giovedì 13 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XL)

(Questo è l'epilogo della traduzione italiana di un libro del miticista Georg Brandes, «Jesus — A Myth». Per leggere il testo precedente, segui questo link)



 RIASSUNTO DELL'OPERA:

INTRODUZIONE.
I
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.
XVII.
XVIII.
XIX.
XX.
XXI.
XXII.
XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVI.
XXVII.
XXVIII.
XXIX.
XXX.
XXXI.
XXXII.
XXXIII.
XXXIV.
XXXV.
XXXVI.
XXXVII.
XXXVIII.
—XXXIX. 

XXXIX

Per migliaia di anni, Iside e Horus furono adorati come la madre del dio e il figlioletto divino. Tuttavia, non c'è nessuno al giorno d'oggi che crede nella loro reale esistenza.
Il più grande mistero celebrato ogni anno nell'antico Egitto fu la morte e la resurrezione di Osiride. L'idea di Dio era intrinsecamente legata all'idea di vita eterna. Per il dio, la morte è semplicemente una transizione ad una nuova vita. Grazie ad una descrizione fornita da Plutarco,  sappiamo come era stata celebrata la festa di Osiride in una piccola città del delta del Nilo. Osiride era assente. Egli era scomparso nel Nilo. Quando tre giorni erano passati, migliaia  gridavano in esultanza: “Noi abbiamo trovato Osiride!” La disperazione mortale si trasformava in un'estasi ineffabile, nelle celebrazioni di una vera alba orientale.
Nondimeno nessuno oggi piange la scomparsa di Osiride o si rallegra alla sua resurrezione. Per noi l'intera cosa non è nient'altro che un mito antico, e come tale venerabile.
Osiride non era solo il dio del grano che cresce, ma anche il dio del vino. Papiri trovati nelle piramidi lo chiamano il dio delle vigne,  il dio del vino traboccante. Secondo Epifanio, il vescovo cristiano di Cipro e il nemico fanatico degli Origenisti, che era nato in Palestina da genitori ebrei e che morì nel 403 E.C., Osiride rivelò la sua natura divina trasformando l'acqua in vino. Questo accadde nell'undicesimo giorno del mese di Tobi, secondo la cronologia egiziana, che corrisponde al 5 gennaio nella cronologia cristiana. Questo è il giorno in cui, secondo i cristiani, la stella guidò i tre Magi al Cristo bambino. Originariamente il 6 Gennaio era considerato il compleanno di Gesù. Non cambiò al 25 dicembre fino al quarto secolo. In Grecia lo stesso giorno era assegnato alla rivelazione di Dioniso, il dio del vino. Plinio ci dice che fu questa la giornata in cui veniva celebrata la festa di Dioniso sull'isola di Andros, e che tra i seguaci del dio apparivano speciali Oinotropoi, o suscitatrici del vino.  Epifanio parla della celebrazione di un  compleanno ad Alessandria il 25 dicembre, da lui nominata Cronia in greco e Kekillia in egiziano. Altrove si parla della festa di Elios, il dio del sole. In quelle occasioni un bimbo infante fu generato dal sanctum sanctorum con grida del tipo: “Una vergine ha dato alla luce! La luce sta crescendo!”.
 Qui c'è una rassomiglianza sorprendente alle dottrine cristiane, e la stessa rassomiglianza pervade la natura mistica dei riti. Il fatto che Prometeo venisse considerato un tempo il grande benefattore dell'umanità, che ci aveva offerto il grande e vitale dono del fuoco, e che aveva pagato con un martirio millenario il suo amore per l'uomo, non può far credere nessuno al giorno d'oggi che egli visse e soffrì come descritto. Per migliaia di anni, Apollo, il dio di luce e purezza, fu adorato in templi innumerevoli. Possedette un esercito di sacerdoti e sacerdotesse, e guidò i destini degli uomini tramite i suoi oracoli. A questo stesso giorno il suo nome rimane onorato. Ma che egli fosse esistito, nessuno lo crede, al ventesimo secolo. D'altra parte, il fatto che egli non è mai esistito non toglie del suo significato più di quello che toglie da Achille, Ulisse, Amleto o Faust. Sappiamo molto di più su Ofelia e Margarete di quanto sappiamo di Maria e Marta nel Nuovo Testamento. Tuttavia l'esistenza reale non può essere attribuita alle prime più che alle seconde. Nella sua “Espressione di gratitudine per Lessing”, Sören Kierkegaard manifestò la sua appassionata sintonia coll'asserzione del grande scrittore tedesco che verità storiche accidentali non possono mai essere utilizzate come prova a beneficio delle perenni verità della ragione. Era a questo proposito che nel libro da lui intitolato “Esercizio del cristianesimo” pose la domanda: “La storia può dirci qualcosa su Cristo?” E la sua risposta a questa domanda fu: “No!”.
 Tradotto nei modi di pensare e nel linguaggio del nostro tempo, ciò significa: le figure divine non possono mai essere influenzate dall'aver vissuto le loro vere e sole esistenze nelle menti degli uomini.

