mercoledì 29 novembre 2017

Del pensiero di Michel Onfray a proposito della finzione chiamata «Gesù di Nazaret»


Cronologia 
PARTE PRIMA. I tempi del vigore 
Sezione prima. Nascita. La costruzione di una civiltà
Tra il 7 e il 5 a.C.: per chi ci crede, nascita di Gesù.
30 o 33 d.C.: morte dello stesso Gesù diventato, nel frattempo, Cristo.
Luglio 34: per quanto morto, Gesù appare a Paolo di Tarso.
Attorno al 45: Paolo comincia i suoi viaggi per cristianizzare il bacino mediterraneo.
67 o 68: morte di Paolo di Tarso.
140: Aristone di Pella, Disputa tra Giasone e Papisco sul Cristo, primo testo cristiano contro gli ebrei.
Attorno al 165: Giustino di Nablus è decapitato dopo aver rifiutato di sacrificare agli dei.
178: Celso scrive Contro i cristiani. II secolo: costituzione del corpus del Nuovo Testamento che distingue e separa i vangeli apocrifi dai vangeli canonici.
215: Origene si taglia i genitali.
284: Diocleziano diventa imperatore e il cristianesimo si espande.
Fine III secolo: Diocleziano istituisce la Tetrarchia allo scopo di contrastare le cosiddette invasioni barbariche.
Tra il 295 e il 337: parecchie battaglie: in Egitto (295-296), in Persia (297-298), in Italia (312), tra Reno e Danubio (322-324), di nuovo in Persia (334-337)...

(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 632-633)

Mentre avevo recensito in generale il magnifico libro-evento di Michel Onfray qui e in particolare qui, mi appresto ora a completare la suggestiva antologia di tutti i riferimenti al Gesù mitologico fatti in quel libro dal filosofo francese. A partire dalla sua opinione su Paolo l'apostolo.

Se il Gesù di Paolo e dei primi cristiani era unicamente un angelo rivelatore — non un profeta apocalittico vissuto di recente in Giudea e Galilea —, allora quale colpa avrebbe Paolo, nel giudizio di noi posteri? Dopotutto, egli non è colpevole di aver eclissato deliberatamente alcun uomo, nascondendone apposta le tracce, visto che Gesù non è mai esistito storicamente, ergo non si potrebbe accusare Paolo di averne usurpato l'eredità, inchiodandolo egoisticamente, come accusò Nietzsche, “alla sua croce”. Il punto è stato sottolineato da David Madison. Ma evidentemente Paolo non è innocente, per Michel Onfray. Per il filosofo francese, l'inesistenza storica di Gesù di Nazaret non diminuisce affatto le colpe morali di Paolo l'apostolo. Egli rimane un negatore del corpo perfino se Gesù non aveva affatto un corpo da negare. La colpa di Paolo si esaurisce tutta nella sua folle e irrazionale esaltazione dell'anticorpo di Cristo. La sua colpa è la sua fede nell'esistenza di un angelo rivelatore, per Paolo tanto reale quanto la sua. La sua colpa è la stessa di ogni fervente credente in esseri immaginari, che si chiamino col nome di Osiride, di Dioniso, di Gesù, dell'arcangelo Gabriele o dell'arcangelo Moroni. La sua colpa è la stessa del più orgoglioso seguace di Paolo: l'apostolo Marcione. E dio solo sa chi può aver negato il corpo, chi può aver odiato il mondo terreno, più del vescovo eretico di Sinope. Neppure un Buddha — con tutto il suo distacco dal mondo — ci sarebbe riuscito più di lui (e il Buddha, naturalmente, non è mai esistito storicamente).  Quindi l'eredità di Paolo, agli occhi di Onfray, è davvero un compendio e un concentrato di odio per il mondo, di odio per la carne, in tutte le sue forme.  Il verdetto del filosofo francese per l'“apostolo dei gentili” non può essere che uno solo:
colpevole.  

L'anticorpo di Cristo ha dunque reso possibile il corpo della civiltà giudaico-cristiana — a danno del corpo reale e concreto dei cristiani. Per tramutare il concetto di Gesù in oro religioso, c'è voluta l'azione di un uomo che ha avuto sì un corpo vero ma debilitato. Parlo di Paolo di Tarso, san Paolo. Più di molti altri, questo ebreo che aveva fatto il proprio ingresso nella vita contribuendo all'omicidio di Stefano, il primo martire cristiano, aveva le sue ragioni di volere che il proprio corpo impotente generasse una potenza in grado di compensare l'anticorpo che anche lui possedette — anche se il suo fu un anticorpo fisiologico. Paolo trasformò il mite Gesù nel Cristo con la spada. E dalla lama di questa spada è stillato sangue per più di mille anni.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 67, mio grassetto)

L'anticorpo di Gesù si trova quindi celebrato da un uomo che detesta il proprio corpo e si propone di ricorrere a una metafora per dire quello che insegna. Quest'uomo probabilmente impotente sfrutta l'occasione del messaggio di un Gesù senza corpo per abolire la circoncisione del prepuzio che caratterizzava l'ebreo, preferendogli la «circoncisione del cuore» che dovrà caratterizzare il fedele giudaico-cristiano. La lotta per abolire la marcatura identitaria del corpo individuale praticata dal mohel (il rabbino incaricato di tagliare il pezzetto di carne) e appoggiare invece la marcatura spirituale dell'anima universale tramite il battesimo, è l'elemento fondatore della civiltà giudaico-cristiana.
Gesù è circonciso e anche Paolo lo è. È normale, visto che entrambi sono ebrei. Paolo, tuttavia, vorrebbe che la circoncisione non riguardasse più il corpo di carne, ma l'anima. Gesù, che non ha mai avuto un corpo per sé, non ha mai saputo che farsene del corpo altrui: non ha mai manifestato disprezzo nei confronti della carne degli altri, del corpo degli altri, della sessualità degli altri o della libido degli altri. Non ha mai messo in guardia contro i rapporti sessuali. Non si è mai preoccupato di esortare il prossimo alla castità o all'astinenza, alla continenza o al celibato. Non ha mai invitato nessuno a sposarsi o a non sposarsi. La sua preoccupazione non era la prescrizione corporale ma quella spirituale. Paolo invece, che fu probabilmente impotente, ha davvero voluto trasformare l'impotenza nella potenza dei cristiani. In più di mille anni, c'è riuscito molte volte.
La circoncisione viene dall'Egitto, e dall'Etiopia. I faraoni sono circoncisi. All'età di novant'anni, Abramo la pratica sul proprio corpo e su quello del figlio Ismaele, l'antenato degli arabi, che ha tredici anni. La circoncisione viene praticata tagliando la pelle del prepuzio; il rabbino effettua l'operazione con una lama consacrata e lecca il sangue che cola dalla ferita; il prepuzio potrà essere sotterrato in un luogo sacro, sotto un albero centenario, presso gli incroci delle strade, dentro le tombe degli antenati, sotto le soglie delle case o in altri luoghi ritenuti carichi di energia cosmica.
Il rito ha luogo il settimo giorno (l'ottavo, se si tiene conto di quello della nascita), secondo le prescrizioni della
Genesi (17, 12) e del Levitico (12, 3). Tutti sanno che Dio ha creato il mondo in sette giorni. Il giorno successivo è quello in cui l'uomo può cominciare a vivere la propria vita. La circoncisione è l'occasione per imporre un nome e quindi entrare nella propria vita per viverla. E viverla nel segno di Dio. il gesto chirurgico effettuato dal rabbino indica che il postulante è stato accolto dalla comunità ebraica. A testimoniarlo, oltre al rabbino, c'è il padre, il padrino e altre otto persone. È anche il segno della fedeltà del popolo ebraico al proprio Dio.
Comunque, anche Gesù, che pure non aveva un corpo perché non aveva un'esistenza reale, è stato circonciso. Lo provano la dozzina di prepuzi religiosamente conservati in vari luoghi di culto europei: presso i monaci di Coulombs nel dipartimento dell'Eure-et-Loir, presso l'abbazia del Santo Salvatore a Charroux nella Vienne, a Hildesheim in Germania, a San Giovanni in Laterano a Roma, ad Anversa, a Puy-en Velay, a Chartres, a Metz ecc. Persino Carlo Magno ne ha ricevuto uno in regalo dalla mano di un angelo. Il Santo Prepuzio è stata anche, per più di mille anni, una festa celebrata dai cristiani il 1° gennaio (il giorno in cui sono nato...), fino al 1970, quando il Vaticano ha discretamente riposto questa festa nei suoi cartoni.
Per quelli che non lo sanno, ci sono anche luoghi di culto che custodiscono il cordone ombelicale che univa Maria a Gesù (a Roma, a Clermont, a Châlons-en-Champagne...) o i suoi denti da latte (a Soissons, a Versailles, a Noyon...). «Santo Prepuzio», detto anche «Santa Virtù» (andate a capire perché!), «Sant'Ombelico» e «Santi Denti»: è tutto molto serio, non sto inventando. Ed è la dimostrazione che, per un Gesù che non ha avuto corpi, quello che gli è stato prestato si è comunque moltiplicato come era successo ai pani. Corpo introvabile che ha prolificato innumerevoli volte sotto forma di organi disseminati. Miracoli...
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 72-74, mio grassetto)

La nostra civiltà giudaico-cristiana si costruisce dunque su un corpo assente, quello di Gesù, preso in carico dal corpo di un masochista, Paolo, il quale vorrebbe nevrotizzare il mondo per non sentirsi più estraneo a esso. Quando tutto il modo soffrirà come lui, la sua sofferenza gli sembrerà più insopportabile. Comunque stiano le cose, nulla è stato tolto alla sua sofferenza e, di sicuro, per mille anni, i suoi propositi hanno insegnato a milioni di uomini e di donne a godere nella sofferenza.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 75, mio grassetto)

A Paolo i filosofi non piacciono. La filosofia è, dice, costituita soltanto da «vuoti raggiri» (Lettera ai Colossesi 2, 8). Nel corso delle sue numerose peregrinazioni, a Efeso e ad Antiochia, a Tessalonica e a Corinto, a Cesarea e a Pergamo, a Tiro e a Mileto, in Siria e in Galazia, in Bitinia e in Lidia, in Tracia e in Macedonia, nel Ponto e in Cilicia, di filosofi, ne ha sempre incontrati nelle agorà o in mezzo alla gente, tra mercanti, tessitori, operai tessili, vasai, pescivendoli e facchini. È lì che, in effetti, i pitagorici, i platonici, gli stoici, gli epicurei e i cinici insegnavano la loro arte di vivere secondo ragione. A quei tempi, agli amanti delle storie semplici bastava la religione per avere una spiritualità; la filosofia era invece destinata a chi desiderava possedere meno finzioni rassicuranti e più verità in grado di rasserenare.
Il Nuovo Testamento ha conservato traccia di uno di questi incontri fra l'apostolo e i filosofi. Paolo si trova ad Atene, sull'agorà che, una volta, faceva da sfondo ai dialoghi tra Socrate e Platone, tra Platone e Aristotele, tra Diogene e Platone, tra Platone e Aristippo, senza parlare dei numerosi altri filosofi meno conosciuti, fra cui i neoplatonici. Gli
Atti degli Apostoli ci raccontano che Paolo «fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli» (17, 16). Un fremere che annuncia davvero un bel clima di serenità mentale e spirituale, di disponibilità filosofica...
Leggiamo: «Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui, e alcuni dicevano: `Che cosa mai vorrà dire questo ciarlatano?´ E altri: `Sembra essere uno che annuncia divinità straniere´, poiché annunciava Gesù e la risurrezione» (Atti degli Apostoli 17, 16). I filosofi gli chiedono di chiarire un pò quello che insegna. In effetti, la resurrezione della carne è una di quelle cose che fanno sorridere i discepoli di Zenone e di Epicuro! Paolo tiene allora un discorso ai filosofi. Ha notato che in città i pagani avevano innalzato un altare al dio sconosciuto — i politeisti non difendono mai il dio degli altri ma gli lasciano sempre un posto nel proprio pantheon.
Da abile dialettico, Paolo s'impadronisce di questo dio sconosciuto affermando che, da una parte, è il suo e che, dall'altra, è l'unico. Il gesto è assolutamente significativo e allegoricamente profetico: abolizione del paganesimo e delle sue molteplici e tolleranti divinità, e sostituzione di queste molteplici e tolleranti divinità con un solo e unico Dio, che diventa intollerante non appena arriva la potere. In questo discorso ai filosofi è contenuto l'intero programma paolino: le vecchie divinità vanno impacchettate e portate nella cantina della storia per far spazio all'unico Dio esistente, quello che insegna la «resurrezione dei morti» (17, 32).
Di fronte a questo delirio mentale, i filosofi ridono, scherniscono e prendono in giro. Paolo si allontana da quest'assemblea di buffoni, non senza aver convertito,
en passant, Dionigi l'Areopagita, futuro primo vescovo di Atene, e una donna chiamata Dàmaris. Dopodiché, continua il proprio periplo e parte per evangelizzare Corinto.
La Chiesa rappresenta quel corpo che lui non ha mai avuto, quel corpo che nemmeno Gesù ha mai avuto. Per spiegare la propria missione evangelica, Paolo dice: «Do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Lettera ai Colossesi 1, 24). Per lui, «la realtà è di Cristo» (2, 17). E cos'è il corpo di Cristo? È il «capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legamenti e cresce secondo il volere di Dio» (2, 19). Altrove, nella
Lettera agli Efesini, Paolo precisa i rapporti tra questa testa e Cristo: «Essa è il corpo di lui» (1, 23). Ancora nella Lettera ai Colossesi: «Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa» (1, 18). Il corpo è quindi una testa la cui coesione è assicurata dai legamenti — precisiamo (ma ce n'è davvero bisogno?) che tutta quest'anatomia è metaforica... Aggiungendo così l'inesistente corpo di Gesù al corpo fiacco di Paolo, ecco che otteniamo il corpo della Chiesa. Un falso corpo più un corpo debilitato (per ammissione stessa del suo proprietario, che nella Prima lettera ai Corinzi, 15, 8, si presenta come un «aborto») dà come risultato un corpo mistico, quello della Chiesa, della Chiesa come comunità. L'eucaristia è il luogo di questa trasmutazione dei corpi dispersi in un solo corpo mistico. Lo sappiamo, durante l'Ultima Cena prima della Passione, Gesù condivide il pane e il vino con i propri discepoli. Affermando quindi di trarre il principio dell'eucarestia direttamente da Cristo, Paolo piega il giudaismo originario, cui pure si richiama, in cristianesimo, e in particolar modo in cattolicesimo, la cui etimologia rimanda appunto all'universale.
In effetti, nella
Prima Lettera ai Corinzi possiamo leggere queste parole:
Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga. Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore (11, 23-27).
In questo modo, Paolo istituisce un sacramento proprio della Chiesa cattolica. Il corpo assente dell'inesistente Gesù, passando attraverso il corpo debilitato dell'infermo Paolo, produce un corpo mistico ottenuto con un pasto simbolico in cui il fedele mangia il corpo di Cristo sotto le sembianze dell'ostia di pane e beve il suo sangue sotto le sembianze del vino. Ogni comunione lega e collega i membri della comunità, che si salda e si definisce quindi nella reiterazione simbolica di una scena allegorica — di una Cena allegorica. La Passione inaugura l'era cristiana. A più riprese, Paolo parla delle prime originarie comunità cristiane che si riunivano per rompere il pane e che, a volte, «bevevano da una roccia spirituale che [...] era il Cristo» (Prima lettera ai Corinzi 10, 4). Il vino è sangue, il pane è carne e la roccia è liquida. La ragione se n'è andata in ferie.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 81-83, mio grassetto)

