande valore, a meno che non si preferisca supporre che possedesse un magazzino di profumeria ben provvisto, che sarebbe nondimeno strano in un villaggio così povero.
Quando gli evangelisti vogliono far menzione di una somma realmente considerevole, si sente che sono incapaci di specificare nella loro immaginazione e divagano in una maniera incredibilmente puerile: le mine e i talenti, monete di conto del mondo ellenico antico, non rappresentano ai loro occhi nient'altro che un valore enorme, ma che resta irrimediabilmente confuso nella loro mente. Matteo (25:15) parla di un uomo che affida cinque talenti (28.500 franchi) a uno dei suoi schiavi, due talenti a un secondo e uno a un terzo. È parecchio, e pochi padroni, alla nostra epoca, ne metterebbero così tanti nelle mani dei loro domestici; Luca (19:13), nella parabola corrispondente, ha vagamente l'intuizione che questa somma sia esorbitante; ma, nella correzione, cade incredibilmente nell'estremo opposto: non mette più in scena un semplice individuo che dispone così facilmente di più di quarantacinquemila franchi, ma lo sostituisce con un re che si accontenta di far distribuire solamente dieci mine (circa 800 franchi) in amministrazione, a dieci schiavi, e il rischio, così condiviso e diminuito, non sarebbe affatto allarmante, perfino per il re d'Yvetot.  Ma Matteo si mostra ancora più stravagante quando (Matteo 18:24) ci racconta che, senza disturbarsi, un re aveva prestato diecimila talenti (circa sessanta milioni di franchi) a uno dei suoi schiavi. È certo che l'evangelista non si rende affatto conto, nemmeno un po', dell'enormità della somma e che non sa affatto che cos'è un talento più di quanto un cieco non sappia distinguere i colori. Questa somma che era già formidabile al nostro tempo, era molto più fantastica nel primo secolo: è il doppio di quanto Augusto, il più ricco degli imperatori romani, poteva lasciare ai suoi eredi e non gli sarebbe certamente affatto venuto il pensiero di prestarlo al suo migliore amico. Se si trattasse di talenti d'oro (il testo non specifica affatto) la somma sarebbe ancora più favolosa e raggiungerebbe quasi il miliardo!
È egualmente suggestivo constatare, — (e questo sottolinea chiarissimamente l'ignoranza degli autori sacri in ciò che concerne le monete ebraiche) — con quanta cura il redattore degli Atti evita di pronunciare la parola siclo, moneta della Giudea, il cui nome non ha senza dubbio alcun significato per lui o per i suoi lettori. Nel verso (7:16), dove ricorda, secondo la Genesi (23:16), che Abramo aveva acquistato un sepolcro, egli cancella volutamente i termini “quattrocento sicli d'argento”, che sono nella Bibbia e che è incapace di tradurre in valore greco, e li sostituisce con l'espressione indeterminata: “A prezzo d'argento”.
Troviamo anche negli Atti (19:19) che Paolo fece bruciare, ad Efeso,  dei libri di magia per una somma di cinquantamila pezzi d'argento. Si può supporre che l'autore abbia voluto parlare di dracme, ma nulla ce lo assicura.
Gli evangelisti citano ancora meno di pesi e di misure che di monete e non riscontriamo in loro alcuna menzione del sistema metrico ebraico, fatto che non lascia affatto sorprendere, se si accetta l'ipotesi ortodossa che questi scrittori siano galilei. [3] In effetti, benché le misure latine e soprattutto le misure greche fossero largamente diffuse in tutto il mondo orientale, tuttavia quelle della Giudea erano lungi dall'essere scomparse, e principalmente in ciò che riguarda le abitudini delle classi inferiori, esse non si erano affatto ritratte davanti al tipo greco. Gli editori della leggenda sacra, se fossero stati davvero come li pretende la tradizione ecclesiastica, degli ebrei di gente comune, non avrebbero dunque potuto fare altrimenti se non menzionare le norme di cui si servivano tutti i giorni, a esclusione di quelle di Roma e dell'Attica che non potevano essere loro familiari e il cui impiego era molto recente.

