domenica 30 aprile 2017

Sul “Gesù storico” come (nient'altro che un) «meme»

La verità, in fatto di religione, è semplicemente l'opinione che è sopravvissuta.
(OSCAR WILDE)
(citato da Richard Dawkins in L'illusione di Dio)


Quando le persone — almeno quelle sane di mente (e non mi riferisco esattamente ai cristiani) — leggono un testo della letteratura cristiana antica del I-II secolo che non sia uno dei tanti vangeli o Atti, cercando tracce di un ipotetico Gesù storico, saranno sorpresi di trovare la raffigurazione di un Gesù Cristo troppo strana e assurda persino da immaginare: il Gesù arcangelo celeste di Paolo, il Gesù sommo sacerdote celeste della Lettera agli Ebrei, il Gesù sofferente in un reame spirituale delle Odi di Salomone, il Figlio senza nome dell'Ascensione di Isaia, il Gesù celeste guerriero dell'Apocalisse. Ma non c'è almeno una caratteristica comune a tutti i Gesù Cristi degli antichi testi cristiani del I secolo, dovunque si trovino e qualunque sia il testo che ne fa menzione? Se pure esistettero tanti ritratti teologici di Gesù quanti ne furono le originarie sette cristiane che li immaginarono, esisterà pur sempre un principio generale vero per tutte queste forme diverse di Gesù Cristi? Naturalmente esiste tale principio generale, ma non è affatto da identificare nel ricordo più o meno vago di un Gesù storico ipotizzato all'origine del processo che produsse tutti quei testi. Punterei piuttosto su un aspetto fondamentale di ogni antica descrizione di Gesù: egli fu sempre intimamente associato in qualche modo alla divinità, in qualunque testo cristiano si volga lo sguardo.  Sia esso un vangelo o un'apocalisse o una lettera. In definitiva, associato a qualcosa che non esiste. O almeno che gli atei non considerano esistente: “dio”.

Mentre ciò che non si trova affatto, perlomeno in ogni testo cristiano del I secolo anteriore ai vangeli, è puntualmente, di nuovo e ancora di nuovo, l'idea di un Gesù profeta itinerante in terra di Giudea.

Ma è necessario andare solo nei vangeli per trovare l'unico Gesù così diverso da tutte le rappresentazioni precedenti di Gesù Cristo?

Io penso e credo che la risposta sia sì
, che l'“immagine di un Gesù profeta itinerante in terra di Giudea” fosse emersa di recente tra I e II secolo per la prima volta proprio col Più Antico Vangelo, e solo da quel vangelo diffusasi, per mero effetto di propagazione, in tutti gli altri vangeli e nell'immaginario popolare perfino pagano. Ce l'abbiamo davanti, ancora nella sua infanzia, ancora evidente, questa più antica immagine di un Gesù umano, neppure storico, nel Più Antico Vangelo, al di là se esso sia il vangelo di Marco (come ritiene la maggioranza degli studiosi) oppure il vangelo marcionita (Mcn, ovvero proto-Luca, come sostiene di recente il prof Matthias Klinghardt).  Un Gesù di carta appena inventato ma già soggetto a mutamenti evolutivi a un ritmo tale da lasciare il vecchio, mistico ritratto del Gesù arcangelo celeste di Paolo indietro ineluttabilmente nel tempo, eclissato per l'eternità da questo nuovo dipinto dello stesso immaginario soggetto.

Il “Gesù storico”, quello comunemente chiamato “Gesù di Nazaret”, non è altro che l'equivalente nella storia del cristianesimo di un meme culturale relativamente nuovo. Cosa sarebbe un “meme”?

La parola al prof Richard Dawkins, lo scienziato che per primo ha coniato il termine.
Ora dobbiamo dare un nome al nuovo replicatore, un nome che dia l'idea di un'unità di trasmissione culturale o un'unità di imitazione. «Mimeme» deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei un bisillabo dal suono affine a «gene»: spero perciò che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme in meme. Se li può consolare, lo si potrebbe considerare correlato a «memoria» o alla parola francese même.
Esempi di memi sono melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi. Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo, così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione. Se uno scienziato sente o legge una buona idea, la passa ai suoi colleghi e studenti e la menziona nei suoi articoli e nelle sue conferenze. Se l'idea fa presa, si può dire che si propaga diffondendosi di cervello in cervello.

(Richard Dawkins, Il gene egoista - La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori 1992, pag. 160)
Dawkins illustra un particolare esempio di meme:
Consideriamo l'idea di Dio. Non sappiamo in che modo si sia originata nel pool memico. Probabilmente si è originata molte volte per «mutazioni» indipendenti. In ogni caso, è molto antica. In che modo si replica? A voce e per iscritto, aiutata dalla grande musica e dalla grande arte. Perché ha un così forte valore di sopravvivenza? Ricordate che «valore di sopravvivenza» qui non significa valore di un gene in un pool genico, ma valore di un meme in un pool memico. La domanda in realtà sarebbe: cosa c'è nell'idea di Dio che le fornisce stabilità e capacità di penetrazione nell'ambiente culturale? Il valore di sopravvivenza del meme Dio nel pool memico deriva dal suo grande richiamo psicologico.
Esso fornisce una risposta superficiale plausibile a problemi profondi e inquietanti dell'esistenza; suggerisce che le ingiustizie di questo mondo possano essere eliminate nell'altro; fa da cuscino alle nostre inadeguatezze e, come un placebo, non è meno efficace per il fatto di essere immaginario. Queste sono alcune delle ragioni per cui l'idea di Dio viene copiata così prontamente dalle successive generazioni di singoli cervelli. Dio esiste, non fosse altro che sotto forma di un meme ad alto valore di sopravvivenza, o ad alta virulenza, nell'ambiente fornito dalla cultura umana.

(Il gene egoista, pag. 161)
Non tutti i memi però sono così irrazionali. Ne esistono altri decisamente più salutari:
I nostri geni possono essere immortali ma l'insieme di geni che costituisce ciascuno di noi è destinato a sbriciolarsi. Elisabetta II è una diretta discendente di Guglielmo il Conquistatore, eppure è molto probabile che non abbia neppure un gene del vecchio re. Non dovremmo cercare l'immortalità nella riproduzione.
Ma se contribuiamo alla cultura del mondo, se abbiamo una buona idea, se componiamo una canzone, se inventiamo la candela, se scriviamo una poesia, queste cose possono vivere intatte per lungo tempo dopo che i nostri geni si sono dissolti nel pool comune. Socrate può avere o no un gene o due ancora vivi nel mondo d'oggi, come ha fatto notare G. C. Williams, ma che importa? I complessi di memi di Socrate, Leonardo, Copernico e Marconi stanno ancora andando forte.

(Il gene egoista, pag. 165)
Tutte le testimonianze delle origini cristiane si possono classificare in “memi”. Ad esempio, i vangeli e gli Atti degli Apostoli (compreso il Vangelo di Tommaso) si possono considerare un meme a sé stante nella misura in cui sono documenti che veicolano il concetto di un Gesù umano, terreno. Sono un solo meme anche per un'altra ragione, più sottile: sia Matteo che Luca si basano su Marco, e l'autore di Giovanni (come pure il Vangelo di Tommaso) deve aver conosciuto gli altri tre vangeli.
Le lettere autentiche di Paolo formano un altro meme. Il libro dell'Apocalisse a sua volta a un altro meme e così pure le Odi di Salomone. Non dimentichiamoci di un altro meme costituito dalla Lettera agli Ebrei.

Ciascun meme, nel contesto delle testimonianze antiche, raccoglie un insieme di ricordi che mostrano evidentemente indipendenza da ogni altro insieme di ricordi. Ovviamente alcuni memi sono più antichi di altri: è un fatto che le lettere autentiche di Paolo precedono i vangeli e li influenzano.
I memi individuano tradizioni distinte che possono fluire nel tempo in parallelo tra loro, inaugurando una vera e propria competizione tra memi: un lettore di una epistola di Paolo può essere ignaro del tutto della tradizione evangelica perchè non ha ancora letto alcun vangelo, e viceversa, uno che conosce Gesù solo attraverso i vangeli (ad esempio il pagano Celso), può essere ignaro completamente dell'identità di Paolo l'apostolo.
Tuttavia è sempre possibile prima o poi nel tempo un'intersezione tra diversi memi. E sicuramente un'intersezione accadde quando fu scritto il Più Antico Vangelo. E quell'intersezione potrebbe essere stata conflittuale, data qual è la posta in gioco nella competizione tra memi così diversi relativi però allo stesso oggetto, proprio come previsto da Richard Dawkins:
Il tempo è probabilmente un fattore limitativo più importante dello spazio di memoria ed è oggetto di pesante competizione. Il cervello umano e il corpo che esso controlla non possono fare più di una o due cose alla volta. Se un meme deve dominare l'attenzione di un cervello umano, deve farlo a spese di memi «rivali». Altre cose per cui i memi competono sono il tempo alla radio e alla televisione, lo spazio sui manifesti, le colonne dei giornali e gli scaffali delle biblioteche.
(Il gene egoista, pag. 164)
Sia che si accetti il modello Farrer-Goodacre, oppure il modello Klinghardt:


...in entrambi i casi il meme del “Gesù profeta ebreo itinerante”, introdotto per la prima volta dal Più Antico Vangelo, si diffuse a ondate successive tra tutte le esistenti comunità cristiane, investendo in pieno tutti gli altri memi. 

La rapida diffusione di una lettura letteralista del primo vangelo è certamente provata dall'immediata stesura, a ridosso dell'introduzione sulla scena di quel primo vangelo, di altri vangeli e di Atti che quel primo vangelo vollero correggere, espandere o modificare, evidentemente perchè tutti intenti a vendere differenti ritratti dello stesso inventato protagonista, tradendo così, da parte dei loro autori, l'intima convinzione che solo il loro Gesù “è esistito” e che perciò occorre dargli l'immagine più gradita alla propria fazione teologica e solo a quella, a costo di inventare da zero nuove tradizioni sulla falsariga delle precedenti.
Non si esagererà mai nella descrizione di quanto fossero differenziate e variegate le comunità cristiane primitive, perfino al punto di insanabile rottura. Non ci fu mai un cristianesimo primitivo monolitico e un'unica “comunità primitiva”, e la lotta per la supremazia imponeva di auto-legittimarsi invocando l'autorità di Cristo stesso e dei suoi originari apostoli.  Così i cristiani erano costretti, prima o poi, a creare loro stessi le “prove documentali” necessarie di cui disperatamente bisognavano.

