domenica 30 settembre 2018

Il Mito di Cristo — IL GESÙ CRISTIANO (I): Il Gesù Paolino

Simboli del Messia. L'Agnello e la Croce

IL MITO DI CRISTO

IL GESÙ CRISTIANO

I

IL GESÙ PAOLINO

La fede in un Gesù era stata in esistenza per un lungo tempo tra innumerevoli sette mandee in Asia Minore, che differivano in parecchi modi l'una dall'altra, prima che questa fede ottenesse una forma definita nella religione di Gesù, e i suoi adepti divenissero consci delle loro specificità religiose e della loro divergenza dalla religione ufficiale ebraica. La prima prova di questa consapevolezza, e anche la prima brillante prospettiva di una nuova religione sviluppata con Gesù come sua idea centrale, risiede nelle epistole del fabbricatore di tende di Tarso, l'apostolo itinerante Paolo.
Delle epistole nel suo nome che sono state preservate fino a noi, quella agli Ebrei molto certamente non è di Paolo. Ma anche le due epistole ai Tessalonicesi, quella agli Efesini, come pure le cosiddette epistole pastorali (a Timoteo, Tito, e Filemone) sono considerate invenzioni dalla stragrande maggioranza dei teologi; e anche l'autenticità delle epistole ai Colossesi e ai Filippesi è negata da considerazioni di grande peso. Ma con ancor più certezza i moderni teologi critici credono che Paolo fosse lo scrittore delle quattro grandi epistole didattiche — una ai Galati, due ai Corinzi, e una ai Romani; ed essi sono abituati a mettere da parte ogni sospetto di quelle epistole come un “grave errore” di ipercriticismo storico.
In opposizione a questa visione l'autenticità perfino di quelle epistole è contestata, da parte da Bruno Bauer, specialmente da parte dei teologi olandesi, da Pierson, Loman, von Manen, Meyboom, Matthes, e altri; e, in aggiunta, recentemente il teologo di Berna R. Steck, e B. W. Smith, professore di Matematica nella Tulane University di New Orleans, a cui si è associato il tardo Pastore Albert Kalthoff di Brema, hanno contestato l'opinione tradizionale con obiezioni che meritano considerazione. Essi hanno tentato di provare che le epistole paoline, come un prodotto letterario, sono l'opera di un'intera scuola di teologi del secondo secolo, autori che o contemporaneamente oppure successivamente scrivevano per la Chiesa nascente.
Questo è certo — una dimostrazione conclusiva del fatto che Paolo fosse realmente l'autore delle epistole correnti sotto il suo nome non può essere fornita. Riguardo a questo, il fatto che Luca, il quale accompagnò Paolo ai suoi viaggi missionari, fosse completamente silente riguardo tale attività letteraria dell'apostolo, deve sempre rimanere un motivo per dubitare; e questo, nonostante abbia dedicato la porzione più grande del suo resoconto negli Atti alle attività di Paolo. [1] Anche la dimostrazione fornita da Smith, secondo cui le epistole paoline erano ancora completamente sconosciute nel primo secolo E.C., che in particolare l'esistenza dell'epistola ai Romani non è confermata prima della metà del secondo secolo, deve parlare seriamente contro la paternità di Paolo, ed è una prova del fatto che quelle epistole non possono essere accettate come la fonte primaria delle dottrine paoline. Per questa ragione non si può affermare in alcuna maniera che la teologia critica dell'ultimo secolo abbia “stabilito scientificamente e al di là di ogni dubbio” [2] l'autenticità degli scritti paolini.    
È ben risaputo che il mondo antico non era ancora in possesso dell'idea di una individualità letteraria nel nostro significato della parola. A quel tempo erano circolate innumerevoli opere che recavano nomi famosi, i cui autori non avevano nè al tempo e neppure probabilmente in qualsiasi tempo mai nulla a che fare con gli uomini che portarono quei nomi. Erano circolate tra i membri delle sette dell'antichità molte produzioni del genere, che passavano, per esempio, sotto i nomi di Orfeo, di Pitagora, di Zoroastro, ecc., e in tal modo cercavano di procurare l'accettazione canonica dei loro contenuti! Delle opere dell'Antico Testamento nè i Salmi, nè i Proverbi, e neppure il cosiddetto Predicatore, e neppure il Libro della Sapienza, possono venir associati ai sovrani storici Davide e Salomone, di cui recano i nomi; e il profeta Daniele è una personalità proprio altrettanta fittizia al pari dell'Enoc e dell'Esdra delle Apocalissi conosciute sotto i loro nomi. Perfino i cosiddetti Cinque Libri di Mosè sono il prodotto letterario di un'epoca assai più tarda rispetto a quella in cui si suppone che Mosè fosse vissuto, mentre Giosuè è il nome di un antico dio israelita da cui è chiamato il libro in questione. [3] Non c'è mai stato da nessuna parte un tale Mosè come quello descritto nell'Antico Testamento.
La possibilità che le cosiddette epistole paoline siano state l'opera di teologi successivi, e che siano state cristianizzate nel nome di Paolo, l'apostolo dei gentili, solo per aumentare la loro autorità nella comunità, non è perciò esclusa in alcun mezzo; specialmente quando consideriamo in quale esuberante maniera fiorirono falsificazioni letterarie e “pie frodi”  nel primo secolo , ed anche in altri tempi, negli interessi della Chiesa cristiana. In effetti, a quel tempo si preoccuparono perfino, come è mostrato da documenti cristiani del secondo secolo, di alterare lo stesso testo dell'Antico Testamento, e in tal modo, come solevano dire, di “chiarirlo”. Già alla metà del secondo secolo, Marcione, lo gnostico, rimproverò alla Chiesa di possedere le epistole paoline solo in una forma confusa, e chi può dire se si trattava di una falsa accusa? Egli stesso si accinse a restaurare il testo corretto tramite escissioni e completamenti. [4]
Ma lasciamo completamente da parte il problema dell'autenticità delle epistole paoline, un problema su cui un accordo assoluto probabilmente non sarà mai ottenuto, per la semplice ragione che manchiamo di ogni base certa per la sua decisione. Invece di questo volgiamoci piuttosto a ciò che apprendiamo da quelle epistole riguardo il Gesù storico. 
Vi incontriamo in primo luogo il fatto, confermato dallo stesso Paolo, che il Salvatore in persona gli si rivelò, e allo stesso tempo lo spinse a entrare al suo servizio (Galati 1:12). Era, come si dichiara negli Atti, sulla via di Damasco che improvvisamente brillò attorno a lui una luce dal cielo, mentre una voce gli comandava di cessare la sua precedente persecuzione della comunità del Messia, e gli si rivelò come Gesù. [5] Non c'è nessuna necessità di dubitare del fatto stesso; ma vedervi una dimostrazione del Gesù storico è riservato per quei teologi che hanno scoperto la splendida concezione di una “visione oggettiva”, basando la realtà oggettiva della visione in questione sulla vita di Paolo nel deserto. Era ovviamente solo una “visione interiore”, che il “visionario” e l'“epilettico” Paolo attribuì a Gesù; e per questa ragione non prova nulla quanto all'esistenza di un Gesù storico quando egli domanda, 1 Corinzi 9:1, “Non sono io quello che ha visto coi propri occhi Gesù, nostro Signore?” e sottolinea, 1 Corinzi 15:9, “Ultimo fra tutti apparve anche a me”.
Dimostra solamente il dilemma dei teologi sull'intero problema il fatto che loro hanno affermato di recente che Paolo, nonostante le sue stesse proteste (Galati 1), deve aver avuto una conoscenza personale del Gesù storico, in quanto altrimenti sulla via per Damasco egli non avrebbe potuto riconoscere gli aspetti e la voce del Gesù trasfigurato, non essendo già familiare con loro per qualche altra via! Con eguale giustizia potremmo affermare che anche i pagani, che avevano visioni dei loro Dèi, devono in precedenza averli conosciuti personalmente, in quanto altrimenti non avrebbero potuto sapere che Zeus o Atena oppure qualunque altro preciso Dio fosse apparso a loro. Negli Atti leggiamo solo di un'apparizione di luce che vide Paolo, e di una voce che lo chiamò, “Saulo, perché mi perseguiti?”. La supposizione riferita è necessaria a spiegare il fatto che Paolo, il persecutore di Gesù, riferì la voce e la visione a Gesù?
Il caso è simile con la testimonianza di Paolo riguardo coloro che, al pari di lui, videro il Salvatore dopo la sua morte. [6] È possibile che le persone interessate videro qualcosa, che essi videro un Gesù “risorto” in una trasfigurazione celeste; ma che questo fosse il Gesù della cosiddetta teologia storica, la cui esistenza è con ciò stabilita, perfino i suoi sostenitori in tutta probabilità non vi insisterebbero sopra; poichè nella loro concezione il Gesù storico non era risorto in alcuna maniera dai morti: ma anche qui ci sarebbe soltanto il problema di una visione puramente soggettiva dei discepoli estaticamente emozionati. Inoltre, il passo dell'Epistola ai Corinzi in questione (5-11) sembra essere chiaramente un passo come minimo molto interpolato, se non è interamente un inserzione posteriore. Così, è detto che il Gesù Risorto sia stato visto da “più di cinquecento fratelli in una sola volta”. Ma di questo i quattro vangeli non sanno nulla; e parimenti, secondo 15:5, che “i dodici” ebbero la visione, ci porterebbe a sospettare che fu inserito per prima nel testo in una data molto più tarda. [7]
Lo stesso Paolo non nascose mai il fatto che egli aveva visto Gesù, non con occhi mortali, ma solo con quelli dello Spirito, come una rivelazione interiore. “Piacque a Dio”, egli dice (Galati 1:16), “di rivelare in me suo Figlio”. [8] Egli confessa che il vangelo predicato da lui non era “di uomini”, che egli nè lo ricevette e neppure lo apprese da qualche uomo, ma che egli lo aveva ottenuto direttamente dal Cristo celeste ed era ispirato dallo Spirito Santo. [9] Egli sembra anche non aver avuto nessun interesse nel dare informazioni accurate riguardo la personalità di Gesù, riguardo le sue sorti e le sue dottrine. Quando tre anni dopo la sua conversione egli ritorna la prima volta a Gerusalemme, egli visita soltanto Pietro e fa la conoscenza di Giacomo durante i quattordici anni della sua permanenza là, non preoccupandosi di nessuno degli altri apostoli. [10] Ma quando, quattordici anni dopo, egli incontra i “Primi Apostoli” nel cosiddetto Concilio degli Apostoli a Gerusalemme, non ha intenzione di imparare da loro, ma di istruirli e procurarsi da loro un riconoscimento della sua propria attività missionaria; ed egli stesso dichiara di aver parlato con loro solo sul metodo di proclamazione del vangelo, ma non sul suo contenuto religioso oppure sulla personalità del Gesù storico. [11]
Certamente quel Giacomo la cui conoscenza Paolo fece a Gerusalemme è designato da lui il “Fratello del Signore”; [12] e da questo sembra derivare che Gesù debba essere stato un personaggio storico. L'espressione “Fratello”, comunque, è possibilmente in questo caso, come così spesso nei vangeli, [13] solamente un'espressione generale per designare un seguace di Gesù, in quanto i membri di una società religiosa nell'antichità si chiamavano frequentemente l'un l'altro “Fratello” e “Sorella” tra di loro. 1 Corinzi 9:5 recita: “Non abbiamo noi [ossia, Paolo e Barnaba] il diritto di condurre attorno una moglie, che sia una sorella, come fanno anche gli altri apostoli, i fratelli del Signore e Cefa?”. Là è evidente che l'espressione non si riferisce in alcun modo necessariamente ad una relazione fisica, ma che “Fratello” serve solo a indicare i seguaci della religione di Gesù. [14] Coerentemente Girolamo sembra aver suggerito la verità precisamente quando, commentando Galati 1:19, scrive: “Giacomo fu chiamato il Fratello del Signore [sebbene le epistole paoline mostrano certamente il contrario di questo] a causa del suo eccezionale modo di vita, di una fede incomparabile e di una straordinaria saggezza” (ossia, i membri della comunità di Gerusalemme). [15] E allora come Paolo dovrebbe aver incontrato un fratello fisico di quello stesso Gesù che, come si mostrerà, egli avrebbe potuto trattare soltanto come un mito sotto altri aspetti? Considerata ora puramente in termini psicologici la cosa è così improbabile che, quanto all'esistenza storica di Gesù, nessuna conclusione può ad ogni caso essere derivata dall'espressione riguardante Giacomo come il Fratello del Signore; specialmente in vista del fatto che i teologi dal secondo secolo fino al giorno presente sono stati incapaci di giungere ad un accordo riguardo la vera relazione di sangue tra Giacomo e Gesù. [16] Inoltre, se consideriamo come venne a formarsi la glorificazione di Giacomo nei circoli anti-paolini del secondo secolo, e come fosse consuetudine associare il capo dei giudeo-cristiani di Gerusalemme il più strettamente possibile allo stesso Gesù (ad esempio, Egesippo, nella cosiddetta Epistola di Clemente, nel Vangelo dei Nazareni, ecc.), incombe su di noi il sospetto che la menzione paolina di Giacomo come “il Fratello del Signore” è forse solo un'inserzione posteriore nell'epistola ai Galati pur di aver in tal modo confermata da Paolo stesso la relazione fisica tra Giacomo e Gesù. [17] I genitori di Gesù non sono personalità storiche (si veda sopra, 117ss.); ed è probabilmente lo stesso con i suoi fratelli e sorelle. Paolo non si riferisce mai neanche alla testimonianza dei fratelli oppure dei discepoli di Gesù riguardante il loro Maestro; sebbene questo sarebbe stato più ragionevole se avessero realmente conosciuto qualcosa di più di Gesù di quanto egli stesso sapesse. “Egli basa”, come giustamente obietta Kalthoff, “non un solo dei suoi argomenti polemici più incisivi contro i seguaci della legge in base al fatto che aveva il Gesù storico dal suo fianco; ma egli dà le sue stesse dettagliate idee teologiche senza menzionare un Gesù storico, egli dà un vangelo di Cristo, non il vangelo che egli aveva udito di prima, seconda, o terza mano concernente un Gesù individuo umano”. [18]