Si sa con quale ostinazione, nella nostra stessa epoca, malgrado la legge e le sanzioni, malgrado il controllo di numerosi verificatori ufficiali, malgrado la larga diffusione dell'istruzione, le unità dei tempi antichi resistono alla propagazione del sistema decimale di gran lunga più semplice, non solo tra gli operai e i contadini che continuano a contare con le braccia, con i piedi, con i pollici, con gli arpenti, anche con gli scudi, ma perfino tra le persone più indotte a utilizzare il nuovo metodo di calcolo i quali mantengono l'abitudine solita di parlare molto spesso, altrettanto spesso dei loro bisnonni, di leghe, di libbre, di sacchi e di scellini; è persino di moda dire un luigi anziché venti franchi. La resistenza dell'antico costume doveva dunque avere infinitamente più successo in un'epoca in cui non esisteva alcun obbligo legale, in cui nessun funzionario era incaricato di imporre un regime uniforme e in cui, non andando quasi nessuno a scuola, l'abitudine da sola apprendeva l'uso metrico.
Le poche misure che troviamo nei vangeli sono tutte, o latine, come il moggio o lo staio di 8,75 litri (Matteo 5:15); il miglio di 1.479 metri (Matteo 5:41) e la litra o la libbra di 327,5 grammi (Giovanni 19:39); o, più frequentemente greche, come il pecus o cubito di 0,462 metri (Matteo 6:27); lo stadio di 157,50 metri (Luca 24:13 — Giovanni 6:19 — 11:18); la metrèta o l'anfora di 39,40 litri (Giovanni 2:6).
I nomi di monete, di pesi e di misure, confermano quindi ancora la conclusione che gli evangelisti non hanno mai visto la Giudea; che non hanno mai conosciuto qualcuno del paese. Tutto ciò che fa da sfondo al Cristo ebraico è greco. Il Messia giustifica la sua missione per mezzo di citazioni estratte, non dalla Bibbia ebraica, ma dalla sua traduzione greca! [4] Gli stessi vestiti dei contadini galilei dei vangeli sono stati confezionati da un sarto greco: Gesù e i suoi discepoli portano l'himation (Matteo 9:20) il chitone (Matteo 10:10), la clamide (Matteo 27:28, 31). Quando Gesù siede a tavola, si sdraia sempre (anakeimai) su un letto, alla maniera dei ricchi greci; gli artisti del Rinascimento lo misero al contrario su una poltrona.
È così che nel Fedro di Racine, gli attori mostravano le loro parrucche, si chiamavano Signore e Madame e discorrevano educatamente nel mezzo di un salotto di Luigi XIV; ma Racine aveva la scusa di essere tremila anni più giovane della sua eroina e di non credere affatto nella sua realtà.
Cosa rimane dunque di una leggenda il cui personaggio principale è un fantasma inafferrabile e il cui intero entourage, uomini e cose, è falso, arci-falso?
  
NOTE

[1] Due versi ingenui di Luca (15:8, 9) mostrano con ancora più prove, come l'argento fosse raro ed invidiato in questo ambiente: “Oppure, qual è la donna che se ha dieci dramme e ne perde una, non accende un lume e non spazza la casa e non cerca con cura finché non la ritrova? Quando l'ha trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta”.
Accade, in effetti, che solo una famiglia molto povera  si prende tanta fatica per ricercare un pezzo di venti soldi perduti e ancora, allorché li si abbia ritrovati, non disturba affatto i suoi vicini per manifestare loro la sua gioia.

[2] Benché la somma di venticinque franchi sia molto modesta, il Sinedrio avrebbe potuto tuttavia risparmiarla facilmente: era, infatti, del tutto inutile per Giuda denunciare Gesù alla polizia che doveva conoscerlo perfettamente, poiché, per di un anno, il Salvatore “aveva parlato al mondo apertamente; aveva sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non aveva mai detto nulla di nascosto” (Giovanni 18:20). Si poteva dunque arrestarlo in fragranza di reato. Marco (14: 2), Matteo (26: 5) dicono, è vero, che si voleva evitare dei disordini durante le feste della Pasqua, ma se questa spiegazione giustifica abbastanza poco l'arresto di notte, seguito il giorno dopo da un'esecuzione pubblica in pieno giorno, non fornisce affatto un resoconto migliore dell'utilità del tradimento dell'Iscariota.

[3] Tuttavia, troviamo nella parabola dell'Amministratore infedele, un'eccezione unica: due misure spesso menzionate nell'Antico Testamento, vi sono riprodotte. Ma poiché erano anche egualmente di un impiego abituale in Egitto e in tutta l'Asia Minore, è probabile che l'autore del terzo vangelo li abbia ricavati piuttosto dall'uso corrente di queste regioni piuttosto che dai suoi ricordi biblici:
Luca 16:5. — “Tu quanto devi al mio padrone?”
6. — “Quello rispose: Cento bati d'olio...”.
7. — “Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento cori di grano”.
(Il bato, nel primo secolo, valeva circa trentanove litri. Il coro o chomer valeva dieci volte di più).

[4] Il cristianesimo, giudeo-ellenico sin dai suoi inizi, lo rimase a lungo anche a Roma: nelle Catacombe, le più antiche iscrizioni di sepolture sono quasi tutte scritte in greco e non è che a partire dal terzo secolo che si trovano degli epitaffi latini, fatto che prova che, anche nelle classi più basse, l'elemento latino rifiutava generalmente di associarsi ai disprezzati giudaizzanti, e che era la popolazione greco-orientale dell'Impero a comporre quasi interamente l'esercito dei proseliti della nuova religione.