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXXIX)

(per il capitolo precedente)

XXXVIII
Se i vangeli sinottici fossero che cosa sono presunti essere, vale a dire ricordi di testimoni oculari, il loro valore storico sarebbe, naturalmente, davvero grande. Come sono, essi mancano di questo particolare tipo di valore, ma, d'altra parte, essi hanno mantenuto, da lungo tempo, il loro valore come scritti esortativi, e questo sembra anche essere stato il loro scopo originale. Oltre a ciò, le loro numerose belle storie e parabole per molti secoli hanno portato ispirazione alla poesia, alla pittura, alla scultura e alla musica.
Più affascinante dei libri stessi, con il loro impenetrabile rapporto alla realtà, è a un investigatore laico la ricerca del Gesù-ideale, dai suoi primi semi nell'Antico Testamento fino alla sua apoteosi auto-dichiarata, sulla soglia dell'edificio nascente di una nuova religione . . . con trombe che esplodono; col galoppo del cavallo bianco, del cavallo rosso, e del cavallo nero, seguiti alla fine dal cavallo incredibilmente pallido che aveva la morte per suo cavaliere; con bestie dalle molte teste e dalle molte corna sottomesse da angeli che si levano in piedi sui quattro angoli della terra e controllano i quattro venti. Inoltre è affascinante vedere questo ideale in una forma divinamente umana oppure umanamente divina . . . definito il mistico Logos . . .  risorgere come il Signore della Vita e della Luce in quell'estatico poema che, mascherato come un racconto, chiude il Nuovo Testamento con un'eccitante peana ispirata da devozione.
Gesù emerse dal quarto vangelo come l'ideale dell'umanità europea di una bontà divina. Quando Gerusalemme fu conquistata e distrutta nell'anno 70, e fu provato che il Dio degli ebrei non aiutò il suo popolo, ma lasciò che anche il suo tempio venisse saccheggiato, allora la strada fu preparata per l'avvento di una nuova religione. A quell'epoca molti che erano infelici e oppressi, molti che ancora si aggrappavano alla speranza . . . povera gente e schiavi, generalmente . . . avevano volto le loro menti verso quel Regno di Giustizia di cui l'Apocalisse aveva offerto uno scorcio. 
Affinché il nuovo credo fosse totalmente liberato dall'antico, tuttavia, era necessario che menti umane in Palestina, in Asia Minore, in tutte le regioni mediterranee, dovessero essere provviste di un impulso decisivo. Le loro anime più interiori dovevano essere scioccate.
Questo accadde quando la notizia si diffuse che la Città Santa era stata completamente perduta.

mercoledì 12 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXXVIII)

(per il capitolo precedente)


