venerdì 31 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «Le prove»

(segue da qui)

Le prove

Fonti sicure ci rivelano il ruolo importante giocato da Antiochia nelle origini cristiane. 

A — È ad Antiochia, ci dicono gli «Atti», che il nome di «crestiani» entrò per la prima volta in uso (11:26). 

La parola non è così semplice come sembra. Il testo reca la scritta «Christianous», che avrebbe dovuto dare «cristiani» (come nei nomi Cristiano, Cristina). La forma «crestiano» sembra derivare da un gioco di parole su «Christos» e «chrestos» che, in greco, significa solamente «molto buono» o «migliore». I cristiani hanno preteso di essere i «migliori», i «chrestoi». La confusione [10] tra le due forme è durata a lungo. 

Nella forma «chrestoi», l'epiteto fu attribuito a sette molto diverse: abbiamo visto che l'imperatore Adriano lo applicava agli adoratori di Serapide. È nella lettera di Plinio il Giovane (112 circa) che appare il primo legame tra i «cristiani» e il Cristo. La parola resta sconosciuta in tutte le epistole paoline, e gli stessi autori cristiani non l'utilizzeranno prima di Giustino (160 circa). Celso, intorno al 180, la applica ancora alle sette gnostiche, di cui alcune sono molto lontane dal cristianesimo. Ma, introducendo il nome di Antiochia, l'autore degli Atti deve riportare un ricordo reale, — altrimenti non avrebbe mancato di collocarne l'origine a Gerusalemme.

B — È dopo un soggiorno ad Antiochia che Paolo è partito per le sue missioni. Ha intrapreso questi viaggi di sua spontanea volontà? Questo è improbabile, poiché egli non si presentò come il fondatore di una nuova religione. È molto probabile che ricevette un mandato. Quello che diffonde, è il cristianesimo primitivo di Antiochia.

C. — La Chiesa conosce così bene l'importanza del ruolo di Antiochia che ha fatto di tutto per farla dimenticare: gli Atti degli Apostoli non ci informano sulle origini della Chiesa di Antiochia; vi fanno solamente venire degli sconosciuti per assicurare un legame problematico. Ora, se crediamo all'epistola ai Galati, Paolo, missionario di Antiochia, non è per nulla d'accordo con le «colonne» di Gerusalemme; egli predica un Cristo diverso, che non può venire da Gerusalemme.

D — Antiochia, ci dice Giuseppe, aveva una importante comunità ebraica, ma dove i gentili dominavano. Quale ambiente poteva essere più favorevole all'elaborazione di una dottrina di più larghe vedute rispetto all'ebraismo tradizionale?

E. — Aggiungiamo che tutti i testi cristiani sono stati scritti in greco, che citano la Bibbia nella versione greca dei Settanta, — che tutte le funzioni nella chiesa primitiva sono designate con parole greche (sacerdoti, vescovi, diaconi), — che i primi sette «diaconi» recano tutti nomi greci (Stefano, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmena, e persino Nicola lo gnostico): siamo in pieno ambiente ellenizzato, e non tra gli ebrei di Palestina. È assai tardivamente e artificialmente che si proverà il bisogno di collegarsi ad una comunità immaginaria di Gerusalemme, sulla quale Goguel ammette che l'autore degli Atti ha «goffamente proiettato... l'immagine che presentava quella del suo tempo». [11]

NOTE

[10] Può essere favorita dalla pronuncia. Si veda ORY: «Iotacisme et christianisme, ou les conséquences d'une mauvaise prononciation», Bull. du Cercle E. Renan, febbraio 1963.

[11] M. GOGUEL: «La naissance du christianisme».

giovedì 30 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «Il ruolo di Antiochia»

(segue da qui)

2°) IL RUOLO DI ANTIOCHIA

L'idea che il cristianesimo sia nato ad Antiochia è comune ad autori che ignoravano ancora il ruolo degli Esseni. Fu il caso di Renan: «Il punto di partenza della Chiesa dei Gentili, il focolaio primordiale delle missioni cristiane, fu veramente Antiochia. È là che, per la prima volta, si costituì una Chiesa cristiana sbarazzatasi dai legami con l'ebraismo; è là che si stabilì la grande propaganda dell'età apostolica; è là che si formò definitivamente Paolo». [3]

Il fatto non è sconosciuto nei testi cristiani, quantunque rimaneggiati. Lo pseudo-Matteo ci dice che la fama di Gesù «si sparse per tutta la Siria». (4:24). Gli «Atti degli Apostoli» ignorano così poco il ruolo di Antiochia che si sforzano di ridurlo. Sfortunatamente, questa composizione tardiva (della fine del II° secolo, nel suo stato attuale, e sconosciuta a Marcione, ci dice Tertulliano) ci fornisce pochi fatti storici sulle origini delle comunità cristiane: «L'esposizione pseudo-storica degli Atti, in tutta evidenza, è interrotta dal lacune… (l'autore) sembra un uomo collocato troppo lontano dai fatti per comprenderli». [4

Vi vediamo nondimeno:

— l'affermazione che la diffusione del cristianesimo è partita da Antiochia, soprattutto con le missioni di Paolo;

— un tentativo maldestro per far venire ad Antiochia degli «ellenisti» da Gerusalemme, al fine di assicurare, come dice Guignebert, una «necessaria ma illusoria tradizione».

Ho detto quanto fosse improbabile l'esistenza di questi «ellenisti» a Gerusalemme, mentre sappiamo da Giuseppe che essi erano molto numerosi nella comunità ebraica di Antiochia. Il legame così assicurato tra Gerusalemme e Antiochia è estremamente fragile: non ci dice nemmeno che uno dei discepoli di Gesù sia venuto ad Antiochia a predicare la buona novella; sono degli anonimi che assicurano questo legame (Atti 11:19-20). 

Gli Atti non parlano nemmeno di questa visita di Cefa ad Antiochia, riportata dall'epistola ai Galati (2:11), e dove vediamo che, lontano dall'essere d'accordo con lui, Paolo dovette contraddirlo veementemente davanti a tutti. Ma l'autenticità del passo è molto dubbia, e nessun altro fa menzione di un viaggio di Cefa ad Antiochia.

C'è di più: con uno sfacciato voltafaccia, l'autore degli «Atti» si è servito di Barnaba, che fu, come Paolo, missionario di Antiochia e lo accompagnò nel suo viaggio a Gerusalemme (Galati 2:9-13), per inviarlo, al contrario... da Gerusalemme ad Antiochia! (Atti 11:22). Tutto ciò è incoerente e contraddittorio.