Da Paolo, perciò, non c'è nulla di una natura dettagliata da apprendersi circa un Gesù storico. L'apostolo in effetti si riferisce occasionalmente alle parole e opinioni del “Signore”, come per quanto riguarda la proibizione del divorzio, [19] oppure il diritto degli apostoli di essere mantenuti dalla comunità. [20] Ma siccome le parole esatte non sono date non c'è nessun riferimento esplicito ad un individuo storico dal nome di Gesù; e così siamo persuasi che qui abbiamo a che fare con semplici regole di una comunità del genere che erano correnti e avevano un significato canonico dovunque nelle unioni religiosi come “Parole del Maestro”, ossia, dei patroni e delle celebrità della comunità (si veda l'espressione αὐτὸς ἔφα: egli stesso lo ha detto, vale a dire il Maestro” dei Pitagorici). Solamente una volta, 1 Corinzi 11:23 seq., dove Paolo cita le parole dell'Ultima Cena, l'apostolo si riferisce apparentemente ad un'esperienza del Gesù “storico”: “Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane”, ecc. [21] Sfortunatamente qui abbiamo a che fare con quella che è chiaramente un'inserzione successiva. Il passo è completamente oscuro (versi 23-32), e per la sua interruzione violenta ed equivoca del flusso di pensiero paolino potrebbe essere riconosciuto come un'inserzione posteriore nel testo originale, come è realizzato anche da molti del lato teologico. [22] Paolo dice di aver ottenuto quelle cose dal “Signore” stesso. Questo significa che le furono “rivelate” direttamente dal Gesù trasfigurato? Sembra molto più ragionevole credere che egli li prese da una religione già esistente. Questo in effetti avrebbe potuto riferirsi al più soltanto alle parole dell'Ultima Cena in sé stesse. D'altra parte, le parole “nella notte in cui fu tradito” sono certamente un'aggiunta. Esse non figurano nè in relazione ad una “rivelazione” e né di una religione esistente, ma figurano là completamente per sé stesse come un riferimento ad un evento reale nella vita di Gesù; e così, per questo soltanto, formano una giustificazione fin troppo piccola per testimoniare alla sua verità storica. [23]
Coerentemente tutte le espressioni concernenti Gesù che si trovano in Paolo non sono di nessuna conseguenza per l'ipotesi di una persona storica di quel nome. Le cosiddette “parole del Signore” citate da lui si riferiscono a punti abbastanza irrilevanti degli insegnamenti di Gesù. E, d'altra parte, Paolo è proprio altrettanto silente su quei punti in cui la moderna teologia critica trova la particolare grandezza e importanza di questo insegnamento; come, ad esempio, sulla fiducia di Gesù nella bontà divina del Padre, il suo comandamento dell'amore dei nostri vicini come il compimento della Legge, il suo discorso circa umiltà e carità, il suo monito contro la sopravvalutazione dei beni mondani, ecc., come sulla personalità di Gesù, la sua fede in Dio, e la sua attività tra la sua gente. [24]
Paolo non si diede il minimo fastidio di portare più vicino il Salvatore come un uomo ai suoi lettori. Egli sembra non saper nulla di alcun potere miracoloso in Gesù. Egli non dice nulla della sua simpatia per i poveri e gli oppressi, sebbene sicuramente proprio questo sarebbe stato particolarmente efficace a volgere i cuori degli uomini verso il suo Gesù e a fare un'impressione sulla moltitudine che cercava miracoli. Tutti i precetti e le esortazioni moral-religiosi di Gesù non sono nè impiegati da Paolo come un mezzo di proselitismo per lui, e neppure utilizzati in qualche maniera per porre in una giusta luce la sua personalità in opposizione ai suoi precursori profetici, com'è il caso nella letteratura cristiana del giorno presente. “Così, proprio quei pensieri, che i teologi protestanti rivendicano come il dominio particolare del loro Gesù storico, appaiono nelle epistole indipendentemente da questo Gesù, come isolate effusioni morali della coscienza apostolica; mentre le regole sociali cristiane, che gli stessi teologi considerano aggiunte alla storia, sono introdotte direttamente come regole del Signore. Per questa ragione il Cristo delle epistole paoline potrebbe proprio essere citato come un argomento contro i teologi critici piuttosto che servire come una dimostrazione a favore del Gesù storico nel loro significato”. [45] Perfino un campione così zelota di questa teologia come lo è Wernle deve ammettere: “Noi apprendiamo da Paolo meno di tutto riguardo la persona e la vita di Gesù. Se le sue epistole fossero perdute non dovremmo sapere molto meno di Gesù rispetto al presente”. Immediatamente dopo questo, comunque, questo stesso autore si consola con la considerazione che in un certo senso Paolo ci diede perfino più di quanto le testimonianze più esatte e più abbondanti potessero darci. “Apprendiamo da lui che un uomo (?) Gesù, a dispetto della sua morte sulla croce, fu in grado di sviluppare un tale potere dopo la sua morte, che Paolo seppe di essere dominato, redento, e benedetto da lui; e questo in una maniera così marcata da separare la sua stessa vita e il mondo intero in due parti: senza Gesù, con Gesù. Questo è un fatto che, spiegalo come possiamo, puramente come un fatto eccita la nostra meraviglia (!) e ci costringe a pensare in maniera elevata a Gesù”. [46] Che cosa eccita davvero la nostra meraviglia è questo stile di “dimostrazione” storica. E poi quanto peculiare è leggere, dal silenzio di un autore come Paolo per quanto riguarda il Gesù storico, un argomento a suo favore! Come se ciò non provi invece l'irrilevanza di una tale personalità per la genesi del cristianesimo! Come se il fatto che Paolo eresse una costruzione intellettuale metafisico-religiosa di indubitabile magnificenza debba necessariamente basarsi sulla “impressione travolgente della persona di Gesù”, dello stesso Gesù di cui Paolo non possedeva affatto nessuna conoscenza personale! I discepoli — che si suppone siano stati in stretto contatto con Gesù per molti anni — Paolo li evitò strenuamente, e dell'esistenza di questo Gesù non altri segni si devono trovare nelle sue epistole se non quelli che potrebbero avere un significato piuttosto differente. Oppure Paolo, come dice la teologia storica, rivelò di Gesù nei suoi sermoni più di quanto lo rivelò nelle epistole? Sicuramente ciò si potrebbe sostenere solamente dopo che sia stato stabilito innanzitutto che nel suo resoconto Paolo avesse in vista qualche Gesù storico.  
Questo sembra essere completamente problematico. L'“umanità” di Gesù figura come il punto centrale dell'idea paolina. E tuttavia il Gesù disegnato da Paolo non è un uomo, ma una personalità puramente divina, uno spirito celeste senza carne e sangue, un sovrumano fantasma impersonale. Egli è il “Figlio di Dio” reso manifesto in Paolo; il Messia predetto dalla Apocalittica ebraica; il “Figlio dell'Uomo” preesistente di Daniele e dei suoi seguaci; l'“uomo ideale” spirituale come egli apparve nella mente degli ebrei influenzati da idee platoniche; che anche Filone conosceva come il prototipo metafisico della comune umanità carnale e pensava di averlo trovato allegorizzato in Genesi 1:27. Egli è il “grande uomo” delle leggende indiane, che si supponeva fosse apparso anche in Buddha e in altre figure redentrici —il Purusha dei bramini vedici, il Manda d'Hajje e Hibil Ziwa della religione mandea influenzata da idee indiane, il Dio tribale dell'ebraismo sincretizzato. La conoscenza che Paolo possiede di questo Essere è per questa ragione non una conoscenza comune degli insegnamenti, ma una Gnosi, una coscienza immediata, una “conoscenza ispirata”; e tutte le dichiarazioni che lui fa al riguardo cadono entro la sfera della teosofia, della speculazione o metafisica religiosa, ma non della Storia reale. Come abbiamo dichiarato, il credo in un Gesù del genere era stato per un lungo tempo la proprietà di sette ebraiche, quando Paolo riuscì, sulla base delle sue impressionanti esperienze personali, a derivarla alla luce dalla segretezza di arcani religiosi, e a configurarla come il punto centrale di una nuova religione distinta dall'ebraismo.
“C'era sempre nella loro mente una fede in un rivelatore divino, in un'attività umano-divina, in una salvezza da ottenersi tramite sacramenti”. [47] Tra i popoli pagani circostanti per un tempo davvero lungo, e nei circoli ebraici almeno dai giorni dei profeti, vi era esistito un credo in un mediatore divino, un “Figlio di Dio”, un “Primogenito di tutta la creazione”, in cui fu creato tutto ciò che esiste, che discese sulla terra, umiliò sé stesso nell'assunzione di una forma umana, soffrì per l'umanità una morte vergognosa, ma resuscitò di nuovo vittorioso, e nella sua elevazione e trasfigurazione rinnovò contemporaneamente e spiritualizzò la terra intera. [48] Poi Paolo apparve — in un'epoca che era permeata come nessun'altra da una brama di redenzione; che, travolta dalla oscurità delle sue relazioni esterne, era posseduta dalla paura di potenze malvagie; che, penetrata dal terrore dell'imminente fine del mondo, stava aspettando ansiosamente questo evento e aveva perso la fede nel potere salvifico della vecchia religione — allora egli diede una tale espressione a quel credo da farlo apparire la sola via di fuga dalla confusione della esistenza presente. Può essere realmente necessaria l'ipotesi di un Gesù storico nel significato della concezione tradizionale, allo scopo di spiegare il fatto che gli uomini abbracciarono impetuosamente questa nuova religione di Paolo? È perfino probabile che le popolazioni intelligenti dei porti marittimi dell'Asia Minore e della Grecia, tra cui in particolare Paolo predicò il vangelo di Gesù, si sarebbero volti verso il cristianesimo per la ragione che in qualche tempo o in un altro, dieci o vent'anni prima, un predicatore itinerante dal nome di Gesù aveva fatto una “travolgente” impressione su ignoranti pescatori e artigiani di Galilea o Gerusalemme col suo proprio comportamento e i suoi insegnamenti, ed era stato creduto da loro il Messia atteso, il rinomato mediatore divino e redentore del mondo? Paolo non predicò l'uomo Gesù, ma il celeste essere spirituale, Cristo. [49] Il pubblico a cui Paolo si volgeva consisteva per la maggior parte di gentili; e a loro la concezione di un essere spirituale non presentava nessuna difficoltà. Non avrebbe potuto avere nessun rafforzamento, nesuna garanzia, della sua verità, tramite una dimostrazione dell'umanità di Gesù. Se i cristiani dell'inizio della nostra epoca storica fossero stati in grado di ottenere fede nel Dio Cristo soltanto tramite l'Uomo Gesù, Paolo avrebbe volto la sua attenzione da quello che, a lui, importava particolarmente; egli avrebbe oscurato il significato individuale del suo vangelo e avrebbe recato la sua intera speculazione religiosa in una falsa posizione, sostituendo un uomo Gesù all'uomo-Dio Gesù come lui lo comprese. [50
È detto che Paolo fosse nato nella città greca di Tarso in Cilicia, il figlio di genitori ebrei. A quel tempo Tarso era, al pari di Alessandria, una sede importante di cultura greca.
Qui fiorì la scuola dei più giovani Stoici, con il suo miscuglio di idee stoiche, orfiche, e platoniche. Qui i principi etici di quella scuola furono predicati in una forma popolare, per strada e nella piazza del mercato, da oratori del popolo. Non era affatto necessario per Paolo, allevato nell'austerità della religione ebraica della Legge, visitare le aule dei maestri Stoici al fine di ricavare una conoscenza delle concezioni stoiche, poichè a Tarso era come se l'atmosfera fosse ricolma di quella dottrina. Influenzava così profondamente la sua mente, forse a sua insaputa, che le sue epistole sono zeppe di espressioni e di idee del filosofo Stoico Seneca, e a questo si devono gli sforzi che sono stati fatti per rendere Seneca un allievo di Paolo, oppure il contratio, per rendere Paolo un allievo di Seneca. Esiste una corrispondenza, che è innegabilmente una invenzione, che pretende di esser passata tra i due.