XXXVII
Molti di coloro che cercano qualche sorta di piedistallo storico tra le leggende dei vangeli sinottici, si sono aggrappati all'improbabilità che quelle, prive di fondamento in realtà, dovrebbero raccontare che cosa avrebbe indotto a collocare il  Salvatore in una luce relativamente  sfavorevole. Per questa ragione parecchia enfasi è sempre stata riposta sui passi che suggeriscono una relazione piuttosto tesa tra Gesù, sua madre, e i suoi fratelli . . . passi nei quali egli è raffigurato riluttante a riconoscere dei legami naturali di parentela, mentre invece egli proclama i discepoli la sua vera famiglia (Matteo 12:46-50; Marco 3:31-35; Luca 8:19-21). Un altro passo che ha ricevuto un'attenzione considerevole da lettori perspicaci è quello dove, dopo essere stato accolto con disprezzo e malvagità nel suo paese nativo, Gesù grida: Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua” (Matteo 13:53-58; Marco 6:1-4; Luca 4:24).
Di tali episodi non c'è nessuna traccia reperibile nel quarto vangelo. Nella potenza propria del Messia, qui Gesù è svincolato  da ogni tipo di relazione con un paese natale o con una sua famiglia. Adesso egli è un membro della famiglia celeste. Nessuno riceve considerazione a parte il Padre, la Parola, lo Spirito Santo, il Paraclito. La sua ascensione a dire il vero si svolge nella prima riga del vangelo: “Nel principio era la Parola”.
Ma anche ciò che appare sfavorevole, e storicamente probabile perchè detto con riluttanza, non porta alcuna certezza. Reca la medesima impressione di un contrasto drammatico come se qualcuno, pur di sottolineare la grandezza di Beethoven, dovesse raccontare una storia su come da ragazzo avesse suonato il violino in un villaggio della regione e fosse stato considerato inferiore al musicista preferito del luogo. Aggiungi a questo l'improbabilità che
fosse esistito a quel tempo un villaggio di nome Nazaret.
È senza speranza cercare un qualche fondamento storico nei vangeli sinottici. Sembra come se la morte di Stefano fosse stata il grande evento tragico che si verificò proprio al tempo in cui il cristianesimo cominciò a farsi strada come religione, e sembra possibile che il racconto circa la morte misteriosa di Gesù potrebbe aver preso forma sulla base di quel che fu detto circa l'odioso assassinio di Stefano. Secondo una tradizione efesina a partire dall'inizio del secondo secolo, si racconta che Marco sia stato l'interprete di Pietro, e abbia scritto il vangelo dopo la morte di quest'ultimo, basandosi su nient'altro che la sua memoria. Se fosse stato così, quel vangelo è stato modificato da qualche partigiano di Paolo, dato che Pietro è coerentemente rappresentato come un idiota, e un codardo da pungolare. Ed è strano notare che parecchi miracoli attribuiti a Pietro  negli Atti, sono stati trasferiti da Marco, quel presunto suo interprete e discepolo, a Gesù.
A Lidda, Pietro guarisce un uomo colpito da paralisi, che era stato sul suo letto per otto anni (Atti 9:33-35). Pietro gli dice: “Alzati, e rifatti il letto”. E l'uomo fa come gli è detto. Marco 2:3-12 fa guarire da Gesù un uomo a sua volta malato di Cafarnao, e utilizzando proprio le stesse parole.
Una donna buona di nome  Tabita muore a Ioppe. Pietro è mandato da lei e le dice: “Tabita, àlzati”. Al che lei torna in vita (Atti 9:36-42). In Marco 5:21:43, Gesù resuscita dai morti la piccola figlia di Giairo dicendole: “Ragazza, àlzati!”. Queste parole sono date nella Bibbia in aramaico: “Talità kum”. Non è assai lontano da Talità a Tabita, e comunque la storia è stata fabbricata per servire due volte, a quanto pare.

martedì 11 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXXVII)

(per il capitolo precedente)