Loisy ha ben intuito la frode, [5] ma siccome egli crede agli «ellenisti», suppone che Barnaba fosse uno di loro. Ma Barnaba, originario di Cipro, è (perfino prima di Paolo, sembra) missionario di Antiochia, non ha alcun legame con Gerusalemme. Per collegarlo, gli Atti procedono ad una fantasiosa assimilazione con un certo Giuseppe che avrebbe fatto dono del ricavato della vendita del suo campo (4:37). Di un campo situato a Cipro, allora? Loisy segnala le altre invenzioni dell'autore degli Atti: «Sfortunatamente, questa favola non sarà l'ultima che inventerà sul loro conto. Siccome non ha voluto lasciar vedere che la fondazione (della Chiesa) di Antiochia si è fatta indipendentemente da Gerusalemme, senza dubbio ha voluto nascondere il fatto che Paolo e Barnaba avevano lavorato per più di dieci anni ad Antiochia e nella regione senza preoccuparsi degli antichi apostoli e della comunità gerosolimitana». [6]

Questo è, infatti, l'evento capitale: i missionari di Antiochia hanno cominciato le loro predicazioni senza preoccuparsi di Gerusalemme. Paolo stesso confessa di aver predicato quattordici anni prima di recarsi a Gerusalemme (Galati 2:1). Nulla stabilisce un legame tra Gerusalemme e Antiochia all'origine, tutto concorre al contrario a respingere questa idea al rango delle favole. È Antiochia di Siria, e non Gerusalemme, che è la culla del  cristianesimo primitivo.

Ciò che è ben assicurato, è che Paolo soggiornò nella comunità di Antiochia prima di intraprendere le sue missioni, e che Paolo ha diffuso, per conto di questa comunità, un mito elaborato in Siria, indipendentemente da Gerusalemme (la quale peraltro non tarderà a scomparire). 

Il ruolo di Antiochia nell'elaborazione del mito di Gesù non potrebbe essere troppo sottolineato: «In questo ambiente di Antiochia, dove molti fedeli non hanno conosciuto Gesù (possiamo spingerci più lontano, e dire: dove nessuno ha conosciuto un Gesù che non è mai esistito, ma dove a nessuno gliene importa)... si accentua e si accellera la sua divinizzazione». È soprattutto ad Antiochia che si tende «a spogliare la sua natura ebraica di Messia a favore di una concezione più generale, più ampia e più elevata, quella che si lega al titolo di Signore (Kyrios)». [7]

È solamente in questo ambiente ellenistico che ha potuto nascere l'assimilazione fatta dall'epistola ai Filippesi: «Gesù è Kyrios» (2:11). Il Cristo di Paolo non è il torturato di Gerusalemme, ma il Salvatore Gesù il cui culto ha ispirato tanti elementi a quelli di Attis, di Adone, di Mitra, culti praticati ad Antiochia. 

Gli stessi storici cristiani riconoscono che tutto è partito da Antiochia. Tutt'al più, si sforzano di salvaguardare un ipotetico legame con Gerusalemme: «Antiochia, città greca, universalista per natura, doveva necessariamente, esprimendo Gerusalemme come capitale della nuova fede, coinvolgerla nel senso in cui era essa stessa portata. Il fatto era di un'estrema importanza storica». [8

Da Gerusalemme non sarebbe potuto uscire che un Messia ebreo. Da Antiochia, al contrario, è nata una religione universale.


Antiochia

Terza città dell'impero romano (dopo Roma e Alessandria), crocevia di influenze, Antiochia era il luogo ideale per servire da cornice alle relazioni tra sette, ai confronti tra dotti e filosofi così come tra i culti.

Per comprendere l'importanza di questa città, occorre tornare alle conquiste di Alessandro e far rivivere un periodo molto poco conosciuto della storia antica. Alessandro aveva edificato un immenso impero, che non gli sopravvisse sul piano politico, ma le cui conseguenze furono immense per la civiltà. Campione della cultura greca, si lasciò comunque tentare dal prestigio della Persia. Al seguito dei suoi eserciti marciarono dei sapienti, dei filosofi, che entrarono in contatto con quelli della Persia e dell'India. Questi rapporti intellettuali, così come quelli commerciali, persistettero ben dopo la morte di Alessandro, e questo riavvicinamento delle grandi civiltà antiche (alle quali va aggiunto l'Egitto) portò ad una certa unificazione del pensiero. L'impero universale, sognato da Alessandro, si rivelò irrealizzabile; ma, sul piano intellettuale e religioso, portò ad una fusione delle grandi concezioni dell'antichità.

Due imperi principali si stabilirono sulle rovine dell'impero di Alessandro. Il più solido fu quello dell'Egitto sotto i Tolomei; il centro intellettuale, il più brillante dell'antichità, fu Alessandria. L'altro, quella dei Seleucidi (soprattutto sotto gli Antiochi, dal 223 al 140) incluse in particolare l'Asia Minore e la Siria; la sua capitale era Antiochia, e questo impero, che comprendeva la Persia, restò in contatto con l'India. Antiochia fu dunque, come Alessandria, un centro dove confluivano i rappresentanti del pensiero greco, della Persia e dell'India. Dal punto di vista religioso, va aggiunto l'incontro dei culti della Frigia e della Siria, la penetrazione dei culti egizi e, beninteso, il contributo ebraico. 

Da questi scambi, di cui abbiamo solo una vaga idea, nacque una nuova civiltà, prevalentemente greca (soprattutto quanto alla lingua) ma fortemente penetrata da influenze orientali, soprattutto iraniane. [9

I sapienti e i sacerdoti non tarderanno a rendersi conto che i vari culti avevano dei punti in comune, e Alessandro aveva dato il gusto per l'universale. I vari culti tendevano allora a fondersi in una religione generale, le cui forme apparenti variavano, ma la cui sostanza era comune. La novità principale di questa religione consisteva proprio nella sua natura universale: i culti persero la loro natura nazionale, e si diffuse l'idea di una religione aperta a tutti gli uomini. 

Certo, l'idea non era del tutto nuova, aveva ispirato la riforma di Amenofi IV (che fallì), era ammessa in numerosi «misteri». Ma ciò che fu nuovo, è la pubblicità data a questa idea di universalità. Solo gli ebrei di Gerusalemme, ferocemente nazionalisti e persuasi di essere il popolo dell'alleanza, vi si opposero risolutamente; ma scomparvero nel 70. L'unificazione romana accentuò il movimento, e tutti i culti nati in Medio Oriente tesero, verso quel periodo, alla generalizzazione, all'universalità; tutti si diffusero nello stesso tempo e penetrarono a Roma, nello stesso momento in cui si instaurava un nuovo culto: quello dell'imperatore, anch'esso di origine orientale.

NOTE

[3] RENAN: «Les apôtres», pag. 226.

[4] GUIGNEBERT: «Le Christ», pag. 48.

[5] LOISY: «Les Actes des apôtres», pag. 467.

[6] LOISY, op. cit., pag. 468.

[7] GUIGNEBERT: «Le christianisme antique», pag. 113-114.

[8] Daniel ROPS: «L'église des apôtres et des martyrs», cap. 1.

[9] Si veda P. JOUGUET: «L'impérialisme macédonien et l'hellénisation de l'Orient» (Albin Michel); Paul PETIT: «La civilisation hellénistique» (Collection Que sais-je — n° 1028).

mercoledì 29 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «La Siria, culla del cristianesimo»

(segue da qui)

CAPITOLO VII

LA SIRIA, CULLA DEL CRISTIANESIMO

Dopo aver individuato, nel mito di Gesù, elementi di diversa origine, non si può non porsi la domanda: dove e come questi diversi elementi si sono amalgamati? Le nostre precedenti ricerche ci hanno condotto verso una comunità essena di Siria, che abbiamo supposto influenzata dall'ambiente pagano nel quale viveva: questa ipotesi molto plausibile, sostenuta da argomentazioni testuali, non risolve del tutto il problema, ed è utile affrontarlo in modo diverso. 