Tarso, a dispetto della sua natura orientale, era una città ricolma di cultura e di maniere di pensiero greche, ma non solo di quelle. Le idee religiose e i motivi del tempo vi trovavano a loro volta un terreno fertile. A Tarso era adorato l'Ittita Sandan (Sardanapalo), un essere umano a cui Dioniso aveva conferito il dono divino della vita e della fecondità, che era identificato dai greci o con Zeus, oppure con Eracle, il “Figlio” divino del “Padre” Zeus. Egli passava per il fondatore della città, ed era rappresentato come un uomo barbuto con grappoli d'uva e spighe di grano, con un'ascia bipenne nella mano destra, in piedi su un leone o su una pira funebre; e ogni anno era consuetudine per un rappresentante umano del Dio, oppure in tempi successivi per la sua effigie, venir bruciato solennemente su una pira. [51] Ma Tarso era anche allo stesso tempo un centro delle religioni misteriche dell'Oriente. Il culto di Mitra, in particolare, vi fiorì, con la sua dottrina della morte e della rinascita mistiche di quelli accolti nella comunione, i quali erano in tal modo purificati dalla colpa della loro vita passata e guadagnavano una nuova vita immortale nello “Spirito”; con la sua festa sacra, durante la quale i credenti entravano in una comunione di vita con Mitra tramite condivisione del pane e del calice consacrati; con la sua concezione dell'efficacia magica del sangue della vittima, che puliva tutti i peccati; e col suo ardente desiderio di redenzione, purificazione, e santificazione dell'anima. [52] Paolo non fu indifferente a quelle e a simili idee. La sua concezione del significato mistico della morte di Cristo mostra ciò; nella cui concezione è espressa la totalità di questo tipo di pensiero religioso, sebbene in un nuovo contesto. In effetti, l'espressione (Galati 3:27), in cui è detto che i battezzati si sono “rivestiti di” Cristo, sembra essere copiata direttamente dai Misteri mitraici. Poichè in quelli, secondo una primitiva pratica animistica, gli iniziati di gradi differenti solevano presenziare nelle maschere di bestie, che rappresentavano l'esistenza di Dio sotto diversi attributi; cioè, solevano “rivestirsi” del Signore allo scopo di mettersi in una comunione più interiore con lui. Di nuovo, l'espressione paolina, che il calice e il pane consacrati alla Cena del Signore sono la “comunione con il corpo e il sangue di Cristo”, [53] ci rammenta con fin troppa forza il modo di esprimersi nei Misteri perchè questa concordanza sia puramente una coincidenza. [54
Se in queste circostanze Paolo, il cittadino di Tarso, ascoltò di un Dio ebraico dal nome di Gesù, le idee che gli erano associate non erano in alcuna maniera abbastanza nuove e insolite. Il Medioriente era, in effetti, come abbiamo visto, ricolmo dell'idea di un Dio giovane e bellissimo, che rianimava la Natura con la sua morte; con leggende popolari associate alla sua fine violenta e alla sua gloriosa resurrezione: e non semplicemente a Tarso, ma anche a Cipro e in innumerevoli altri luoghi del mondo civilizzato asiatico-occidentale, c'era la celebrazione annuale nella forma più impressionante della festa di questo Dio, il quale era chiamato Tammuz, Adone, Attis, Dioniso, Osiride, eccetera. Da nessuna parte, forse, vi era la celebrazione più magnificente che ad Antiochia, la capitale siriana. Ma ad Antiochia, se potremo credere agli Atti [55] su questo punto, il vangelo di Gesù era stato predicato anche prima di Paolo. È detto che uomini di Cipro e Cirene vi abbiano pronunciato la Parola del Cristo morto e risorto, non solo per gli ebrei ma anche per i greci, ed è detto che abbiano convertito parecchi dei pagani al nuovo “Signore”. Gli Atti ci raccontano questo dopo aver raccontato la persecuzione della comunità del Messia a Gerusalemme; rappresentando la diffusione del vangelo come una conseguenza della diaspora della comunità che seguì la persecuzione. Sembra, comunque, che Cipro — dove Adone era particolarmente adorato, a Pafo — e Cirene fossero proprio i primi centri da cui i missionari veicolarono in giro la fede in Cristo. [56] Di conseguenza il vangelo non era in origine nient'altro che un culto di Adone ebraizzato e spiritualizzato. [57] Quei più antichi missionari di cui ascoltiamo non avrebbero attaccato la fede dei pagani siriani: essi avrebbero dichiarato che Cristo, il Messia, il Dio delle religioni ebraiche, era Adone: Cristo è il “Signore”! Avrebbero solamente tentato di cooptare l'antica religione nativa di Adone nella sfera ebraica di pensiero, e con questi mezzi avrebbero tentato di veicolare la propaganda ebraica che potevano trovare dovunque all'opera, e che sviluppò una tale efficacia all'incirca l'inizio della nostra epoca come non ne aveva mai posseduto prima. Avrebbero veicolato la propaganda, non nel senso del punto di vista rigoroso della Legge, ma nel senso delle Apocalissi ebraiche e delle loro dottrine religiose. [58]
Un uomo come Paolo in effetti, che era stato educato alla scuola di Gamaliele come un maestro della Legge dello stretto indirizzo farisaico, non poteva starsene tranquillamente a guardare mentre il credo pagano di Adone, che egli, perfino nella sua città nativa di Tarso, deve aver sicuramente disprezzato come una superstizione blasfema, si stava unendo, nelle nuove sette religiose, alle concezioni ebraiche. “colui che è appeso è maledetto da Dio”, così stava scritto nella Legge; [59] e la cerimonia della purificazione — durante la quale un criminale veniva appeso, tra gli insulti del popolo, come il capro espiatorio dell'anno vecchio, mentre un altro veniva liberato come Mordecai, e condotto con onori regali per la città, per essere riverito come il rappresentante dell'anno nuovo — dev'essere stata ai suoi occhi solo un'altra dimostrazione della maledizione dell'albero, e della natura blasfema di un credo che onorava nell'uomo appeso il Salvatore divino del mondo, il Messia atteso dagli ebrei. Poi, all'improvviso, sopravvenne su di lui come se fosse un'illuminazione. Che cosa se le festività del siriano Adone, del frigio Attis, e così via, trattavano realmente dell'auto-sacrificio di un Dio che donava la sua vita per il mondo? Il martirio innocente di un uomo giusto come mezzo espiatorio per la giustificazione del suo popolo non era sconosciuto anche agli adepti della Legge sin dai giorni dei martiri maccabei. Il “servo sofferente di Dio”, come lo aveva raffigurato Isaia, suggerisce come abbastanza probabile l'idea che, proprio come tra i popoli pagani, anche in Israele un individuo avrebbe potuto rinnovare la vita di tutti gli altri mediante il suo sacrificio volontario. Non potrebbe essere vero, come sostennero gli adepti delle religioni di Gesù, che il Messia fosse realmente un “servo di Dio”, e avesse già realizzato l'opera di redenzione tramite la sua stessa morte volontaria? Secondo la visione pagana, le persone venivano espiate mediante il sacrificio espiatorio del loro Dio, e accadeva quella “giustificazione” di tutti al cospetto della Divinità che i pii farisei si aspettavano dalla stretta realizzazione della Legge ebraica. E tuttavia, quando Paolo paragonò la “giustizia” realmente raggiunta da lui stesso e da altri con l'ideale di giustizia a cui loro agognavano, come era richiesto nella Legge, allora deve averlo afferato un terrore dinanzi alla grandezza del contrasto tra l'ideale e la realtà; e allo stesso tempo egli potrebbe proprio aver disperato della giustizia divina, che richiedeva dal popolo il compimento della Legge, che abbatteva le persone al pensiero della fine imminente del mondo, e che, tramite la stessa natura dei suoi comandi, escludeva la possibilità che il Messia incontrasse al suo arrivo, come avrebbe dovuto fare, un popolo “giusto”. Coloro che si aspettavano la santificazione dell'umanità non dal compimento della Legge, ma immediatamente, tramite un'infusione di Dio stesso, erano realmente così tanto in torto? Non era insolito tra i popoli pagani che un uomo venisse sacrificato, al posto della Deità, come un rappresentante simbolico; nonostante già al tempo di Paolo era consuetudine rappresentare il Dio che si sacrifica solo tramite un'effigie, invece che da un uomo reale. Il punto importante, comunque, non era questo, ma l'idea che risiede al fondamento di questo auto-sacrificio divino. E questo non era influenzato dal fatto che la vittima fosse un criminale, che veniva ucciso nel ruolo dell'uomo innocente e giusto, e dal fatto che la volontarietà della sua morte fosse completamente fittizia. Non poteva anche essere, come affermavano i credenti in Gesù, che il Messia non si dovesse più aspettare, e ciò solo sulla base della giustizia umana; ma che invece egli fosse già apparso, e avesse già realizzato la giustizia irraggiungibile da un singolo essere umano tramite la sua morte vergognosa e la sua resurrezione gloriosa?
Il momento in cui quest'idea balenò nella mente di Paolo era il momento della nascita del cristianesimo come religione di Paolo. La forma in cui egli realizzò quella concezione era quella di un'Incarnazione di Dio; e allo stesso tempo questa forma era tale che egli introdusse con essa un impulso abbastanza nuovo nel vecchio modo di pensare. Secondo la concezione pagana un Dio in effetti si sacrificava per il suo popolo, senza con ciò cessare di essere Dio; e qui l'uomo sacrificato al posto di Dio era considerato semplicemente un rappresentante casuale del Dio che si auto-sacrifica. Secondo l'antica visione della fede ebraica era realmente il “Figlio dell'Uomo”, un essere dalla natura umana, che doveva discendere dal cielo ed effettuare l'opera di redenzione, senza, comunque, essere un uomo reale e senza soffrire e morire in forma umana. Con Paolo, al contrario, l'enfasi risiede proprio su questo, che il Redentore dovesse essere lui stesso realmente un uomo, e che l'uomo sacrificato al posto di Dio dovesse essere a sua volta il Dio che appare in forma umana: l'uomo non era semplicemente una rappresentazione di Dio come un essere celeste e soprannaturale, ma Dio stesso che appare in forma umana. Dio stesso diventa uomo, e in tal modo un uomo è esaltato alla Deità, e, come rappresentante espiatorio del suo popolo, può unire il genere umano con Dio. [60] L'uomo che è sacrificato per il suo popolo rappresenta da una parte il suo popolo agli occhi di Dio, ma dall'altra parte il Dio che sacrifica sé stesso per il genere umano agli occhi di questo popolo. E in tal modo, nell'idea della vittima espiatoria rappresentativa, la separazione tra Dio e Uomo è cancellata, ed entrambi si fondono direttamente nella concezione del “Dio-uomo”. Dio diventa uomo, e in questo modo il genere umano è abilitato a diventare Dio. L'uomo è sacrificato tanto al posto di Dio quanto in quello del genere umano, e così unisce entrambe le contraddizioni in una unità all'interno di sé stesso.
È evidente che in realtà si trattava semplicemente di un nuovo contesto per l'antica concezione dell'auto-sacrificio rappresentativo di Dio — in cui il genitivo si deve interpretare sia nel suo significato soggettivo che nel suo significato oggettivo. Nessuna personalità storica, che dovesse aver vissuto, per così dire, come un esempio del Dio-uomo, era in qualche modo necessaria per produrre quello sviluppo paolino della religione di Gesù. Infatti le casuali personalità degli uomini che rappresentavano il Dio vennero sotto considerazione proprio altrettanto poco per Paolo come per i pagani; e quando anch'egli, con gli altri ebrei, indicava nel Messia Gesù  il discendente carnale di Davide “secondo la carne”, [61] ossia, come un uomo; quando egli lo trattava come “nato da donna”, egli non pensava per nulla a qualche personalità concreta, che avesse incarnato ad un certo tempo la divinità all'interno di sé, ma puramente all'idea di un Messia nella carne; proprio come il servo sofferente di Dio di Isaia, perfino a dispetto del legame di quest'idea con un sacrificio umano realmente realizzato, aveva posseduto soltanto un significato ideale immaginario o allegorico. Sempre è sul punto di sollevarsi l'obiezione che Paolo deve aver concepito Gesù un individuo storico perchè lo indica come il discendente carnale di Davide, e lo rende “nato da donna” (Galati 4:4). Ma come altrimenti avrebbe potuto nascere? (Si veda Giobbe 14:1). Il portare in prominenza la nascita da donna, come pure l'enfasi generale riposta dall'Apostolo sull'umanità di Gesù, è diretta contro gli gnostici della comunità corinzia, ma non prova nulla di sorta quanto al Gesù storico. E la discendenza da Davide era parte delle caratteristiche tradizionali del Messia; così che Paolo avrebbe potuto dirlo di Gesù senza riferirsi ad un discendente reale di Davide. Ma ancor meno è provato dal fatto che Paolo, in Galati 3:1, rimprovera i Galati per aver visto il Cristo crocifisso “rappresentato al vivo”; noi allora dovremmo dichiarare a nostra volta che vi fosse un diavolo e un inferno reali, perchè quelli sono rappresentati ai fedeli dai “curatori delle loro anime” quando predicano. Qui allora risiede la spiegazione del fatto che l'“uomo” Gesù rimase un fantasma intangibile a Paolo, e del fatto che egli possa parlare di Cristo come un uomo, senza pensare ad una personalità storica nel senso della teologia liberale del giorno odierno. L'uomo ideale, come Paolo rappresentò Gesù a sé stesso — l'essenza di ogni esistenza umana — la razza umana considerata come una persona, che rappresentava l'umanità a Dio, proprio come l'uomo sacrificato nel suo ruolo aveva rappresentato la Deità al popolo — l'“Uomo” da cui solo dipendeva la redenzione — è e rimane un Essere metafisico — proprio come l'Idea di Platone oppure il Logos di Filone sono non meno esistenze metafisiche a causa della loro discesa nel mondo dei sensi e della loro assunzione in esso di una precisa corporeità individuale. E ciò che Paolo insegna riguardo l'“uomo” Gesù è solo uno sviluppo dettagliato e approfondito di quel che i Mandei credevano del loro Manda d'Hajje o del loro Hibil Ziwa, e di quel che prevedevano le religioni ebraiche sotto l'influenza delle Apocalissi nelle loro dottrine misteriose del Messia. Per Paolo la discesa, la morte e la resurrezione di Gesù rappresentavano una storia eterna ma non una storia reale nel tempo; e così ricercare in Paolo i segni di un Gesù storico equivale a fraintendere il punto principale nella sua visione religiosa del mondo.