Non era difficile vedere oltre la facciata di questa loro menzogna.

Ma per la mente degli stupidi e ignoranti hoi polloi di allora (proprio come oggi), che cos'era più solido e credibile della semplice storiella di un uomo che visse e soffrì? I vangeli offrirono questa immagine di un uomo così tangibile e credibile agli occhi degli antichi, così semplice e chiara, da essere subito accettata (proprio come oggi) acriticamente come “Storia ricordata”.

Le storielle dei vangeli cessano di colpo di valere come “Storia ricordata” non appena ci si accorge che non furono affatto prodotte e preservate da una o due comunità legate fraternamente tra loro “in Cristo”, dove ogni cristiano, nel canto e nella danza, manifestava amore e carità verso ciascun fratello nella fede (la stessa ridicola favola venduta dagli Atti degli Apostoli). Al contrario, i vangeli furono fabbricati da comunità cristiane rivali in aspra competizione tra loro, ardenti di contendersi, interpolare e falsificare la tradizione evangelica. 

Per la stessa ragione, entro la metà del secondo secolo, non potevano più esserci stati cristiani che fossero non contagiati (e interessati) dal meme del “Gesù storico”. E questo vale per ciascun tipo di cristiani: proto-cattolici ed “eretici”.

Prima di quella brusca reazione a catena per la quale un meme specifico, quello del Gesù storico, arrivò ad intersecare il percorso degli altri memi, eclissandoli gradualmente o estinguendoli se troppo diversi ed incompatibili, tuttavia, i memi viaggiavano separati tra di loro.

Va da sè che il processo di sottomissione di n memi distinti (corrispondenti ad n Gesù Cristi mitologici) ad uno solo di essi (il Gesù di carta dei vangeli) procede inconsapevolmente ancora oggi, in parallelo alla preservazione collettiva di quei memi da parte delle stesse chiese cristiane, che li brandiscono come propri memi, che li interpretano come proprie tradizioni, incuranti delle contraddizioni inerenti al loro significato più profondo e antico.

Ad esempio, i folli apologeti cristiani e filo-cristiani che infestano gli studi neotestamentari (e fortunatamente solo quelli!) pretendono di ricostruire “scientificamente” le origini cristiane spacciando per sana “conoscenza storica” ciò che di più o meno realistico riescono ad estrapolare, sia pure piuttosto goffamente (data la povera natura dell'evidenza documentale), da fuori del solito meme: quello dei vangeli.
Loro sono in fin dei conti in parte condizionati a fare così dal fatto che gli altri memi non hanno nulla da dire sul Gesù storico, perciò più loro si appellano ai soli vangeli per brandire il loro meme del Gesù storico, più rivelano di essere disperatamente a corto di prove del Gesù storico.
Solo brandendo dogmaticamente in alto il meme del Gesù evangelico così da riuscire con tale imperioso (quanto irrazionale) atto di forza ad illuminare (si fa per dire) tutti gli altri memi alla luce di quello (e solo di quello), loro si illudono di poter fugare l'oscurità tanto disturbante che presso gli altri memi avvolge il loro feticcio “Gesù di Nazaret”.

Nella loro difesa disperata del Gesù evangelico contro il Gesù degli altri memi, i folli apologeti cristiani e filo-cristiani infiltrati in accademia sotto mentite spoglie di storici ricordano da vicino il modus operandi delle persone religiose, e non è affatto un caso che Richard Dawkins identifica facilmente un caratteristico esempio di meme assai caro alle chiese tradizionali:
Il meme dell'idea di Dio si è per esempio associato con qualche altro meme particolare e questa associazione aiuta la sopravvivenza di ciascuno dei memi partecipanti? Forse una chiesa organizzata, con la sua architettura, i suoi riti, le sue leggi, la sua musica, la sua arte e le sue tradizioni scritte, si potrebbe considerare appunto come un assetto stabile di memi che si rafforzano l'un l'altro.
Per prendere un esempio particolare, un aspetto della dottrina che è stato molto efficace per obbligare all'osservanza religiosa è la minaccia del fuoco dell'inferno. Molti bambini e anche alcuni adulti credono che soffriranno atroci tormenti dopo la morte se non obbediscono alle regole dei preti. Si tratta di una tecnica di persuasione particolarmente antipatica, che ha provocato grande angoscia psicologica nel Medioevo e anche nei nostri tempi. Potrebbe quasi essere stata pianificata deliberatamente da preti machiavellici addestrati nelle tecniche di indottrinamento psicologico profondo. Dubito tuttavia che i preti fossero così abili; è molto più probabile che memi inconsci abbiano assicurato la propria sopravvivenza usando le stesse qualità di pseudospietatezza possedute dai geni di successo. L'idea del fuoco dell'inferno, molto semplicemente, è autoperpetuante per il suo profondo impatto psicologico. Si è trovata unita al meme dell'idea di Dio perché i due si rinforzano l'un l'altro e aiutano la sopravvivenza reciproca nel pool memico.
Un altro membro del complesso dei memi religiosi si chiama fede. Significa fiducia cieca, senza prove, anche contro le prove. La storia di San Tommaso viene raccontata non perché noi lo ammiriamo ma per farci ammirare in confronto gli altri apostoli. Tommaso chiedeva prove e per certi memi niente è più letale della tendenza a chiederne le prove.
Gli altri apostoli invece, la cui fede era così forte da non avere bisogno di prove, vengono considerati degni di imitazione. Il meme della fede cieca assicura la propria esistenza perpetua con il semplice espediente inconscio di scoraggiare le indagini razionali.
La fede cieca può giustificare qualunque cosa. Se un uomo crede in un dio diverso o anche se usa un diverso rituale per adorare lo stesso dio, la fede cieca può decretare che deve morire — sulla croce, al palo, infilzato sulla spada di un crociato, ucciso da un proiettile in una strada di Beirut o fatto saltare in aria in un bar di Belfast. I memi della fede cieca hanno proprie regole spietate per propagarsi, valide non solo per la fede religiosa, ma anche per quella patriottica o politica.

(Il gene egoista, pag. 164-165)
“La fede cieca può giustificare qualunque cosa”, afferma Dawkins, anche il fingersi pomposamente studiosi ed esperti del Gesù storico e vendere la solita propaganda evangelica dalle cattedre universitarie, sbarrando la strada ad ogni potenziale scettico, sperando così di offrire maggiore credibilità il più possibile “oggettiva” e “imparziale” al mito della veracità storica di Gesù di Nazaret.

Il “Gesù storico” è nient'altro che l'evoluzione dello stesso meme evangelico per garantirne la sopravvivenza in un mondo secolare sempre più scettico.
Come tale, chi propina il “Gesù storico” — uno dei tanti —  oggi non è poi così diverso da chi propinava il “Gesù evangelico” — uno dei tanti — ieri. Lo stesso processo opera in entrambi e si chiama evoluzione in azione. È l'unico processo in grado di spiegare perchè, ieri come oggi, i cristiani hanno preso e continuano a prendere per fatti reali un mucchio di miti e finzioni. È sufficiente leggere le opere dei
Padri della Chiesa cioè, per dire, i più intelligenti tra gli antichi proto-cattolici per rendersi conto di quanto fossero scemi, proprio come lo sono, sotto altre forme, i moderni apologeti cristiani. Non solo il loro ragionamento non ha niente di cartesiano o logico, ma la loro erudizione non esclude affatto conclusioni a dir poco irrazionali. A proposito di Giustino, Ernst Renan commentò: “egli aveva una certa specie di credulità mediocre che permette di ragionare irrazionalmente su delle premesse infantili e di arrestarsi in tempo, così da essere solo per metà assurdo” (Daanson, Mythes et légendes, Bruxelles, 1913, pag. 166, mia libera traduzione).

Eusebio, il primo storico della chiesa (ovviamente: proto-cattolica) fu così scemo da credere all'autenticità della lettera di Gesù ad Agbar, proprio come questa sedicente “studiosa”.

Ad accorgersi di quanto fosse scemo Sant'Agostino, ci pensò il buon Voltaire:
Voi mi citate il retore sant'Agostino che, nel suo libro dei miracoli, parla di cento città in Libia inghiottite in una sola volta; ma pensate che quell'africano, che passò la vita a contraddirsi, prodigava nei suoi scritti la figura dell'esagerazione: trattava i terremoti come la grazia efficace e la dannazione eterna di tutti i bambini morti senza battesimo. Non ha forse detto, nel suo trentasettesimo sermone, di avere visto in Etiopia razze di uomini provvisti di un grande occhio in mezzo alla fronte, come i ciclopi, e interi popoli senza testa?
(Voltaire, Pot-pourri)
Un altro Padre della Chiesa, Gregorio di Nazianzo, aveva perfettamente analizzato la mentalità dei suoi contemporanei quando scrisse in una lettera destinata a San Girolamo:
“Serve solo la chiacchiera per impressionare la gente. Meno comprende, più ammira.... I nostri Padri e Dottori spesso dicevano non ciò che pensavano, ma ciò che fecero dir loro le circostanze e la necessità”.
Proprio come quelli scemi “Padri della Chiesa”, i teologi che si fingono pomposamente “esperti del Gesù storico” (i vari Meier, Chilton, Allison, Pesce ecc.) sono ingaggiati nella stessa zelante propaganda missionaria, sotto la parvenza di una scientificità tanto edulcorata quanto pretesa. Una propaganda svolta dietro la cattedra che non è affatto diversa dall'isteria dei media prima del Natale oppure a Pasqua.

Eppure per distruggere il meme del Gesù storico è sufficiente distruggere il meme del Gesù evangelico, e il più semplice modo per farlo è servirsi di un meme più antico: il meme del Gesù di Paolo.

Gesù nelle lettere di Paolo è un arcangelo celeste col quale Paolo è in contatto.

Ma se Gesù fosse stato veramente un uomo storico vissuto di recente in Giudea, difficilmente un mero trattato di angelologia da parte di Paolo avrebbe soddisfatto le chiese alle quali egli stava scrivendo. Sarebbe naturale che i corinzi, i filippesi,  i galati, i tessalonicesi, avessero voluto sapere qualcosina sul Gesù storico, fosse anche la sola menzione della sua umiltà in vita, degna di un Padre Pio o di un San Francesco d'Assisi (almeno per giustificarne in qualche modo possibilmente non imbarazzante la sua totale insignificanza storica presso i contemporanei).