La fusione di elementi ebraici ed esseni non soffre di alcuna difficoltà, poiché l'essenismo deriva dall'ebraismo di cui non è che un'interpretazione divergente. Per contro, sembra più difficile a priori ammettere la penetrazione di elementi pagani nei circoli ebraici o esseni: la difficoltà, come vedremo, non è che apparente, almeno per quanto riguarda le comunità ebraiche della «diaspora», soprattutto quella di Antiochia. 

1°) GIUDAISMO ED ELLENISMO

Saremmo tentati di credere che gli ebrei, con il loro monoteismo intransigente, non accettassero di mescolarsi con i pagani politeisti. La storia ci rivela un tutt'altro aspetto delle cose: gli ebrei erano ben lungi dall'essere impermeabili alle influenze pagane.

«Non va ripetuto, al seguito di parecchi storici eminenti, che gli ebrei erano impermeabili alle influenze straniere, che la loro religione li rendeva immuni da tutte le ideologie pagane... Questo è falso, e tutta la storia ebraica è là a testimoniare la facilità con la quale gli ebrei assorbivano dall'ambiente dove vivevano le idee, i credi e i modi di vita: basta ricordare l'Egitto, la terra di Canaan, la Babilonia e la Persia per misurare l'entità delle influenze successive, e non è sorprendente che l'ellenismo, a sua volta, si sia impadronito delle anime ebraiche e le abbia impegnate in nuove avventure intellettuali e religiose». [1]

Ciò che è vero dell'ambiente ebraico lo è, a maggior ragione, dell'ambiente della diaspora. Ad Alessandria, l'ebreo Filone si sforza di conciliare la Bibbia con la filosofia platonica: «Filone platonizza» era diventato un proverbio. Per quanto possa sembrarci sorprendente oggi (dal momento che accade molto di rado), i pagani erano ampiamente accettati nelle comunità ebraiche, e Giuseppe ci dice che la comunità di Antiochia contava più pagani che ebrei. È inevitabile che in questo confronto, delle influenze reciproche si siano esercitate .

Se, in ambiente pagano, l'idea di un dio che si incarna è comune, una tale idea avrebbe offeso certamente un ebreo ortodosso di Gerusalemme. Ma, divenuti la maggioranza, i pagani, non hanno forse fatto prevalere questa concezione contro la minoranza ebraica? Questo è ciò che ci lasciano intuire le lotte che ne seguirono, e che portarono alla separazione.

L'Incarnazione

L'idea di un dio incarnato, l'abbiamo detto, si può spiegare in due modi: o si parte da un fatto storico e si trasforma a poco a poco il ricordo, sempre più incoerente, di un uomo, — oppure, al contrario, si parte dall'idea di un essere divino che deve incarnarsi, e si immagina a poco a poco la sua esistenza terrena.

La prima soluzione fu ammessa, a proposito di Gesù, da Renan, Loisy, Guignebert e da altri. Ma nessuno di loro sembra essersi posto quella domanda così semplice: come mai degli ebrei, perfino fortemente ellenizzati, avrebbero accettato l'idea scandalosa ai loro occhi, di divinizzare un uomo?  A maggior ragione un uomo di cui non si sapeva che una cosa, ossia che sarebbe stato condannato al supplizio più infamante? Il ragionamento di questi autori sembra essere il seguente: alla base, sappiamo solo una cosa, il fatto della crocifissione; in seguito, troviamo un Cristo divino associato a questo fatto, e la cui leggenda fu ricolmata con l'aiuto di profezie: il passaggio ci sfugge, ma, tenendo le due estremità della catena, possiamo immaginare il legame.

Questo ragionamento mi sembra viziato. Da una parte, il fatto della crocifissione non è così ben stabilito come si vorrebbe dirlo. Ma soprattutto, la difficoltà principale del problema si trova così elusa: che il mito di Attis, per esempio, abbia influenzato il mito di Gesù non sarebbe sufficiente a spiegare come mai gli ebrei avrebbero accettato di fare, di un uomo e di un condannato, un essere divino analogo ad Attis. [2]

La probabilità, al contrario, è molto più forte se si è partiti da un essere divino: il Messia, di cui i testi profetici raccontavano in anticipo la passione. Qui, non c'è nessun problema per gli ebrei: la venuta del Messia sulla terra era attesa, sperata, annunciata; egli era già, in anticipo, un essere divino, e la sua esistenza terrena poteva essere considerata predetta. È soltanto sulle condizioni di questa esistenza che esistevano delle divergenze; ma abbiamo detto come la disfatta del 70 portò gli ebrei a rivedere la loro concezione del Messia, come essi dovettero, per conciliare le profezie con i fatti, fare un passo indietro e concludere per l'esistenza, al tempo predetto, di un Messia che era venuto, ma che non si aveva notato.  

Perché aggiungere a questa evoluzione logica del pensiero l'ipotesi, inutile e terribilmente imbarazzante, di un condannato reale, di cui nessuno sapeva più nulla? Questo equivale a complicare il problema a piacere.

Quanto all'identificazione parziale del Messia con gli dèi Salvatori del paganesimo, ciò doveva avvenire in modo del tutto naturale, prima di tutto con l'introduzione dei riti (battesimo, comunione), e soprattutto con il riconoscimento, a beneficio del Messia ebraico, del titolo di «Salvatore» (Giosuè-Gesù). È per questo titolo che gli ellenisti sono stati condotti a riconoscere una delle loro divinità familiari. Ed è perché fosse un dio «Salvatore» che lo si chiamò col nome ebraico che significa «Salvatore». Gesù non è un nome di persona: come quello di Cristo, è un titolo. Gesù Cristo significa «Salvatore-Messia», e questo appellativo concretizza proprio la fusione operata tra il Salvatore del paganesimo e il Messia delle Scritture ebraiche. 

Beninteso, una tale fusione non è concepibile se non al di fuori dell'ambiente ebraico ortodosso. Ma non sappiamo forse che i primi missionari del cristianesimo sono partiti, non da Gerusalemme, ma proprio da Antiochia?

NOTE

[1] S. LASSALLE: «Le messianisme au temps des Macchabées», Cahier du Cercle E. Renan, 2° trim. 1961.

[2] L'argomento non è sfuggito agli autori cristiani: «Come mai un fariseo israelita, dal monoteismo intransigente avrebbe potuto adorare un uomo trasformato in dio?» (BONSIRVED: L'évangile de Paul, pag. 25). Si può rispondere che i farisei si sono proprio rifiutati di «convertirsi». Ma l'obiezione vale per tutti gli ebrei, e anche per gli Esseni.

martedì 28 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «Paolo a Damasco»

(segue da qui)

Paolo a Damasco

Dato che la nuova alleanza era stata stipulata a Damasco, in effetti non possiamo fare a meno di pensare che sia stato proprio a Damasco che Paolo ricevette, a sua volta, quell'illuminazione che doveva produrre la sua vocazione.