Dio, il “padre” del nostro “Signore” Gesù Cristo, “risvegliò” suo figlio e lo inviò giù sulla terra per la redenzione del genere umano. Sebbene originariamente uno con Dio, e per quella stessa ragione un essere divino, Cristo nondimeno rinunciò alla sua originaria esistenza soprannaturale. In contraddizione al suo Essere reale egli cambiò la sua natura spirituale per “la somiglianza di carne di peccato”, rinunciò al suo regno celeste per la povertà e la miseria dell'esistenza umana, e venne al genere umano nella forma di un servo, “essendo trovato nell'esteriore simile ad un uomo”, al fine di recare redenzione. [62] Infatti l'uomo è incapace di ottenere la salvezza religiosa tramite sé soltanto. In lui lo spirito è legato alla carne, il suo Essere divino supersensible è incatenato al lato materiale della realtà sensibile, e per quella ragione egli è soggetto “per natura” alla disgrazia e al peccato. Ogni carne è necessariamente “carne di peccato”. L'uomo è indotto a peccare proprio nella misura in cui egli è un essere della carne. Adamo, inoltre, è l'originatore di ogni peccato umano solo per la ragione che era “nella carne” — cioè, un Essere finito imprigionato nella corporeità. Probabilmente Dio donò la Legge al genere umano, al fine di mostrare loro la via giusta nella loro oscurità; e in tal modo aprì la possibilità di essere dichiarato giusto o “giustificato” di fronte alla sua corte, tramite il compimento dei suoi comandi; ma è impossibile osservare i comandamenti nella loro piena severità.
E tuttavia solo il compimento incessante dell'intera Legge può salvare il genere umano dalla giustizia. Noi siamo tutti peccatori. [63] Così la Legge in effetti risvegliò la conoscenza della colpa, e portò il peccato alla luce tramite la sua violazione; ma ha allo stesso tempo aumentato la colpa. [64] Si è rivelata un maestro rigoroso e sorvegliante severo nella rettitudine, senza, tuttavia, condurre a sua volta alla giustizia. Così poco si è rivelata essere il desiderato mezzo di salvezza, che si potrebbe egualmente dire di essa che fosse stata data da Dio non allo scopo di salvare il genere umano, ma solo di renderlo ancor più miserabile. Di conseguenza Paolo avrebbe attribuito piuttosto la mediazione della Legge di Mosè non a Dio stesso ma ai suoi angeli, così da dispensare Dio dalla colpa della Legge. [65] Così questa circostanza è di tanta maggiore conseguenza per il genere umano, perchè il peccato provocato dalla Legge trascinò irresistibilmente la morte al suo seguito; e ciò privò gli uomini anche dell'ultima possibilità di diventare eguali alla loro più elevata natura spirituale. Così l'uomo è collocato a metà strada tra la luce e l'oscurità — un Essere miserevole. Il suo spirito, che è affine a Dio, lo trascina verso l'alto; e lo trascinano verso il basso lo spirito malvagio e i demoni, gli spiriti malvagi che governano questo mondo e che lo attirano nel peccato — e che sono in fondo nient'altro che personificazioni mitiche dei desideri peccaminosi e carnali dell'uomo.
Ora Cristo penetra in questo mondo di oscurità e di peccato. Come un uomo tra uomini, egli penetra nella sfera su cui il potere e la carne hanno potere, e deve morire come altri uomini. Ma per il Dio incarnato la morte non è ciò che è nel senso comune. Per lui si tratta solo della liberazione dalla condizione inconsueta della carne. Quando Cristo muore, egli semplicemente si libera dalle catene della carne e lascia la prigione del corpo, lascia la sfera su cui il peccato, la morte, e gli spiriti maligni detengono la loro influenza. Egli, il Dio-uomo, muore al peccato, che gli era una volta sconosciuto, una volta per tutte. Prevalendo sul potere della morte nella sua resurrezione, il Figlio riottiene, per mezzo della morte, la sua originaria esistenza individuale, la vita perpetua in e con il Padre. [66] Così anch'egli ottiene dominio sulla Legge, poichè questa regna solo nella misura in cui ci sono uomini carnali di terra e cessa di tenere la sua presa su di lui al momento in cui Cristo si leva al di sopra della carne e ritorna alla sua pura natura spirituale. Se ci fosse in maniera simile la possibilità per il genere umano di morire alla loro carne, allora essi sarebbero redenti, come lo fu Cristo, dal peccato, dalla morte, e dalla Legge.
C'è, difatti, tale possibilità. Risiede in questo: anche Cristo stesso non è nient'altro che l'idea della razza umana concepita come una personalità, l'idea platonica dell'Umanità personificata, l'uomo ideale come un'essenza metafisica; e così nel suo fato il fato di tutto il genere umano è realizzato. In questo senso vale il detto, “Se uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono”. [67] Allo scopo di diventare partecipi del frutto di questa morte di Gesù, è necessario certamente che il singolo uomo diventi realmente uno con Cristo; che egli entri in un'unità interiore con il rappresentante, con il tipo divino della razza umana, non semplicemente in maniera soggettiva, ma oggettivamente e realmente; e questo prende luogo, secondo Paolo, per mezzo della “fede”. La fede, come la comprende Paolo, non è un credo puramente esteriore nella realtà della morte di Gesù come una vittima e della sua resurrezione, ma la conversione dell'intero uomo a Gesù, l'unificazione spirituale con lui e la disposizione divina prodotta in tal modo, da cui l'azione morale corrispondente procede da sé. È solo in questo senso che Paolo pone la fede al di sopra delle opere richieste dalla Legge. Un'azione che non procede dalla fede, dalla convinzione più profonda del divino, non possiede un valore religioso, per quanto sia mai conforme alla lettera della Legge. Quella è una concezione che Paolo condivise completamente con la filosofia stoica della sua epoca, e che doveva essere portata sempre più in espressione nelle cerchie più avanzate della civiltà antica. L'uomo è giustificato non per mezzo della Legge, non mediante le opere, ma tramite la fede; la fede, anche senza opere, è considerata come giustizia. [68] È solo un'altra espressione per lo stesso pensiero quando Paolo dice che Dio giustifica l'uomo, non secondo il suo merito e le sue azioni, ma “gratuitamente”, “di sua grazia”. Nella concezione della religione ebraica della Legge l'idea di giustificazione possiede un significato puramente giuridico. La ricompensa qui corrisponde esattamente al merito. La giustificazione non è nient'altro che un “obbligo” secondo uno schema irrevocabile. Nella nuova concezione di Paolo è, al contrario, un prodotto naturale della pietà di Dio. Ma la pietà consiste infine in questo, che Dio di sua propria volontà sacrificò suo Figlio, così che l'umanità possa partecipare agli effetti della sua opera di redenzione per “fede” in lui, e per l'unità che lui ha così recato. Ma la fede è solo un modo per diventare uno con Dio; e l'unità reale con lui dev'essere effettuata anche esteriormente. Il battesimo e la Cena del Signore devono aggiungersi alla fede. Là Paolo segue direttamente i Misteri e la loro concezione sacramentale dell'unificazione dell'uomo con la deità; e mostra il legame delle sue proprie dottrine con quelle delle religioni pagane. Col suo battesimo, la sua immersione e la sua scomparsa nelle profondità delle acque, l'uomo è “sepolto nella morte” con Cristo. Nel fatto che egli si leva ancora una volta dalle acque, è realizzata la resurrezione con Cristo ad una nuova vita, non semplicemente in una forma simbolica ma anche in una magica forma mistica. [69] E Cristo è come se lo avesse “rivestito” [70] attraverso il Battesimo, così che da qui in anvanti il battezzato è, non più potenzialmente ma realmente, uno con Cristo; Cristo è in lui, ed egli è in Cristo. La Cena del Signore è in effetti per un verso una festa di amore e ricongiunzione fraterna, in memoria del Salvatore; proprio come gli adepti di Mitra solevano tenere le loro mense fraterne (Agapi) in memoria della festa di congedo del loro Dio con il suo stesso popolo. [71] Ma per un altro verso si tratta di una comunione mistica del sangue e del corpo di Cristo, tramite il sorso del calice sacramentale e il consumo del pane sacramentale — una comunione mistica in nessun altro senso se non quello in cui i pagani pensavano di entrare in comunione interiore coi loro Dèi mediante feste sacrificali, ed in cui i selvaggi credono generalmente perfino oggi che tramite il consumo della carne di un altro, sia di bestia o di uomo, e tramite il sorso del suo sangue, di diventare partecipi del potere che risiede in lui. [72] Anche per Paolo il battesimo e la Cena del Signore sono a tale misura processi puramente naturali o pratiche magiche, da non obiettare alla pratica pagana di battezzare, per procura,  cristiani vivi per quelli morti; e a sua opinione il mangiare e il bere indegnamente alla Cena del Signore producono corruzione e morte. [73] Da questa prospettiva, di conseguenza, non può esserci nessun discorso di un “superamento del naturalismo dei misteri pagani” in Paolo; e attribuirgli una concezione molto più elevata o più spirituale del sacramento rispetto a quello che ne avevano i pagani sembra dificile da riconciliare con le sue esplicite dichiarazioni. [74]
Ora Cristo, come già dichiarato, è per Paolo solo un'espressione sintetica per la totalità ideale degli uomini, che è con ciò rappresentata come un essere personale individuale. È chiaramente l'idea platonica dell'umanità, e nient'altro; proprio come Filone personificò l'intelligenza divina e fece identificare questa con l'“uomo ideale”, con l'idea di umanità. [75] Come nella visione platonica l'unione dell'uomo con l'ideale avviene mediante l'amore, tramite l'immediata percezione intellettuale sulla base della conoscenza ideale, e la contraddizione tra il mondo dei sensi e il mondo delle idee è superata dagli stessi mezzi; come anche in tal modo l'uomo è elevato all'appartenenza nel cosmo delle idee; proprio in una maniera simile, secondo Paolo, i cristiani si uniscono assieme per mezzo della fede e dei sacramenti in momenti costitutivi dell'umanità ideale. Così essi realizzano l'idea dell'umanità, ed entrano in una comunione mistica con Gesù, che a sua volta, come abbiamo già detto, rappresenta quest'idea nella sua globalità unificata. La conseguenza di questo è che tutto ciò che è realizzato in Cristo è a sua volta esperito assieme a lui, in una maniera misteriosa, da quelli uomini che sono uniti con lui. Di conseguenza loro possono ora definirsi “membri dell'unico corpo di Cristo”, che è la sua “testa” o “Anima”; e questo in effetti nello stesso senso in cui in Platone le idee diverse non formano che membri e momenti dell'unico mondo di idee, e la loro pluralità è distrutta nell'unità dell'idea globale e determinante dell'Uno o del Buono.
Proprio ciò che un'elevazione dello spirito al mondo delle idee è per Platone, l'unione del genere umano con Cristo lo è per Paolo. Ciò che l'uomo realmente in possesso di conoscenza, il “sapiente”, è per il primo, “Cristo” lo è per il secondo. Ciò che là è definito Eros — il mediatore dell'unità tra il mondo delle idee e il mondo sensibile, dell'Essere e dell'Essere Cosciente, del pensiero oggettivo e del pensiero soggettivo, e allo stesso tempo la stessa essenza di ogni pensiero oggettivo — qui è definito Cristo. Eros è chiamato da Platone il figlio di ricchezza e povertà, che reca la “natura e i segni” di entrambi: “Egli è sempre povero, e manca molto che sia delicato e bello, quale molti lo reputano: è duro, sudicio, scalzo, senza casa, sempre nudo per terra, e dorme sotto il cielo presso le porte o per le strade, e poiché ha la natura della madre si trova a convivere sempre con l'indigenza”“Per natura non è immortale né mortale e talora nello stesso giorno fiorisce e vive, quando prospera, ma talvolta muore e resuscita ancora, proprio per la natura del padre”. [76] Così anche il Cristo paolino contiene tutta la pienezza dell'Umanità [77] ed è lui stesso il “Figlio di Dio”; tuttavia nondimeno Cristo si abbassa, assume la forma di un servo, diventa Uomo, e muore, in tal modo collocandosi in diretta opposizione alla sua natura reale, ma solo per risorgere di nuovo continuamente in ogni uomo individuale e consentire al genere umano di partecipare alla sua stessa vita. E come Cristo (in 1 Timoteo 2:5) è il “mediatore” tra Dio e gli uomini, così anche l'Eros Platonico “sta in mezzo tra l'immortale e il mortale”. “Eros, o Socrate, è un demone, un gran demone. Infatti tutto ciò che ha parte del demone sta in mezzo al divino e al mortale. il suo potere è di far capire agli dèi e di trasmettere loro quel che viene dagli uomini e agli uomini quel che viene dagli dèi, di quelli invocazioni e sacrifici, di questi i comandi e i compensi per i sacrifici. Nel mezzo tra questi e quelli colma l'esistente, dì modo che il tutto è strettamente collegato con sé stesso. Per suo tramite avanza la mantica tutta e la dottrina dei sacerdoti riguardo i sacrifici, le celebrazioni dei misteri, gli incantesimi, ogni sorta di divinazione e di magia. Il dio non ha relazione con l'uomo, ma attraverso Amore avviene ogni contatto e dialogo tra gli dèi e gli uomini o quando vegliano o quando dormono. Chi è sapiente in tutte queste cose è un uomo che ha parte del divino”. A questo proposito rammentiamo che Eros appare nel “Timeo” sotto il nome dell'“anima del mondo”, e questo è ritenuto da Platone in possesso della forma di una croce obliqua. [78]  