Con Paolo, Gesù smette di essere un personaggio concettuale. Si veste dell'armatura e impugna la spada che l'apostolo gli tende. La civiltà giudaico-cristiana è ormai pronta a marciare. L'imperatore sarà presto in grado di dare il segnale all'esercito cristiano che si metterà in movimento. I discepoli di Paolo usciranno dalle catacombe ed entreranno nei palazzi. I miserabili straccioni che saranno andati in giro a formare i primi battaglioni cristiani (Celso li prende in giro e li denigra) diventeranno i soldati senza scrupoli dell'impero ormai cristiano. La civiltà giudaico-cristiana dei perseguitati diventerà la civiltà giudaico-cristiana persecutrice. Non saranno più i cristiani che, come Stefano, moriranno per la loro fede: saranno i pagani che soccomberanno a causa della loro fede che non è quella giusta.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 85, mio grassetto)

Ma non è solo Paolo il problema. Dove il cristianesimo subisce un'altra bancarotta morale è nella lunga lista di quei falsari noti pomposamente come “padri della chiesa”, in realtà prostitute intellettuali della peggior sorta. Onfray ne ha anche per loro, ed è tanto crudele quanto oggettivo:

La patristica è una corrente filosofica di quasi mille anni passata sotto silenzio dalla storia ufficiale della filosofia. Dopo i presocratici e Platone, dopo Aristotele ed Epicuro, dopo Lucrezio e Cicerone, dopo Seneca e Marco Aurelio, la filosofia precipita in un buco nero. Certo, si parla di sant'Agostino e della filosofia medievale, in particolare del pensiero scolastico. Questo significa però dimenticare la straordinaria nebulosa rappresentata dalla patrologia greca e latina, forte di un numero incredibile di pensatori che hanno messo la propria intelligenza e la propria penna al servizio di un cristianesimo all'inizio frammentato, disperso e molecolare, poi raccolto, ortodosso, ufficiale, istituzionale e molare, e in ultimo dominante e trionfante. I concili costituiscono uno strumento ideologico per il dominio di massa: la patristica alimenta i loro dibattiti.
L'origine del cristianesimo è oscura e opaca: si devono fare i conti con un Gesù invisibile, incorporeo e concettuale. Il cristianesimo primitivo deve riuscire a dire l'indicibile, a manifestare l'ineffabile, a dare un aspetto razionale a ciò che non lo è, a qualcosa che francamente sembra davvero assurdo. Per esempio: come può una vergine restare vergine e dare alla luce un figlio? In che modo Giuseppe, il padre, può dirsi padre di suo figlio senza esserne il genitore? Il corpo di Cristo si trova veramente presente nell'ostia, o solo simbolicamente? Il peccato originale riguarda la conoscenza o il sesso? Come funziona in paradiso quando un vescovo che si è risposato ritrova la prima e la seconda moglie? In che modo si può essere Padre e Figlio allo stesso tempo, sapendo che uno genera l'altro e che, per farlo, il Padre preesiste? Dio vuole davvero tutto, compreso il male? Se sì, perché? A cosa assomiglia il paradiso? E l'inferno? Qual è la differenza tra verginità, castità e continenza? Dobbiamo scegliere la via del celibato o sposarci? E per quali ragioni? Un ministro del culto di Dio può essere sposato? L'anima è una sola? È materiale o spirituale? Sopravvive alla morte? Se sì, come? Dobbiamo scegliere la strada dell'ascesi? Che senso ha la penitenza? Il peccato originale si trasmette attraverso la carne o attraverso lo spirito? Che cosa sono i sacramenti? Quanti sono? Come va organizzata la Chiesa? A cosa assomigliano gli angeli? Qual è la differenza tra angeli, arcangeli, troni e serafini? Dobbiamo scegliere la via monastica dei cenobiti o quella anacoretica degli eremiti? Che cos'è la grazia? Perché si può non essere graziati? Che cosa si può dire della predestinazione? Come si definisce un dogma? Che cos'è un concilio? E un simbolo? E lo Spirito Santo? Che rapporti ci sono tra ragione e fede? Esiste un modo giusto per leggere le Scritture? Abbiamo il diritto di rappresentare Cristo? Quali sono i poteri di un vescovo? E quelli di un cardinale? Il papa può sbagliare? Come si può conoscere Dio? Quali sono gli attributi divini? Qual è la natura di Cristo? Che cosa possiamo dire sull'incarnazione? Come saranno i corpi al momento della resurrezione dei morti? Che cos'è un corpo glorioso? Quali sono le modalità della redenzione? Che cosa distingue la grazia santificante dalla grazia attuale? E le grazie superiori da quelle straordinarie? Come può la Chiesa distribuire le grazie? A cosa servono il battesimo, la cresima, l'eucarestia, la penitenza e l'estrema unzione? Che cosa sono i peccati? Dove sta il bene? E il male? Quali sono le virtù teologali? A cosa serve la preghiera? Chi è chiamato al sacerdozio? Come si viene chiamati al sacerdozio? E così via, con tutta una serie di simili insulsaggini intellettuali...
La patristica fornisce i materiali alle controversie che saranno, in seguito, dibattute nei concili: discute degli errori commessi su Dio e sul mondo dallo gnosticismo, dal marcionismo, dal manicheismo, dal priscillianesimo, dal mitraismo e dal panteismo; solleva gli errori commessi sulla Trinità dagli unitaristi (che sono adozionisti), dai modalisti (chiamati anche monarchiani o patripassiani), dagli ariani (divisi tra anmei, omei e omousiani...), dai fotiniani e dai pneumatomachi; denuncia gli errori commessi su Cristo e su Maria dai docetisti, dagli alogi, dagli apollinaristi, dai nestoriani, dai monofisiti, dai monotelisti e dagli antidicomarianiti; analizza gli errori commessi sulle immagini dagli iconoclasti; dibatte abbondantemente sugli errori attorno alla grazia e ai sacramenti commessi dai pelagiani, dai semipelagiani e dai predeterminazionisti; mette in luce gli errori sulla chiesa e sulla disciplina commessi dai quartodecimani, dai novazianisti, dai donatisti e dai luciferiani; denuncia gli errori sui fini ultimi commessi dai millenaristi e dagli origeniani; o, ancora, istruisce fascicoli su quanti commettono errori sulla vita cristiana, come, per esempio, gli encratisti e i montanisti.
Questa lista ci mostra come, nei primi secoli del cristianesimo, si poteva essere cristiani in mille e uno modi diversi. La costellazione di sette che si costituiscono attorno a una persona (Ario, Marcione, Pelagio, Mani, Paolo di Samosata, Fozio, Caio, Nestorio, Papia, Origene, Taziano, Eustazio e tanti altri...) non sarebbe mai in grado di costituire una Chiesa santa, cattolica e apostolica. Per farlo, occorre accordarsi su un pensiero vero, giusto, retto e conforme, cioè l'ortodossia, e su un altro pensiero falso, contraffatto e corrotto, cioè l'eterodossia. L'eresia indica ciò che l'ortodossia rifiuta: essa è tutto ciò che l'altra non è.
Il concilio è il luogo in cui la verità della Chiesa si costituisce. Tale verità è sempre soltanto una cristallizzazione politica ottenuta dai vescovi più furbi, più violenti, più astuti, più forti, più intriganti, più agitatori, più convincenti, più sofistici, più subdoli e spesso anche più ricchi. Per aggiustare la meccanica delle passioni tristi e delle passioni umane, molto umane, è lo stesso concilio a decidere che, quando ha preso una decisione, lo ha fatto preoccupandosi solo e unicamente della verità. Un bel giorno, decide che le sue decisioni non procedono dalla somma delle volontà individuali democraticamente esternate ma dall'espressione dello Spirito Santo, che, come la colomba sulla testa di Cristo al suo battesimo, discende sullo spirito di ciascun elettore al momento di votare. Quindi, opporsi a una decisione conciliare, significa semplicemente opporsi allo Spirito Santo, cioè a Dio stesso.
Da tutte queste votazioni escono i materiali che servono a costruire la civiltà occidentale. Nel corso dei secoli, è nei concili che si stabilisce cos'è un corpo cristiano e cosa debba essere secondo la Chiesa (un corpo di carne da disprezzare a vantaggio dell'anima immateriale); che si stabilisce la potenza teocratica cristiana e la sua onnipotenza (una monarchia assoluta che dovrebbe permettere la realizzazione della città di Dio nella città degli uomini); che si stabilisce la complicità del potere spirituale con il potere temporale (il clero e il papato che sostengono quell'imperatore, quei re e quei principi che a loro volta li sostengono); che si stabilisce la sottomissione della ragione e dell'intelligenza alla fede e alle convinzioni (la filosofia ingiuriosamente serva della teologia); che si stabiliscono le relazioni con i non cristiani da convertire o da sottomettere (legittimazione delle guerre giuste e benedizione dei massacri perpetrati in nome di Cristo); e così via...
Una cosa che fa riflettere è scoprire che alcune delle decisioni fondatrici dell'Occidente vengono prese in concili in cui sono presenti solo pochi vescovi: 18 al Concilio di Cartagine nel 253, 14 a Colonia nel 346, 12 a Saragozza nel 380, 31 a Costantinopoli nel 448! Alcuni vescovi analfabeti non sanno nemmeno scrivere il proprio nome, mentre altri, avendo fatto studi che oggi definiremmo superiori, padroneggiano bene la retorica classica. Alcuni sono dei contadini incolti diventati vescovi nelle loro campagne e altri dei sofisti formatisi nelle scuole filosofiche. I dibattiti sono burrascosi e violenti e funzionano per acclamazione o disapprovazione rumorosa da parte della folla invitata ad assistere. A volte, si arriva persino alle mani. Dopo Costantino, l'oro scorre a fiumi e gli uomini dell'imperatore distribuiscono denaro in abbondanza per ottenere la nomina di questo o quell'altro vescovo.
Solo nel II secolo, ci furono otto concili: a Ierapoli nel 170, a Roma nel 196, a Efeso e in Palestina lo stesso anno, poi l'anno seguente, il 197, a Roma, a Cesarea e a Lione, e infine il concilio d'Africa nel 200. Quasi tutti discutono sulla questione della data per la celebrazione della Pasqua: per alcuni, che si appoggiano sui testi e sulle testimonianze degli apostoli, si deve festeggiare la domenica, giorno della resurrezione di Cristo; per altri, che si fondano su altri testi e su altre testimonianze degli apostoli, il quattordicesimo giorno del mese ebraico di Nisan, primo giorno di luna piena. I quattordici vescovi riuniti al concilio di Palestina nel 196 optano per la domenica. Il concilio d'Asia a Efeso, guidato dal vescovo locale Policarpo, rifiuta però questa decisione e minaccia, già allora, di separare la Chiesa d'Oriente dalla Chiesa d'Occidente. A Roma, poi, nel 197, papa Vittore vorrebbe scomunicare i quartodecimani, cioè quanti festeggiano la Pasqua il quattordicesimo giorno del mese di Nisan. Il concilio di Lione, guidato dal vescovo cittadino Ireneo, calma infine le acque e mantiene i quartodecimani nei gironi della Chiesa.
Due concili sfuggono a questo dibattito che, più tardi (e si capisce perché), si sarebbe potuto definire bizantino! Il primo, quello di Ierapoli, in Asia, verso il 170, si occupa di affari interni: 26 vescovi sostengono il tentativo di Apollinare, vescovo del luogo, di cacciare Montano dalla Chiesa. Montano era un teologo che aveva spesso momenti di furore estatico e che, in tali momenti, poteva persino arrivare a negare l'insegnamento dei profeti, presentandosi come lo Spirito Santo! Assieme a due donne, aveva fondato la setta dei catafrigi (i montanisti). Il secondo concilio, invece, quello d'Africa, riunisce attorno ad Agrippa, vescovo di Cartagine, alcuni prelati venuti dall'Africa e dalla Numidia. Quest'assemblea decide di non convalidare i battesimi celebrati al di fuori della Chiesa ufficiale.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 86-90, mio grassetto)