Eppure niente.

Si prenda l'incredibile testimonianza di Frate Lorenzo, un monaco carmelitano vissuto in Francia nel XVII° secolo. Costui ha scritto un intero libro, titolato “La pratica della presenza di Dio”, da far pensare che fosse privo del tutto nella sua testa del meme del Gesù evangelico, visto che genere di sciocchezze scriveva ad nauseam:
“Lei vuole sapere come ho fatto a vivere sempre alla presenza di Dio? Ho cercato una cosa sola: appartenere completamente a Lui. Il desiderio ardente mi ha occupato talmente che ho dato il tutto per tutto! Per amore di Dio ho rinunciato a tutto ciò che non è Lui. Ho cominciato a vivere come se al mondo fossimo solo Lui ed io.”

“... senza fretta, senza inquietudine. E' necessario riporre la nostra fiducia in Dio e mettere da parte tutti gli altri pensieri e preoccupazioni.”

“La mia anima, che fino a quel momento era assai irrequieta, ha sentito una pace profonda. Sembrava che avesse trovato il centro, il suo punto di pace. Da quel momento mi sono sempre rivolto a Dio in un modo indescrivibilmente semplice, con umiltà e amore”.

“Quanta gioia e quanta pace sono dentro di me, perché so e sento quale grande tesoro porto sempre in me! Il tesoro di Dio assomiglia all'oceano senza fine, dal quale un'onda piccola che va e viene in un attimo già ci soddisfa”.

“Non ho più un altra volontà che quella di Dio, che vorrei eseguire in tutte le cose. L'unico mio pensiero è rimanere alla Sua presenza, osservare la vicinanza di Dio ed immergermi in una totale donazione”.
Ne avete abbastanza di questo solito tema ricorrente. Frate Lorenzo non pensava altro che a dio e solo a dio e soltanto a dio.

Vi ricorda qualcuno?
...perché mi ero proposto di non sapere fra voi altro, se non Gesú Cristo e lui crocifisso.
(1 Corinzi 2:2)

...poiché i Giudei chiedono un segno e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che è scandalo per i Giudei e follia per i Greci;
(1 Corinzi 1:22-23)

Ma quanto a me, non avvenga mai che io mi vanti all'infuori della croce di nostro Signore Gesú Cristo, per la quale il mondo è crocifisso a me e io al mondo.
(Galati 6:14)
Paolo sembra davvero simile a Frate Lorenzo nel suo non voler parlare di nient'altro se non di Cristo Gesù e solo di lui (nota bene che Frate Lorenzo pensava a dio, non faceva il nome di Gesù). Eppure nota la grandissima differenza tra Paolo e il mistico francese: frate Lorenzo, alla fin fine, in altre opere a noi pervenute romperà il silenzio sul Gesù evangelico, confermando di possedere nella sua testa il meme dei vangeli (e come poteva non averlo, nel 1700?). Lo stesso non si può dire di Paolo, che pure sarebbe stato un contemporaneo dell'ipotetico Gesù storico. In tutte le sue lettere, l'apostolo dimostra di essere completamente privo del meme del Gesù profeta itinerante di Giudea.

Se per ''Cristo crocifisso'' si intende la particolarissima interpretazione metafisica che l'uomo chiamato Paolo si fece di un altrettanto particolarissimo evento storico preciso in una particolarissima cornice spazio-temporale (ovvero la crocifissione nelle vicinanze di Gerusalemme per motivi politici di un presunto sedizioso di nome Gesù detto Cristo), allora io potrei avere ogni ragione di credere che questo era solo la particolarissima idiosincrasia di Paolo e solo di Paolo e di nessun altro.

È solo quando trovo molteplici autori a fare la stessa cosa in molteplici epistole (Paolo, Epistola agli Ebrei, 1 Pietro, 1, 2 e 3 Giovanni, Giacomo, Giuda, 1 Clemente e così via), venendo apparentemente dai più molteplici e disparati ambienti e prima della stesura del Più Antico Vangelo, che le cose iniziano potenzialmente a sembrare sempre via via più sospette.

Ma il sospetto ancora più grande, che mi fa cadere a quel punto ogni fiducia in un ipotetico Gesù storico, è che nessuno di quelli altri autori sembrano poter offrire lo stesso genere di “scuse” che mistici del calibro di Paolo o di frate Lorenzo manifestano nella misura in cui si concentrano e si focalizzano solo su certe cose e soltanto su quelle.

Il Gesù spirituale non si trova solo in Paolo. Le altre lettere del Nuovo Testamento non dicono sulla sul Gesù storico. Per esempio, la Lettera agli Ebrei è interessata solo al Gesù arcangelo come celeste “sommo sacerdote” e arriva molto vicino a negare esplicitamente l'esistenza storica di Gesù nel recente passato.

Per quanto riguarda le Odi di Salomone, il prof Stevan Davies li considera una prova addirittura di una setta ebraica pre-cristiana, quindi priva del tutto del meme del Gesù storico.
Io intendo soltanto che idee e frasi trovate nelle Odi di Salomone erano scritte prima del tempo in cui idee e frasi simili furono scritte nel Nuovo Testamento, e che la comunità dietro le Odi di Salomone fosse in esistenza prima che ci fossero delle comunità cristiane orientate a Gesù di Nazaret. Io non ho nessuna ragione per credere che qualche autore del Nuovo Testamento avesse mai letto qualcosa delle Odi, oppure che qualche autore delle Odi avesse mai letto qualcosa del Nuovo Testamento.
Le Odi di Salomone, io credo, vennero prima; la stesura del Nuovo Testamento fu posteriore, forse una generazione o due più tardi.

(Stevan Davies, “Sulle Odi di Salomone come Prova di un Pre-Cristianesimo,” in Spirit Possession and the Origins of Christianity, 2014, pag. 271, mia libera traduzione)
Le persone ragionevoli e intellettualmente oneste non possono eludere a lungo il problema: perchè, tra tutti i memi primitivi che formano insieme l'antica letteratura cristiana, solo il meme della tradizione evangelica parla di un Gesù predicatore itinerante in terra di Giudea e  Galilea?

I folli apologeti cristiani rispondono che la colpa è del rapido sviluppo della cristologia a pochi anni, addirittura mesi, dalla morte di Gesù su una croce romana. Ma questa risposta è così insensata e ridicola che è incapace di spiegare perchè in tutti gli altri memi diversi da quello evangelico è dappertutto assente il meme del Gesù storico, perfino nella forma del più minuscolo degli indizi. È evidente che quei memi sono diversi tra loro e sono nati ciascuno in circostanze diverse l'una dall'altra.

Se Gesù fosse vissuto come un uomo in carne e ossa, allora sarebbe logico aspettarsi da parte di tutti i memi, e non solo esclusivamente dal meme evangelico, l'inevitabile riflesso, almeno in minima parte, dell'esistenza storica di un predicatore itinerante nella Giudea del I secolo.

 Eppure, questo presunto riflesso si troverebbe evidenziato in chiara luce, a detta dei folli apologeti cristiani, solo in fittizie biografie leggendarie chiamate vangeli, per di più indebitate tra loro (oltre che a piene mani con la letteratura sacra precedente) così strettamente da rendere virtualmente impossibile sul nascere la stessa ricerca di un ipotetico Gesù storico.

L'imminenza di un destino incombente — l'arrivo nientemeno del “Regno di Dio”! — avrebbe trasformato in un vero e proprio imperativo il ricordo dell'esistenza storica di Gesù e delle sue dottrine già tra i primi apostoli e Paolo, così da galvanizzare ancor di più, coinvolgendola nell'entusiasmo per la prima venuta del Figlio di Dio sulla Terra, gente già in ardente attesa della sua seconda venuta. E avrebbe trasformato in un vero e proprio imperativo per i nuovi convertiti porre un sacco di domande circa le vere parole del Gesù storico, dal momento che la posta in gioco era talmente alta, a pochi anni, forse mesi, forse addirittura giorni (!) dalla Fine di questo eone: la stessa sopravvivenza nel futuro mondo a venire. Così delirante ed impellente era l'attesa, che non si sarebbe mai pensato di avere tanto tempo a disposizione per redigere un coerente vangelo scritto sulla vita del Gesù storico, e tuttavia, già al tempo in cui irruppe Paolo sulla scena — al più vent'anni dopo la nascita del culto —, quel meme di un ipotetico Gesù terreno sarebbe stato assolutamente necessario metterlo per iscritto almeno nelle sue lettere, se davvero vi fosse stato un materiale orale da ricordare circa l'esistenza recente di Gesù sulla Terra: infatti la prima generazione di apostoli stava già morendo, si lamenta Paolo in 1 Corinzi 15, rendendo sempre più necessaria una preservazione su carta del meme reale di un ipotetico Gesù storico, ancor più così sotto la stringente e pressante necessità di facilitare con ogni mezzo la conversione del maggior numero di persone prima della Fine...
...a meno che...
...a meno che i fatti relativi a Gesù non fossero il mero contenuto di una dottrina esoterica non-scritta da tener segreta sotto giuramento, una situazione che sarebbe del tutto comprensibile se Gesù non fosse mai esistito sulla Terra nel recente passato (ma fosse conosciuto solo tramite spirituali rivelazioni interiori), mentre non farebbe alcun senso se quei fatti fossero già di dominio pubblico anche per i non credenti (per cui non sarebbe valsa neppure la pena di nasconderli) e, ancor peggio, se fossero così imbarazzanti da dover giustificare fin da subito la stesura scritta di una versione il più possibile “ufficiale” e “accurata” di come quei fatti si sarebbero svolti secondo il credo dei primi cristiani, a scanzo di equivoci e di possibili malelingue intorno all'ipotetica figura del Gesù storico.

Alla fine, ciò che scrisse Paolo nelle sue lettere è decisamente più banale di quel che sarebbe stato piuttosto assai più cruciale ricordare da parte sua — ossia gli insegnamenti dello stesso Gesù storico — se davvero la Fine era percepita come imminente e se davvero Paolo doveva convincere tutti che lo fosse.
    
La spiegazione più semplice di questo stato di cose altrimenti davvero enigmatico e incomprensibile è che “l'uomo Gesù” non è esistito fino a quando non fu creato dal Più Antico Vangelo (sia esso Marco oppure Mcn).