È stato un caso? Sarebbe alquanto improbabile, dopo tutti i confronti che abbiamo segnalato. Siamo quindi portati alla logica conclusione che è in questa comunità essena dissidente di Siria che Paolo avrebbe ricevuto la rivelazione di questo nuovo Maestro di Giustizia che sarà il Cristo (Messia). Ma questa volta il suo nome sarebbe stato rivelato, e non poteva essere altro che Giosuè: gli iniziati, come ho spiegato, potevano ricavarlo dall'Antico Testamento; ma soprattutto il nome di Giosuè («colui che salva») era l'unico che permetteva un riavvicinamento con gli dèi «Salvatori» del paganesimo. Ora, questo è proprio quello che spiega Paolo quando traduce il nome di Gesù-Giosuè: «Gesù, colui che salva».

La comunità di Damasco appare così aver svolto, molto probabilmente, un ruolo nella «conversione» di Paolo. Ma questa è ancora solo una possibilità: è possibile sostenere questa ipotesi con prove?

Ovviamente non occorre aspettarsi da questo che i testi, fortemente rimaneggiati in seguito (soprattutto quelli delle epistole), ci parlino direttamente degli Esseni di Damasco, di cui si è cercato di cancellare ogni traccia. Ma in questo lavoro di correzione, un testo è sfuggito, perché il senso esatto delle sue espressioni era perduto: è proprio il capitolo 9 degli «Atti degli Apostoli», che ci racconta della conversione di Paolo.

Gli «Atti» sono una sistemazione tardiva, ma tutti gli autori ammettono che ciò che riguarda Paolo ha qualche possibilità di utilizzare un documento più vecchio. Ma cosa vi leggiamo?

A) Innanzi tutto che Saul, spirante ancora stragi, chiede il permesso di andare a Damasco al fine di perseguitare quelli, uomini o donne, che sarebbero «della setta». Quale setta? Si pensa naturalmente ai cristiani, ma dimentichiamo che nel momento in cui Paolo avrebbe dovuto compiere questa missione, non potevano esistere ancora dei cristiani a Damasco: nella prospettiva stessa degli «Atti», la propaganda non ha ancora lasciato Gerusalemme, dove la morte di Stefano è tutta recente. Da chi sarebbe dunque stata fondata una comunità cristiana a Damasco? Il compilatore degli «Atti» ha un po' confuso le date, ma sa che esisteva a Damasco una «setta», che non può confondere con la comunità ebraica, e questa setta ha qualche legame con le origini cristiane.

B) Perché Saul, che poteva continuare a perseguitare i cristiani in Palestina (sempre dalla prospettiva degli «Atti»), è andato proprio a Damasco, piuttosto che ad Antiochia? Perché il ricordo della «setta» primitiva di Damasco sopravvive, seppur confuso.

C) Dopo essere stato accecato sulla via per Damasco, Paolo va a rifugiarsi «nella casa di Giuda», che si trova nella via Diritta. In apparenza, quella casa è di un privato che si chiamava Giuda. Ma noi sappiamo ora dal commentario di Abacuc che l'espressione «casa di Giuda» indicava la comunità essena. Il rapporto tra Paolo e la comunità essena della via Diritta a Damasco è così stabilito da un testo (9:11) che si è dimenticato di correggere, il significato preciso essendo perduto.

D) In questo luogo, Paolo riceverà l'imposizione delle mani di un «discepolo» chiamato Anania. Discepolo di chi? Non ci viene detto, ma la stessa opera precisa altrove (22:12) che si tratta di un «devoto ebreo osservante della legge e in buona reputazione presso tutti gli ebrei là residenti». Non è quindi un cristiano. Chi può essere questo pio ebreo, che riceve una visione dal Signore, se non un Anziano della comunità essena?

E) Paolo riceve da Anania l'imposizione delle mani, recupera la vista. «Poi, alzatosi, fu battezzato». Il testo non dice, ma lascia ben intendere che questo avvenne ad opera di Anania. Chi quindi poteva battezzare a Damasco, quando questo rito sembra ancora sconosciuto anche a Gerusalemme (al di fuori della setta di Giovanni il Battista), e in ogni caso nessuno è ancora qualificato per conferirvi un battesimo cristiano? Il battesimo ricevuto da Paolo rassomiglia molto ad un battesimo esseno, rito la cui esistenza è attestata nella setta.

F) Lo stesso Anania dice a Paolo: «Il Dio dei nostri padri ti ha destinato a conoscere la sua volontà, a vedere IL GIUSTO» (22:14). Chi è il Giusto? Certo non  Gesù, che ignora l'ebreo Anania, ma non sarebbe il Maestro di Giustizia degli Esseni, il Giusto per eccellenza?

G) Infine, dopo questo battesimo, Paolo dimora qualche giorno «con i discepoli che aveva a Damasco» (9:19); da lì, predicherà nelle sinagoghe. Quindi vi erano a Damasco dei «discepoli», distinti dalla comunità ebraica? 

Troviamo dunque in questo testo tutta una serie di argomenti che permettono di sostenere l'ipotesi di una «conversione» di Paolo nella comunità essena di Damasco, dove avrebbe ricevuto la sua rivelazione.

Certo, gli «Atti» sono un'opera molto sospetta in cui il ruolo di Paolo è stato deformato. Ma non si vede alcun motivo per dichiarare immaginario il viaggio a Damasco: se si fosse creata da zero una leggenda sulla conversione di Paolo, la si sarebbe certamente situata in Palestina, ad Antiochia, ma non in una città pagana. Il ricordo del ruolo di Damasco e della sua «setta», seppur distorto, è passata nel racconto degli «Atti»; è forse anche tutto ciò che resta della biografia iniziale di Paolo utilizzata dal compilatore del II° secolo.

Questo equivale a dire che si può fare di Paolo un Esseno? Certo che no, se confrontiamo il suo messaggio con i documenti della setta di Qumran. I rapporti di Paolo con l'Essenismo sono evidenti, [18] ma d'altronde il Cristo di Paolo ci appare molto più vicino agli dèi Salvatori del paganesimo che al Maestro di Giustizia.

Ma la mia ipotesi (poiché, nonostante le argomentazioni addotte, non è che un'ipotesi) consisterebbe proprio in questo: Paolo si sarebbe «convertito», non in una setta essena ortodossa, ma in quella della «Nuova Alleanza» a Damasco, e questa comunità, insediata in paese pagano, si sarebbe già notevolmente evoluta sotto l'influenza dei culti misterici. È in essa e per mezzo di essa che le influenze dei misteri ellenistici sarebbero passate nel cristianesimo primitivo, almeno nell'opera di Paolo. La «Nuova Alleanza» consisterebbe in questa evoluzione, nell'assimilazione del Messia esseno a un dio Salvatore, ad un «Gesù». Certo, per confermare questa ipotesi, occorrerebbe scoprire nuovi manoscritti, ma le concordanze segnalate la rendono abbastanza plausibile: nella misura in cui il cristianesimo deriva da Paolo, esso è forse derivato dalla comunità dissidente della Nuova Alleanza a Damasco.