Per l'uomo cristiano medio, invitato dalla propria religione a imitare l'anticorpo di Gesù o il cadavere di Cristo, e per la donna cristiana media, costretta da questa stessa fede ad assomigliare a Maria, Vergine e Madre, come vivere con il proprio corpo? Che fare del proprio sesso e della propria sessualità, della propria libido e dei propri desideri? Dato che Gesù non sembra aver mai conosciuto alcun piacere sensuale o sessuale, dato che Cristo non fu mai altro che un grosso cadavere mutilato e sanguinolento, dato che Maria ha dato alla luce un figlio senza aver avuto rapporti sessuali con Giuseppe, che cosa rimane a coloro che abbracciano questa fede se non il farsi simili a cadaveriperinde ac cadaver, per usare un'espressione che diventerà motto per i gesuiti...
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 102, mio grassetto)

Il corpo mutilato inventato dalla Chiesa non riguarda soltanto la sessualità. Trabocca anche di prescrizioni in materia di cibo, bevande e alimentazione: il peccato di gola accompagna quello di lussuria. L'abbiamo visto, Gesù è un concetto che mangia solo simboli, ed è questo il suo piatto prediletto. Un Gesù storico avrebbe messo sul tavolo ciò che si poteva trovare in Palestina a quei tempi: bulgur alle lenticchie con pepe e cumino, cipolle e olio d'oliva, zuppa di lenticchie al limone con bietole, coriandolo e spicchi d'aglio, foglie di malva ripassate in padella con cipolle fritte, spalla d'agnello accompagnato da riso alle melanzane, pinoli e mandorle pelate, e condito con noce moscata e cannella, tajine di pesce con crema di sesamo, falafel (ceci, fave secche, cipolle, aglio, prezzemolo, coriandolo, peperoncino...), kunafa con semolino e fiori d'arancio, vino di palma, birra locale. Al posto di tutto questo, i simboli che sappiamo...
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 115, mio grassetto)

E in mezzo a tutto questo ricettacolo di gente completamente fanatica, delirante e irrazionale, ecco stagliarsi finalmente la voce della ragione nelle parole, scampate alla bastarda censura cristiana, del primo pagano anti-cristiano, il primo, autentico maestro del sospettoCelso.

Dagli anni del magistero di Gesù, all'inizio del I secolo, fino alla conversione dell'imperatore Costantino e, conseguentemente, dell'impero, all'inizio del IV, la forma del cristianesimo è molecolare, impressionista e diffranta. All'inizio è un uomo solo, Gesù; poi saranno dodici, gli apostoli; in seguito diventeranno una manciata, riuniti nelle prime comunità fondate da Paolo nel bacino mediterraneo, da Pietro nella regione romana, da Stefano, che parla greco, nei luoghi della diaspora giudaica e da Giacomo, considerato fratello di Gesù, nell'ambiente ebraico di Gerusalemme. Gli apostoli cercano di convertire professando nelle sinagoghe. I primi cristiani si riuniscono con discrezione in case di privati, fedeli all'idea che la Chiesa si trovi là dove due o tre di loro si riuniscono in memoria di Gesù. Sulla carta del bacino mediterraneo, lo sviluppo del paleo-cristianesimo è rappresentato da un arcipelago di svariate isole nell'immenso mare pagano. In questo periodo, la dottrina non è ancora stata fissata e il cristianesimo assume quindi le fattezze del cristiano che a esso si richiama.
È così che, nel I secolo, i seguaci di Giacomo vorrebbero che i giudeo-cristiani rimanessero fedeli ai riti del giudaismo; i seguaci di Pietro sostengono che Gesù sia l'ultimo profeta ebraico e porti a compimento la predizione dei profeti; i seguaci di Giovanni, millenaristi, aspettano il ritorno di Gesù sulla terra; i seguaci di Paolo vorrebbero abolire la legge di Mosè; gli ellenisti seguaci di Stefano e di Barnaba aspirano a spiritualizzare il culto. Gli adepti di queste correnti costituiscono altrettante Chiese, con tutti i problemi di dottrina e le velenose guerre tra comunità che ne derivano.
Nel II secolo, quella stella esplosa che è il primo cristianesimo si frantuma ancora di più in nuove sette: nazorei, ebioniti, elcasaiti, marcioniti, gnostici, montaniani... I nazorei, gli ebioniti e gli elcasaiti appartengono al gruppo giudaico-cristiano. I nazorei, o nazareni, sono i primi discepoli di Gesù e sono i primi cristiani; credono alla divinità di Cristo e alla sua umanità ma anche alla resurrezione dei corpi. Tanto gli ebioniti che gli elcasaiti discendono dai nazorei. I primi, però, se ne distinguono perché credono che Gesù sia nato dal seme materno di Giuseppe, rifiutando quindi il carattere divino della sua opera messianica e ritenendolo solo un uomo che ha portato a perfetto compimento la legge di Mosè: Gesù non è Figlio di Dio ma Figlio dell'Uomo, reincarnazione di Adamo e venuto a porre fine ai sacrifici; credono anche che Gesù sia l'antidoto al demonio che regna nella vita di tutti i giorni. Per i secondi, gli elcasaiti, Gesù è invece un angelo rivelatore di gigantesca statura, accresciuto, nella sua potenza, dalla formula femminile dello Spirito Santo: il suo corpo è trasmigrato di corpo in corpo, da quello di Adamo fino a quello che conosciamo.
Marcione opera una vera e propria rottura con la cultura giudaico-cristiana: armatore arricchito e mecenate, fonda la propria chiesa a Roma per poter insegnare la differenza radicale tra il Dio dell'Antico Testamento, il Dio degli ebrei, astioso e violento, geloso e vendicativo, rigido e collerico, e quello del Nuovo Testamento, il Dio padre di Gesù, il Dio dell'amore e della misericordia. Il primo fa divorare dei bambini dagli orsi perché prendono in giro un profeta (Secondo libro dei Re 2, 24), il secondo, lo sappiamo, lascia venire a sé i piccoli (Luca 18, 15-17). Il Dio veterotestamentario segue la legge del taglione; il Dio neotestamentario quella del perdono. Gesù non ha niente a che vedere con il Profeta annunciato dagli ebrei. Nella contro-Chiesa che crea, Marcione ripudia il mondo fisico e la società concreta; si rifiuta di far accrescere la potenza di questo mondo materiale cattivo ed esorta a diventare vegetariani, a rifiutare l'alcol e a moderarsi in ambito sessuale; accorda il battesimo soltanto ai vedovi e alle vedove, ai celibi, agli eunuchi e alle persone sposate che lasciano i propri congiunti; ovviamente, esorta anche al martirio...
Anche lo gnosticismo è un importante fenomeno cristiano: attraverso un linguaggio stravagante che convoca pro-padri, eoni, pleromi, ogdoad e sigizie, propone una singolare cosmogonia fatta di arconti, di potenze e di sorprendenti rituali che vanno dall'unzione dell'intero corpo con l'olio, alle orge al buio, alla comunione praticata con ostie a base di feti strappati dal ventre di donne incinte e aromatizzate a base di erbe. Si trattava, per alcuni, di vivere fino in fondo la negatività del mondo creato da un cattivo demiurgo, rotolandosi nel mare per riuscire a far sorgere il bene. Con questo loro lato libertino, gli gnostici Basilide, Carpocrate, Simone Mago, Epifanio, Cerinto e Marco, in sostanza, inventano la dialettica hegeliana...
Attorno al 156-157, oppure al 172-173, Montano comincia a professare in estasi la fine dei tempi. Dai due villaggi della Frigia dove vive, annuncia la data precisa di questa fine ed esorta i propri fedeli a prepararsi con il digiuno, l'astinenza e la contrizione. Montano sostiene di essere lo strumento di una terza e ultima rivelazione, quella del paracleto, di cui si definisce lo strumento. Annuncia l'arrivo imminente di Cristo che regnerà per mille anni sul suo popolo. Affiancato da due profetesse, Priscilla e Massimilla, Montano afferma di essere la Chiesa perché lo Spirito Santo parla per sua bocca. Proibisce le seconde nozze e non perdona i peccati commessi dopo il battesimo. La Chiesa montanista ha avuto parecchi seguaci, alcuni dei quali sono arrivati a creare le loro proprie chiese — Proclo, Eschine ecc.
All'inizio, il cristianesimo è costituito da un mosaico ideologico e spirituale, da un
patchwork concettuale e dottrinale, da un complesso intarsio di nomi e di figure. Nessuna unitarietà, nessuna linea chiara, nessuna forza che spinge in una direzione unica, solo un crogiuolo di culture. Nessuna figura ha la forza di stringere attorno a sé. Al contrario, ognuno crea una comunità da cui talora ci si stacca per dare vita ad altre sette che si divideranno probabilmente a loro volta in altre sette. Tale proliferazione è il segno del vivente che vive sé stesso. A queste energie, manca però una forma che le trasformi in una forza unica.
In questo vivaio brulicante di diversità, il II secolo è anche quello in cui comincia a fissarsi una parte essenziale del Nuovo Testamento. Questa raccolta sarà chiamata a operare un'unificazione del variegato quadro delle letterature delle diverse comunità: la
Lettera di Giacomo per i giacobiti, il Vangelo secondo Matteo e le Lettere di Pietro per i seguaci di quest'ultimo, il Vangelo secondo Giovanni per gli ellenisti di Stefano, la Lettera agli Ebrei per gli ellenisti di Barnaba, le Lettere di Paolo, il Vangelo secondo Luca e gli Atti degli Apostoli per i seguaci di Paolo. Questo passaggio rappresenta l'abbozzo di una sintesi, l'inizio della concentrazione di tutte queste forze in un'unica forma in grado di dare forza.