Questa spiegazione è così semplice che riesce a giustificare anche l'ostinata insistenza, altrimenti davvero irrazionale, da parte dei folli apologeti cristiani odierni, nel fare rigidamente quadrato attorno al fabbricato meme del Gesù storico, perchè egli trionfi ancora e ancora, sopravviva ancora e ancora, a maggior gloria di una fede cristiana oramai in lento ma inesorabile declino.

martedì 25 aprile 2017

Circa «Le mystère de Jésus» di Paul-Louis Couchoud (XII)

(Questa è la dodicesima e ultima parte della traduzione italiana di un libro del miticista Paul-Louis Choucoud, «Le mystère de Jésus». Per leggere il testo precedente, segui questo link)

RIASSUNTO DELL'OPERA:

 PARTE PRIMA:
L'ENIGMA

—I. UN EREMITAGGIO NEL GIAPPONE
—IV. MARCO
—VI. PAOLO
—VII. GESÙ

 PARTE SECONDA: 
IL MISTERO
—V. UOMO O DIO?

V. UOMO O DIO?

Chiunque tenterà di chiarire le origini cristiane dovrà prendere una grande decisione. Gesù è un problema. Il cristianesimo è l'altro. Egli non potrà risolvere l'uno dei due problemi se non rendendo l'altro insolubile.
Se egli si attacca al problema di Gesù, dovrà percorrere le vie di Renan e di Loisy. Dipingerà, con maggiore o minore quantità di colori, un agitatore messianico, un nabì del tempo degli ultimi Erodi. Gli attribuirà lineamenti verosimili onde poterlo integrare nella storia. Se egli è un abile critico, farà un ritratto plausibile, cioè tale da meritare da essere applaudito.
Ma il cristianesimo si leverà come un fatto inesplicabile. Come mai l'oscuro nabì si è mutato in Figlio di Dio, oggetto inesauribile del culto cristiano e della teologia cristiana? Qui ci troviamo fuori dalle strade aperte della storia. Mancano le analogie. Il cristianesimo è un'incredibile assurdità e il più bizzarro dei miracoli.
E se lo storico si dedica al problema del cristianesimo, si avvede che, fin dall'origine, la nuova religione consiste in una bella teologia che, dopo essere sbocciata nell'ebraismo, è fiorita fuori di esso. Nel cuore di tale teologia sta l'idea di un essere divino che riscatta l'umanità mediante un sacrificio espiatorio e deve fra poco apparire per giudicarla. Su questa concezione del divino poteva fiorire una grande religione.
Ma un Gesù storico diventa allora impossibile a sistemarsi. Nello slancio mentale che va dall'ebraismo al cristianesimo, dal servo martire di Isaia al Gesù di Paolo non si può intercalare l'adorazione di un uomo. Essa ripugna tanto allo spirito dell'ebraismo quanto a quello della nuova fede. Si deve prendere la storia di Gesù per una miniatura in margine di una dottrina, per un midrash mosso e colorito.
Poiché si deve scegliere, la scelta s'impone. Quello che rimane da spiegare, è il cristianesimo. E poiché la nozione di un Uomo-Dio non entra più in una testa moderna e si deve dissociarlo, lasciamo l'uomo e teniamo Dio.
O storici, non esitate a cancellare dai vostri elenchi l'uomo Gesù. Fate entrare il Dio Gesù. Immediatamente la storia del cristianesimo nascente sarà collocata al suo vero livello. Essa apparirà nuova ed elevata. Renan non le ha dato l'interesse che le spetta. Il vero storico non è “storicista”. Egli sa distinguere dai fatti positivi le idee che assumono aspetto di fatti per essere meglio comprese. Allo “storicista”, Gesù offre una materia ingrata e secca. Storici delle religioni e sociologi, a voi egli apporta uno studio inebriante ed infinito.
E voi, credenti, vi ostinerete a brandire sedicenti prove che feriscono voi stessi? Tempi nuovi sono giunti. Voi non potete più materializzare Gesù senza farlo impallidire e distruggerlo. Più voi proverete che egli è un ebreo storico, più preparerete discepoli a Renan.
Avrete voi paura di una realtà spirituale, voi la cui nobile funzione è quella di mantenere le realtà spirituali? Non affidatevi ad una dubbia leggenda. Quello che voi scambiate per il porto è un abisso mortale. Issate la vela! Andate al largo, dove vi sembra sia la tempesta! Queste onde vi porteranno uomini di poca fede!

lunedì 24 aprile 2017

Circa «Le mystère de Jésus» di Paul-Louis Couchoud (XI)

   (Questa è l'undicesima parte della traduzione italiana di un libro del miticista Paul-Louis Choucoud, «Le mystère de Jésus». Per leggere il testo precedente, segui questo link)