L'Eros Platonico è la personificazione mitica della concezione per cui la contemplazione dell'Essere (genitivo oggettivo) come tale è allo stesso tempo una contemplazione dell'Essere (genitivo soggettivo); oppure della concezione per cui nella contemplazione delle Idee il pensiero soggettivo del Filosofo e  la Realtà oggettiva ideale per così dire si incontrano a vicenda da due lati e si fondono direttamente in un'unità. [79] È così solo la formulazione scientifica e astratta dell'idea fondamentale dell'antico Culto Ariano del Fuoco. Secondo quest'idea il sacrificio di Agni — cioè, la vittima che l'uomo offre a Dio — è come tale parimenti il sacrificio di Agni, la vittima che Dio offre, e in cui egli si sacrifica per l'umanità. È in accordo con quest'idea il fatto che secondo Paolo la morte e la resurrezione di Cristo, poichè avvengono nella coscienza del credente, rappresentano una morte e una resurrezione di Cristo come una personalità divina: l'uomo muore e vive di nuovo con Cristo, e Dio e l'uomo sono fusi completamente assieme nel credente. Come il genere umano tramite questo mezzo diventa un “membro” del “Corpo di Cristo”, così nella concezione vedica il partecipe del sacrificio del Dio del Fuoco, assaggiando il sangue e consumando il pane sacro, è associato ad un corpo mistico, ed è infuso dell'unico Spirito di Dio, che distrugge i suoi peccati nel suo fuoco sacro, e fluisce attraverso di lui con un nuovo potere di vita. In India, dal culto del Dio del Fuoco e dall'unità completa di Dio e uomo ottenuta in tal modo, si sviluppò il Bramanesimo, e ottenne un'influenza su tutti i popoli indiani. In Platone la contemplazione intellettuale formava la base della conoscenza. Egli collocava il sapiente al vertice dell'organismo sociale, e considerava il filosofo il solo uomo adatto per il governo del mondo. E lo sviluppo futuro della Chiesa come una “Comunione di Santi” appare già nella concezione paolina dei fedeli come il “Corpo di Cristo”, in cui è realizzata l'Idea della razza umana (Cristo), come il regno di Dio sulla terra, come l'umanità vera, come l'apparizione materiale del divino uomo ideale, la cui appartenenza costituisce il dovere del genere umano, e senza la quale è impossibile per l'uomo vivere nella sua reale natura ideale.
La filosofia antica aveva tentato invano fino ad ora di superare la contraddizione tra il mondo sensoriale e il mondo delle idee, e di distruggere l'incertezza del pensiero e della vita umani che risulta da questa contraddizione. Dal tempo di Platone aveva lavorato al problema di unificare, senza contraddizione, la Natura e lo Spirito, la cui natura contradditoria era stata fatta notare per prima dal fondatore dell'idealismo metafisico. La religione, in particolare nei culti misterici, aveva tentato di risolvere in una maniera pratica il problema che sembrava insolubile con mezzi astratti, e aveva cercato di assicurare all'uomo una nuova base e una dimora confortevole per mezzo di devozione e di “rivelazione” — uno sprofondamento mistico nelle profondità di Dio. Ma il cristianesimo di Paolo diede per prima una forma a tutto questo oscuro desiderio, una forma che univa i brividi e la gioia dell'estasi mistica con la certezza di una visione religiosa globale del mondo, e illuminava gli uomini quanto al significato più profondo del loro impulso emotivo verso la certezza: l'uomo ottiene unità con Dio e la certezza quanto alla vera realtà, non mediante una dialettica astratta, come supponeva Platone; non per avvistamento logico nel cosmo nel senso di una conoscenza astratta ricavabile solo dai pochi, ma tramite la fede, tramite l'atto divino di redenzione. L'adozione interiore di questo, in tal modo il viverlo direttamente — questo soltanto può dare all'uomo la possibilità di emergere dall'incertezza e dall'oscurità dell'esistenza corporea alla chiara luce della vita spirituale. Ogni certezza della natura vera o essenziale è di conseguenza una certezza di fede, e non c'è una certezza più elevata di quella che è data agli uomini nella fede e nella devozione. Come Cristo morì e fu liberato in tal modo dai vincoli del corpo e del mondo, così anche l'uomo deve morire nello spirito. Egli deve porre da parte il fardello di questo corpo, la causa reale di tutte le sue vicissitudini morali e intellettuali. Egli deve risorgere interiormente con Cristo e nascere nuovamente, in tal modo prendendo parte alla sua certezza spirituale e ricavando assieme alla “Vita nello Spirito” la salvezza da tutte le sue vicissitudini del presente. È vero che esteriormente il corpo esiste ancora, anche dopo che è accaduto l'atto interiore di redenzione. Anche quando l'uomo che morì con Cristo è risorto ed è diventato un uomo nuovo, egli è nondimeno ancora soggetto a limitazioni corporee. L'uomo redento è ancora nel mondo e deve combattere con le sue influenze. Ma ciò che l'uomo ottiene nell'unione con il corpo di Cristo è lo “Spirito” di Cristo, che detiene assieme i membri del corpo, si rivela attivo in ogni cosa che appartiene al corpo, e agisce nell'uomo come un potere soprannaturale. Questo spirito, in quanto dimora da ora in poi nell'uomo redento, lo muove e lo dirige e lo guida in ogni azione; solleva l'uomo idealmente al di sopra di tutti i limiti della sua natura carnale; lo rafforza nella sua debolezza; gli mostra l'esistenza in una nuova luce, così che da qui in avanti egli si sente non più vincolato; gli dà la vittoria sui poteri della morte, e gli fa anticipare, perfino nella sua vita, la benedizione della sua redenzione reale e finale nella vita a venire. [80] Ma lo spirito di Cristo come tale è a sua volta lo spirito divino. Così che i redenti, appena ricevono lo spirito di Cristo, sono i “figli” di Dio stesso, e questo è espresso dal detto che con lo spirito essi “ereditano la libertà della gloria dei figli di Dio”. [81] Poichè, come dice Paolo, “il Signore è lo Spirito, e dov'è lo spirito, vi è libertà”. [82]
Così che quando il cristiano si sente trasformato in una “nuova creatura”, provvisto del potere della conoscenza e della virtù, benedetto nella consapevolezza della sua forza vittoriosa sui desideri carnali, e guadagna la sua pace nella fede, questa è solamente la conseguenza di uno spirito sovrumano che opera in lui. Da qui le virtù cristiane di Amore Fraterno, Umiltà, Obbedienza, ecc., sono conseguenze necessarie del possesso dello Spirito: “Se viviamo per lo Spirito, camminiamo altresì per lo Spirito”. [83] E se i fedeli sviluppano rapidamente una pienezza di poteri nuovi e meravigliosi, che eccedono la natura comune dell'uomo — come per esempio la facilità nelle “lingue”, nella profezia, e nella guarigione dei malati — questo si deve spiegare, nella visione superstiziosa dell'epoca, soltanto con l'attività interiore di un essere spirituale soprannaturale che è penetrato nell'uomo da fuori. Di certo non sembra chiaro, nella concezione paolina della redenzione, come questo spirito celeste possa essere allo stesso tempo lo spirito dell'uomo — come possa essere attivo nell'uomo senza rimuovere lo spirito particolare e originale dell'uomo, e senza ridurre l'individuo ad uno strumento passivo, ad una marionetta inerte senza auto-determinazione e responsabilità; come l'uomo “posseduto” da tale spirito possa sentirsi nondimeno libero e redento dallo Spirito. Poichè si tratta in verità di uno spirito alieno, uno spirito che non gli appartiene in essenza, che penetra nell'uomo tramite l'unione con Cristo. Tuttavia si suppone che sia lo spirito, non semplicemente del singolo uomo, ma anche lo spirito personale del Cristo. Uno e lo stesso spirito che assume un corpo celeste di luce deve essere assiso alla destra del Padre nei cieli, e dev'essere sulla terra anche lo spirito di coloro che credono in lui, ponendosi ad operare in loro come la fonte della Gnosi, della piena conoscenza mistica; e, come il potere di Dio, come lo spirito della salvezza, deve produrre in loro effetti soprannaturali. [84] Dev'essere da una parte un essere spirituale oggettivo e reale che in Cristo diventa uomo, muore, e risorge di nuovo; e dall'altra parte dev'essere un interiore potere soggettivo, che produce in ogni singolo uomo l'estinzione della carne ed una nuova nascita che dev'essere condivisa dai fedeli come il frutto della loro redenzione individuale. Questo è comprensibile forse nel modo di pensiero di un'epoca per cui l'idea di personalità non aveva ancora un significato definito, e che di conseguenza non vide contraddizione in questo, nel fatto che uno spirito di Cristo personale dovesse allo stesso tempo dimorare in un numero di spiriti individuali; e che non facesse differenza tra l'unico, o piuttosto il continuo, atto di redenzione da parte di Dio e la sua continua ripetizione temporale nell'individuo. Possiamo comprendere questo solo se il Cristo paolino è un essere puramente metafisico. Al contrario, è molto incomprensibile se si suppone che Paolo avesse ricavato la sua idea del mediatore di salvezza da qualche esperienza di un Gesù storico e della sua morte reale. Soltanto perchè nella sua dottrina del potere salvifico dello spirito di Cristo Paolo non aveva pensato a nessuna particolare personalità umana egli avrebbe potuto immaginare che l'immanenza del divino nel mondo sia stato mediato da quello spirito. Soltanto perchè egli non associò nessun'altra idea alla personalità di Gesù se non le idee che il libro della Sapienza oppure Filone associarono ai loro principi particolari di immanenza, egli dichiara che Cristo reca la salvezza. Così che Cristo, in quanto il principio di redenzione, è per Paolo solo una personalità allegorica o simbolica e non una personalità reale. Egli è una personalità come lo erano le divinità pagane, che passavano per potenze cosmiche generiche senza pregiudicare la loro apparizione nella forma umana. La personalità è per Paolo solo un altro modo di esprimere la spiritualità soprannaturale e l'azione diretta del principio di redenzione, a differenza dei poteri che operano ciecamente e delle realtà materiali del naturalismo religioso. Serve semplicemente a suggerire una spiritualità ad un'epoca che poteva rappresentare lo spirito solo come un materiale fluido. Corrisponde semplicemente alla concezione popolare del principio di redenzione, che trattava questo come se fosse vincolato all'idea di un essere umano. Ma non si riferiva in alcuna maniera ad un reale individuo storico, mostrando, di fatto, proprio per l'incertezza e l'oscillazione dell'idea, quanto fosse lontano il Cristo della dottrina paolina di redenzione dalla sua associazione con una definita realtà storica.
Non perchè egli stimò e riverì così altamente Gesù come una personalità storica che Paolo rese Cristo il portatore e mediatore di redenzione, ma perchè egli non sapeva nulla affatto di un Gesù storico, di un individuo umano con questo nome a cui sarebbe stato in grado di attribuire l'opera di redenzione. “I fedeli discepoli”, considera Wrede, “non avrebbero potuto credere così facilmente che l'uomo che si era seduto con loro a tavola a Cafarnao, oppure che aveva viaggiato con loro sul Mare di Galilea, fosse il creatore del mondo. Per Paolo questo ostacolo era assente”. [85] Ma si suppone nondimeno che Paolo avesse incontrato Giacomo, il “fratello del Signore”, e avesse avuto relazioni con lui che avrebbero certamente modificato la sua opinione di Gesù, se qui ci fosse stata realmente una questione di fratellanza fisica. Che idea meravigliosa i nostri teologi devono avere di un uomo come Paolo se pensano che avrebbe potuto capitargli di legare tali tremende concezioni ad un individuo umano Gesù come egli le lega al suo Cristo! È vero che c'è un tipo di estasi religiosa in cui la differenza tra l'uomo e Dio è completamente persa di vista; e, specialmente al principio della nostra era, nel periodo dell'adorazione di Cesare e della più profonda superstizione religiosa, non era di per sé insolito deificare, dopo la sua morte, un uomo che fosse altamente stimato. Una grande assenza di ragione, una grande confusione mentale, un'immenso volo dell'immaginazione, sarebbe stato necessario per trasformare un uomo deceduto da poco, che fosse ancora ricordato chiaramente dai suoi familiari e contemporanei, non semplicemente in un eroe divino o semidio, ma nel principio spirituale formatore del mondo, nel mediatore metafisico di redenzione e nel “secondo Dio”. E se, come riconosce perfino Wrede nelle parole citate sopra, la conoscenza di Gesù fosse stata realmente un “ostacolo” alla sua apoteosi, come si deve spiegare che i “Primi Apostoli” a Gerusalemme si attennero senza nessuna eccezione a quella rappresentazione di Paolo? Essi sicuramente sapevano chi era stato Gesù; essi conoscevano il Maestro per il continuo peregrinare per parecchi anni con lui. E per quanto altamente potessero sempre aver pensato del Gesù risorto, per quanto intimamente potessero aver congiunto nella loro mente la memoria dell'uomo Gesù con l'idea prevalente del Messia, secondo l'opinione teologica prevalente, si suppone che perfino loro non si siano elevati in alcun modo a tale illimitata deificazione del loro Signore e Maestro come quella che Paolo intraprese in un periodo relativamente breve dopo la morte di Gesù.