La frammentazione cristiana va di pari passo con la frammentazione dell'impero. Nel 284, quando Diocleziano prende il potere, l'impero sta andando a pezzi. L'impero dei galli si è ormai formato, e Spagna e Britannia vi aderiscono. Sul fronte militare, l'anarchia è totale: gli imperatori vengono proclamati ovunque e in qualsiasi momento, regnano poco, a volte solo qualche giorno, e poi si fanno assassinare. Lo Stato si sfascia: alle incessanti crisi economiche si aggiungono le crisi demografiche, le crisi di produzione, le crisi degli scambi e le crisi finanziarie. La moneta perde valore, l'inflazione tocca i massimi livelli e la pauperizzazione è galoppante. Il risultato è delinquenza e pirateria. I barbari ammassano le proprie truppe sulle rive del Reno e del Danubio: la minaccia degli Alemanni, dei Sassoni, dei Carpi, dei Sarmati, degli Iazigi, dei Vandali e dei Goti comincia a farsi pesante. La ribellione dei Blemmi sfianca l'Alto Egitto; stessa cosa per le tribù beduine in Siria e per i Mauri nella regione del Maghreb. La Persia rimane minacciosa. L'impero rischia insomma il collasso.
Per salvare il salvabile, Diocleziano mette in piedi il sistema della Tetrarchia: vengono nominati due Augusti e due Cesari associati e dipendenti. Costanzo Floro, futuro padre di Costantino, così chiamato per via della propria carnagione, è uno dei Cesari. Diocleziano rimane il primo Augusto e concentra su di sé tutti i poteri. Gli altri imperatori associati, però, devono vigilare sull'attuazione della sua politica. L'impero viene lottizzato in 104 province, ognuna delle quali suddivisa a sua volta in 12... diocesi! Appoggiato da Galerio, Diocleziano si occupa dell'Oriente mentre Massimiano, appoggiato da Costanzo, dell'Occidente. Roma ha perduto la propria preminente localizzazione geografica per trasformarsi in un'idea deterritorializzata. Ogni vent'anni, l'Augusto dovrebbe lasciare il proprio posto al Cesare, che si deve scegliere un nuovo associato. Diocleziano consacra quest'istituzione ponendola sotto il segno di Giove e di Ercole. Regna con maestà ed è, a volte, rappresentato con i tratti di Zeus.
Questa sacralizzazione del potere va di pari passo con la sua teatralizzazione: sporadicità delle apparizioni dell'imperatore, solennità dei suoi interventi, impiego della porpora e di un diadema ricoperto di pietre preziose. Alla sua presenza, ci si prosterna e si bacia la punta del martello imperiale di stoffa rara. È così che si dimostra la propria fedeltà agli dèi e all'impero. Non acconsentire a questi segni di sottomissione fa nascere immediatamente dei sospetti. Completamente assorbiti dal loro Gesù, i cristiani si rifiutano di avallare simili manifestazioni di fedeltà nei confronti del potere temporale imperiale. Diocleziano crea la monarchia di diritto divino; Costantino non dovrà fare altro che abbassarsi per raccoglierla. Il latino diventa la lingua ufficiale dell'impero. La burocrazia diventa tentacolare. Il cristianesimo si diffonde a macchia d'olio. Ma perché?
Nel suo discorso
Contro i cristiani, Celso attacca questa religione che rifiuta le leggi, le pratiche, i costumi e i rituali dell'impero. Contesta che possa essere una fede spogliata della ragione a dettare le regole là dove la ragione dovrebbe primeggiare e trionfare. Dei cristiani, denuncia il continuo ricorso a insostenibili allegorie, le puerili cosmogonie, le imposture monoteiste, la circoncisione ereditata da Mosè e tramandata da guardiani di capre, la rozzezza da ebrei ignoranti, il pubblico di gente sempliciotta e grossolana, volgare e incolta, i ciarlatani e gli impostori.Per Celso, Gesù è il frutto di una relazione adulterina di Maria con un soldato romano di nome Pantera; la madre non era dunque vergine e Giuseppe l'aveva addirittura messa alla porta. Gesù ha poi lavorato in Egitto, dove ha anche imparato la magia, riciclandola al suo rientro in Palestina, quando ha cominciato a proclamarsi Dio. Presso il Giordano, ha sostenuto (ma secondo Celso sono tutte stupidaggini) che un'«apparizione» [Celso, Contro i cristiani (I, 41), Rizzoli, Milano, 1989, p. 85.] era scesa su di lui e una voce si era fatta sentire. Perché un angelo sarebbe dovuto venire ad annunciare la collera di Erode quando Dio avrebbe potuto accontentarsi, se veramente si fosse trattato di suo Figlio, di risparmiargli questa minaccia facendolo arrivare al potere prima possibile? E i suoi miracoli? Nient'altro che i giochi di prestigio di un mago ambulante. E il suo corpo? Una finzione che non ha niente a che vedere con un corpo reale e concreto. Celso lo scrive chiaramente: «Nemmeno mentendo riusci[te] a rivestire di credibilità le vostre menzogne». [Ivi (II, 26), p. 101.] Per poi aggiungere che tutte queste storie sono state consegnate alla pagina scritta e rimaneggiate tre o quattro volte in modo da eliminare tutto ciò che poteva essere soggetto a confutazione in maniera più evidente e manifesta.
Come possiamo credere a simili stupidaggini? Si tratta d'insegnamenti esoterici cementati assieme grazie a vecchi racconti e a vecchie leggende.
Un uomo che si proclama Dio ma non riesce nemmeno ad assicurare la propria salvezza; «un millantatore e un ciarlatano», [Ivi (II, 32a), p. 103.] in altre parole un maestro stregone che vorrebbe convertire il mondo intero ma non è neanche capace di evitare la discordia tra i suoi propri apostoli; un individuo dai poteri favolosi che non riesce però ad aprire da solo la porta della propria tomba e per farlo ha bisogno di due angeli; un uomo resuscitato che appare soltanto ai suoi amici, che peraltro non avevano bisogno di essere convinti: una donna stregata, alcuni testimoni dall'animo turbato, «una donnetta e [...] quelli della sua confraternita», [Ivi (II, 70b), p. 113.] ma mai ai propri nemici, o a Ponzio Pilato, cosa che avrebbe avuto un notevole effetto di persuasione; un profeta che avrebbe potuto volarsene in cielo una volta crocifisso, creando anche qui un innegabile effetto di propaganda; ma anche un apostolo che si dimostra incapace di convincere grazie alle proprie facoltà intellettuali e ha invece bisogno di invocare la maledizione su quanti non credono e non crederanno in lui.
Celso considera ugualmente ridicole le incessanti lotte tra ebrei e cristiani; «la loro disputa circa il Cristo non è per nulla diversa dalla proverbiale contesa sull'ombra dell'asino». [Ivi (III, 1), p. 119.] Molto prima di Freud, ritiene che gli ebrei siano degli egiziani che hanno fatto la loro secessione dal paese d'origine; sostiene che gli ebrei rappresentino per gli egiziani quello che i cristiani rappresentano per gli ebrei: scismatici mossi da spirito di parte. Scrive: «All'inizio erano in pochi ed avevano una sola opinione; disseminatisi fino a diventare moltitudine, ecco che a loro volta si dividono e si separano e ciascuno vuole avere la sua propria setta, perché questo fin dal principio essi cercavano. Divisi ancora, comunque, a causa della moltitudine, si confutano a vicenda mantenendo comune, per così dire, una sola cosa, se pur la mantengono: il nome. Questo solo almeno si vergognano di abbandonare, mentre per tutto il resto chi ha assunto una posizione, chi un'altra». [Ivi (III, 10-13), p. 121-123.]
Celso era probabilmente un filosofo neoplatonico e non capiva che i cristiani si facevano vanto del fatto di rifiutare la cultura, le lettere, la ragione e l'intelligenza, e di celebrare l'ignoranza, la mancanza di cultura e tutte le altre virtù dei semplici di spirito. Perché puntare alle donne, ai bambini, agli schiavi, ai facchini, agli operai tessili, ai calzolai, «la gente più ignorante e più rozza»? [Ivi (III, 55), p. 135.] Per quale ragione rivolgersi al peccatore, vale a dire all'uomo ingiusto, al bandito, al rapinatore, all'avvelenatore, al sacrilego, al profanatore di tombe? Vogliono forse migliorare i cattivi? Se questo è vero, che illusione, che ingenuità! E chi è questo Dio che preferisce il ladro al derubato, il bandito all'uomo onesto, il cattivo al buono? Un Dio ingiusto...
Celso smonta la mitologia cristiana: Dio che scende in terra? Un palese suicidio per via della compromissione con la materia. Dio che crea l'uomo e la donna con il proprio respiro e un po' di terra e un serpente che parla? Favole per signore anziane. Il Diluvio e l'Arca di Noè? Storielle per bambini. L'uomo al centro della Creazione e il dominio sugli animali? Sciocchezze, Dio non ha fatto il mondo né per gli uomini né per gli animali ma per la perfezione in sé del mondo. Il cielo riempito di angeli e di altre stravaganti creature? Tutte idiozie... In cielo ci sono solo astri e stelle, cosa di cui i cristiani si fanno beffe perché nei confronti della scienza nutrono solo disprezzo. E il mondo creato in sei giorni quando i giorni non sono ancora stati creati? E la condanna al fuoco dell'Inferno? E la resurrezione della carne? Stupidaggini.Il discorso
Contro i cristiani passa poi ad analizzare criticamente il loro rifiuto di sacrificare alle divinità dell'impero e la loro volontà di separarsi dal resto della società civile. I cristiani si rifiutano di condividere i doveri civili, di partecipare agli affari pubblici, di portare armi, di prestare servizio militare, di sostenere le logiche poliziesche e militari dell'impero. In realtà, se i cristiani sono stati perseguitati, non è assolutamente a causa della questione del loro dio, ma soprattutto perché si sono sempre rifiutati di entrare a far parte della comunità civile, civica, e perché si sono sempre sottratti a quella che più tardi verrà chiamata Nazione. Diocleziano li perseguiterà. Che cosa può farsene, in effetti, di questo esercito di obiettori di coscienza che lasceranno morire l'impero piuttosto che onorarlo, servirlo o difenderlo?
Celso si domanda come possa il cristianesimo prosperare in questo modo insegnando cose tanto contrarie alla ragione. La questione posta nel suo discorso, però, trova risposta nel corpo stesso dell'analisi: le persone oppresse dall'impero sono tantissime. Chi si preoccupa, in effetti, dei poveri, delle persone modeste e indifese, degli umili, degli artigiani, dei lavoratori, dei disoccupati? Chi pensa e parla per lo schiavo, per la donna, per il bambino, per l'anziano? Chi si rivolge ai tessitori, ai calzolai, ai facchini e ai pregiudicati in un impero la cui corte sprofonda sotto il peso dell'oro, dei gioielli, delle pietre preziose e dei pomposi cerimoniali nei suoi fastosi palazzi? Nel discorso dei cristiani, semplice, semplicistico e allegorico fino all'infantile, il proletariato dell'impero trova qualcosa per cui entusiasmarsi.
Come non rimanere sedotti dal
Discorso della montagna, che rappresenta per Gesù l'occasione per illustrare le Beatitudini? Cosa dice Gesù?
Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi (Matteo 5, 3-12).  

Questo testo rappresenta, in realtà, una doppia benedizione innanzitutto per i poveri, perché legittima e giustifica la loro stessa povertà. Più poveri saranno su questa terra, più ricchi saranno nell'altro mondo. Come non aderire a una promessa che finisce addirittura per giustificare che si voglia essere ancora più poveri sotto Cesare alo scopo di ritrovarsi tanto più ricchi presso Dio? Il basso impero al collasso è affollato da vittime cui il cristianesimo parla innanzitutto promettendo la ricompensa dopo la morte. Si tratta dei poveri in spirito privati, proprio a causa della loro povertà, del sapere, della cultura, delle lettere e dell'educazione; di quanti sono nel pianto e subiscono il giogo dei padroni che servono o di cui sono schiavi; dei miti che non possono permettersi di essere intransigenti perché la loro posizione sociale è debole; di quanti hanno fame e sete di giustizia e sono invece costretti a subire l'ingiustizia di chi ha potere su di loro; dei misericordiosi che non hanno mezzi per rispondere alla legge del taglione; degli operatori di pace che sono incapaci di fare la guerra perché sono disarmati; di quanti sono perseguitati, insultati e diffamati.
Per lo stesso motivo, questo testo rappresenta una benedizione
anche per i potenti: questi ultimi hanno, in effetti, ben compreso la carica controrivoluzionaria di simili dichiarazioni. Le Beatitudini avallano la miseria e gli equilibri di potere sulla terra: perché mai si dovrebbe voler risolvere la propria condizione di miseria dato che più si sarà miserabili su questa terra, più grande sarà la ricompensa nell'altro mondo? Quali interessi potrebbero avere, gli umiliati e gli offesi, i poveri in spirito e quelli che sono nel pianto a volere abbandonare la propria meschina condizione dal momento che essa rappresenta la ragione stessa della loro salvezza? Presentare la povertà del povero come la sua univa e vera ricchezza permette al ricco di arricchirsi ancora di più alle sue spalle. Se il Gesù delle Beatitudini è un controrivoluzionario perfetto, il Gesù di San Paolo, con la sua dottrina secondo la quale ogni potere proviene da Dio, è invece uno straordinario collaboratore delle istituzioni. La povertà del povero è voluta da Dio ed è una grazia — le vie del Signore sono imperscrutabili.
Fin tanto che le sette rappresentano il suo orizzonte, il cristianesimo rimane una religione di schiavi che giustifica il loro stato agli occhi degli oppressi. Quando, per decisione di un solo uomo, cioè l'imperatore Costantino, questa setta diventa religione, ecco che quest'ambiguità comincerà a giocare assai efficacemente. Da una parte, i poveri resteranno poveri e se ne andranno direttamente in paradiso dopo la morte. Dall'altra, i poveri sono e rimangono tali perché è lo stesso Dio della povertà dei poveri a concedere loro il potere. Con una simile dottrina che, in un'unica mossa, confonde i poveri e incorona i principi, la vittoria era inevitabile. Per realizzare tutte queste cose nei fatti, mancava solo un uomo dalle virtù di un gangster. Ed è stato Costantino a rappresentare questa benedizione per i cristiani.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 122-128, mio grassetto)

Uno dei meriti da annoverare ad Onfray è di aver sbugiardato completamente quella puttana di Sant'Elena, la madre di Costantino, per quella autentica prostituta che fu. Mai evemerizzatrice fu più diabolica!

La madre di Costantino era inserviente in una bettola in Bitinia — un corrispettivo delle nostre «osterie per camionisti», come scriveva il mio vecchio maestro Lucien Jerphagnon nel suo Julien dit l'Apostat (Giuliano, detto l'Apostata). Nell'orazione funebre per Teodosio, pronunciata nel 395, quindi molto dopo la morte dei diretti interessati, sant'Ambrogio, con coraggio ma senza temerarietà, la trasforma in locandiera, con il compito di assicurare all'occorrenza anche prestazioni sessuali... Dato che non esiste biografia di Elena che non sia agiografica, nella maggior parte dei casi, l'informazione viene passata sotto silenzio oppure distorta fino a fare di lei la gentile albergatrice di una stazione termale in cui il genitore di Costantino, il terribile legionario romano Costanzo Cloro, sarebbe un giorno capitato per farsi massaggiare la carcassa dopo i rigori delle campagne militari. Costantino sarebbe, insomma, nato con i favori di una cura termale.
[...]
Elena, la madre dell'imperatore, diventata anche lei imperatrice, mette le sue cristiane mani in pasta: nell'autunno del 326, all'età di ottant'anni, parte in pellegrinaggio per la Terra Santa. La letteratura agiografica sostiene lo faccia per espiare le colpe del figlio; io penso che sia piuttosto per perfezionare l'impresa di cristianizzazione nell'impero. Si tratta insomma di acquistare al figlio popolazioni che, ovunque passa, compra distribuendo grandi quantità di monete d'oro — l'agiografia parla di carità e noi ci immaginiamo benissimo come tutte queste liberalità fossero destinate ai soli discepoli della setta. Questa stessa tradizione agiografica scrive che fece liberare dei prigionieri. Si dimentica però di precisare: a condizione che fossero cristiani.
Sul posto, in Palestina, la grazia che molto aveva fatto per il figlio dà anche a lei un aiutino. Sui luoghi della finzione cristica sono stati condotti degli scavi archeologici. il vescovo Macario non ne ha ricavato nulla, ma a Elena tocca il primo premio: sul Calvario fa distruggere il capitolo costruito sopra l'antico Tempio biblico, sulla cui cima troneggia una statua di Venere, e salta fuori che si tratta della tomba di Cristo. Non lontano da lì, in una cisterna, scopre tre croci e il
titulus, cioè il pezzo di legno con la scritta: «Gesù Cristo re dei giudei». Quasi quattro secoli più tardi, tutto è ancora intatto. Miracolo. C'è però un dilemma: su tre croci, una sola è quella buona, le altre due sono quelle dei ladroni. Come fare? Viene portata una donna moribonda Davanti a due delle tre croci questa donna rimane insensibile, però al contatto con la terza, si alza e cammina, guarita. Altri storici cristiani riportano la storia non con una moribonda ma addirittura con una morta che resuscita.
È fortunata: trova anche i quattro chiodi. Al ritorno però, per placare la furia del mare che minaccia di inghiottire la barca con tutto il suo equipaggio, ne butta uno in acqua: essendo cristiano anche lui, il mare si calma. L'episodio stupisce perché i chiodi li aveva spediti al figlio. Come poteva averne altri con sé? Miracolo... Costantino, comunque, fa inserire questi chiodi nel metallo dell'elmo e del morso del cavallo. Con simili amuleti, come potrà non vincere sui campi di battaglia? Altra fortuna di Elena: ritrova la corona di spine. E un'altra ancora: ritrova la scala calpestata da Cristo salendo al Calvario. Sempre più fortunata, ritrova pure le tuniche: quattro secoli più tardi, anche quella stoffa non manca del miracoloso.
Tutto questo dà l'avvio ad uno spaventoso culto delle reliquie. Nel 326, a Roma, il potere apre e finanzia una Casa delle Reliquie della Passione. Nel giro di due anni, Costantino ed Elena fanno costruire, sui cosiddetti Luoghi Santi, più di 28 basiliche. Non si contano più i veri frammenti della vera croce, con cui si potrebbe costruire un grattacielo di legno; o le vere spine della corona di Cristo che basterebbero a far sorgere una foresta. Per custodire questi idoli che anche un pagano avrebbe potuto non rinnegare, vengono erette molte chiese. Elena fa portare un po' di terra di Gerusalemme per coprire la cappella privata del suo immenso palazzo. Questo culto morboso inaugura, assieme a quello dei martiri, il solco thanatofiliaco del cristianesimo. Addio al dolce e pacifico Gesù della pace. Quelli che rimangono sono i brandelli del cadavere di Cristo e gli strumenti della Passione, altrettante esortazioni a identificarsi con lui.
Queste scenografie, queste teatralizzazioni, queste spettacolarizzazioni destinate al più vasto pubblico di persone sensibili alle favole e alle storie di magia, cancellano l'anticorpo di Cristo. Elena e suo figlio procurano all'incarnazione la sua realtà: avendo ritrovato le tre croci, il
titulus, le tuniche, la corona di spine, i chiodi, la tomba e i gradini, Gesù deve per forza essere esistito. Chi potrà dubitarne ora? La verità del cristianesimo si trova nelle prove che Cristo è esistito. «L'invenzione della Santa Croce», come scrive Jacopo da Varagine nella sua Leggenda aurea, diventa quasi una confessione... L'etimologia latina, però, permette di avvicinare «invenzione» a inventio, che in latino significa scoperta... Ecco quindi che l'invenzione diventa la scoperta, in altre parole il contrario dell'invenzione! Elena muore nell'estate del 329, non si sa dove, però alla presenza del figlio. I suoi funerali sono sfarzosi. Mausoleo di porfido e dispendio di pietre e metalli preziosi. Il popolo la dichiara santa subito. Costantino non può fare altro che accontentare i desideri del popolo! Dall'XI al XIII secolo, colei che inventa il corpo reale di Cristo immaginando gli oggetti che furono suoi, diventa la «regina delle crociate» perché la Croce è nel frattempo diventata una questione politica importantissima. È lei che ha inventato il pellegrinaggio in Terra Santa, quindi il pellegrinaggio tout court, e le crociate, grande momento di furore cristiano.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 128-137)