— IV. LA LEGGENDA EVANGELICA

I Vangeli, piccole raccolte mal composte che si copiano fra loro, hanno un merito ed un fascino. Essi sono l'opera di tutti. Le lettere di Paolo rispecchiano un uomo di genio. I Vangeli rispecchiano gruppi anonimi molto seri, molto ferventi, a cui fu dato di esprimere ingenuamente le idee religiose e morali che li inondavano di delizia.
Essi dispongono la mobile cornice entro la quale delle api ebbre istillarono il miele più squisito. L'ultimo redattore ebbe una funzione molto importante. Ma il fondo maturò nelle assemblee notturne dei santi. Essi sono il prodotto ben sceverato di un ardente commercio con lo Spirito. Sono il fiore della profezia in comune.
Dopo Paolo e l'autore dell'Apocalisse, non conosciamo altro che un solo profeta tardivo, il buon uomo Hermas, candido, sensibile, ripetente sempre le stesse cose. Egli ci fa indovinare i profeti più virili che l'hanno preceduto, i forti e delicati profeti che durante due generazioni trasmisero il messaggio dello Spirito alle assemblee di Siria, d'Asia, di Grecia, d'Italia.
Hermas apportava da parte dello Spirito visioni, precetti, parabole: tale è la triplice divisione del suo libro. I suoi predecessori avevano fatto pressappoco la stessa cosa. La miglior parte dei precetti e delle parole soffiate dallo Spirito finisce per costituire l'insegnamento di Gesù. Le visioni spirituali, rafforzate dalle Scritture, fornirono l'essenziale della vita di lui.
Paolo ha rivelato in anticipo il segeto dei Vangeli in quattro parole: Gesù è lo spirito. Lo stesso spirito che aveva dettato gli oracoli dei profeti ebrei ispirava anche quelli degli ultimi profeti. Con qualunque nome lo si chiamasse, era Gesù. Paolo nei suoi grandi momenti aveva parlato in parola del Signore (1 Tessalonicesi 4, 15). E alla fine dell'età profetica il buon Pastore emetteva ancora, per bocca di Hermas, saggi e copiosi precetti sulla pratica della continenza, della fede, del timore o della letizia.
Da Paolo a Hermas, lo Spirito prodigò alle assemblee le istruzioni più pure e più sante. Nell'oscurità degli angusti cenacoli, sale d'aspetto del regno di luce, l'estati melodiosa passava dall'uno all'altro, le bocche si univano nel santo bacio e lingue di fuoco scendevano sulle teste.
L'austera ed elevata morale ebraica vi fu addolcita, nobilitata, spogliata della sua pedante casistica, sollevata e riscaldata dalla folle speranza, intenerita e sublimata dall'esperienza della vita mistica. La regola del perdono e dell'amore vi fu spinta ad estremità che non tenevano più conto della natura.
Si credeva che un tempo lo Spirito avesse detto per bocca d'Isaia: “A coloro che vi odiano rispondete voi siete nostri fratelli!” (Isaia, 66, 3). Ed ora Gesù giungeva fino a dire: “Se qualcuno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, offrigli l'altra!” (Matteo 5, 39).
I precetti più ammirati o meglio sentiti, scelti con cura, cuciti insieme poco accortamente, compongono nei Vangeli fittizi discorsi di Gesù. Sotto la compilazione artificiale si discernono le diverse età e le diverse correnti cui appartenevano gli oracoli primitivi. Il maggior numero era indirizzato a comunità già vecchie, che avevano vissuto, lottato, affrontato difficoltà e pericoli.
Qual è, per esempio, il contegno che si deve tenere verso i peccatori induriti che macchiano il santo gregge?
“Se il tuo fratello pecca, va, rimproveralo fra te e lui solo. S'egli ti ascolta, tu avrai guadagnato tuo fratello.”
“Se egli non t'ascolta, prendi con te uno o due altri perché ogni cosa sia regolata su quanto dicono due testimoni o tre (Deuteronomio 19, 15). S'egli non vuole intenderli, dillo all'Assemblea. S'egli non vuole ascoltare nemmeno l'Assemblea, sia egli per te come il pagano e il pubblicano!” (Matteo 18, 77).
Così è fissata la procedura della scomunica. Ognuno ne ha l'iniziativa. L'Assemblea come corpo pronuncia. La regola è dura. Altri precetti risolvono diversamente la questione. Sono più dolci verso il peccatore, anche inveterato, più teneri per il pagano e il pubblicano.
Quest'altro oracolo è un'istruzione sul martirio. È d'un bel tono, calmo, veramente eroico:
“Diffidate degli uomini, essi vi consegneranno ai tribunali. Vi fustigheranno nelle loro sinagoghe. A causa di me voi sarete trascinati al cospetto di prefetti e re, come testimoni per essi e per i pagani. Quando essi vi consegneranno, non cercate come parlare né che cosa dire. In quell'ora vi sarà dato di che dire: non sarete voi a parlare, ma sarà lo Spirito di nostro Padre che parlerà in voi!” (Matteo 10, 16-20).
È la regola sublime dei tempi di persecuzione. Avvezzo a sentire un soffio gonfiare il suo petto, il profeta cristiano attenderà tranquillamente l'ora di comparire davanti ai giudici. Non avrà inquietudini. Rimetterà la sua sorte allo spirito che parlerà per lui. Quale spiraglio sul fondo dell'anima dei martiri!
Simili oracoli sempre ritmati ma diversi d'origine e d'accento, sono classificati in Matteo sotto cinque divisioni principali: legge cristiana, missioni, regole ecclesiastiche, invettive, ultimi giorni. Quasi tutti hanno un tono penetrante e poetico. Molti risalgono fino al tempo di Paolo. Quello che è recente e convenzionale, è l'aggiustamento fatto dall'evangelista.
Altri frutti profumati della profezia cristiana erano le parabole: fresche piccole favole o immagini vive, destinate a far sentire per via di metafore le realtà invisibili. Traevano origine dalla letteratura ebraica. I cristiani vi misero molta arte e molto significato.
L'onesto Hermas, profeta in ritardo, fa ancora, in nome del pastore, piacevoli parabole. Egli mostra la Vigna, onusta di grappoli, sostenuta dall'Olmo. Così il povero, onusto di preghiere, deve appoggiarsi al ricco. Gli alberi, morti o vivi, d'inverno sono eguali; l'estate li renderà differenti. Così peccatori e giusti si rassomigliano ma differiranno quando verrà il gran Giorno (Il Pastore, Sim. 2 e 3).
Le parabole inserite nei Vangeli sono del medesimo genere, ma ordinariamente più forti e più profonde. L'intero Vangelo è una specie di grande parabola, poiché la storia umana di Gesù è destinata a far comprendere un mistero divino. Le piccole parabole che vi si mescolano hanno pure spesso per oggetto dei misteri.
Molte si riferiscono alla cosa di cui, con parole coperte, si parlava di più nelle assemblee, al grande segreto: quel Regno inaudito che stava per giungere. Che cosa era esso? È meraviglioso vedere tutti i bei paragoni che furono trovati per parlarne.
Ma le parabole non si accordano fra loro. Le une intendono il Regno come futuro: esso sarà instaurato un giorno prossimo, d'improvviso. Le altre, più sottili e più recenti, lo considerano come già presente, e quasi lo confondono con la cara assemblea dei fratelli. Quando il Regno è paragonato ad un granello di senape, la più fine delle semenze, da cui esce un albero dove fanno nido gli uccelli del cielo (Matteo 13, 31-32; Marco 4, 30-32; Luca 13, 18-19), quest'immagine impressionante fa vedere la miracolosa crescita della Chiesa. Il Regno si fa ogni giorno. Questo ondeggiamento di senso ci aiuta a comprendere come la speranza primitiva abbia potuto consolarsi mutando oggetto, e assopirsi senza spegnersi completamente.
Quello che è spesso messo in parabole è precisamente il fatto cristiano. Quale grande oggetto di meraviglia! Che Dio si sia disgustato degli ebrei, del suo popolo eletto, ed abbia adottato al loro posto i cristiani, venuti per la maggior parte da popoli impuri — come concepire ciò? Le parabole si sforzano di spiegarlo.
Alle nozze di Gesù gli ebrei furono convitati per primi, una volta per mezzo dei profeti, recentemente per mezzo degli apostoli. Essi sdegnarono l'invito e uccisero quelli che lo recavano loro: Stefano, Giacomo ed altri. Perciò invitò tutti quanti gli uomini al festino messianico:
“Paragoniamo il Regno dei cieli a certo re che fece le nozze di suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze. Gli invitati non volevano venire. Il re mandò altri servi: Dite agli invitati: ecco, la mia cena è pronta, i miei buoi e la mia selvaggina furono uccisi, tutto è pronto: venite alle nozze!
Quelli se ne andarono indifferenti, chi al suo campo, chi alla sua bottega. Gli altri si impadronirono dei servi, li oltraggiarono e li uccisero. Il re montò in collera; mandò i suoi eserciti, fece perire quelli assassini e ne arse le città.
Allora disse ai suoi servi: Le nozze sono pronte, ma gli invitati erano indegni. Recatevi dunque in capo alle strade, e invitate alle nozze quelli che troverete! Quei servi andarono nelle strade, raccolsero quelli che trovarono, buoni e cattivi, e la sala nuziale fu riempita” (Matteo 22, 2-10).
Egli arse la loro città. Si vede chiaramente che la parabola fu composta dopo la distruzione di Gerusalemme. Essa è un vivo e piacevole riassunto di un secolo intero di storia cristiana.
Altre parabole si avvicinano a quelle di Hermas. Esse trattano la questione tanto diffusa: che si deve fare dei peccatori nella chiesa? Si deve escluderli inesorabilmente? Un precetto ha ordinato ciò. Non è tuttavia più saggio l'usar pazienza? Nel campo seminato da Gesù, il diavolo seminò la zizzania. Se si pretende di sradicare la zizzania, si rischia di sradicare col medesimo colpo il frumento. Aspettiamo il giudizio! Gli angeli mietitori metteranno la zizzania in botti per bruciarla e porteranno il frumento nel beato granaio (Matteo 13, 24-30; 36-43).
Dal cuore ispirato dei profeti sgorgavano anche effusioni più mistiche. Paolo dice: “Cantate a Dio in cuor vostro salmi, inni, odi spirituali!” (Colossesi 3, 16). Fu ritrovata una raccolta di odi cristiane antiche, le Odi di Salomone, dove talvolta parla il fedele, talvolta Gesù.
Odi e preghiere del medesimo stile lasciarono tracce nei Vangeli. Tale è la preghiera mistica attribuita a Gesù in Matteo: “Io ti lodo, o Padre signore del cielo e della terra... Tutto mi fu consegnato da mio Padre...”
“Venite tutti a me, o affaticati e oppressi, io vi darò riposo. Mettete su di voi il mio giogo, imparate la mia lezione: nel mio cuore io sono dolce e umile. Voi troverete riposo per le vostre anime
(Geremia 6, 16); il mio giogo è buono, il mio fardello è leggero (Matteo 11, 25-30).
Il quarto Vangelo racchiude i più bei brani del genere l'ode al Logos che gli serve di prefazione, i poemi del Pane di Vita, del Buon Pastore, della Vigna, e quella che è chiamata la preghiera sacerdotale di Gesù. Essi rendono un suono affatto diverso da quello delle parabole e degli oracoli dei Vangeli sinottici. La loro forza è ben più alta, la loro soavità più ardente, la loro risonanza più intima.
“Io sono il Buon Pastore; conosco le mie pecore ed esse mi conoscono, come mi conosce il Padre e come io conosco il Padre, e abbandono la vita per le mie pecore...”
“Per questo il Padre mi ama, perché abbandono la vita al fine di riprenderla. Nessuno me la toglie: l'abbandono io stesso fuori da me. Io ho potere di lasciarla e potere di riprenderla; è questo l'ordine che ricevetti da mio Padre” (Giovanni 10, 14-18).
Quello che parla così è il Dio del mistero, il cui sacrificio liturgico, collocato fuori del tempo, si rinnova indefinitamente, e che ha senza termine la missione di morire per i cristiani e di resuscitare. Questo Gesù mistico si trova nel piano più remoto dei Vangeli, mentre si trovò nel centro della dottrina di Paolo.