“Paolo credeva già in un Essere celeste del genere, nel Cristo divino, prima di aver creduto in Gesù”. [86] La verità è che egli mai credette del tutto nel Gesù della teologia liberale. L'“uomo” Gesù già apparteneva alla sua fede in Cristo, nella misura in cui l'atto di redenzione di Cristo era ritenuto consistere nella sua umiliazione di sè e nel suo diventare uomo — e nessun Gesù storico era necessario per quello. Anche per Paolo, come per l'intero mondo pagano, l'uomo veramente sacrificato al posto di Dio era al più semplicemente un simbolo fortuito del Dio che si presenta come vittima. Quindi non si può dire che l'uomo Gesù non era altro che “il portatore di tutte le grandi qualità”, che come tale era stato determinato da lungo tempo; [87] oppure, come la mette Gunkel, che i discepoli entusiasti avessero trasferito su di lui tutto ciò che l'ebraismo precedente era stato abituato ad attribuire al Messia; e che di conseguenza la cristologia del Nuovo Testamento, a dispetto della sua natura non-storica, fosse nondimeno “un inno possente che la Storia reale canta a Gesù” (!). [88] Una volta che concordiamo quanto all'esistenza di un Gesù pre-cristiano — e anche Gunkel, indipendentemente da Robertson e da Smith, ha contribuito al riconoscimento di questo fatto — allora questo non può che produrre in primo luogo un forte sospetto contro il Gesù storico; e sembra un disperato sotterfugio della teologia “critica” cercare di trovare una conferma, dall'esistenza di un Gesù pre-cristiano, per il significato “unico” del loro Gesù “storico”.
La vita e la morte di Cristo non sono per Paolo nè il raggiungimento morale di un uomo e neppure in qualche maniera fatti storici, ma qualcosa di sopra-storico, eventi nel mondo sovra-sensible. [89] Inoltre, l'“uomo” Gesù viene introdotto in Paolo, proprio come fece il servo sofferente di Dio per Isaia, esclusivamente come un'idea, e la sua morte, al pari della sua resurrezione, non è che la condizione puramente ideale mediante cui si realizza la redenzione. “Se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede”. [90] Su questa dichiarazione è stata finora fondata la dimostrazione principale del fatto che un Gesù storico fosse per Paolo la presupposizione della sua dottrina. Ma in realtà quella dichiarazione sulle labbra di Paolo non punta a nulla se non alla fede dei suoi contemporanei, che si attendevano una salvezza naturale e religiosa dalla resurrezione del loro Dio, se si chiamasse Adone, Attis, Dioniso, Osiride, o qualsiasi altro.
Perciò il fatto è stabilito, che Paolo non sapeva nulla di un Gesù storico; e che anche se avesse conosciuto qualcosa di lui, questo Gesù in ogni caso non recita nessuna parte per lui, e non esercitò nessun'influenza sullo sviluppo della sua visione religiosa del mondo. Consideriamo l'importanza di questo: lo stesso uomo da cui deriviamo la prima testimonianza scritta quanto al cristianesimo, che fu il primo in ogni modo a stabilirlo come una nuova religione differente dall'ebraismo, sulle cui dottrine soltanto è dipeso l'intero sviluppo ulteriore del pensiero cristiano — questo Paolo non conosceva assolutamente niente di Gesù come una personalità storica. In realtà, con giustizia perfetta dal suo punto di vista egli fu perfino indotto a scusarsi, quando altri desideravano illuminarlo quanto a tale personalità! Al giorno presente sarà riconosciuto da tutte le persone ragionevoli che, come ha dichiarato Ed. von Hartmann più di trent'anni fa, senza Paolo il movimento cristiano sarebbe scomparso nella sabbia, proprio come hanno fatto parecchie altre religioni ebraiche — nel migliore dei casi per offrire all'interesse degli investigatori una curiosità storica — e Paolo non aveva nessuna conoscenza di Gesù! La formazione e lo sviluppo della religione cristiana cominciò molto tempo prima che apparisse il Gesù dei vangeli, ed era completamente indipendente dal Gesù storico della teologia. La teologia non ha nessuna giustificazione per trattare il cristianesimo semplicemente come il “cristianesimo di Cristo”, come è ora abbastanza evidente; e neppure dovrebbe presentare una veduta della vita e delle dottrine di un ideale uomo Gesù come la religione cristiana. [91]            
La questione sollevata all'inizio, riguardo ciò che apprendiamo da Paolo circa il Gesù storico, ha trovato la sua risposta — nulla. Vi è poco valore, allora, nell'obiezione ai non-credenti in un tale Gesù che è brandita dalla parte teologica in toni trionfanti: che l'esistenza storica di Gesù è “stabilita certissimamente” da Paolo. Quest'obiezione proviene, in realtà, perfino da persone che considerano il Nuovo Testamento, sotto altri aspetti, con vedute più evidentemente scettiche. La verità è che le epistole paoline non contengono nulla che ci indurrebbero al credo in un Gesù storico; e probabilmente nessuno troverebbe un tale personaggio in loro se quel credo non fosse stabilito precedentemente in lui. Si deve considerare che, se le epistole paoline figurassero nell'edizione del Nuovo Testamento dove esse realmente appartengono — cioè, prima dei vangeli — difficilmente qualcuno penserebbe che Gesù, come egli lo incontra là, fosse un uomo reale e avesse peregrinato sulla terra in carne e ossa; ma egli in tutta probabilità vi troverebbe uno sviluppo dettagliato del “servo sofferente di Dio”, e concluderebbe che si trattava di un'irruzione di idee religiose pagane nel pensiero ebraico. I nostri teologi, tuttavia, sono così fortemente convinti di ciò a priori — del fatto che la rappresentazione paolina di Cristo sorse veramente dalla figura di un Gesù che peregrinò sulla terra — che perfino il signor Brückner confessa, nella prefazione al suo lavoro, di essere stato “lui stesso stupefatto” (!) dinanzi al risultato della sua inchiesta — l'indipendenza della rappresentazione paolina di Cristo dalla personalità storica, Gesù. [92
Il cristianesimo è una religione sincretica. Appartiene a quei movimenti religiosi multiformi che al principio della nostra era stavano lottanto l'un con l'altro per il dominio. Partendo dall'idea apocalittica e dall'attesa del Messia tra le sette ebraiche, nacque con la marea di una potente agitazione sociale, che trovò il suo centro e il suo punto di partenza nelle sette religiose e nelle comunità misteriche. I suoi adepti non concepivano il Messia semplicemente il Salvatore delle anime, ma un liberatore dalla schiavitù, dalla sorte dei poveri e degli oppressi, e come il portatore di una nuova giustizia. [93]
Copiò la parte principale della sua dottrina, il punto specifico in cui differiva dall'ebraismo ufficiale, l'idea centrale del Dio che si sacrificava per il genere umano, dai popoli vicini, che avevano introdotto questo credo in Asia, in associazione al culto del fuoco, dalla sua dimora più antica nel Nord. Solo nella misura in cui quella fede punta alla fine ad un'origine ariana si può dire che Gesù fosse “un Ariano”; ogni dichiarazione ulteriore su questo punto, come fa, per esempio, Chamberlain nel suo “Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts”, sono pure fantasie, e si basano su una completa incomprensione del vero stato delle cose. Il cristianesimo, come la religione di Cristo, del “Signore”, che secolarizzò la Legge ebraica mediante la sua morte volontaria di espiazione, non “sorse” a Gerusalemme, ma, se in qualche luogo, nella capitale siriana Antiochia, uno dei luoghi principali del culto di Adone. Infatti era ad Antiochia dove, secondo gli Atti, [94] il nome “Cristiani” fu utilizzato per prima per i seguaci della nuova religione, che erano stati fino ad allora chiamati di solito Nazareni. [95]
Ciò certamente è in più netta contraddizione alla tradizione, secondo la quale si suppone che il cristianesimo sia sorto a Gerusalemme e sia stato diffuso da là in giro tra i pagani. Ma la testimonianza di Luca riguardo l'origine della comunità del Messia a Gerusalemme e la diffusione del vangelo da quel luogo non può avanzare nessuna pretesa ad un significato storico. Perfino il racconto dell'esperienza dei discepoli a Pasqua e delle prime apparizioni dopo la Resurrezione, per la loro natura contradditoria e confusa sembrano essere invenzioni leggendarie. [96] Non-storica, e in contraddizione all'informazione fornita da Matteo e Marco su questo punto, è la dichiarazione che i discepoli stettero a Gerusalemme dopo la morte di Gesù, che è riferita addirittura da Luca come un espresso comando del defunto maestro. [97] Non-storica è l'assemblea di Pentecoste e il “miracolo” meraviglioso della discesa dello Spirito Santo, il quale, come riconosce Clemen, si originò probabilmente dalle leggende ebraiche, secondo cui la consegna della Legge sul Sinai si fece in settanta lingue diverse, così da poter essere compresa da tutti i popoli. [98] Ma anche la condanna a morte di Stefano e la successiva persecuzione della comunità di Gerusalemme sono invenzioni leggendarie. [99] Il gran disturbo che si prende Luca nel rappresentare Gerusalemme come il punto da cui si incamminò il movimento cristiano, tradisce chiaramente la tendenza dell'autore degli Atti di travisare l'azione della propaganda cristiana, che si emanò in realtà da molti centri, come se fosse uno scoppio del vangelo da un singolo punto. È inteso a generare l'impressione che la nuova religione si diffondesse da Gerusalemme sul mondo intero al pari di un'esplosione; e così è spiegata  la sua apparizione quasi contemporanea in tutto il Medioriente. Per questa ragione “ebrei religiosi di tutte le nazioni” erano riuniti a Gerusalemme durante Pentecoste, e potevano comprendersi a vicenda a dispetto delle loro lingue diverse. Per questo motivo Stefano fu lapidato, e fu dato il motivo a quella persecuzione del perché in un unico momento i fedeli si dispersero in tutte le direzioni [100]         
 Ora è certamente probabile che ci fosse a Gerusalemme, proprio come in molti altri luoghi, una comunità del Messia che credeva in Gesù come il Dio che si sacrifica per l'umanità. Ma il problema è se questo credo, nella comunità di Gerusalemme, si basasse su un uomo reale Gesù; e se sia corretto considerare questa comunità, alcui dei cui membri erano personalmente a conoscenza di Gesù, e che erano i compagni fedeli dei suoi vagabondaggi, la “comunità originaria” nel significato del primo germe e punto di partenza del movimento cristiano. Potremo credere, con Frazer, che un profeta ebreo e predicatore itinerante, che per caso si chiamava Gesù, fosse stato preso dai suoi avversari, gli ebrei ortodossi, per via della sua agitazione rivoluzionaria, e fosse stato decapitato come l'Aman dell'anno corrente, in tal modo dando occasione alla fondazione della comunità di Gerusalemme. [101] Contro questo si potrebbe dire che i nostri testimoni riguardo l'inizio della propaganda cristiana certamente variavano, ora facendo un'asserzione, ora facendone un'altra, senza preoccuparsi se quelle fossero contradditorie; e tutti loro tendevano a rimediare alla mancanza di ogni conoscenza certa mediante invenzioni inequivocabili. Se la dottrina di Gesù, come dichiara Smith, fosse pre-cristiana, “una religione che era diffusa tra gli ebrei e specialmente tra i greci entro i limiti del secolo [dal 100 A.E.C. al 100 E.C.], più o meno segretamente, e avvolta in ‘Misteri’”, allora possiamo comprendere sia la rapida apparizione del cristianesimo su una sfera così vasta pari a quasi tutto il Medioriente, e sia anche il fatto che perfino i testimoni più antichi riguardo l'inizio del movimento cristiano non avevano nulla di certo da raccontare. Questo, tuttavia, sembra piuttosto inconciliabile con la tesi di un punto di partenza certo, definito, locale e personale per la nuova dottrina. [102] Si solleverà l'obiezione: che cosa circa i vangeli? Almeno loro raccontano chiaramente la storia di un individuo umano, e sono inspiegabili, a prescindere dal credo in un Gesù storico.
Sorge di conseguenza il problema riguardo la fonte da cui i vangeli derivarono una conoscenza di questo Gesù; infatti su questa soltanto può basarsi il credo in un Gesù storico.