È molto interessante, da questo punto di vista, rivedere le epistole paoline per ricercarvi tutte le idee o le formule che possono essere avvicinate all'Essenismo, o interpretate dalla dottrina e dalla pratica essene. Il nome Belial, dato a Satana, è impiegato nei manoscritti di Qumran. Paolo parla della «comunità dei Santi», degli «Eletti della grazia». Egli sostiene la continenza e la castità (1 Corinzi 7), virtù essene, e condanna severamente la «fornicazione» (1 Corinzi 5:1, 6:18). Predica una morale essena (Romani 12), ecc.

André Ragot, che si è dedicato a questa ricerca, conclude: [19] «Chiunque siano gli autori o gli interpolatori, qualunque sia l'età di questi testi, tutto si può riportare all'Essenismo e al Maestro di Giustizia». Ancora più precisi sarebbero i confronti da fare tra il sacerdote empio del Commentario di Abacuc e certi passi, fino ad allora oscuri, riguardanti il «mistero di iniquità» o «l'uomo empio» che il Signore Gesù ucciderà col soffio della sua bocca (2 Tessalonicesi 2:3-9).

Certo, non ci sarebbe problema a fare di Paolo un discepolo di Qumran, ma tali confronti aprono nuove prospettive sulle origini cristiane, sul ruolo che ha potuto svolgervi, attraverso Paolo, una comunità essene dissidente, permeata di paganesimo e di gnosticismo.

NOTE

[18] Si veda ALFARIC: «Aux origines du christianisme», pag. 10.

[19] A. RAGOT: «Paul de Tarse», Cahier du Cercle E. Renan, 4° trim. 1963.

lunedì 27 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «La nuova alleanza»

(segue da qui)

La nuova alleanza

In questo esilio a Damasco, fu conclusa con Dio una «nuova alleanza». È a Damasco che un successore del Maestro di Giustizia avrebbe ricevuto un'illuminazione che consacrava questo nuovo contratto con la divinità. In questo modo, gli Esseni di Damasco si separarono ancor più di quelli di Qumran, dagli ebrei fedeli all'antica alleanza. Innestato in ambiente pagano, era destino che la comunità di Damasco ne subisse delle influenze.

Questo è molto importante per l'origine del cristianesimo. Se è, infatti, ben stabilito che il cristianesimo è derivato dall'essenismo, resta evidente che il cristianesimo è tutt'altra cosa rispetto all'essenismo, e in particolare che il mito di Gesù è intriso di elementi pagani. Renan diceva che il cristianesimo è un «essenismo che ha avuto successo». Possiamo aggiungere: che ha avuto successo ad evolversi verso l'unificazione con certi culti misterici, incorporando elementi estranei alla tradizione ebraica. Questa evoluzione era difficilmente concepibile sulle rive del mar Morto, ma era inevitabile in Siria. Questa fu la «nuova alleanza».

Ora, come ha notato dapprincipio Dupont-Sommer: «Tutto, nella Nuova Alleanza ebraica, annuncia e prepara la Nuova Alleanza cristiana» (Aperçus préliminaries). «Evidenti relazioni emergevano tra la Chiesa primitiva, nella sua organizzazione, nei suoi riti, nei suoi dogmi, e la Comunità della (Nuova) Alleanza» (Nouveaux aperçus). 

L'espressione «nuova alleanza» non è sconosciuta nei testi cristiani. È menzionata nella epistola agli Ebrei (8:13) che, prima del suo rimaneggiamento, è forse un testo esseno. Il termine figura anche nella prima epistola ai Corinzi: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue» (11:25). Si tratta là di un'aggiunta successiva, poiché Paolo non conosceva ancora i pasti comunitari. 

Ma nulla sembra impedire di attribuire a Paolo l'espressione della seconda epistola ai Corinzi: «È lui (Dio) che ci ha resi idonei a essere ministri della NUOVA ALLEANZA, non di lettera, ma di Spirito» (2 Corinzi 3:6).

domenica 26 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «Il documento di Damasco»

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Il documento di Damasco

Un'altra conseguenza, piuttosto inaspettata, delle scoperte del Mar Morto, fu l'autenticazione di un testo, fino ad allora molto discusso, che era stato trovato intorno al 1900 in una sinagoga del Cairo. Questo documento, ormai ben collegato con gli Esseni, ci dice che una comunità essena (molto probabilmente un'altra, diversa da quella di Qumran), in seguito alle persecuzioni, si era rifugiata a Damasco, condotta da una stella.

La stella è simbolica: «La stella è l’interprete della legge che è venuta a Damasco, come è scritto: una stella si fa strada da Giacobbe». Abbiamo forse là l'origine della stella di Betlemme.

sabato 25 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «Il Maestro di Giustizia»

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Il Maestro di Giustizia

Ciò che è più importante, quanto al problema di Gesù, è la scoperta, nei testi esseni decifrati, di un personaggio enigmatico che venerava la comunità, e chiamato il «Maestro di Giustizia».

Secondo il commentario di Abacuc e il documento di Damasco, si trattava di un sacerdote ebreo entrato in lotta con il clero ufficiale al quale rimproverava la sua ricchezza e l'accumulo di funzioni religiose e civili. Privilegiato, beninteso, di una ispirazione divina, fece dei seguaci che si definirono gli «eletti di Dio» e fondò una comunità quasi monastica imponendo loro una regola severa (povertà, castità, fraternità). Ma il clero ufficiale lo perseguitò, e le cose dovettero volgersi assai male, poiché i testi lasciano intendere che egli fu condannato a morte: si commisero «orrori su di lui e vendette sul suo corpo di carne». Fu appeso al legno, secondo il rito ebraico? I testi non permettono di dirlo. [13]

Il commentario di Abacuc specifica che è in punizione di questo crimine che Dio avrebbe permesso la presa di Gerusalemme da parte di Pompeo, proprio il giorno della festa dell'«Espiazione». Il Maestro di Giustizia sarebbe stato quindi messo a morte prima dell'anno 63 A.E.C., e Dupont-Sommer suggerisce di identificarlo con una delle vittime di Ircano II, probabilmente il giusto Onia, lapidato a morte nel 65 A.E.C. Tuttavia, non è escluso che il ricordo del giusto Onia si sia in qualche modo confuso con quello di un altro Onia, sommo sacerdote assassinato nel 170 A.E.C., la cui morte avrebbe ispirato diverse interpolazioni del secondo Isaia, proprio quelle che saranno considerate profetiche dagli Esseni. La storia sarebbe così solo un nuovo inizio, la morte dei «giusti» che prefigura la passione del Messia.

Quel che ne sia, il Maestro di Giustizia (il cui Nome dal potere terribile non può essere rivelato o pronunciato) non tardò a divenire un personaggio soprannaturale.

In un passo piuttosto oscuro del commentario di Abacuc, è detto che il Maestro di Giustizia sarebbe riapparso, il Giorno dell'Espiazione, per confondere i suoi persecutori e «farli inciampare il giorno del loro sabato». Se comprendiamo bene, si trattava di una visione [14] dei suoi discepoli, a meno che vi sia là un linguaggio allegorico, dato che la presa di Gerusalemme da parte di Pompeo era considerata la gloriosa «manifestazione» del potere del Maestro di Giustizia.