Di oracoli, parabole ed odi sgorgate nel cenacolo cristiano sono costituite le parole del Gesù evangelico. Gli atti della sua vita sono composti egualmente, gli uni di prodigi, gli altri di simboli, gli altri di visioni.
Il medesimo Spirito che aveva ispirati gli oracoli dei profeti aveva prodotti i miracoli dei taumaturgi. Era dunque lecito attribuire a Gesù gli uni come gli altri.
Di fatto, molti miracoli sembrano raccontati in duplice visione negli Atti degli Apostoli e nei Vangeli. La guarigione di un paralitico, la resurrezione di una fanciulla di nome Tabita e la conversione di un centurione fanno parte della leggenda di Pietro, negli Atti, e pare siano passate con qualche alterazione nella leggenda di Gesù. Il racconto degli Atti è più dettagliato, meglio legato, più plausibile, quello dei Vangeli più smussato e sovraccarico. Il primo ha tutti i caratteri dell'originale. Il secondo è una copia pallida, spinta fino a diventare lezione e simbolo.
Si sarebbe potuto attribuire a Gesù un numero grandissimo di miracoli. Tanto più che ai miracoli autentici degli apostoli si aggiungevano meraviglie tolte al fondo comune delle leggende. La storia del demonio Legione inviato dentro duemila maiali sembra essere un racconto popolare ebraico. E l'evasione di Gesù da sopra un precipizio ha analogia con ciò che si legge nella Vita di Pitagora.
Gli evangelisti limitarono la loro scelta, in generale, ai prodigi che potevano assumere un senso interiore ed essere compresi “come simboli concreti dell'opera spirituale compiuta da Gesù”. Così il cieco guarito di Betsaida, il quale dapprima vede gli uomini come alberi che camminano e, ad una seconda imposizione delle mani, vede nettamente da lontano, è situato in modo da “raffigurare l'educazione progressiva dei discepoli”. Per penetrare nella storia di Gesù, i racconti semplici di miracoli devono rivestire qualche significato simbolico.
Altre volte fu il simbolo a generare il racconto. Certi fatti narrati sono parabole interpretate letteralmente. Perché meravigliarcene? Dal punto di vista della verità trascendente, finzione e fatti sono del medesimo ordine e possono scambiarsi fra loro. Il medesimo tema è messo in parabola in un Vangelo, e in racconto in un altro.
Una parabola di Luca si serve di una pianta di fico che si può dire vecchissima, poiché è già servita ad Ahikar l'assiro per le sue favolette:
“Un tale aveva una pianta di fico, piantata nella sua vigna. Venne a cercarvi i frutti ma non li trovò.
Egli disse al vignaiuolo: Ecco ormai tre anni che io vengo a cercare frutti in questa pianta, senza trovarne. Tagliala via! Perché rende essa inutile la terra?”
“L'altro gli rispose: Padrone, lasciala ancora quest'anno, io zapperò intorno e metterò del concime. Forse farà frutto la stagione prossima. Se non ne farà, la taglierai” (Luca 13, 6-9).
Quella pianta di fico è il popolo ebreo, che non produce i frutti dello Spirito. L'indugio è quello che Dio gli concesse fino all'arrivo delle scuri di Vespasiano.
Ritroviamo la medesima pianta di fico in un aneddotto narrato come accaduto a Gesù:
“Il mattino, tornando alla città, egli ebbe fame. Vedendo sulla strada una pianta di fico, si portò ad essa ma non vi trovò altro che foglie. Egli disse: che tu non produca frutti mai più! E improvvisamente la pianta si seccò” (Matteo 21, 18-19).
Questa pianta è parabolica. È ancora il popolo ebreo. Se fosse una pianta reale, l'episodio sarebbe assurdo.
Al mondo delle parabole appartiene pure il povero Lazzaro. Sia egli o no imparentato con Eliezer, schiavo di Abramo, rapito vivente al cielo secondo una tradizione ebraica, come Enoch ed Elia, egli raffigura la parte pia e sofferente degli ebrei, il povero d'Israele. Egli è contrapposto al ricco in una pia parabola dove il cielo e l'inferno sono concepiti come soggiorni, dall'uno dei quali si può guardare nell'altro. Il ricco, che in terra se l'è spassata e sdegnò Lazzaro, muore di sete nell'inferno e vede Lazzaro in cielo fra le braccia di Abramo.
A questa lezione per mezzo dell'immagine ne fu cucita un'altra. Quel ricco chiede a Dio che resusciti Lazzaro per convertire gli ebrei. Dio risponde: essi hanno Mosè ed i profeti. Se essi non li ascoltano, un morto resuscitato non li persuaderà (Luca 16, 19-31). È questa una lezione sull'inutilità dei miracoli.
Ora, nel quarto Vangelo Lazzaro è resuscitato e gli ebrei effettivamente non si convertono. Questo racconto è una parabola trasformata in racconto. Esso dimostra che Gesù-Logos è la Vita, dopo che la guarigione del cieco-nato ha dimostrato ch'egli è la Luce. Tutto il quarto Vangelo è un lungo simbolo profondo e bello. Per ben gustarlo occorre staccarsi dalla lettera e sotto i fatti immaginati cogliere le verità insegnate.
Furono finalmente le visioni, quelle degli apostoli e quelle dei profeti antichi, a tracciare le grandi linee della vita leggendaria di Gesù.
La Trasfigurazione è una visione mistica riconoscibile. La Pesca miracolosa, nell'appendice del quarto Vangelo, è un'apparizione mattinale di Gesù resuscitato. Ora, essa in Luca forma un episodio ordinario della sua vita (5, 4-10). La tranquilla narrazione evangelica lascia trasparire qua e là il Gesù-Spirito a cui fu dapprima applicata.
“La barca era già in mezzo al mare, tormentata dalle onde, poiché il vento era contrario. Alla quarta vigilia della notte egli venne verso di loro camminando sul mare.”
“Ed essi vedendolo marciare sulle acque si turbarono e dissero: è un fantasma! E nel loro terrore gridarono. Ma subito egli parlò loro: Calmatevi, sono io, non abbiate paura!” (Matteo 14, 24-27).
Quest'apparizione sulle onde nel grigiore che precede l'alba, è il modo di fare d'uno Spirito o d'un Dio, piuttosto che d'un uomo di carne e ossa.
La prima fonte del Vangelo, è sempre la Scrittura. Molti passi dei Profeti e dei Salmi erano riferiti a Gesù o messi in bocca a lui. Erano le solide fondamenta della conoscenza di Gesù.
Furono fatte di buon'ora raccolte speciali di questi brani. Fu la trama sacra che portò il ricamo evangelico. Vi fu una Passione secondo Isaia e secondo il Salmo 22 prima che vi fosse una Passione secondo Matteo o secondo Giovanni.
L'evangelista valorizzò testi che non avevano impiegati né Paolo né l'autore dell'Apocalisse né quello della lettera agli Ebrei. È spesso facile mettere in rapporto il passo della Scrittura, documento originale, e quello del Vangelo, traduzione abbellita di ornamenti.
Isaia 7, 14 (in greco): “Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio...”. Nascita verginale di Gesù.
Michea 5, 1: “E tu, Betlemme di Efrata, da te mi verrà un sovrano in Israele...”. Gesù nasce a Betlemme.
Numeri 24, 17: “Un astro si leverà da Giacobbe...”. La stella.
Isaia 60, 6: “Tutti coloro arrivano da Saba; essi portano l'oro e l'incenso...”. I Magi.
Osea 11, 1: “Dall'Egitto io chiamai mio figlio...”. La fuga in Egitto.
Geremia 31, 15: “Si ode una voce a Rama, lamentazioni, lacrime amare: è Rachele che piange i suoi figli e non vuol consolarsi, poiché essi non sono più...”. Il massacro degli innocenti.
Giudici 13, 5. “Ed egli sarà chiamato Nazareno...”. Gesù abita a Nazaret.
L'evangelista non nasconde i suoi materiali. Pietra su pietra egli eleva il suo edificio sulle fondamenta sacre.
La morte di Gesù non è costruita diversamente.
Zaccaria 9, 9: “Ecco, il tuo re viene a te, umile, montato sull'asino, sull'asinello nato dall'asina...”. Trionfo di Gesù, montato sopra un asino e un asinello.
Salmo 118, 26: “Benedetto sia colui che viene nel nome di Jahvé...”. L'acclamazione delle folle.
Zaccaria 14, 21: “Quel giorno, non vi saranno più mercanti nella casa di Jahvé...”. Espulsione dei mercanti dal Tempio.
Salmo 61, 9: “Il mio amico che mangiava il mio pane levò il calcagno contro di me...”. Tradimento di Giuda, dopo che egli ha mangiato con Gesù.
Zaccaria 11, 2-13: “Essi mi contarono come salario trenta monete d'argento... E presero le trenta monete d'argento e le diedero per il campo del vasaio...”. Trenta denari d'argento sono dati a Giuda. Restituiti da lui, servono ad acquistare il campo di un vasaio.
Salmo 42, 6: “Perchè sei tu depressa, anima mia?”. Agonia a Getsemani.
 Zaccaria 13, 7: “Colpisci il pastore e il gregge andrà disperso...”. Fuga dei discepoli.
Isaia 53: “Egli fu trafitto per i nostri peccati, infranto per le nostre iniquità..”. La Passione.
“Maltrattato, egli si rassegnava, non apriva la bocca...”. Gesù osserva il silenzio davanti ai suoi giudici. “Egli ti ha annoverato fra i malfattori...”. Gesù fra i due ladroni.
Isaia, 50, 6: “Io ho presentato il mio dorso a chi mi percoteva, e le mie guance a chi mi strappava la barba, io non ho nascosto il mio vòlto agli insulti e agli sputi....”. Flagellazione, scena di oltraggi.
Salmo 22: “Mio Dio, mio Dio, perchè mi abbandonasti?”. Ultimo lamento di Gesù. “Essi forarono le mie mani e i miei piedi...”. Crocifissione. “Essi si dividono le mie vesti e gettano il dado sulla mia tunica...”. Divisione delle vesti. “Tutti quelli che mi vedono si ridono di me, sghignazzano e scuotono la testa...”. Scene intorno alla croce.
Isaia, 53, 9: “Gli è dato il sepolcro del ricco...”. Gesù è messo nel sepolcro di Giuseppe d'Arimatea, uomo ricco.
Il racconto della Passione, elemento capitale della liturgia cristiana, fu levigato e rilevigato. I testi sacri non furono soli a comporlo. Alcuni tratti del martirio di Stefano vi sono introdotti. L'apologetica l'ha arricchito. Anche la liturgia vi mise la sua impronta.
Due rituali di Pasqua dividevano la Chiesa, nel secondo secolo. In Asia si celebrava la Pasqua lo stesso giorno degli ebrei, il 14 del mese di Nisan, giorno del plenilunio, e si celebrava in pari tempo la morte e il trionfo di Gesù. A Roma la domenica era più considerata che la Pasqua. Si celebrava la resurrezione di Gesù la domenica che seguiva il 14 Nisan, e la sua morte l'antivigilia, il venerdì.
Ora, in Giovanni, Vangelo efesino, l'Agnello Gesù muore il 14 Nisan, nell'ora esatta in cui è immolato l'agnello pasquale. In Marco, Vangelo romano, egli muore in venerdì, supposto essere l'indomani del 14 Nisan. Questa differenza di un giorno rivela una grande differenza di rituale. Giovanni è il libro liturgico dell'osservanza di Efeso, Marco è quello dell'osservanza romana.
Prendere i Vangeli per documenti storici è uno svalutarli singolarmente. Essi espongono la storia della salvezza dell'umanità e non sono l'incartamento di un errore giudiziario. Sotto la forma parabolica essi trattano di un Dio di mistero che è il Figlio di Dio e lo spirito che vive nei cristiani. In sé stessi sono incompleti. Il racconto che essi fanno, occupandosi del suo punto centrale, comincia in cielo e termina in cielo.
Come le lettere di Paolo e come l'Apocalisse, i Vangeli sono opere dello Spirito, che concernono lo Spirito. Nella loro fresca novità furono ben comprese. Il primo che trattò un Vangelo, quello di Luca, come una scrittura sacra e ne impose la lettura alle assemblee, Marcione, vi trovava un Gesù spirituale, non un Gesù di carne e d'ossa. Leggiamo i Vangeli come li leggeva Marcione.
Contro il pensiero di Marcione, Gesù fu reso storico all'estremo, gli fu attribuita una vera carne, vere ossa, un vero sangue. Marcione fu condannato.
Marcione aveva ragione. Coloro che lo condannarono resero più fitta l'oscurità delle origini cristiane e la resero impenetrabile. Senza volerlo, prepararono tutto quanto era necessario perché si credesse che il giovane cristianesimo non era stato altro che quest'antica storia senza valore religioso, questa sciocchezza: la divinizzazione di un uomo.