NOTE

[1] Naturalmente gli “Atti degli Apostoli” è, e rimane a dispetto di tutti i moderni tentativi di rivendicazione (Harnack), un documento storico davvero indegno di fiducia, e le informazioni che offre riguardo la vita di Paolo è per la maggior parte mera finzione. Necessitiamo di non andare così lontano quanto Jensen, il quale pone in discussione l'esistenza in qualunque tempo di un Paolo storico (“Moses, Jesus, Paulus. Drei Sagenvarianten des babylonischen Gottmenschen Gilgamesch”, 2 Aufl., 1909), ma non saremo in grado nondimeno di evitare l'opinione che la descrizione di Paolo, come ha già mostrato Bruno Bauer, rappresenti una descrizione originale, in ogni caso davvero molto rielaborata, e ad opinione di molti solo una copia dell'originale, che la precedeva nel ritratto del “principale degli apostoli”, Pietro (si veda, sul valore storico degli Atti, anche E. Zeller, “Die Apg. nach ihrem Inhalt und Ursprung kritisch untersucht”, 1854).

[2] Si veda H. Jordan, “Jesus und die modernen Jesusbilder. Bibl. Zeit-u-Streitfragen”, 1909, pag. 36.

[3] “La creazione di autori che non hanno mai scritto una lettera, la fabbricazione di intere serie di libri, la datazione della produzione più recente indietro nella remota antichità, il far sì che filosofi ben noti pronuncino opinioni diametralmente opposte alle loro opinioni reali, quelle e simili cose erano abbastanza comuni durante l'ultimo secolo prima e il primo secolo dopo Cristo. La gente si preoccupava poco a quel tempo circa l'autore di un'opera, se soltanto i suoi contenuti fossero in armonica con il gusto e i bisogni dell'epoca” (E. Zeller, “Vorträge u. Abhdlg.”, 1865, pag. 288 seq.). “A quel tempo era una pratica favorita scrivere lettere per uomini famosi. Una collezione di non meno di 148 lettere era attribuita al tiranno Falaride, che governò Agrigento nel sesto secolo A.E.C. Beyschlag ha provato che esse gli furono attribuite al tempo di Antonino. In maniera simile le lettere attribuite a Platone, ad Euripide ed ad altri, sono false. Sarebbe stato invero strano se questa consuetudine dell'epoca non avesse ottenuto un'influenza sulla nascente letteratura cristiana, poiché una fabbricazione del genere sarebbe stata prodotta più facilmente nella sfera religiosa, dal momento che non si trattava qui della questione di una produzione di pensieri particolari, ma di costituire un organo del comune spirito religioso che operava a livello individuale” (Steck, op. cit., pag. 384 seq.; si veda anche Holtzmann, “Einl. in das N.T.”, 2 Aufl., pag. 223 seq.).

[4] E. Vischer, “Die Paulusbriefe, Rel. Volksb.”, 1904, pag. 69 seq.

[5] Op. cit., 9:3 seq.

[6] 1 Corinzi 15:5 seq.

[7] Si veda W. Seufert, “Der Ursprungund die Bedeutung des Apostolates in der christlichen Kirche der ersten Jahrhunderte”, 1887, pag. 46, pag. 157.

[8] Un tentativo è ora in procinto di farsi per provare il contrario, citando 2 Corinzi 5:16, che recita: “Talché, da ora in poi, noi non conosciamo più alcuno secondo la carne; e se anche abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, tuttavia ora noi non lo conosciamo più così”. Il passo è stato spiegato nei modi più diversi. Secondo Baur il “Cristo secondo la carne” si riferisce al Messia ebraico, l'atteso sovrano e terreno Salvatore degli ebrei dalla disgrazia politica e sociale, in cui anche Paolo credeva ad una data più antica; e il significato del passo citato è che questa concezione carnale e terrena del Messia aveva ceduto il posto in lui alla concezione spirituale (“Die Christuspartei in der kor. Gemeinde Tüb. Ztschr.”, 1831, 4 Heft, 90). Secondo Heinrici l'affermazione “e se anche abbiamo conosciuto” non è un'affermazione positiva di un punto di vista che una volta aveva determinato il suo giudizio di Cristo, ma un'istanza ipotetica, che esclude un falso punto di vista senza affermare nulla riguardo la sua realtà (“Komment”, 289). Secondo Beyschlag il passo dev'essere compreso come un'affermazione che Paolo aveva visto Gesù a Gerusalemme durante la sua vita sulla terra. Ma con Paolo non c'è nessuna discussione di un semplice vedere, ma piuttosto di un conoscere. Lütgert smentisce tutte quelle ipotesi diverse con l'argomento che le parole “secondo la carne” non si riferiscono a Cristo ma al verbo. “L'apostolo non conosce più nessuno ‘secondo la carne’, e così non conosce più Gesù così. In una fase precedente la sua conoscenza di Cristo era ‘secondo la carne’. A quel tempo egli non aveva lo spirito di Dio che lo rese in grado di vedere in Gesù il Figlio di Dio. Paolo allora non sta proteggendosi dagli ebrei, che gli negavano una conoscenza personale di Gesù, ma dagli Spirituali, che gli negavano una conoscenza spirituale di Gesù” (“Freiheitspredigt und Schwarmgeister in Korinth”, 1908, pag. 55—58).

[9] Galati 1:11—12; 1 Corinzi 2:10; 2 Corinzi 4:6.

[10] Galati 1:17—19.

[11] Galati 2:1 seq.

[12] Id. 1:19.

[13] Matteo 28:10; Marco 13:33 seq.; Giovanni 20:17.

[14] Ad opinione della Scuola Olandese di teologi, che Schläger segue nel suo saggio, “Das Wort kürios (Herr) in Seiner Bezichung auf Gott oder Jesus Christus” (“Theol. Tijdschrift”, 33, 1899, Parte I), questa menzione del “Fratello del Signore” non proviene da Paolo; in quanto secondo Schläger, tutti i passi di 1 Corinzi, che parlano di Gesù sotto il titolo “Kurios”, sono interpolati. “I viaggi missionari dei Fratelli di Gesù ci sono sconosciuti da qualsiasi altra fonte, e sono anche per sé stessi improbabili” (op. cit., 46; si veda anche Steck, op. cit., 272 seq.).

[15] In maniera simile Origene, “Contra Celsum”, 1:35; si veda Smith, op. cit., pag. 18 seq.

[16] Si veda riguardo a questo Sieffert in “Realenzyklop. f. prot. Theol. und Kirche” sotto “Giacomo”. In Esdra 2:2 e 9 c'è anche una menzione dei “Fratelli” del Sommo Sacerdote Giosuè, coi quali sembrano essere intesi solo i sacerdoti a lui subordinati; e in Giustino (“Dial. c. Tryph.”, 106) si parla collettivamente degli apostoli come di “Fratelli di Gesù”. In maniera simile in Apocalisse 12:17 si parla di coloro “che osservano i comandamenti di Dio e confessano di appartenere a Gesù” come dei figli della donna celeste e anche come Fratelli e Sorelle del Redentore Divino, che il drago tenta di inghiottire assieme a sua madre. Siccome Apocalisse deve la sua origine ad un culto precristiano di Gesù, la designazione dei pii fratelli di una comunità come fratelli fisici di Gesù sembra essere stata a sua volta consueta in quel culto, anteriore alle epistole paoline e ai vangeli”.

[17] Questa è realmente l'opinione della Scuola Olandese dei teologi.

[18] A. Kalthoff, “Was wissen wir von Jesus? Eine Abrechnung mit Prof. D. Bousset”, 1904, pag. 17.

[19] 1 Corinzi 7:10.

[20] Id. 9:14.

[21] 1 Corinzi 11.23.

[22] Si veda Brandt, “Die evangel. Geschichte u. d. Ursprung d. Christentums”, 1893, pag. 296. Anche Schläger concorda con la Scuola Olandese, e produce illuminanti argomenti a favore della tesi che 1 Corinzi 11:23—32 sia un'interpolazione. “A nostra opinione”, dice, “le parole d'apertura, ‘Io, infatti, ho ricevuto dal Signore’, tradiscono lo stesso tentativo che può essere visto in 7:10 e in 9:14 — e probabilmente il tentativo dello stesso interpolatore — di far risalire istituzioni e regolamenti ecclesiastici all'autorità del Signore, del Kurios. Nei tre casi in cui si menziona quest'ultimo egli è chiamato ‘il Signore’, che è un fatto ben degno di considerazione in vista della designazione abituale”. Anche Schläger mostra che il verso 32 è una conclusione davvero appropriata al verso 22; mentre come figurano ora il legame logico è spezzato in una maniera forzata dall'interpolazione del racconto dell'Ultima Cena. Un'altra dimostrazione dell'interpolazione dei versi 23-32 si deve trovare, pensa Schläger, nel fatto che nel verso 33 come nel verso 22 i Corinzi sono rivolti alla seconda persona, mentre nei versi 31 e 32 è utilizzata la prima persona plurale (op. cit., pag. 41 seq.). In vista di quei fatti famigerati possiamo comprendere a fatica come i teologi tedeschi possano aderire all'autenticità del passo, rimproverando di “errori di metodo” coloro che lo contestano. Contro questa visione da parte loro Schläger obietta giustamente che “i riferimenti alle parole e agli eventi della vita di Gesù sono così isolati negli scritti paolini che siamo titolati e costretti a sollevare l'interrogativo riguardo a ciascun riferimento del genere, se non sia il riflesso di un'età successiva, di un'età che già riponeva fiducia nella letteratura evangelica, che introdusse l'autorità di Gesù nel testo” (Schläger, op. cit., 36). E i teologi critici sono convinti che gli scritti del Nuovo Testamento siano stati rielaborati in larga misura, corretti per accordarsi alla Chiesa, e interpolati in parecchi punti. Ma quando qualcun altro porta questo alla pubblicità, e si preoccupa di dubitare l'autenticità di un passo, essi sollevano immediatamente una grande protesta, e lo accusano di fraintendere volontariamente il testo; come se ci fosse anche un singolo passo del genere su cui le opinioni dei critici non siano divergenti!

[23] Anche l'opinione del signor Brückner è “che il racconto paolino della scena dell'Ultima Cena è in tutta probabilità non un racconto puramente storico, ma è una rappresentazione dogmatica della festa”. Ed aggiunge: “In ogni caso proprio a causa della sua importanza religiosa questa scena non può essere citata per provare la familiarità di Paolo coi dettagli della vita di Gesù” (“Die Entstehung der paulinischen Christologie”, 1903, pag. 44). Si veda anche Robertson, “Christianity and Mythology”, pag. 388 seq.