E dovunque c'è una prostituta — e Sant'Elena certamente lo fu —, ecco il suo equivalente maschile in quel bastardo di Eusebio di Cesarea (tra le altre cose, il vero interpolatore di tutto il Testimonium Flavianum nel testo di Flavio Giuseppe): 

C'è mancato poco perché l'arte non fosse quella che è stata in Occidente. La controversia sulle immagini, con i suoi iconoclasti e i suoi iconoduli, ha messo, in effetti, la civiltà giudaico-cristiana sull'orlo di un precipizio. Nel 312, Costantino inventa a suo modo l'arte cristiana ordinando un'opera di oreficeria a un artigiano che realizza un gioiello d'oro guarnito di pietre preziose con il segno cristiano che egli era apparso in cielo e che diventò poi quello della vittoria. Nella sua
Vita di Costantino, Eusebio ce lo descrive:
Era una lunga asta rivestita d'oro con un braccio trasversale che formava una croce; in alto, sulla sommità di tutto l'insieme, era fissata una corona intrecciata di pietre preziose e d'oro, sulla quale due lettere, che indicavano il nome di Cristo attraverso i due primi caratteri, alludevano al titolo del Salvatore, un rho che si intersecava esattamente nel mezzo di un chi [...]. Sul braccio trasversale che stava confitto nell'asta, era appeso un tessuto: un drappo regale ricoperto da una varietà di pietre preziose saldate insieme che emanavano bagliori di luce, riccamente intessuto d'oro, che offriva agli sguardi uno spettacolo di indicibile bellezza. Questo stendardo fissato al braccio trasversale aveva uguale misura in lunghezza e in altezza; l'asta verticale, che dall'estremità inferiore si estendeva di molto verso l'alto, recava sotto il trofeo della croce, nella parte superiore del drappo decorato, il ritratto del busto dell'imperatore caro a Dio, riprodotto in oro accanto a quello dei suoi figli. L'imperatore fece sempre ricorso a questo segno salvifico come baluardo contro ogni forza avversa e nemica e ordinò che copie di esso fossero messe alla testa di tutti i suoi eserciti. [Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino (I, 31, 1-3), cit., pp. 121-123.] 

La croce, l'oro, le pietre preziose, il nome di Cristo, l'intarsio di fili d'oro, l'immagine dell'imperatore, insomma c'è tutto: la rarità dei metalli e delle pietre, quindi il costo elevato; il segno con cui Dio si manifesta e il volto di colui cui questo segno è stato offerto, quindi l'ideologia; la riproducibilità, quindi l'effetto mediatico (per dirlo seguendo l'etimologia); la moltiplicazione dell'oggetto per ottenere la moltiplicazione della propria potenza, quindi la natura magica dell'opera. Quest'oggetto rappresenta la data di nascita dell'arte cristiana.
Prima di Costantino, l'arte cristiana non esiste. Stupisce che la prestigiosa collana diretta da Malraux, «L'universo delle forme», che si propone di coprire la totalità dell'arte del pianeta, in tutti i tempi e a tutte le latitudini, intitoli
L'arte paleocristiana un'opera il cui sottotitolo è (200-395). Dobbiamo forse intendere che non c'è arte cristiana tra la morte di Cristo, nel 33, e questa data, il 200, che apre il III secolo? Esistono due secoli del cristianesimo senza arte cristiana? Che cosa ne dobbiamo concludere?
La cosa più semplice sarebbe dire che, prima di questa data, non esiste un cristianesimo, ma solo alcuni dispersi focolai che si richiamano in modi diversi a Cristo. Gli uni, come gli encratisti, esortano all'ascesi più assoluta; gli altri, come i depravati gnostici, incitano alla dissolutezza e alla baldoria sfrenata. Certi, come Tertulliano nel suo libro
L'anima, affermano che l'anima è corporea; altri, come Clemente Romano, che essa è immateriale. Da una parte, Marcione se la prende con il Dio dell'Antico Testamento per accogliere solo il Dio dolce e buono del Nuovo; dall'altra, Giustino cerca la propria ispirazione nei profeti. Una volta, Ireneo di Lione combatte le eresie; un'altra, Montano ne crea una tutta nuova... Non esiste un corpus chiaro, una linea netta, un'ideologia ufficiale e federatrice: il cristianesimo è formato dalle piccole isole di un arcipelago.
Di conseguenza, l'arte di questo periodo è rappresentata da steli funerarie, da sepolcri scolpiti, da affreschi in catacombe, da volti anonimi sopra i sarcofagi, da pitture in basiliche sotterranee: insomma da opere dell'ombra, nell'ombra e per l'ombra. Il proselitismo non è all'ordine del giorno; a dettar legge è la clandestinità. L'arte è un segno del riconoscimento tra i pari che si riuniscono rispettando il principio della fratellanza e delle affinità elettive. Tutto quello che era di legno, di vetro, di terra e di carta è scomparso, si è corroso, è stato distrutto, si è rotto, si è bruciato, si è putrefatto.
In questo periodo, niente croci o crocifissioni, niente apostoli o frammenti della vita di Gesù, solo un Orfeo, un bambino nudo che gioca con il flauto di Pan, un pastore che porta una pecora sulle spalle, Caino e Abele che recano offerte, Giacobbe che arriva con i figli in Egitto, un magistero sul pulpito, un banchetto eucaristico, il
Discorso della montagna, un uomo nudo che miete, alcuni uccelli che nutrono i propri piccoli in un nido, una ragazza che ascolta un filosofo. Insomma, un miscuglio di antico paganesimo e cristianesimo nascente, un misto di vecchia mitologia greca e giovani favole cristiane. All'inizio del III secolo, un Cristo aureolato e colto nel suo costume da Apollo-Elio mentre guida la sua quadriga in mezzo agli arabeschi della vite: eppure siamo in Vaticano, nella necropoli ritrovata sotto la basilica costantiniana di San Pietro! Una continuità come questa, tra Antichità e cristianesimo, non è rara in quegli anni.
Il regno di Costantino è quello della nascita dell'arte cristiana. Lui e sua madre costruiscono un numero impressionante di basiliche: architettura, scultura, mosaici, oggetti liturgici, affreschi, oreficeria. Appare la prima vetrata: dal IV secolo, alcuni artigiani cominciano a utilizzare foglie d'alabastro che lasciano passare la luce incastonate in quadrature di legno. Tutto esplode e riluce. Oro e pietre preziose: niente è considerato abbastanza bello per celebrare degnamente  la verità, la bellezza e la grandezza di Dio, e conseguentemente dell'imperatore cristiano che è il suo rappresentante sulla terra. Con Costantino, l'arte diventa politica: il Bello racconta il Bene nello Stato.L'arte cristiana ha certamente espresso una sensibilità intellettuale, una spiritualità, una visione del mondo, ma è anche stata un formidabile strumento di dominio delle masse. Dai fasti dell'impero cristiano (pensiamo a Bisanzio) alla più piccola chiesa di campagna di un villaggio abitato da un pugno di persone, l'arte ha certo descritto quello che i Vangeli raccontavano, ma ha anche fornito un corpo di carne a quel Gesù che non è mai esistito fisicamente e alla Vergine Maria, che non è mai esistita neppure lei, raccontando una Natività e una Crocifissione che non hanno mai avuto luogo. La stessa cosa va detta di tutti gli altri episodi conosciuti della mitologia cristiana.
Sono, in effetti, innumerevoli le scene che raffigurano ciò che non è mai accaduto e che fanno esistere qualcosa che non esisteva prima del gesto estetico. La cristallizzazione di una scena in una forma visibile la rende vera proprio perché mostrata.
Ecco, quindi,
L'infanzia della Vergine, L'Annunciazione, La Visitazione, La Natività, L'adorazione dei pastori, L'adorazione dei re magi, Il massacro degli innocenti, La circoncisione, La Presentazione al Tempio, La fuga in Egitto, La Vergine col bambino, La Sacra Famiglia, Gesù fra i dottori, La tentazione del deserto, Il discorso della montagna, Le nozze di Cana, Gesù e la samaritana, La pesca miracolosa, Gesù che cammina sulle acque, Maria Maddalena ai piedi di Cristo, La resurrezione di Lazzaro, La guarigione del paralitico, L'adultera, La moltiplicazione dei pani, le varie parabole (Il buon samaritano, Il servo senza pietà, Il ritorno del figliol prodigo, Il ricco stolto, I ciechi, Le dieci vergini, La zizzania, I lavoratori della vigna...),  L'entrata a Gerusalemme, I mercanti del tempio, Il denaro di Cesare, Il lavaggio dei piedi, L'ultima cena, Il giardino degli ultimi, Il bacio di Giuda, Il rinnegamento di Pietro, Gesù davanti a Pilato, La corona di spine, La flagellazione, La croce, La crocifissione, La salita al Calvario, La deposizione dalla croce, Il compianto del Cristo morto, La resurrezione, Maria Maddalena alla tomba, l'apparizione ai discepoli, I discepoli e la cena di Emmaus, L'incredulità di San Tommaso, L'ascensione, La Pentecoste, La dormizione della Vergine, L'assunzione, L'incoronazione della Vergine, Il martirio di Santo Stefano, Paolo sulla strada per Damasco, Paolo ad Atene, Paolo a Efeso, Il giudizio universale...
Come potrebbe, questa realtà, non essere vera dal momento che la finzione ce la mostra in una forma che l'eternità non riuscirà mai a cambiare? Chi potrà mai dubitare che Gesù sia veramente esistito dopo che ci si è abbeverati alle sue immagini, alle sue sculture, agli oggetti preziosi che lo rappresentano? Quale spirito forte potrebbe resistere a questa propaganda venuta da ogni arte: dalla musica, dalla pittura, dalle icone, dall'architettura, dall'oreficeria, delle sculture, dall'ebanisteria, dalla tappezzeria, dalla gioielleria, dall'arte delle incisioni, dalla poesia? Tutto è lecito per fornire un'immagine a questo Cristo senza volto, per incarnare questo Gesù senza carne. Il vero corpo di Cristo è il corpo estetico presente dappertutto. L'arte permette la sua ubiquità: non è da nessuna parte perché è dappertutto, in oro e in marmo nella basilica di San Pietro, epicentro nucleare del cristianesimo ma anche in legno o dipinto nella piccola chiesa romanica del paesino in cui sono nato, Chambois, nel dipartimento dell'Orne. Chi potrebbe avere sufficiente libertà intellettuale per non soccombere sotto il peso della moltiplicazione di questi oggetti di propaganda religiosa?
Con l'arte, la finzione diventa realtà; e la realtà, una finzione. Prendiamo, ad esempio, la crocifissione: nella storia dell'arte occidentale, ne esistono milioni. Dall'opera in avorio esposta al British Museum e considerata come la prima crocifissione a noi conosciuta (420-430), fino a quelle che dipingono i nostri contemporanei, come la magistrale
Crocifissione secondo Combas (1991), tutti raccontano la stessa cosa: un uomo con le braccia aperte viene appeso con dei chiodi a una croce latina. Tutti i grandi artisti si sono sottoposti a questo esercizio di stile che assicura la vera e propria incarnazione di Cristo: fra' Angelico, Tiepolo, Perugino, Velázquez, Grünewald, Goya, Gauguin, Ensor, Bruegel, Blake, Dalì, Altdorfer, Maurice Denis, Otto Dix, Rouault, Rubens, Mantegna, Masaccio, El Greco, Tintoretto, Tiziano, Zurbarán, Veronese, Bacon, Delacroix, Van Eyck ecc.