domenica 23 aprile 2017

Circa «Le mystère de Jésus» di Paul-Louis Couchoud (X)

  (Questa è la decima parte della traduzione italiana di un libro del miticista Paul-Louis Choucoud, «Le mystère de Jésus». Per leggere il testo precedente, segui questo link)

 
— III. DAL CIELO ALLA TERRA

L'immaginazione religiosa è la forza eruttiva che scuote l'umanità. L'apocalisse cristiana primitiva, fatta per scatenare le più alte potenze dell'anima — il terrore, la speranza, l'amore, la soddisfazione mistica —, doveva, se si imponeva a uomini, sconvolgerli completamente.
Ma era impossibile che si propagasse senza trasformarsi. Essa medesima era lo sviluppo organico dei sogni ebraici. Essa li aveva sistematizzati e portati al più alto punto di precisione e d'intensità. Ora doveva subire la prova della durata. Era la più turbante concezione religiosa che l'Occidente avesse mai trovata. Era questa la sua probabilità di vivere. Ma essa era portata da un'impossibile speranza. E questo era il suo pericolo di morire.
Dopo Paolo, l'apocalisse cristiana, la buona novella, come si diceva, o il mistero, si sviluppò in due direzioni opposte. Alcuni profeti insistettero sull'Apparizione prossima di Gesù, per ravvivarne l'attesa, spiegarne il ritardo, descriverne in precedenza lo scenario. In questa corrente si trova l'Apocalisse di Giovanni. Altri lasciarono nel vago l'Apparizione di Gesù e in compenso descrissero lungamente il suo passaggio nell'umanità e il suo sacrificio redentore. È questa la via dei Vangeli. L'altra conduceva all'abisso. Per questa via la fede poté sopravvivere alla delusione della speranza prima.
La leggenda evangelica non è altro che un episodio ingrandito e sviluppato dell'epopea cosmica di Gesù. L'episodio partecipa alla natura apocalittica dell'epopea. Ma questa leggenda ci è così familiare, essa è, per certi aspetti, così riuscita che, nonostante l'evidenza contraria, abbiamo difficoltà a credere che essa non sia primitiva.
Tuttavia non è primitiva. Non è paradossale il dire che il cristianesimo poteva crescere e riempire il mondo senza che chicchessia immaginasse che Gesù fosse un personaggio storico. Oltre alle lettere di Paolo, esistono numerosi antichi scritti cristiani, e fra i più importanti, che non suppongono in nessun modo l'esistenza storica di Gesù. Si può citare l'Apocalisse di Giovanni, l'Epistola agli Ebrei, la lettera di Clemente di Roma a quelli di Corinto, la Didachè, il Pastore di Hermas. La cristologia si sviluppò a lungo tempo prima che si pensasse a ricavarne una vita del Messia.
La selvaggia, soave e sublime Apocalisse di Giovanni fu scritta verso il 90-96, quarant'anni dopo le lettere di Paolo. Vi si vede il cammino percorso. Al tempo di Paolo tutti erano profeti ed i profeti erano uguali. L'uno parlava, e se la rivelazione passava ad un altro, che stava seduto, il primo si fermava (1 Corinzi 4, 30-35). Ora ci sono dei veggenti di professione, dei tenori della profezia, nutriti, vestiti, mantenuti dalla assemblea e che la governano dispoticamente fino al giorno in cui cederanno il posto ai sorveglianti meno dotati ma più saggi.
Al tempo di Paolo gli oracoli erano proferiti e si pensava poco a scriverli. Ora, profezie lungamente composte vengono apportate all'assemblea. Un lettore specialmente incaricato le legge solennemente (Apocalisse 1, 3). Così s'introduce l'Apocalisse di Giovanni, così si introdurranno i Vangeli. La profezia cristiana ripete lo sviluppo dell'ebraica. Ai profeti oratori succedono i profeti scrittori.
Che cosa diventa Gesù nell'Apocalisse di Giovanni? Egli si allontana ancora dalla terra; astro fra gli astri, si fissa nel cielo stellato. Lontano dai personaggi della storia umana egli si fa posto fra gli animali dello zodiaco e gli esseri fantastici di cui l'astrologia popolava le strade del cielo. Egli appare quattro volte, in quattro momenti della sua storia, in quattro figure diverse le quali tutte scoraggiano lo storico.
Noi assistiamo alla sua nascita. Essa ha luogo in pieno cielo. La madre di Gesù è una Donna celeste, una dea vestita di sole, coronata di stelle, in cui si riconosce la Vergine dello zodiaco. Il vecchio Dragone babilonese che fu vinto alla creazione del mondo ma che vive ancora, sa che il suo ultimo vincitore sta per nascere e tenta di afferrarlo di sorpresa, come fa il Pitone per il figlio di Latona, o Tifone per il figlio di Iside.
“Un gran segno fu visto in cielo: una Donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e sulla testa una corona di dodici stelle: essa è incinta, essa grida di dolore, nello spasimo della procreazione” (Michea 4, 10).
Un altro segno fu visto in cielo: ecco un gran Dragone rosso con sette teste e dieci corna, e dieci diademi sulle sue teste. La sua coda spazza il terzo delle stelle del cielo; essa le gettò sulla terra” (Daniele 8, 10).
Essa procreò un figlio, un maschio (Isaia 66, 7) che percuoterà tutti i popoli con un bastone di ferro (Salmo 2, 9). “Suo figlio fu trasportato presso Dio, presso il Trono di Dio” (Apocalisse 12, 1-5).  
Una credenza popolare ebraica testimoniata da un vecchio compianto conservato nel Talmud di Gerusalemme voleva che il Messia fosse nato il giorno in cui il Tempio fu distrutto dai Caldei (poiché si credeva che Isaia avesse annunciato, l'una di seguito all'altra, la distruzione del Tempio e la nascita del Messia). Subito dopo la sua nascita gli uragani lo avevano assunto al cielo. È curioso vedere la poesia popolare ebraica e la mitologia greca concorrere al quadro favoloso della nascita di Gesù.
La sua morte non è rappresentata. Gesù era sgozzato in forma di un giovane ariete, con sette corna e sette occhi. Poiché tale egli appare in trionfo quando è installato nel Trono di Dio e cadono davanti a lui i padroni delle quattro sezioni del cerchio zodiacale e delle ventiquattro costellazioni, pizzicando le loro cetre e tendendo le loro fiale d'oro piene di profumi (Apocalisse 5, 1-8; Loisy, pag. 123, 133). È l'Agnello pasquale di Paolo introdotto in pompa nel cielo astrologico.
Egli è ad un tempo la vittima e il sacerdote di un supremo sacrificio. È come gran sacerdote ebreo, nell'abito del giorno dell'Espiazione, ch'egli si mostra al profeta. Porta il lungo mantello del pontefice ma ha i lineamenti di Jahvè.
“...Voltandomi io vidi sette candelieri d'oro,  e in mezzo ai candelieri come un Figlio d'uomo vestito di una cappa, e cinto il petto di un pettorale d'oro”.
 I capelli della testa bianchi come lana bianca (Daniele 7, 9; aspetto di Jahvé), gli occhi come fiamma di fuoco (Daniele 10, 6; aspetto di Gabriele), i piedi simili a chiaro bronzo (Ezechiele 27, aspetto di Jahvé), così forte la voce come rumore di grandi acque (Ezechiele 43, 2; voce di Jahvé).
Egli ha nella sua destra sette stelle, dalla sua bocca esce un'affilata spada a doppio taglio. Il suo aspetto è come appare il sole nella sua forza (Giudici 5, 31).
Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto” (Apocalisse 1, 13-17).
Finalmente ecco il Messia equestre, Gesù a cavallo, quale fra poco salterà dal cielo, dove si tiene ancora nascosto per compiere le divine vendette:
“Io vidi il cielo aperto; ecco un cavallo bianco: Colui che lo monta è chiamato Fedele e Veridico, egli giudica con giustizia e combatte...” (Isaia, 11, 3-4).
È egli che pesta il tino del vino di furia (Isaia 63, 3) della collera del Dio sovrano; “ Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: RE DEI RE e SIGNORE DEI SIGNORI (Apocalisse 19, 16).
Figlio della Vergine celeste, Ariete stellare, gran sacerdote di Dio, o Cavaliere sanguinoso, il Gesù dell'Apocalisse è tutto mitologico. Egli è il Gesù di Paolo, ma ricacciato nel profondo dei cieli, scartato dalla condizione di servo, allontanato da ogni apparenza di attaccamento alla terra. La sua storia è ritagliata in immagini fantasmagoriche, elettriche e cariche di minacce, come quelle dei tarocchi.
L'Epistola agli Ebrei è un prezioso opuscolo di cui sono ignoti l'autore e i destinatari e che segna, dopo Paolo e prima della fine del primo secolo, la meditazione cristiana più alta e più ponderata. Il celeste sacerdozio di Gesù che nell'Apocalisse non è altro che una visione, qui è un'idea, lungamente giustificata dalla scrittura, spinta a tutte le conseguenze. Gesù è definito come il tipo eterno, immemorabile predecessore e l'autentico successore del gran sacerdote ebreo.
Si vede forse trasparire dietro di lui un uomo storico? Niente affatto. Rimettiamoci a due buoni giudici: “Il Gesù dell'Epistola agli Ebrei non è un uomo che, per la sua personalità, le sue dottrine, le sue sofferenze, ha fatto un'impressione durevole ma un essere celeste che, disceso sulla terra, si vestì di carne e di sangue”. “La preghiera, le sofferenze e l'inaugurazione di Gesù come pontefice eterno non sono la preghiera di Getsemani, la passione e la resurrezione che raccontano i nostri Vangeli, ma un'interpretazione diretta delle Scritture specialmente del Salmo 22, in cui si può dire che il nostro autore trasferisce tutti i dati nella storia”.
Come Paolo, egli vendemmia nelle Scritture tutto ciò che sa di Gesù. Ma dai grappoli di Paolo ricava una seconda torchiatura.
Dai Salmi 7 e 110 Paolo aveva dedotte le vittorie finali di Gesù. Il nostro autore ne fa uscire ben altro. Il Salmo 8 dice: “Tu hai messo l'uomo per qualche tempo al di sopra degli angeli”. Che importa che qui si tratti dell'uomo in generale? Allegoricamente l'uomo è Gesù. Dunque Gesù fu abbassatto sotto gli angeli per essere ben presto esaltato sopra di essi (Ebrei 1, 5-10). E l'altro Salmo dice “Tu sei sacerdote per l'eternità, col grado di Melchisedec”. Queste parole erano rivolte al primo dei re sacerdoti maccabei, a Simone Maccabeo. Che importa? Allegoricamente sono rivolte a Gesù. Ecco, il titolo divino che abolisce il sacerdote ebreo abroga il sacerdozio levitico a profitto del sacerdote eterno (Ebrei, cap. 4, 5, 6 e 7).