[24] Holtzmann, come materia di fatto, in un saggio in “Christliche Welt” (Numero 7, 1910) ha tentato di recente di provare il contrario, citando da Paolo un numero di esortazioni morali, ecc., che sono in linea con le parole di Gesù nei vangeli. Ma in quest'argomento c'è una presupposizione, che dovrebbe sicuramente venir provata in precedenza, che i vangeli ricevettero il loro contenuto corrispondente da Gesù e non, al contrario, dalle epistole di Paolo. È ammesso che essi furono influenzati in parecchi altri aspetti da idee paoline. Inoltre, tutte le massime morali citate hanno i loro paralleli nella letteratura rabbinica contemporanea, così che non hanno bisogno necessariamente di venir fatte risalire ad un Gesù storico; anche, tale è la loro natura, che potrebbero essere state avanzate da qualunque, cioè, sono semplici luoghi comuni etici senza alcuna colorazione individuale. Così troviamo i rabbini d'accordo con Romani 13:8 seq. e Galati 5:14, che Holtzmann fa risalire a Matteo 7:12: “Ciò che a te non piace, non farlo al tuo prossimo! Questa è tutta la Torà”. Romani 13:7 ha il suo parallelo non solo in Matteo 22:21, ma anche nel Talmud, che recita: “Ognuno è obbligato ad adempiere ai propri obblighi verso Dio con la stessa esattezza di quelli verso gli uomini. Dai a Dio il suo dovuto; per tutto ciò che ricevi da lui”. Romani 12:21 recita nel Sanhedrin: “È meglio essere perseguitati che perseguitare, meglio essere calunniati da un altro che calunniare”. Così che la considerazione non ha bisogno di basarsi necessariamente su Matteo 5:39; di fatto, l'ultimo passo citato non si trova affatto nei manoscritti standard, nel Codex Sinaiticus e Vaticanus. La frase, “spostare i monti” (1 Corinzi 13:2), è una generale frase rabbinica per esaltare il potere della parola di un maestro, e così poteva facilmente trasferirsi al potere della fede. Così anche la frase, Marco 9:50, “Abbiate del sale in voi stessi e state in pace gli uni con gli altri” — che si suppone che Romani 12:18  ricorda — è una ben nota espressione rabbinica. Matteo 5:39 seq., che si suppone concordare con 1 Corinzi 6:7, recita nel Talmud: “Se qualcuno desidera il tuo asino, dagli anche la sella”. Matteo 7:1-5, su cui si suppone che si basino Romani 2:1 e 14:4, a sua volta richiama il Talmud: “Colui che giudica il suo prossimo nella scala di merito è lui stesso giudicato favorevolmente”. “Lascia che il tuo giudizio sul tuo prossimo sia completamente buono”. “Proprio come uno misura, con la stessa misura deve essere misurato anche lui”. Romani 14:13 e 1 Corinzi 8:7-13 non hanno bisogno di essere necessariamente un'allusione alla dolce considerazione di Gesù per coloro che sono rovinati da uno scandalo, in quanto troviamo nel Talmud: “Sarebbe stato meglio che i malvagi fossero nati ciechi, in modo che non avrebbero portato il male nel mondo”.  (si veda anche Nork, “Rabbinische Quellen und Parallelen zu neutestamentlichen Schriftstellen”, 1839). E la consueta frase di saluto di Paolo, “da Dio nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo”, contiene realmente la confessione del “Dio-Padre” predicato da Cristo? Infatti il legame del Figlio divino e portatore di salvezza con il “Dio-Padre” è una formula mitologica generale che capita in tutte le diverse religioni — testimonia la relazione tra Marduk ed Ea, tra Eracle e Zeus, tra Mitra e Ormuzd, tra Baldr e Odino. Cosa significa allora quando Paolo parla della “dolcezza e mansuetudine di Cristo”, che visse non per il suo proprio piacere, che non si gloriò di sé stesso, ma fu “sottomesso”, assunse la forma di un servo, e fu “obbediente” alla volontà di suo “padre”, fino alla morte della croce? Tutti quei tratti sono riprodotti direttamente dalla descrizione del servo sofferente di Dio in Isaia, che sappiamo aveva una grande parte nella formazione della personalità di Gesù. Mitezza, umiltà, filantropia, e obbedienza sono le virtù specifiche del pio del tempo di Paolo. Era naturale anche per Cristo, il prototipo ideale degli uomini buoni e pii, essere rivestito di quelle caratteristiche. Abramo era obbediente quando sacrificò suo figlio Isacco; e così lo era quest'ultimo a suo padre, che era a sua volta sottomesso in sé nel recare il legno all'altare e nell'offrirsi volontariamente al coltello sacrificale. E sappiamo quale ruolo significativo ha sempre recitato la storia del sacrificio di Isacco nelle idee religiose degli ebrei. Inoltre, le deità redentrici pagane — Marduk, del mandeo Hibil Ziwa, Mitra ed Eracle — erano a loro volta obbedienti nel discendere sulla terra per ordine del loro padre celeste,  nell'aprire le porte della morte, e offrirsi, nel caso di Mitra, perfino in sacrificio; ed Eracle servì l'umanità nella posizione di un servo, combattè i mostri e gli orrori dell'inferno, e assunse le fatiche più dure alla volontà di altri.

[45] Kalthoff, “Die Entstehung d. Christentums”,  1904, pag. 15.

[46] P. Wernle, “Die Quellen des Lebens Jesu, Religionsgesch. Volksbücher”, 2 Aufl., 4.

[47] Gunkel, op. cit., pag. 93.

[48] Anche Gunkel assume la tesi “che prima di Gesù c'era un credo nella morte e resurrezione del Cristo nei circoli sincretici ebraici” (op. cit., pag. 82). Ora abbiamo già visto (pag. 57) che il termine “Cristo” è di un significato davvero simile a “Gesù”. Così che non è del tutto neessario credere, come afferma Gunkel nella discussione di Darmstadt, che Paolo nel parlare di “Gesù” conferma una figura storica, perchè Gesù è il nome di una persona. “Gesù Cristo” è semplicemente una doppia espressione per la stessa idea — cioè, per l'idea del Messia, Salvatore, Guaritore, e Redentore; e non è del tutto improbabile, come suppone Smith, che le contraddizioni nella concezione del Messia in due sette o sfere di pensiero differenti trovassero la loro armonizzazione nella sovrapposizione dei due nomi.

[49] “Non il maestro, non l'operatore di miracoli, non l'amico dei pubblicani e dei peccatori, non l'avversario dei farisei, è di importanza per Paolo. Lo è solo il Figlio di Dio crocifisso e risorto” (Wernle, op. cit., pag. 5).

[50] “In effetti, il Gesù storico nel significato della Scuola ritschliana sarebbe stato un'assurdità per Paolo. La teologia paolina deve trattare piuttosto le esperienze di un essere celeste, che hanno, e ancora avranno, un significato straordinario per l'umanità” (M. Brückner, “Die Entstehung der paulinischen Christologie”, 1903, pag. 12). Brückner considera anche stabilito il fatto “che la vita di Gesù sulla terra non ebbe mai nessun interesse per Paolo” (op. cit., pag. 46). “Paolo non si preoccupò circa la vita di Gesù sulla terra, e ciò che egli potrebbe aver appreso qua e là a suo riguardo, con poche eccezioni, gli rimase indifferente” (42). Brückner mostra anche che i passi che sono citati per contraddire questo non provano nulla quanto alla più dettagliata familiarità di Paolo con la vita di Gesù sulla terra (pag. 41 seq.). Egli afferma “di aver dato la dimostrazione storica” nella sua opera del fatto “che la religione cristiana è in fondo indipendente da ‘incerte verità storiche’” (Prefazione). E a dispetto di questo egli da teologo non può liberarsi dalla concezione di un Gesù storico perfino riguardo a Paolo, sebbene non sia, nondimeno, in una posizione di mostrare dove e a che misura il Gesù storico avesse un'influenza realmente decisiva su Paolo.

[51] Movers, op. cit., pag. 438 seq.; Fraser, “Adone, Attis, Osiride” pag. 42, 43, 47, 60, 79 seq.

[52] Cumont, “Textes et monuments”, &c., 1 pag. 240 ; Pfleiderer, “Urchristentum”, 1 pag. 29 seq.

[53] 1 Corinzi 10:16.

[54] Pfleiderer, op. cit., pag. 45.

[55] 11:19 seq.

[56] Smith, op. cit., pag. 21 seq.

[57] Si veda Zimmern, “Zum Streit um die Christusmythe”, pag. 23.

[58] “Io sono l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine”, fa dire al Messia l'Apocalisse di Giovanni (1:8). Non vi è allo stesso tempo in questo un celato riferimento ad Adone? L'Alfa e l'Omega, la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco, formano assieme il nome di Adone — Ao (Aoos) come gli antichi Dori chiamavano il Dio, da cui la Cilicia è chiamata anche Aoa. È detto (“Schol. Theocr.”, 15, 100) che un figlio di Adone ed Afrodite (Maia) sia stato chiamato Golgos. Il suo nome è legato ai coni fallici (in gerco, golgoi), poichè erano eretti sulle cime in onore della divinità madri del Medioriente, che erano a loro volta, probabilmente per questo motivo, chiamate Golgoi e golgōn anássa (Regine dei Golgoi), ed è lo stesso nome del plurale ebraico di Golgota (Sepp. “Heidentum”, 1, pag. 157 seq.). Infine, il “luogo del cranio” era un antico luogo gebuseo del culto di Adone sotto il nome di Golgos, ed il cono di roccia, su cui venne eretta una statua di Venere al tempo di Adriano, fu scelto per il luogo della condanna a morte del Salvatore cristiano a causa della sua associazione con il ricordo del sacrificio reale di un uomo nel ruolo di Adone (Tammuz)?

[59] Deuteronomio 21:23.

[60] Notiamo che risiedono celate già in quelle distinzioni il germe di quelle controversie interminabili e assurde riguardanti la “natura” del Dio-uomo, che successivamente, nel primo secolo E.C., dilaniarono la cristianità in innumerevoli sette ed “eresie”, e che diedero origine alla nascita del dogma cristiano.

[61] Romani 1:3.

[62] Romani 8:3; 2 Corinzi 8:9; Filippesi 2:7 seq.

[63] Galati 3:10 seq.; Romani 3:9.

[64] Romani 3:20, 4:15, 5:20, 7, seq.

[65] Galati 3:19 seq.

[66] Romani 6:9 seq.

[67] Id., 5:14.

[68] Romani 4:3 seq.

[69] Romani 6:3 seq.

[70] Galati 3:27.

[71] Si veda sopra, pag. 137.

[72] 1 Corinzi 10:16 seq., 11:23—27.

[73] 1 Corinzi 10:3, seq., 16—21.

[74] Si veda, ad esempio, Pfleiderer, op. cit., pag. 333.

[75] Si veda sopra, pag. 49 seq.

[76] Platone, “Symposium”, c. 22.

[77] Colossesi 2:9.

[78] Op. cit., pag. 80.

[79] Si veda la mia opera, “Plotin und der Untergang der antiken Weltauschauung”, 1907.

[80] Galati 2:20; Romani 8:4, 26.

[81] Id. 8:14 seq.

[82] 2 Corinzi 3:17.

[83] Galati 5:26.

[84] 1 Corinzi 2:9, 14; Romani 12:2.

[85] Op. cit., pag. 86.

[86] Wrede, Id.

[87] Id.

[88] Op. cit., 94.

[89] Wrede, op. cit., pag. 85.

[90] 1 Corinzi 15:17.

[91] Si veda a proposito dell'intera questione il mio saggio su “Paulus u. Jesus” (“Das Freie Wort” del dicembre 1909).

[92] È vero che altri teologi pensano in maniera diversa qu questo punto, come, ad esempio, Feine nel suo libro, “Jesus Christus un Paulus” (1902), dichiara che Paolo era “interessato lui stesso tantissimo nel ricavare un ritratto distinto e globale dell'attività e della personalità di Gesù” (!) (pag. 229).

[93] Kalthoff nei suoi scritti ha posto un'enfasi speciale su questo significato sociale del cristiaensimo. Si veda anche Steudel, “Das Christentum und die Zukunft des Protestantismus” (“Deutsche Wiedergeburt”,4., 1909, 26 seq.), e Kautsky, “Der Ursprung des Christentums”, 1908.

[94] 40:26.

[95] Nello stesso modo anche Vollers, nel suo lavoro su “Die Welt-religionen” (1907), cerca di spiegare la fede delle originarie sette cristiane nella morte e resurrezione di Gesù come un miscuglio delle fedi di Adone (Attis) e Cristo. Egli considera questo l'essenza di quella fede, che le visioni esistenti del Messia e della Resurrezione fossero trasferite alla stessa persona; e mostra da questo di quale grande importanza dev'essere il fatto che questa fede incontrò un suolo ben preparato, in Nord Africa, Anatolia, ed Egitto, dove si diffuse naturalmente. Ma egli tratta la Diaspora ebraica di quei territori come il mediatore naturale della nuova predicazione o “messaggio di Salvezza” (Vangelo), e trova una dimostrazione della sua visione in questo fatto, “che la sfera della più grande densità della Diaspora coincide quasi completamente con quei territori dove era onorato il giovane Dio che nasce e rinasce, e che quelle stesse regioni sono anche i luoghi in cui incontriamo, soltanto una generazione dopo la morte di Gesù, le comunità più numerose, fiorenti, e feconde della nuova espressione di fede. È la linea a forma di ferro di cavallo del Mediterraneo orientale o levantino che si estende da Efeso e dalla Bitinia attraverso l'Anatolia fino a Tarso e ad Antiochia, quindi attraverso la Siria e la Palestina attraverso i centri del culto Bubasti e Sais fino ad Alessandria. Quasi direttamente nel mezzo di quelle terre risiede Aphaka dove c'era il santuario principale del “Signore” Adone, e un pò più a sud di questo luogo risiede la ragione dov'era nato il Salvatore dei vangeli (op. cit., 152).

[96] Si veda O. Pfleiderer, “Die Entstehung des Christentums”, 1905, pag. 109 seq.

[97] Luca 24:33, 49:52; Atti 1:4, 8, 12 seq.

[98] “Religionsgesch. Erklärung d. N.T.”, pag. 261. Si veda anche Gioele 3:1 e Isaia 28:11, e il racconto buddhista del primo sermone di Buddha: “Gli dèi e gli uomini fluivano verso di lui e tutti ascoltavano senza fiato le parole del maestro. Ciascuno degli innumerevoli ascoltatori credeva che il saggio lo guardasse e gli parlasse nella sua lingua; anche se era il dialetto di Magadha che parlava”. Seydel, “Evangelium von Jesus”, 248; “Buddha-Legende”, pag. 92 seq.

[99] Il cosiddetto “martirio” di Stefano, la cui festa cade il 26 Dicembre, il giorno dopo la nascita di Cristo, deve la sua esistenza all'astrologia, e si basa sulla costellazione della Corona (in greco, Stephanos), che diventa visibile in questo momento sull'orizzonte orientale (Dupuis, op. cit., pag. 267). Da qui la ben nota frase “ereditare la corona del martirio”. Perfino il teologo Baur ha trovato strano il fatto che il sinedrio ebraico, che non poteva effettuare alcuna condanna a morte senza il consenso del governatore romano, dovesse mettere da parte completamente questa formalità nel caso di Stefano; ed egli ha mostrato chiaramente quanto l'intero racconto del martirio di Stefano sia corrispondente alla morte di Cristo (Baur, “Paulus”, pag. 25 seq.).

[100] Smith, op. cit., pag. 23—31.

[101] Frazer, “Il Ramo d'Oro”, 3:197.

[102] Smith, op. cit., pag. 30 seq.