Che cosa ci racconta invece la storia? Ammettiamo pure l'esistenza storica di Gesù, anche solo in forma minimale. Diciamo pure che è stato uno dei numerosi illuminati che, in quegli anni, se ne andavano in giro ad annunciare il regno dei cieli (la cosa non ci fa comunque avanzare molto, dal punto di vista storico). Diciamo pure che questo ebreo eterodosso che sosteneva di essere il Messia tanto atteso è stato sufficientemente imbarazzante per gli ebrei vecchio stampo da farli infuriare. Diciamo pure che anche il potere imperiale romano ha giudicato quest'uomo pericoloso per l'impero (anche se non riusciamo bene a capire come un uomo avrebbe potuto far vacillare da solo l'intero sistema romano senza che gli storici contemporanei non lo registrassero in qualche modo). E diciamo infine che anche Ponzio Pilato se ne è lavato le mani concedendo agli ebrei quello che chiedevano, cioè la morte di colui che si autoproclamava re dei Giudei. Che cosa ne possiamo concludere?
Che le cose non sarebbero per niente andate come la pittura ce le presenta. Se sovrapponiamo ipoteticamente tutti questi quadri, otteniamo un corpo di Gesù assolutamente asettico: questa incarnazione si rivela molto deludente rispetto a una vera incarnazione. Proviamo a prendere per reali le informazioni che gli evangelisti ci danno: prima della crocifissione, Gesù subisce una serie di oltraggi. Viene innanzitutto flagellato. Ora, la flagellazione è praticata colpendo a mezzo di una frusta con cinghie di cuoio (Giovanni 19,1). La violenza dei colpi strappa e gonfia la carne; un corpo reale e concreto reagisce a questo genere di trattamenti con ingrossamenti e tumescenze. In seguito, lo schiaffeggiano, lo picchiano, gli sputano in faccia (Matteo 26,67, Marco 14,65, Luca 22,64), lo colpiscono alla testa (Matteo 27,30). Poi gli mettono una corona di spine sulla testa (Giovanni 19,2). Infine, sulla croce, gli trafiggono il fianco, facendo uscire sangue e acqua (19,34). Prendiamone atto.
Come potrebbe dunque, questo corpo, presentare un aspetto simile a quello descritto dai dipinti, e cioè bianco, liscio, senza peli sul petto, senza peli sotto le ascelle, senza peli sul pube e senza tracce di emoglobina? Il pestaggio in piena regola che aveva subito avrebbe dovuto far scomparire il suo incarnato sotto una tunica di sangue. Soltanto
L'ultima tentazione di Cristo, il film di Martin Scorsese del 1988, ci mostra come avrebbe potuto essere questo corpo tumefatto, devastato e annientato dalle torture, dopo la salita al Calvario, quando anche i testi ce lo descrivono talmente sfinito da dover essere portato ansimante e agonizzante. Di sicuro non avrebbe ricordato il corpo asessuato dell'ariano tramandato dalla nostra tradizione artistica. Perché, dobbiamo ricordarlo, Gesù è stato un ebreo e il suo corpo doveva essere quello di un semita originario di quella regione, in altre parole: abbronzato, di carnagione molto olivastra e co i capelli ricci — più Yasser Arafat che Klaus Kinski.
A parte una o due colature attorno ai chiodi, l'unico sangue sempre presente sui dipinti è un sangue simbolico, non un sangue reale, ed è quello che sgorga dalla ferita inferta dalla lancia del centurione romano dopo la morte del suppliziato. Si tratta, però, di un liquido che si rivela subito simbolico: l'acqua e il sangue che escono (Giovanni 19,34) non sono né linfa né sangue, come il farmacista Homais potrebbe credere con le sue analisi di laboratorio in mano ma acqua battesimale e sangue eucaristico che, riuniti, simboleggiano la fonte di vita eterna che scorre dalla piaga dell'Agnello sacrificale.
Gesù crocefisso? E sia... Ma su quale tipo di croce? La tradizione estetica ha deciso che si trattava di una croce a quattro braccia, la cosiddetta
crux immissa, quella che ormai conosciamo tutti bene, il crocefisso classico. Niente però ci permette di avallare veramente questa ipotesi. Avrebbe anche potuto essere una croce a tau, la cosiddetta crux commissa, o croce di Sant'Antonio, una croce che deliziava tanto i Padri della Chiesa, sempre alla ricerca di simboli, perché ricordava la prima lettera di Dio in greco - la T di «theos». Poteva anche essere una croce a quattro braccia, che Gregorio di Nissa sosteneva riunire nella sua forma tutto ciò che è, ma poteva anche essere una croce a Y. Oppure un tronco d'albero, un semplice pezzo di legno. Tutto è possibile. Si trattò probabilmente di una piccola croce, alta poco più di un uomo, quindi meno di due metri e molto lontana dalle immense croci con le loro cime che toccano il cielo...
Nel dubbio storico, il cristiano non si astiene. È il famoso concilio in Trullo, o concilio Quinisesto, che decise a Costantinopoli nel 692 come si sarebbe dovuta rappresentare da quel momento in poi la crocifissione: «Noi ordiniamo che, a partire da ora, al posto del vecchio agnello, si compongano, anche nelle immagini, i tratti umani dell'agnello che ha fatto scomparire i peccati del mondo, Cristo nostro Dio: così noi avremo riportato nei nostri spiriti la grandezza del Verbo di Dio in tutta la sua umiliazione e la memoria del suo comportamento carnale, e saremo edificati dalle sue sofferenze e dalla sua morte salvifica così come dalla redenzione che ne è derivata per il mondo». [
Canone, LXXXII, Mansi, XI, coll. 977-980.] In altri termini: «Il pittore dovrà condurci, come per mano, al ricordo di Gesù vivo in carne, che soffre e muore per la nostra salvezza e che acquista in questo modo la redenzione del mondo».
In effetti, nel cristianesimo primitivo, cioè ai tempi delle persecuzioni, i credenti raffiguravano Cristo come un agnello, come un'ancora o come un pesce: il buon pastore che salva i suoi piccoli animali, l'ancora che rappresenta l'arrivo nel porto tranquillo e lontano dalle tempeste, l'acronimo che gioca con le lettere delle parole greche «pesce» e «Cristo». Con questa decisione conciliare, scegliendo la Croce, simbolo della sofferenza, del supplizio e del mutilato da imitare per essere salvati, il cristianesimo finisce per aderire a un'estetica thanatofiliaca, differenziandosi così dai primi cristiani che avevano preferito la vita.
Nella maggior parte dei casi, in cima alla croce latina si trova il
titulus, il famoso pannello di legno con la scritta che notifica i motivi della condanna di Gesù e sulla quale nemmeno gli evangelisti riescono a mettersi d'accordo! «Il re dei Giudei!», secondo Marco (15,26); «Costui è Gesù, il re dei Giudei», secondo Matteo (27,37); «Costui è il re dei Giudei», precisa Luca (23,38); e Giovanni dice «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» (19,19). Va detto che nessuno degli evangelisti era presente e che nessun cristiano ha assistito alla crocefissione, se non da lontano; gli apostoli erano altrove, Maria non c'era e nessuno degli storici dell'epoca ha mai raccontato di questa crocifissione — tutto assolutamente normale, perché, secondo la mia ipotesi, Gesù ecc.
Ammettiamo ancora una volta che questo famoso
titulus sia esistito veramente e che Elena, la madre di Costantino, ritrovandolo, ne abbia provate la verità e la realtà. Non lo si sarebbe però potuto inchiodare in cima alla croce perché questa croce non avrebbe avuto una cima, essendo l'ipotesi del «tau» la più verosimile. Sarebbe stato appeso al collo di Cristo, come un'insegna, come un cartello umiliante. Fino a prova contraria, non mi pare che esistano raffigurazioni estetiche di questa disposizione che sembra essere storicamente la più probabile.
Sembra che questa crocifissione sia stata inventata da uno scriba che, tenendo sotto gli occhi il salmo XXII, modella l'ipotesi della venuta di quel famoso Messia annunciato e descritto in questo passaggio veterotestamentario: «Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato le mie mani e i miei piedi» (Salmi 22,17). Per perfezionare il ritratto della maledizione, aggiungiamo a queste righe quanto si legge nel
Deuteronomio: «L'appeso è una maledizione di Dio» (21,13). Il collage di frammenti dell'Antico Testamento permette così di costruire il Nuovo.
Per farlo, basterà inventarsi dei chiodi, una specialità neotestamentaria!
Solo che le rappresentazioni pittoriche si rivelano anatomicamente fuorvianti. I chiodi alle mani e ai piedi non possono essere seriamente presi in considerazione perché il peso della carne avrebbe squarciato la mano, lasciando cadere il corpo. Se invece fossero stati conficcati tra radio e ulna, avrebbero potuto permettere a una persona che si fosse dibattuta come un demonio di schiodarsi, un rischio che evidentemente i carnefici non erano propensi ad assumersi. D'altra parte, mettere dei chiodi ai piedi e lasciare questi ultimi appoggiati sopra una specie di tavoletta avrebbe impedito il supplizio, perché la crocifissione è una morte per asfissia, in cui, appendendo il corpo, si blocca la cassa toracica. Si sarebbero dovute allora spezzare le tibie in modo che il corpo non riuscisse più a trovare punti d'appoggio e finisse per collassare. I due ladroni hanno, in effetti, subito questa tortura, ma non Cristo, il quale, dopo sei ore sulla croce, quando i soldati romani si convincono a farla finita, è già morto. Sei ore per qualcuno che era conciato così male da dover essere issato boccheggiante sulla croce, è comunque un sacco di tempo! Una resistenza eccezionale per un Dio che si fa uomo...
Se crocifissione c'è stata, l'archeologia può darci un'idea di cosa fosse: i chiodi erano piantati lateralmente, nell'osso della caviglia, e i piedi erano fissati da una parte e dall'altra del legno della croce. Una piccola tavoletta di legno veniva utilizzata per trafiggerli in senso perpendicolare al tallone e inchiodarli. Quando appare dopo la morte, per convincere Tommaso l'incredulo che si tratta proprio di lui, Gesù mostra i buchi che ha alle mani e ai piedi (Luca 24,40) e poi quello procuratogli al costato dal centurione Longino.
Insomma, se Gesù fosse stato sottoposto a un simile supplizio, al momento di morire, non sarebbe di certo riuscito a
gridare, come riportano gli evangelisti! Marco, in effetti, scrive: «Gesù gridò a gran voce: `Eloì, Eloì, lemà sabactàni?´, che significa: `Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?´» (15,34). Aveva passato l'intera giornata tra colpi, frustrate e violenze varie inflitte dalla folla mentre saliva al Calvario; aveva dovuto subire la corona di spine che gli squarciava la fronte; aveva perso moltissimo sangue; era stato colpito con bastoni; aveva dovuto trascinarsi dietro per un lungo tratto di strada il pezzo di legno della croce; viene issato, in una maniera o in un'altra, sul suo strumento di tortura; ci sopravvive per sei ore malgrado tutti questi maltrattamenti. E poi cosa fa? Grida? Gli specialisti di questa tortura ci spiegano che lo stress respiratorio impedisce qualsiasi cosa possa ricordare una parola, figuriamoci un grido.
Gesù muore alla nona ora. Che gli storici non si mettano a cercare un senso storico a quest'informazione. Qui come altrove, siamo di fronte soltanto ad allegorie, a simboli e a metafore. I Vangeli sembrano un grande puzzle pieno di enigmi, un labirinto senza un filo unico d'Arianna, un ampio
collage di testi ebraici che vanno a cercare nell'Antico Testamento materiali con cui costruire il proprio Nuovo Testamento. Se Cristo spira a quell'ora, è perché l'usanza ebraica immola e fa morire l'Agnello pasquale al tramonto. Leggiamo l'Esodo (12,6)...Gesù è completamente nudo ma senza sesso in Jean de Beaumetz, senza peli in Bellini, bianco come uno spettro in Prud'hon, biondo con gli occhi chiari come uno scandinavo in Blake, rosso di capelli in Rubens, diafano in Goya, inchiodato su una croce latina in Velázquez (che appende il titulus in cima al pezzo di legno), senza peli pubici in Guido Reni (che inventa il perizonimum, il pezzo di tessuto a vita bassa), crocefisso a parecchi metri da terra in Andrea Solario, appena macchiato di sangue in El Greco, infantile come Peter Pan in Altdorfer, adolescente nel Perugino, atletico e tonico in Raffaello, palesemente bretone, di vicino Pont-Aven, in Gauguin. È chiaro che l'incarnazione è solo una proiezione: proiezione individuale, culturale e mitologica dell'artista. L'estetica cristiana è il gioco di prestigio che rende possibile ciò che, senza di lui, senza Cristo, sarebbe rimasta un'impossibile incarnazione. Grazie, Teodora...
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 199-208, mio grassetto)

La Chiesa avrebbe potuto scegliere la tesi di Ratramno di Corbie, che non offende in nulla il cristianesimo e presenta il vantaggio di non offendere nemmeno la ragione ragionevole e ragionante. Fedele alle proprie origini radicate nell'anticorpo di Cristo, pur avendo avuto la possibilità di liberarsene a vantaggio di una lettura simbolica delle cose, essa alimenta invece la leggenda di questo corpo assente, in forma di Verbo e di Concetto. Questo momento filosofico si rivela un errore considerevole per la civiltà: puntando sul simbolo e sulla metafora, sull'allegoria e sulla parabola, il cristianesimo avrebbe reso impossibile gran parte dell'attacco riformato che produrrà uno scisma rilevante nella storia della civiltà giudaico-cristiana.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 217, mio grassetto)

Dove Onfray parla più diffusamente di Gesù nel suo libro, è certamente laddove si sofferma sull'opera del grande filosofo Jean Meslier.