Dove l'autore sorpassa Paolo è nel fatto che egli sa trarre dalle porzioni della Scrittura molto più per il cristiano, come il rituale dei sacrifici del Tempio. Mediante il simbolismo egli le annette a Gesù. È questa una sorgente di nozioni nuove. Per esempio, sta scritto che le vittime espiatorie sono arse fuori del campo (Levitico 16, 17). Ciò significa che Gesù ha sofferto fuori del campo, cioè fuori del mondo, e che noi dobbiamo con lui uscire fuori del mondo e condividere il suo obbrobrio, perchè non abbiamo in questo mondo la nostra città (Ebrei 13, 11-14).
Il fondamento di quest'alta morale, terribile e nuova, è appunto questo, che Gesù non appartiene al nostro mondo.
La lettera che Clemente di Roma inviò a quelli di Corinto verso il 95-98 rassomiglia all'Epistola agli Ebrei. Altrettanto inutilmente vi si cercherebbero allusioni ad un personaggio storico chiamato Gesù. Il Signore Gesù è la “irradiazione della maestà divina”, lo “scettro della maestà di Dio”. Egli è il “gran sacerdote delle nostre offerte”: per mezzo suo “noi vediamo in uno specchio la faccia pura e sublime di Dio”, noi gustiamo “la gnosi immortale” (36, 1-2).
Egli è che parla nell'Antico Testamento. Se Clemente vuole citare parole autentiche di Gesù, cita il Salmo 22 e il Salmo 34 (Clemente 16, 15-17; 22, 1-8). La sua concezione di Gesù non può essere commisurata col ricordo di un uomo reale.
La Didachè, piccolo regolamento ecclesiastico, di circa l'anno 100, non conosce neppur essa un Gesù storico. Essa riferisce come parola di Gesù ciò che dice il profeta Malachia.
Il Pastore, chiacchierata profetica dello schiavo Hermas, frutto in ritardo della profezia cristiana esaurita e diventata cianciona, non si riferisce affatto ad alcun ricordo storico. Per il buon Hermas, Gesù è uno dei sette arcangeli, il maggiore fra tutti. Esso si distingue male da Michele e si confonde con la Chiesa personificata. A questo titolo egli può mostrarsi in aspetto di vecchia dama. Egli appartiene all'angelologia, non alla storia.
Da Paolo a Clemente di Roma la teologia cristiana ha fatto molto bene a meno di un Gesù storico. A quale epoca e perchè dunque ne ebbe bisogno?
In tutto il Nuovo Testamento, a parte i Vangeli, vi  è una sola allusione al Gesù storico. Si trova nella prima epistola a Timoteo: “Il Messia Gesù che rese davanti a Ponzio Pilato la sua bella testimonianza...”. Il riferimento si trova nei Vangli. Ecco pronunciato quel nome di Ponzio Pilato per mezzo del quale Gesù si aggrappa alla storia.
Ma esso si trova in un documento di tarda data. La falsa lettera a Timoteo che suppone stabilito l'episcopato monarchico (1 Timoteo 3, 1-13) e che respinge le antitesi di una pretesa gnosi (1 Timoteo 6, 20) è probabilmente posteriore alla condanna delle Antitesi di Marcione, cioè al 144.
Verso il 150 i Vangeli erano letti nelle assemblee e ritenuti da Giustino come le Memorie degli Apostoli. Una ventina d'anni prima, Papia di Ierapoli menzionava i due primi Vangeli. È possibile che il passo di Tacito su Gesù, scritto fra il 115 e il 117, sia l'indizio più antico dell'esistenza della letteratura evangelica.
È dunque probabile che precisamente all'inizio del secondo secolo si sia avuta l'idea, in certe comunità, di metter la storia misteriosa di Gesù in un semplice racconto e di presentarla come storicamente avvenuta. Questo sviluppo era nella natura delle cose. Una storia divina assume facilmente le forme di una storia ordinaria. Io ho toccato l'orlo del pozzo Callicoro dove sedette la Dea Demetra quando viveva fra la gente di Eleusi e serviva come schiava cretese, nella casa del re Celeo. 
Gesù viveva potentemente nel mondo invisibile e fuori del tempo. Perché fu egli condotto sul suolo di Palestina e fissato nel tempo? La causa principale fu la crisi dell'attesa cristiana. Vi si aggiunsero i bisogni dell'apologetica e della liturgia.
Il cristianesimo, verso il secondo secolo, ebbe la sua crisi di crescita che sarebbe stata mortale se la fede che vuol durare non possedesse infinite risorse. Esso era stato teso verso l'avvenire, portato dall'impossibile speranza che, precisata, esagerata, non era altro che la vecchia speranza ebraica. I cristiani erano insomma mezzi ebrei messianisti per i quali l'attesa del Messia e la speculazione sul Messia avevano sostituito ogni cosa. La dottrina di Paolo non fu altro che una grande scommessa, la scommessa tenuta ferma che il Messia Gesù, concepito secondo il testo d'Isaia e dei Salmi, sarebbe presto apparso sulla nube, secondo il testo di Daniele. Questa affascinante scommessa fu il motore della nuova fede.
Questa rischiosa scommessa stava per essere perduta. Il Messia Gesù restava in cielo. La vigilia era lunga. La stanchezza veniva. L'Apocalisse fu destinata a ravvivare l'attesa più ancora che a definirla. Fu l'ultimo colpo di frusta assestato ai quattro cavalli della fine del mondo, spossati per aver galoppato invano fra i sogni. Il cristianesimo correva pericolo di morire di languore, come una speranza non realizzata.
Ma esso era più che una speranza. Esso era un'esperienza. La vera manifestazione di Gesù, la sua presenza, era attesa come un evento futuro. Tuttavia Gesù si era già manifestato nelle visioni degli apostoli, negli oracoli dei profeti, nei miracoli dei taumaturghi. Le assemblee avevano quotata la sua presenza anticipata. Agli occhi di Paolo queste erano soltanto caparre. Ma le caparre assumevano valore, ora che il saldo era così a lungo differito.
Così la fede cristiana cambiò asse a poco a poco. Il Messia fu in certo modo sdoppiato. La gente si attaccò fervorosamente al Messia già venuto per distaccarsi alquanto dal Messia ancora da venire. Il futuro regno di Dio fu dichiarato in certo senso già presente. Fu allontanato, fu scolorito il trionfo di Gesù. Fu avvicinato, fu concretizzato ciò che Gesù aveva già compiuto: la sua morte mistica, le sue imprese spirituali. Un lavoro profondo e delicato permise alla fede di superare il passo mortale.
Questo lavoro è abbozzato nei tre primi Vangeli, dove le speranze positive indietreggiano passando in seconda linea. È terminato nel quarto, dove queste speranze non hanno nemmeno più oggetto, poiché la vita eterna è già acquisita e già vissuta. I vangeli sostituiscono al Gesù sperato e sfuggente un Gesù fermo, afferrabile. Per il vero mistico, i tempi non hanno nulla di assoluto. La speranza dice: tutto ciò che sarà, è già. Io vi ottengo già poichè vi spero. La fede risponde: Tutto ciò che è, è passato.
Tu non mi cercheresti, se tu non mi avessi già trovato.
Le obiezioni degli increduli e degli esitanti agirono nel medesimo senso. Sulle definizioni successive della fede cristiana la loro azione plastica è evidente. L'obiezione fa nascere l'affermazione. Il dubbio colpisce la fede.
Il Gesù di Paolo e dell'Epistola agli Ebrei era soltanto intelligibile a spiriti familiarizzati con le realtà soprasensibili e rotti alla più alta speculazione ebraica. Presentato a uomini più carnali e meno macerati nelle Scritture, egli sollevava le obiezioni del preteso buon senso.
Egli era veramente apparso a Pietro ed agli altri? O forse gli apostoli avevano visto solo un fantasma? No, replicava la fede. Non era un fantasma. La prova è che lo si era toccato. Il corpo di Gesù non era più un'adorabile realtà spirituale. Tendeva a diventare un corpo come gli altri. L'uomo dal grossolano buon senso non ammette corpi che non siano materiali. E nella disputa attira sul suo terreno l'uomo di fede.
E l'incarnazione di Gesù, il suo passaggio nell'umanità e la sua morte, dove e quando avevano avuto luogo? Paolo aveva lasciato ciò nell'indeterminato delle rivelazioni divine. Ma non vi poteva restare. Su questi punti soprattutto premeva l'obiezione materialista. Essa dice: i fatti non sono reali se non sono successi, e se sono successi si iscrivono in qualche luogo della storia. Dove s'iscrivevano i fatti divini da cui dipendeva la salvezza degli angeli e degli uomini?
Il mistico alle prese con l'uomo volgare non può disarmare. Vinto, sentirebbe di subire un'ingiustizia. Per lui la realtà mistica è infinitamente superiore ad ogni altra realtà. Non c'è bisogno di insistere molto perché egli certifichi che questa implica ogni altra realtà. Gesù era vivente, ecco il fatto supremo. Egli era uomo per definizione teologica. Se egli non poteva essere uomo se non essendo personaggio della storia, valeva meglio affermare la sua storicità che rinunciare a lui. La fede in un Gesù vivente creò la fede in un Gesù che è vissuto.
La crudeltà degli Ebrei, il sanguinoso censimento di Quirino, le sevizie di Ponzio Pilato ondeggiavano nei ricordi. Ad esse si mescolò la storia della redenzione del mondo. Poiché i Salmi dicevano che il Redentore era stato crocifisso, egli aveva potuto essere crocifisso soltanto dai romani. Il sanguinario Ponzio Pilato diventò il garante del Gesù storico. Il nome del cavaliere romano e quello del Figlio di Dio furono delicatamente annodati fra loro.
La liturgia, infine, esigeva un'altra storia santa per sostituire l'antica. I cristiani non osservavano più la legge mosaica. Essi potevano con difficoltà continuare le letture rituali del Pentateuco. Ora, noi vediamo che al tempo di Giustino la lettura dei Vangeli è sostituita a quella della Legge e precede la lettura dei Profeti (Giustino, 1 Apologia, 67, 3). Questo ci indica per quale uso i Vangeli furono composti.
Gesù fu concepito come un altro Mosè, che non va sulla montagna a cercare gli oracoli di Dio ma parla egli stesso sulla montanga. La nuova Legge fu disposta al modo dell'antica, alternando i precetti coi racconti edificanti. Come il Pentateuco aveva frammischiato la Legge e le leggende degli israeliti, così i Vangeli mescolarono alla legge cristiana la leggenda del Messia. 
La loro destinazione era liturgica. Essi sono gli ultimi frutti della profezia critiana e annunciano un'età nuova. Furono composti all'epoca in cui i prudenti vescovi cercavano di strappare ai profeti illuminati il governo del gregge. Essi fornirono loro delle letture chiare, probanti, regolari, idonee a limitare le rivelazioni aleatorie e i liberi voli dello Spirito.