Ma soprattutto, i testi annunciano il ritorno trionfale del Maestro di Giustizia alla fine dei tempi. Il documento di Damasco, in particolare, parla della «venuta del Maestro di Giustizia alla fine dei giorni». Ciò significa che egli era già assimilato al Messia.

La natura precristiana di questo personaggio è evidente, ed ha colpito parecchi commentatori, in particolare Dupont-Sommer. Pur guardandosi da audaci assimilazioni, questo autore aveva scritto: 

«Il Maestro galileo (Gesù), così come lo presentano gli scritti del Nuovo Testamento, appare per molti versi come una sorprendente reincarnazione del Maestro di Giustizia. Come questi egli predicava la penitenza, la povertà, l'umiltà, l'amore per il prossimo, la castità. Come lui prescriveva di osservare la Legge di Mosè, tutta la Legge, ma la Legge completata, perfetta grazie alle sue stesse rivelazioni. Come lui egli fu l'Eletto e il Messia di Dio, il Messia redentore del mondo. Come lui, fu esposto all'ostilità dei sacerdoti del partito dei sadducei. Come lui, egli fu condannato e torturato. Come lui, alla fine dei tempi, egli sarà il giudice sovrano». [15]

Questo equivale a dire che il Maestro di Giustizia e Gesù sono la stessa persona? Nelle sue «Nouveaux aperçus», l'autore ha protestato contro questa interpretazione: per lui «la rassomiglianza non è totale» e Gesù sarebbe «un nuovo profeta, un nuovo Messia». [16] Beninteso, non si potrebbero assimilare completamente i due personaggi, ma il Maestro di Giustizia appare almeno come una sorprendente anticipazione di Gesù. [17]

Si può concludere, il che è molto importante, che l'essenza della leggenda di Gesù era già formata circa CENTO ANNI PRIMA il tempo in cui si è collocata la sua via terrena.

NOTE

[13] Gli studiosi discutono sull'esatta traduzione. DUPONT-SOMMER (Premiers aperçus, pag. 45-46) dice che fu «torturato»; MILLAR BURROWS (Les manuscrits de la Mer Morte, ed. Laffont, 1957, pag. 184) ritiene che sia possibile tradurre solamente con «esiliato, bandito»

[14] Il testo impiega, per il verbo «apparire», la parola che indica, nell'Antico Testamento, le manifestazioni divine. Il significato è ovviamente più banale, se si ammette che il Maestro di Giustizia non era morto, ma esiliato (si veda BURROWS, op. cit., pag. 185). In questo caso, dov'è il miracolo?

[15] DUPONT-SOMMER: Aperçus préliminaires sur les Manuscrits de la Mer Morte, pag. 121.

[16] Nouveau aperçus, pag. 207.

[17] Si veda A. RAGOT: «Messie essénien et messie chrétien», Cahier du Cercle E. Renan, 1° trim. 1963.

venerdì 24 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «I manoscritti del mar Morto»

(segue da qui)

I manoscritti del mar Morto

La scoperta nel 1947 dei rotoli del mar Morto, ci ha permesso di completare le nostre conoscenze sugli Esseni. È molto importante notare che ha confermato ciò che ne dicevano gli autori antichi, che gli scavi hanno rivelato l'accuratezza dei dettagli della loro vita di asceti, e anche che, tra i principali documenti scoperti, figurano due rotoli di Isaia.

Non devo insistere qui sulle numerose controversie alle quali diede luogo questa scoperta: oggi, quasi tutti concordano nel riconoscere che si sono ritrovati i resti della comunità essena segnalata da Plinio il Vecchio, e che i manoscritti nascosti nei vasi (probabilmente tra il 66 e il 70, al momento della guerra ebraica) costituiscono una biblioteca essena.  Il Manuale di disciplina e gli Inni contengono un'ampia esposizione preliminare di quella che sarà la morale cristiana.

mercoledì 22 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «Il Messia degli Esseni»

(segue da qui)

Il Messia degli Esseni

Tenuto conto della loro dottrina e del loro modo di vita, era fatale che gli Esseni si facessero del Messia un'idea molto diversa da quelle degli altri ebrei. Distaccati da questo mondo, non si interessavano al dominio universale. Per loro, il Messia non poteva avere che un ruolo morale e spirituale; non poteva essere un capo militare; doveva portare la consolazione ai poveri e ai «santi».

Ancora più degli altri, gli Esseni avevano cercato di farsi un'immagine del Messia attraverso i testi dell'Antico Testamento. Sappiamo che leggevano i libri sacri, che ne facevano delle copie e dei commentari. Ma non attribuivano lo stesso valore agli stessi testi degli altri; per loro Isaia era un libro profetico, e il Libro di Enoc (almeno nella sua parte delle Parabole) potrebbe benissimo essere un'opera essena. 

Attraverso questi testi, quale concezione potevano avere del Messia?

A) Identificato con il «Figlio dell'Uomo» nel Libro di Enoc, «per il quale fu fatta la Giustizia e col quale è stata fatta la Giustizia», il Messia è prima di tutto il giudice sovrano. Egli possiede la sapienza, nessuna azione segreta può sfuggirgli. È lui che giudicherà e condannerà i potenti, i re, coloro che possiedono «la forza» (la terra); ma è lui che ricompenserà anche i giusti e i santi. Alla fine dei tempi, egli apparirà su un trono di gloria per il giudizio finale. Severo verso i malvagi, verso coloro che hanno fatto di questo mondo una terra di iniquità, egli sarà indulgente verso gli infelici. Egli è la speranza di tutti coloro che soffrono.

B) Ma fino al giorno della sua venuta, il Messia resta nascosto, per la volontà di Dio. La sapienza di Dio lo ha senza dubbio rivelato ai giusti e ai santi, affinché, per il suo Nome, essi siano salvati. Ma, a parte gli iniziati, nessuno conosce il Figlio dell'Uomo, e nessuno deve conoscere il suo Nome, quel terribile Nome che ha un potere spaventoso. 

La natura segreta del Nome era, nella Bibbia, riservata a Dio (Jahvé è solo una specie di pseudonimo). Gli Esseni la hanno estesa al Maestro di Giustizia, e al Messia che si confonde (o si confonderà presto) con quest'ultimo: nessuno deve pronunciare o scrivere questo Nome.

Ora, questa natura segreta del Messia e del suo Nome richiede un doppio confronto: innanzitutto con il segreto imposto agli iniziati dei culti misterici; ma anche con alcuni passi dei vangeli dove Gesù impone un segreto difficile da giustificare. Così, dopo la trasfigurazione, egli comanda: «Non dite a nessuno quel che avete visto» (Matteo 17:9). A Pietro, che lo ha proclamato Cristo, egli «impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno» (Marco 8:30). Come interpretare queste esortazioni al silenzio in un ministero pubblico? La rivelazione del Messia, in una concezione primitiva di cui alcune tracce sono passate nei vangeli, doveva essere riservata agli iniziati, — come tra gli Esseni.