La morte di Dio ha un autore ed è annunciata in un libro. Abbiamo anche una data di nascita. L'autore è l'abate Meslier, il libro è il suo Testamento, e la data è il 1729. È l'anno in cui il parroco ateo muore e in cui saltano fuori tre copie di un suo voluminoso manoscritto che inietta il veleno filosofico nel corpo teologico-politico del pensiero giudaico-cristiano. Il fideismo di Montaigne scivola verso il deismo di Cartesio che, a sua volta, produce l'ateismo di Meslier. Non c'è dubbio che, con questi tre nomi, la Francia giochi un ruolo di primo piano nella distruzione della religione cristiana in Europa.
Certo, il cattolico Montaigne e il fedele cristiano Cartesio avrebbero inorridito di fronte a una simile filiazione. Ai loro tempi, avevano, in effetti, entrambi lottato contro gli atei. Il Rinascimento però ha fatto entrare il lupo filosofico nell'ovile cristiano. Il manoscritto di Lucrezio circola e l'epicureismo si rivela una formidabile macchina da guerra contro le finzioni del pensiero giudaico-cristiano. L'abate Meslier, parroco di Étrépigny, piccolo paesino delle Ardenne, non è un parroco mondano che frequenta i salotti parigini, ma un uomo di Chiesa che vive a contatto con le proprie pecorelle semplici e modeste. Nella sua biblioteca, ci sono anche le opere di Montaigne, l'autore più citato nelle sue pagine.
Meslier è un filosofo dimenticato. La tradizione filosofica preferisce ricordarsi di pensatori illuministi molto meno crudi, se non addirittura smorzati: Voltaire che, proprio come Montesquieu e Diderot, non rimette mai in causa la monarchia, Rousseau che non liquida Dio, Kant che gli ridà addirittura un certo lustro laico. Tutti questi filosofi deisti rimangono compatibili con il potere giudaico-cristiano e con la forma monarchica, declinata da alcuni nella sua versione costituzionale e da altri, come l'autore del
Contratto sociale, in quella repubblicana.
Al contrario, il materialismo intregrale di La Mettrie, l'ateismo radicale di D'Holbach, il comunismo assoluto di Dom Deschamps, il razionalismo innato di Sébastien Maréchal non potrebbero mai sostenere il concetto di regalità o il Vaticano. Dobbiamo al monaco ateo Dom Deschamps l'interessante concetto di «mezzi lumi» per caratterizzare quei filosofi che evitano di spingere fino alle ultime conseguenze le proprie analisi. L'ironia di Voltaire, l'umorismo delle
Lettere persiane, l'edonismo di Diderot, il questionamento della civiltà da parte di Rousseau, l'uso della ragione critica di Kant, non bastano perché continuano a risparmiare la religione del re e della nutrice di Cartesio.
La filosofia radicale si abbevera alla fonte del
Testamento di Meslier, il cui titolo completo già prospetta tutto un programma: Mémoire des pensées et sentiments de Jean Meslier, prêtre-curé d'Etrépigny et de Balaives, sur une partie des erreurs et des abus de la conduite et du gouvernement des hommes, où l'on voit des démonstrations calires et évidences de la vanité et de la fausseté de toutes les religions du monde, pour être adressé à ses paroissiens après sa mort et pour leur servir de témoignage de vérité à eux et à tours leurs semblables [Memoria dei pensieri e delle opinioni di Jean Meslier, prete, parroco di Etrépigny e di Balaives, su una parte degli errori e degli abusi del comportamento e del governo degli uomini, da cui si dimostrano in modo chiaro ed evidente le vanità e le falsità di tutte le divinità e di tutte le religioni del mondo, affinché sia diretto ai suoi parrocchiani dopo la sua morte e per essere usata da loro e da tutti i loro simili quale testimonianza di verità]. Ai tempi di Luigi XIV, il curato Jean Meslier, prete, parroco di Etrépigny e di Balaives, lancia un grido di guerra ateo, rivoluzionario e comunista.
Meslier, che nella sua biblioteca possiede La Boétie, fustiga dal pulpito il signore del proprio paese; celebra matrimoni gratuitamente; distribuisce ai poveri le rendite di un piccolo pezzo di terra di famiglia; si fa riprendere per due volte dal vescovo perché vive con false nipoti (ma vere fanciulle). Meslier attacca Dio, Cristo, i preti, i monaci, i vescovi, la Chiesa, le Scritture, i principi, i re, gli imperatori, i tiranni, i nobili, i togati, i notai, le «genti d'ingiustizia», [Jean Meslier,
Le Testament (II, 28), Librairie Étrangère, Amsterdam, 1864, p. 208.] i procuratori, gli avvocati, i cancellieri, i controllori, i giudici, gli intendenti di polizia, gli esattori, gli «accaparratori topi di cantina», [Ivi (II, 28), p. 209.] i riscossori reali di imposte, i ricchi proprietari. E salva invece i poveri, i contadini, i lavoratori, gli sfruttati, i miserabili, le donne, i bambini e gli animali. Contro la religione cattolica, promuove la filosofia e l'ateismo; contro gli uomini di potere, tesse l'elogio di un comunitarismo libertario e di un comunismo rurale; contro i più diversi parassiti, annuncia la giustizia e l'equità, la libertà e l'uguaglianza, la solidarietà e la fraternità.
In mille pagine e otto prove, il Testamento circoscrive la vanità e la falsità delle religioni che si contraddicono; la fede, che è «convinzione cieca», [Ivi (I, 10), p. 67.] nega le «luci naturali della ragione»; [Ivi (III, 99), p. 395.] le visioni dei profeti sono frutto della pazzia; le profezie non si realizzano mai; la morale cristiana smentisce gli insegnamenti della natura; la religione cristiana si fa complice delle tirannie politiche; l'ateismo è un'idea vecchia come il mondo; l'anima è mortale. Tra il 1719 e il 1729, da quando ha cinquantaquattro anni a quando ne ha sessantacinque, Meslier scrive chiaro e tondo (e questo rappresenta ai miei occhi la data di nascita della morte di Dio e dell'ateismo in Occidente): «Dio non esiste affatto». [Ivi (II, 60), p. 289.]
Le qualità di Dio si rivelano contradditorie: Dio è buono ma spedisce all'inferno per i peccati di piccole entità; può tutto ma lascia fare il male; ama gli uomini ma ne destina alcuni alla miseria e alla povertà, all'infelicità e alla malattia e altri alle ricchezze e allo spreco, alla salute e alla vitalità; ha potere su tutto ma non ha impedito il peccato originale; vuole la felicità degli esseri umani ma tollera la complicità della Chiesa con i poteri che li sfruttano; è tutto dolcezza e magnanimità ma poi condanna i bambini morti senza battesimo a vagare nel limbo del purgatorio; è maestro del bene ma rende possibile le fortune del vizio e le sventure della virtù; è inaccessibile ma poi diventa raggiungibile attraverso le preghiere; vuole essere amato ma non spiega mai quali siano le sue vere intenzioni; potrebbe apparire per convincere ma preferisce farsi temere.
Leggendo i testi sacri come fossero testi pagani e accostandosi alla Bibbia come farebbe con gli Annali di Tacito, Meslier inaugura, in realtà, una rivoluzione epistemologica. Il suo modo di procedere accende la miccia delle cariche che altri pensatori hanno già piazzato nell'edificio giudaico-cristiano. Se l'Antico e il Nuovo Testamento sono ispirati dallo Spirito Santo, come spiegare allora che troviamo così tanti errori, così tante approssimazioni, così tante contraddizioni, così tanti controsensi, così tante fandonie e stupidaggini? La verità è che questi testi rivelano proprio le imperfezioni umane e che sono creazioni letterarie del tutto simili «ai racconti delle fate e ai nostri vecchi romanzi». [Ivi (I, 19), p. 165.]Il filosofo smonta la vita di Gesù e la riporta alla sua dimensione umana: quella di  «un ultrafanatico, un pazzo, uno scriteriato, un povero fallito, un uomo da nulla, meschino e spregevole», [Ivi (I, 14), p. 85.] di un personaggio ancora più strano di Don Chisciotte; ne passa al setaccio gesta e imprese. Per contrastare il tema del cristianesimo, esalta la sanità dell'intelletto e la luce della ragione. Prova che le fonti del cristianesimo non sono affidabili e che sono anzi state falsificate e messe insieme alla bell'e meglio per ragioni politiche. Stabilisce che le procedure con cui il corpus dei testi cristiani è stato diviso tra vangeli sinottici e apocrifi non sono scientifiche, ma puramente arbitrarie. Interroga il funzionamento della Chiesa: chi decide? Secondo quali criteri e quali modalità? Mostra il ruolo giocato dai concili e dagli imperatori, dai filosofi della patristica e dai teologi nel costruire questa favola. Stabilisce quella che oggi definiremmo una critica testuale, dichiarando guerra agli «inganni analogici e tropologici», [Ivi (I, 29), p. 334.] fondati, più che sulla ragione, sull'allegoria. Punta il dito contro le invenzioni che San Paolo ha messo in piedi per mascherare le proprie approssimazioni ed esamina i singoli miracoli, giudicandoli in totale contraddizione con le leggi della natura, che sono le uniche vere leggi. Smonta il dispositivo dell'eucaristia e fa dell'ostia un «un idolo di pasta e farina», [Ivi (II, 37), p. 84.] ribadendo che Gesù non ha mai preteso questo genere di adorazione. Attacca la morale cristiana: per quali strane ragioni Dio avrebbe fornito agli uomini il desiderio e poi impedito la sua soddisfazione? Fa notare che il rispetto della castità porterebbe de facto alla morte dell'umanità e rifiuta la predilezione cristiana per il dolore e la sua esaltazione dell'ideale ascetico. Celebra l'edonismo e ciò che lo presuppone: il contratto amoroso, la libera unione, la sensualità elementare, il rispetto delle donne, il diritto al divorzio, l'autorizzazione ai rapporti sessuali per gli uomini di Chiesa. Trova inumano pretendere l'amore per il prossimo quando sono state commesse delle malvagità, perché è con simili tesi che si arriva a giustificare qualsiasi ingiustizia. Difende gli umili, come le donne prigioniere di cattivi matrimoni, e condanna i maltrattamenti inflitti ai bambini, perché questi maltrattamenti li trasformeranno, a loro volta, in esseri asociali; disapprova persino le crudeltà nei confronti degli animali di cui esalta invece l'intelligenza e la sensibilità. Pensa insomma il mondo in maniera radicalmente immanente, come connessione della materia che coincide con il flusso vitalista.
Jean Meslier espone anche un pensiero politico. Il male non deriva più dal peccato originale ma solo da uno stato di fatto che oggi definiremmo d'ordine etologico: ci sono troppi uomini che si muovono su un territorio che è troppo piccolo e la scarsità dei prodotti di sussistenza porta alla violenza per riuscire a vivere e a sopravvivere. Per sradicare il male dal pianeta, occorre procedere a una diversa ripartizione delle ricchezze. Quando ognuno avrà di che vivere, nessuno attaccherà più il proprio vicino. Meslier esamina nel dettaglio le sofferenze dei contadini nel regime feudale. Dipinge un ritratto caricaturale di Luigi XIV, definendolo un ladro, un criminale, un assassino, un colpevole sfruttatore di devastazioni, carneficine, guerre, usurpazioni, «ruberie», [Ivi (II, 55), p. 247.] ingiustizie, carestie, e questo per tutti i suoi lunghi sessantadue anni di regno.
Il parroco ateo elabora ante litteram una teoria della lotta di classe. A quanti non hanno nulla e meriterebbero tutto contrappone quanti hanno già tutto ma meriterebbero di non avere nulla, addirittura di essere derubati. I primi muoiono di fame sulle loro stuoie di paglia sistemate direttamente per terra e lavorando tutto il tempo; i secondi vivono di rendita e di tasse, possedendo tutto, donne e piaceri, soldi ed eredità, e reclamando addirittura di più. Quest'organizzazione fondata sull'ineguaglianza contraddice l'uguaglianza naturale. Secondo il diritto naturale dei giusnaturalisti, infatti, gli uomini possiedono naturalmente un certo numero di diritti: vivere, lavorare, mangiare, vestirsi, avere una casa, educare i figli, godere della libertà.
Meslier si richiama al «bene pubblico» [Ivi (II, 62), p. 168.] e al «bene comune» [Ivi (II, 42), p. 168.] e vorrebbe che la legge e il diritto rendessero l'uomo buono; si augura che lo stato della civiltà possa realizzare la giustizia e propone, per la Città, obiettivi edonisti ed eudemonisti: «il bene pubblico» e il «vivere felici». [Ivi (II, 52), p. 222.] Per farlo, bisognerebbe cancellare il principio paolino della teocrazia: il potere non proviene da Dio ma dagli uomini. Denuncia la collusione tra la spada e l'aspersorio, tra il cattolicesimo e la monarchia, che «se la intendono come due tagliatori di borse»: [Ivi (I, 2), p. 14.] gli uomini politici non sono affatto inviati da Dio m derivano il proprio potere dalla violenza imposta dal clero e dalla Chiesa, complici dei potenti e dei loro eserciti.
Il parroco comunista presenta il proprio metodo, derivato dal Discorso sulla servitù volontaria di La Boétie: bisogna resistere, senza concedere nulla ai ricchi e, anzi, escludendoli da ogni collettività, bisogna praticare la disobbedienza civile, non pagare più le tasse, rifiutare balzelli e gabelle e dire no ai lavori obbligatori. Poi bisogna unirsi per spezzare il trono. Meslier si augura «che tutti i grandi della terra e che tutti i nobili [siano] impiccati e strangolati con le budella dei preti» [Ivi (I, 2), p. 19.] (il Sessantotto si ricorderà di questa formula). Meslier esorta al tirannicidio: bisogna, scrive, «spingere i popoli a scuotere ovunque l'insopportabile gioco dei tiranni» [Ivi (III, 98), p. 375.] e, arrivare addirittura ad «ammazzare o [a] pugnalare questi detestabili mostri ostili al genere umano». [Ivi (III, 98), p. 374.]
Qual è dunque l'ideale di Meslier? Abolire la proprietà privata; realizzare la comunità dei beni, dei prodotti della prosperità e del talento; «godere in comune»; [Ivi (II, 53), p. 236.] fare della famiglia e del villaggio la comunità di base e federare poi tutte le comunità; firmare accordi per realizzare la pace e puntare a estendere capillarmente questo programma («parlerò volentieri a tutti i popoli della terra»). [Ivi (III, 81), p. 154.] Meslier punta a cambiamenti concreti: un lavoro più umano, cibo sano per tutti, una casa riscaldata che protegga dalle intemperie, condizioni igieniche per tutti, vestiti per proteggersi dalla pioggia e dai rigori del freddo, gratuità dell'educazione scolastica per i bambini e dell'assistenza sanitaria per tutti. Chi potrebbe non condividere un simile programma?
Jean Meslier muore solo e ignorato nella campagna delle sue Ardenne, a fine giugno del 1729. In quattro luoghi diversi, lascia nascoste quattro copie del voluminoso manoscritto cui ha lavorato per tutta la vita, per essere sicuro che almeno una possa sopravvivere ai fuochi che verranno appiccati dai cristiani. Meslier è sepolto di nascosto nel giardino della canonica, senza tomba né lapidi, rimanendo, così, privo di volto e di sepoltura. Cinque anni dopo la sua morte, già più di 150 copie circolano sottobanco, vendute tutte a carissimo prezzo.
Voltaire ne vuole assolutamente una e la ottiene. Nel febbraio del 1762, pubblica un
Extrait des sentiments de Jean Meslier [Estratto delle opinioni di Jean Meslier] in cui stravolge il pensiero ateo e comunista del parroco. Voltaire, deista e amico dei re, è abituato ad adulare per ottenere le proprie pensioni e non è poi così anticlericale come vuole la leggenda. Manda, per esempio, al papa una supplica per ottenere alcune reliquie che vorrebbe sistemare nella sua cappella privata di Ferney, costruita su sua richiesta per esserci inumato. Si fa assegnare un sacerdote alla sua cappella di Cirey, in modo da poter seguire le funzioni e festeggiare la Pasqua. Difende Dio e la religione in quanto strumento utile per imbavagliare e guidare «il popolo che sarà sempre sciocco e barbaro [...]. Sono buoi che hanno bisogno di un giogo, di un pungolo, di un pò di fieno» — lettera a Tabareau datata 3 febbraio 1769. [Voltaire, Épître à l'auteur du livre des Trois imposteurs [Épître  104], in Œuvres complètes de Voltaire. 10, Garnier frères, Parigi, 1877, p. 403. ]
Partendo dal
Testamento, l'autore del Candido crea un falso: dopo aver eliminato ogni traccia di ateismo e di materialismo, trasforma il libro in un'opera deista aggiungendo addirittura alcune pagine di suo pugno! Sul terreno politico, Voltaire ritiene che Meslier sia stato un «rigido sostenitore della giustizia e che [abbia] spinto qualche volta il proprio zelo un po' troppo lontano». [Voltaire, Abrégé de la vie de Jean Meslier, in Œuvres complètes de Voltaire. 24, Garnier frères, Parigi, 1882, p. 251.] A dispetto della verità, quel mezzo-illuminista di Voltaire trasforma Meslier in un «adepto della religione naturale», il che, alle orecchie di chi l'ha letto, suona proprio come un'eresia e come una totale oscenità intellettuale. Fa del Testamento «la testimonianza di un prete moribondo che chiede perdono a Dio»! [Ibidem.] Stiamo parlando dello stesso Voltaire che scriveva «Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo» [Voltaire, Épître à l'auteur du livre des Trois imposteurs [Épître  104], in Œuvres complètes de Voltaire. 10, Garnier frères, Parigi, 1877, p. 403.] e che sosteneva che la «marmaglia» aveva bisogno di una religione. L'ateismo e il comunismo di Meslier non potevano che irritarlo.
Gli illuministi radicali che, invece, l'hanno evidentemente letto, e letto bene, lo saccheggiano ma senza mai citarlo, com'è prassi della corporazione dei filosofi. I manoscritti clandestini riescono a sfuggire alla censura: circolano dappertutto, impregnano i dibattiti e penetrano nelle coscienze, arrivando negli angoli più remoti delle province. Per esempio, nel 1835, tale Pierre Rivière, giovane normanno nato a Courvaudon nel dipartimento del Calvados, per vendicare le umiliazioni subite dal padre, massacra con la roncola la moglie incinta di sette mesi, la sorella e il fratello; pur essendo un semplice operaio agricolo, ha imparato a leggere e a scrivere (e a pensare) e, nella prigione di Vire, stende un documento per spiegare il proprio gesto. In questo scritto, fra i libri che per lui hanno contato, cita
Le Bon snes du curé Meslier [Il buon senso del parroco Meslier], un testo scritto da DHolbach sotto la falsa attribuzione del nostro parroco ma che di sicuro nasce dalla sua lettura.
Il terremoto di Lisbona ha insomma scosso tutta l'Europa giudaico-cristaina, con numerose conseguenze. Un secolo e mezzo prima del celebre annuncio di Nietzsche nella Gaia scienza, Dio è già morto, all'inizio educatamente congedato dai filosofi fideisti e deisti e poi decisamente meo alla porta da quelli atei. Nell'
Enciclopedia, all'articolo Filosofia dei Saraceni o Arabi, Diderot scrive che, in un certo comune cattolico, nell'anno 1700 si consumavano 50.000 ostie, mentre nel 1759, in quello stesso comune, i fedeli ne avevano consumate 10.000: «Nel giro di cinquantanove anni, la fede si è indebolita di quattro quinti, e questo vale per tutto ciò che ha attinenza con la fede».
Quando l'immensa ondata provocata dal terremoto di Lisbona fu rifluita, il paesaggio rimasto era quello desolato per la scomparsa delle chiese della capitale portoghese. Per colpa di quest'epifania di natura geologica, la fede che aveva reso possibile l'edificazione di decine di queste chiese era decisamente crollata. In seguito, il lavoro dello tsunami è stato continuato dalla ragione occidentale europea e la morte di Dio, annunciata per la prima volta in Francia da un parroco delle Ardenne a inizio Settecento, ha portato con sé la morte della religione e di tutto ciò che l'accompagnava: in morale, l'ideale ascetico giudaico-cristiano, e in politica, il cesaropapismo teocratico.
Nel 1734, in mezzo al periodo ricordato da Diderot in cui diminuisce considerevolmente il consumo di ostie, Montesquieu pubblica le sue Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza, scritte con lo stesso inchiostro sottile impiegato per le Lettere persiane. Per chi sa leggere tra le righe del barone di La Brède, nascosta dietro l'ambientazione romana, la decadenza di cui si parla è quella dell'Europa giudaico-cristiana. La predilezione giudaico-cristiana per il dolore e la teocrazia cattolica che imperversano da mille anni lasceranno ben presto il posto a una doppia rivendicazione eudemonista: da una parte, sul terreno morale, la felicità («un'idea nuova in Europa», [Louis Antoine Léon de Saint-Just,
Terrore e libertà. Discorsi e rapporti tardi, Esitori Riuniti, Roma, 1966, p. 155.] come proclamerà Saint-Just il 3 marzo del 1794); dall'altra, in ambito politico, un'altra idea, altrettanto nuova, quella di democrazia. Dio non è più necessario e gli uomini vogliono ormai prendersi tutto lo spazio.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 398-406, mio grassetto)