C) Avendo fatto voto di povertà, gli Esseni non potevano concepire che un Messia povero, spietato verso i ricchi, e predicatore di un regno puramente spirituale.

D) Ma i poveri e i giusti sono sempre perseguitati: quindi anche il Messia lo sarà. Siccome è pacifico, risponderà alla violenza solo con rassegnata mitezza, come in Isaia. E Giuseppe ci mostra gli Esseni che soffrivano le persecuzioni (romane): «Ridono nei loro tormenti e rendono l'anima con gioia, come se dovessero riprenderla presto». Non siamo già in pieno clima cristiano?

È comprensibile che l'idea di un Messia povero e umiliato sia sembrata ridicola o scandalosa agli ebrei che attendevano una regalità terrena. Tuttavia, i testi profetici di questo tipo esistevano nell'Antico Testamento: tutto dipendeva dall'enfasi che si metteva su alcuni tra loro.

Agli occhi degli Esseni, nessun dubbio che Isaia abbia avuto un valore particolare, e che abbiano meditato questo ritratto:

«Ecco il mio Servo (è Dio che parla), il mio Eletto di cui mi compiaccio. Io ho messo il mio Spirito su di lui, egli manifesterà la Giustizia alle nazioni... Egli non griderà, non alzerà la voce... non frantumerà la canna rotta» (42). 

«Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca, come un agnello condotto al macello» (53:7).

Poco importa l'origine di questi testi: attraverso di loro, come con l'aiuto di certi Salmi, per analogia anche con i personaggi di Giuseppe (tradito dai suoi fratelli) o di Giobbe, era relativamente facile, per mezzo di un'interpretazione mistica, creare l'immagine di un Messia sofferente e rassegnato, il cui regno non sarebbe stato di questo mondo, comprensivo verso gli umili e che prometteva loro la Giustizia nel suo regno spirituale.

martedì 21 gennaio 2020

La Favola di Gesù Cristo — «La dottrina essena»

(segue da qui)

La dottrina essena

Da queste diverse fonti, sufficientemente concordanti e ampiamente confermate dalle scoperte del mar Morto, risulta che gli Esseni, che erano molto numerosi e sparsi in parecchie comunità, si distinguevano dagli altri ebrei per alcuni tratti, alcuni credi o pratiche che, come vedremo, li avvicinavano in modo singolare ai primi cristiani. 

1°) Condannavano ogni pratica di commercio, ogni fonte di guadagno speculativo, ma sostenevano il lavoro manuale ed esercitavano loro stessi, sia i lavori agricoli che i mestieri artigianali: allo stesso modo Gesù caccerà i mercanti, e sarà presentato come carpentiere.

2°) Avevano fatto della povertà una virtù, e condannavano la fortuna, la ricchezza dei sacerdoti: allo stesso modo Gesù esalterà i poveri e condannerà i ricchi (la Chiesa romana ha ben cambiato ciò in seguito, ma san Francesco non ha avuto torto a trovarlo ancora nei vangeli). 

3°) Il disprezzo per le ricchezze era così diffuso tra gli Esseni che non dovevano possedere nulla di proprio: non è già questo ciò che insegnerà lo pseudo-Matteo (probabilmente elaborato in una comunità essena): «Non procuratevi oro, né argento... né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone» (Matteo 10:9-10)?

4°) Gli Esseni proclamavano l'eguaglianza di tutti gli uomini, e tra di loro (fatto assai raro nell'antichità), non vi erano nemmeno più gli schiavi: questo è uno dei punti che attireranno di più gli schiavi e i poveri nelle prime comunità cristiane.

5°) Senza condannare in generale il matrimonio, gli Esseni lo ripudiavano per i «perfetti», che dovevano fare voto di celibato e di castità; ora, anche Gesù sarà casto, cosa che sarà in netto contrasto con la concezione ebraica, che Tacito descrive come incline all'«amore della generazione», il cui ideale rimarrà sempre quello del capofamiglia, dotato di una moglie fertile come una vite. Poco importa che l'ideale di castità degli Esseni provenga dal culto di Pitagora, basti notare che è uno dei punti di divergenza più caratteristici con la mentalità ebraica. Ora, se il celibato dei sacerdoti non figura tra gli obblighi della Chiesa cristiana primitiva, non si può negare che la castità e il celibato vi abbiano goduto di un grande favore.

6°) Gli Esseni, come abbiamo visto, mettevano in comune tutti i loro beni: colui che entrava nella comunità doveva spogliarsi di tutto, e restituire l'intero ricavato al capo della comunità. Il loro regime è stato definito una sorta di «comunismo mistico». Ora, questo è precisamente ciò che ci informano gli «Atti degli Apostoli» sulla comunità cristiana primitiva, e la regola è così severa che, per avervi mancato trattenendo una parte del ricavato della vendita dei loro beni,  due adepti sono puniti con la morte. Senza dubbio, nel testo, è Dio stesso che li colpisce; siamo sicuri che il capo abbia saputo far rispettare la regola, per esempio, con un giudizio sommario; inoltre, il significato del racconto è abbastanza chiaro, anche se si tratta di un racconto puramente simbolico. Qualcuno potrà dirci in quale ambiente il fatto di conservare una parte dei proventi della vendita dei propri beni potesse costituire un reato, punibile con la pena di morte, al di fuori delle comunità essene? 

7°) Gli Esseni prendevano i loro pasti a una tavola comune, come lo faranno i primi cristiani: semplice esigenza di fraternità (e di eguaglianza) all'origine, questo pasto non tardò a prendere un significato mistico, che prefigura l'eucarestia. Vi era ammessa solo dopo una purificazione, e i non-iniziati ne erano esclusi. «E allorché  disporranno la tavola per mangiare o il vino dolce per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio  il pane e il vino dolce». [6] Plinio il Giovane ci informa che i cristiani di Bitinia si riunivano anche per mangiare «cibi innocenti», e Paolo, per mezzo di un'interpolazione, conoscerà il simbolismo del pane e del vino.

8°) Gli Esseni si disinteressavano della vita terrena, e dedicavano tutte le loro attenzioni alla vita dell'anima: è una formula strettamente essena quella dello pseudo-Matteo (sempre lui): «Non fatevi tesori sulla terra... ma fatevi tesori in cielo» (Matteo 6:20-21).

9°) Gli Esseni, al tempo di Ponzio Pilato, sono presentati come dei pacifisti, che riprovavano ogni violenza: [7] è questo che li distingueva dagli Zeloti. Questo era logico da parte loro: cosa importa il nome del sovrano temporale a chi non cerca che il regno celeste? Si può raggiungere la propria salvezza sotto la dominazione romana, non più imbarazzante del clero ebraico. Inoltre, gli Esseni proclamavano che tutto il potere terreno è voluto da Dio, e Giuseppe fa dire loro: «È sempre per la volontà di Dio che il potere spetta ad un uomo», quest'uomo fu l'imperatore romano. Si deve quindi obbedire al potere stabilito, dottrina scandalosa per i patrioti ebraici, ma già molto vicina all'espressione: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare».