Il riferimento alla finzione di Gesù si ritrova in un punto inaspettato:

Come Rousseau, anche Marx riproduce lo schema giudaico-cristiano di colpa e redenzione. Per Jean-Jacques Rosseau, la colpa è la proprietà; per Robespierre, Marat e Fouché, è la classe dei ricchi; per Marx, il capitalismo e, per Lenin, il borghese. La salvezza consiste, invece, nell'eguaglianza che, secondo Rousseau, viene stabilita per legge dal contratto sociale; quindi, nelle cannonate di Fouché, nella ghigliottina di Marat, nel Tribunale rivoluzionario di Robespierre, nella redenzione attraverso la rivoluzione di Marx e nel filo spinato dei campi di concentramento del marxismo-leninismo. Il peccato originale consiste nel recintare il proprio campo, nel possedere qualcosa, nell'opporsi a quanti vogliono impoverire i ricchi credendo che basti questo per arricchire i poveri. Il riscatto è il trionfo del proletariato come impostura depurata dalle scorie del popolo in un empireo che prende il nome di comunismo, altro nome per indicare la fine della storia. Gli scopi dell'escatologia comprendono la resurrezione della carne, i corpi gloriosi e il paradiso per i discepoli di Cristo; il trionfo del proletariato, l'abolizione delle contraddizioni, la scomparsa delle classi, la fine dello Stato, l'evaporazione dell'alienazione, la realizzazione dell'uomo nuovo che non conosce separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, la scomparsa dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, la fine della storia.
Nel marxismo, il proletariato svolge il ruolo che Cristo svolge nel cristianesimo. In realtà, né l'uno né l'altro hanno un'esistenza reale: trionfano nella loro qualità di entità trascendentali, di concetti, di idee. Gesù, lo abbiamo visto, è il nome che permette di cristallizzare la finzione di un Messia che rimane a venire per gli ebrei ma che è già venuto per i cristiani; anche il proletariato, l'abbiamo appena visto, è una visione dello spirito; una visione in senso letterale che riesce a fare a meno della realtà concreta del lavoratore in carne e ossa e di quanti vengono sacrificati dalla meccanica sociale. Il proletario di Marx risplende come il Messia dei cristiani. Si tratta, in entrambi i casi, di un'illusione ottica della filosofia.

Esattamente come la finzione che prende il nome di Gesù rende possibile la diffusione su scala planetaria della civiltà giudaico-cristiana, la finzione che si cristallizza attorno alla figura del proletariato produce, sempre su scala planetaria, il marxismo-leninismo. Lo schema con cui questo trascendentale si attualizza nell'empirico è identico a quello con cui Costantino impone con la forza e con la violenza una religione che, da setta, diventa religione dello Stato e poi dell'impero. Il Costantino del comunismo, il fondatore della chiesa marxista-leninista, si chiama Lenin. Lenin vorrebbe risplendere come l'uomo che ha incarnato il socialismo trascendentale nella realtà dei fatti, ma la verità è che riesce soltanto a realizzare la profezia annunciata da Marx nel 1848 nel suo articolo sulla Neue Rheinische Zeitung: «il terrorismo rivoluzionario». [Karl Marx, Vittoria della controrivoluzione a Vienna, in Karl Marx, Friedrich Engels, Opere. 7, p. 520.] La dittatura del proletariato sulla borghesia per il raggiungimento della salvezza dell'umanità si è ridotta a una dittatura su tutti quanti, borghesi e proletari assieme, ovviamente a danno dell'umanità.
La rivoluzione russa non è stata la conseguenza naturale e dialettica del movimento della storia, il che avrebbe dato ragione al Marx hegeliano. È stata invece l'effetto di un volgare colpo di Stato, e questo convalida le tesi del Marx terrorista. È solo per antifrasi, solo per una mania trascendentale, che i bolscevichi si chiamano in questo modo; in effetti, l'etimologia del termine russo «boslcevichi», che significa maggioritari, indicava coloro che, nella realtà dei fatti, erano i meno numerosi, al contrario dei menscevichi, cioè i minoritari, che erano invece i più numerosi. Anche i dizionari continuano ad avallare questa finzione del bolscevismo: «Dottrina dei maggioritari guidati da Lenin»,
Dictionnaire culturel en langue française [Dizionario culturale in lingua francese] di Alain Rey.
È così che comincia la storia di quella che voleva essere una civiltà alternativa alla tradizione giudaico-cristiana: una menzogna iniziale fondata su una menzogna iniziale.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 454-456)

La seguente affermazione di Onfray, fatta nelle note in appendice, è in realtà più vera di quanto egli stesso potrebbe pensare:

La finzione cristiana è potuta sopravvivere solo grazie all'aiuto dell'arte, intervenuta subito a fornire un corpo e un volto al Gesù concettuale, alla sua presunta famiglia, alle sue congetturate gesta e ai suoi ipotetici incontri.
Da qui l'interesse di approfondire la controversia che, sotto Bisanzio, ha visto contrapporsi i difensori delle icone e delle immagini e chi le rifiutava con il pretesto che riattivassero il feticismo pagano degli idoli. La controversia è poco affrontata e, quando lo è, solo in maniera molto tecnica: André Grabar, L'Iconoclasme byzantin [L'iconoclastia bizantina] (Flammarion, 1984], con un interessante apparato di'illustrazioni; Pascal Boulhol, Claude de Turin. Un évêque iconoclaste dans l'Occident carolingien. Étude suivie de l'édition du Commentaire sur Josué [Claudio da Torino. Un vescovo iconoclasta nell'Occidente carolingio. Studio dell'edizione del Commento su Giosué] (Institut d'études augustiniennes, 2002); Marie-France Auzépy, L'Histoire des iconoclastes [Storia degli iconoclasti] (Association des amis du Centre d'histoire et civilisation de Byzance, 2007).
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 651-652)

 ...dal momento che fu proprio un'opera d'arte letteraria, il Più Antico Vangelo — sul quale tutti gli altri, canonici e apocrifi, si basarono — a dare la prima volta una Non-Vita sulla Terra ad un angelo rivelatore ebraico chiamato coi titoli di “Gesù” e “Cristo”...