10°) Ma cosa fare, se il potere stabilito perseguita i fedeli e i santi? Un solo atteggiamento è giustificabile: soffrire con pazienza, perfino il martirio, Dio saprà ricompensare i suoi. Ogni ribellione violenta provoca più male di quanto ne risparmia. Per gli Esseni, ci dice Giuseppe, «nulla accade agli uomini che non sia stato decretato».  Professano questa dottrina, forse ispirata al buddhismo, ma nuova in ambiente ebraico: «Io non renderò a nessuno la retribuzione del male». [8] C'è bisogno di segnalare le analogie con tanti passi dei nostri vangeli?

11°) Nella pratica del culto, gli Esseni condannano i sacrifici: «Il tributo delle labbra, nel rispetto della legge, sarà come un gradito odore di Giustizia». [9] Sappiamo che attribuivano grande importanza alla preghiera del mattino: questo è ciò che Plinio constata anche tra i cristiani di Bitinia.

12°) Gli Esseni conoscevano un battesimo rituale di purificazione: prima di essere ammesso all'Alleanza, il candidato doveva subire un tempo di prova e di istruzione; al termine di un anno, era ammesso a partecipare alle «acque lustrali più pure»; è solo dopo tre anni che era ammesso ai pasti comunitari, ci dice Giuseppe. È necessario ricordare che il battesimo cristiano, distribuito oggi così generosamente ai bambini piccoli, era all'origine preceduto da un lungo periodo di prova e di istruzione?

13°) Al momento dell'iniziazione essena, il candidato doveva procedere ad una confessione pubblica: questo è stabilito dal Manuale di Disciplina, ed ecco l'origine di un rito che si poteva credere puramente cristiano (la confessione cristiana, alle origini, si faceva in pubblico). E il Manuale aggiunge che l'acqua non basta a lavare via il peccato senza una sincera conversione del cuore: il mare e i fiumi non basterebbero a purificare coloro che non si pentono sinceramente. «È nell’umiltà della sua anima... che sarà purificata la  sua  carne,  quando sarà aspersa  con  acque  lustrali». [10]

La dimostrazione è sufficiente a conquistare la vostra approvazione? Sarebbe necessario poter citare lunghi estratti del Manuale o degli Inni, per vedere fino a che punto la lingua stessa di questi testi è simile al vocabolario cristiano, fino a che punto l'ideale morale della setta è già quello dei primi cristiani. Soprattutto, sarebbe necessario confrontare questi testi col Discorso della Montagna, che appare in tale confronto come un semplice riassunto della morale essena.

Il confronto può anche essere spinto più lontano. Uno studioso inglese, R. H. Charles, ha sottolineato che il Discorso della Montagna «riflette in diversi passi lo spirito e arriva fino a riprodurre le frasi stesse» di un'opera, chiaramente essena, conosciuta sotto il nome di «Testamento dei dodici patriarchi»; che «molti passi dei vangeli presentano tracce dello stesso testo», e persino che «san Paolo sembra essersi servito del libro come di un vade-mecum». [11]

La scoperta nelle grotte di Qumran di manoscritti esseni autentici, non interpolati e anteriori quanto al loro contenuto alla nascita del cristianesimo, ma che rendono già un «suono cristiano», come dice Dupont-Sommer, è venuta a confermare la filiazione. Anche in questo caso queste analogie sono rilevate solo tra il cristianesimo e una setta essena ortodossa. Ma la setta di Qumran, se rappresenta il puro essenismo, non è tutto l'essenismo, e sarebbero certamente necessari confronti ancora più ravvicinati, se avessimo la possibilità di scoprire i manoscritti di una setta evoluta, più intrisa di ellenismo, come dovette essere quella di Damasco. 

Se il cristianesimo deriva così tanto dall'essenismo, perché non si trova alcuna menzione esplicita degli Esseni nei testi cristiani? Si può ammettere che questi siano stati purgati da un ricordo imbarazzante, già a partire dal 150, [12] o nel corso di revisioni successive. Ma soprattutto va ricordato che gli Esseni stessi non si chiamavano con questo nome, che viene dato loro soltanto dall'esterno: nei manoscritti di Qumran non si trova nemmeno una menzione degli «Esseni». La parola stessa è di dubbia origine, Filone scrive «Essaioi».

Convinti di essere nella tradizione ortodossa, gli Esseni non si consideravano come dissidenti: si chiamavano i «Giusti», o gli «uomini del partito di Dio». Il loro gruppo era semplicemente «la comunità», allo stesso modo in cui quello dei cristiani sarà «l'assemblea» (ecclesia, che ha dato la parola chiesa). Solo la setta di Damasco, come vedremo, era consapevole del suo separatismo.

Da allora, se una setta essena fosse diventata una setta cristiana, avrebbe probabilmente conservato il suo vocabolario, tradotto in greco: la comunità sarebbe diventata una «assemblea», i suoi membri sarebbero stati i «Chrestoi» (buoni) e i suoi capi sarebbero rimasti degli «Anziani» (presbuteroi, sacerdoti). La parola «Esseno» non avrebbe alcuna ragione di figurare nelle sue tradizioni o nei suoi testi.

NOTE

[6] Manuale di disciplina 6:4-5.

[7] Almeno questa è l'opinione prevalente, ma non mi sorprenderei se si dovesse mitigarla. Dupont-Sommer ammette che questi «pii, questi puri e fanatici partigiani di Dio, pronti a versare il loro sangue quando la guerra è una guerra di Dio» avevano manifestato nel II° secolo prima della nostra era, in una guerra santa, la «bellicosità più ardente» (Premiers aperçus, pag. 112), ma che sarebbero rimasti abbastanza tranquilli nella guerra contro i Romani. Questa guerra tuttavia presentava la stessa natura. Se gli Esseni non vi hanno preso parte, perché i Romani li avrebbero perseguitati e torturati, come confessa Giuseppe? Perché Ippolito ci dice che essi massacravano i «bestemmiatori della legge», e che si impegnavano sotto giuramento di non abbandonarsi ad alcuna rapina? E perché il manoscritto della «Guerra dei figli della Luce contro i figli delle Tenebre» è così vicino alla bellicosa Apocalisse ? Certamente gli Esseni differivano dagli Zeloti, ma alcuni di loro potrebbero aver partecipato alla guerra destinata a stabilire il regno del Messia. Giuseppe, che è loro favorevole, ha passato questo fatto sotto silenzio, pur rivelandoci che sopportavano con coraggio le torture romane. Questa contraddizione non è che apparente: dei pacifisti possono impegnarsi in una lotta in cui i valori essenziali sembrano a loro essere in gioco.

[8] Manuale di disciplina 10:17.

[9] Manuale 9:3-5.

[10] Manuale 3:4-9.

[11] Citato da DUPONT-SOMMER: «Premiers aperçus», pag. 211.

[12] Non dimentichiamo che i vangeli sono stati scritti contro gli gnostici, e che le epistole di Paolo sono state rimaneggiate contro Marcione. Ora, come vedremo, gli Esseni di Damasco avevano dei punti in comune con la Gnosi siriana.