XXXVI
Il Figlio venuto in questo mondo è allora, come viene detto dalle righe di apertura del vangelo, la rivelazione dell'eterno Logos. In quanto tale egli ha parte e partecipa delle qualità della divinità. In quella misura egli è Dio e uno con Dio. D'altra parte, in quanto il Figlio che ha ricevuto tutto dal Padre, è subordinato a quest'ultimo. Il Padre è più grande di lui.
Eppure, come l'unigenito Figlio (monogen), egli non è solo il Figlio prediletto, ma è il prototipo unico e perfetto per quella linea di discendenza divina dalla quale emergeranno i Figli di Dio.
 Essendo fatta di carne, la Parola diventa il Figlio. Ma la distinzione non viene mai pienamente mantenuta. Quando Gesù appare dopo la sua resurrezione (Giovanni 20:22), soffia sui discepoli mentre dice loro: “Ricevete lo Spirito Santo”. Quando ha convinto il dubbioso Tommaso, e quest'ultimo dice semplicemente: “Mio Signore e mio Dio”, questo non provoca nessuna protesta da parte di Gesù, ma egli dice semplicemente: “Perché mi hai visto, tu hai creduto: beati quelli che non hanno visto, e hanno creduto” (Giovanni 20:28-29).
Quello che il quarto vangelo vuole veicolare in molte forme è la naturale incapacità dell'uomo nel trovare la salvezza, e la possibilità di ottenere la vita eterna attraverso la Parola deificata.
Questo è lo scopo di tutte le sue storie e tutte le sue predizioni. Esso si applica alla guarigione del figlio del nobile menzionato in Giovanni 4:46 et seq. Gesù non deve neppure vedere il ragazzo morente, che giace malato a Cafarnao, mentre Gesù stesso è a Cana. Egli agisce a distanza, dicendo al padre ansioso: “Tuo figlio vive”. Tutta la storia è puro simbolismo e intesa a chiarire il potere della fede.
Lo stesso vale per la storia della donna samaritana presentata nel quarto capitolo. Tutto in essa è inteso simbolicamente. C'è, per esempio, il contrasto tra l'acqua del pozzo e l'acqua viva servita da Gesù. Il punto della storia è quello di mostrare l'insignificanza del luogo scelto per il culto. L'unica cosa che conta è l'adorazione in spirito e verità. I discepoli dicono: “Maestro, mangia”. Gesù li mette da parte con le parole: “Il mio cibo è far la volontà di colui che mi ha mandato”. Poi segue la similitudine della mietitura, che di nuovo è simbolica. La raccolta sarà vicina tra quattro mesi: “Il mietitore riceve una ricompensa e raccoglie frutto per la vita eterna”. Infine arriva la conversione ottenuta piuttosto facilmente dai samaritani, che esclamano: “Sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo”.
L'ottimo brano che illustra la mitezza di Gesù verso la donna che era stata colta in adulterio e doveva essere lapidata in conformità alla legge di Deuteronomio 22:22, non fu in origine parte del quarto vangelo, ma rappresenta una interpolazione posteriore. Non si presenta nei manoscritti più antichi e più affidabili, e la brusca maniera della sua inserzione rompe la continuità della storia. E l'esito dell'episodio, con la fuga della donna, è estremamente improbabile. I suoi carnefici senza dubbio si sarebbero considerati sufficientemente liberi dal peccato e non avrebbero lasciato andare la loro vittima semplicemente perchè un uomo senza alcuna autorità esortava loro a rompere la Legge facendo precedere la giustizia dalla pietà.  Quindi segue, in Giovanni 8:12, l'impeto di Gesù: “Io sono la luce del mondo”. Quando questa espressione di auto-affermazione superumana riappare in Giovanni 8:5, ha un fondamento di gran lunga migliore nella sua guarigione simbolica dell'uomo che era stato cieco fin dalla nascita. 

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXXVI)

(per il capitolo precedente)

 XXXV
Il quarto vangelo si riferisce semplicemente a Gesù come il figlio di Giuseppe di Nazaret. Qui, come in Marco, non viene prestata alcuna attenzione alla nascita verginale menzionata da Matteo e Luca.
Abbastanza stranamente, l'autore del vangelo di Matteo contraddice la sua storia sull'origine soprannaturale di Gesù  dandoci una lunga e fantastica tavola genealogica intesa a provare la discesa di Giuseppe da Davide.
Ma, come ho già detto, il quarto vangelo non si riferisce ad alcuna nascita miracolosa. Né nega né afferma. La cosa non esiste per l'ultimo degli scrittori evangelici. Non ne ha bisogno. Per lui il Messia come uomo è il figlio della figlia di Sion. Quando parla della madre di Gesù, non sta pensando a Maria, ma al popolo d'Israele.
Per dimostrare il potere sovrano di Jahve sulle anime degli uomini, è detto in Isaia (54:13):
Tutti i tuoi figli saranno ammaestrati dall'Eterno. Questo passo viene utilizzato nel quarto vangelo. In Giovanni 6:45-46, Gesù dice: È scritto nei profeti: 'Saranno tutti istruiti da Dio'. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me”. Qui lo scrittore del vangelo desidera derivare una distinzione tra Gesù e Mosè per provare che Gesù è infinitamente superiore a Mosè. Poichè Gesù, la Parola diventata carne, ha visto Dio. Ciò che è stato detto nell'Antico Testamento sulla visione di Dio da parte di Mosè è dichiarato invalido. Perchè qui è detto: Perché nessuno ha visto il Padre, se non colui che è da Dio; egli ha visto il Padre”.
Tuttavia le dichiarazioni di Numeri 12:5-8 sono piuttosto esplicite:
Il Signore allora scese in una colonna di nube, si fermò all'ingresso della tenda e chiamò Aronne e Maria. I due si fecero avanti. Il Signore disse: «Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli guarda l'immagine del Signore»”. 
Ma a questo punto l'evangelista separa il culto messianico dalla radice ebraica. L'infante Mosè è qui messo da parte per far posto al Figlio di Dio di origine celeste, che è Dio stesso: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Giovanni 6:51).
Così, chiunque crede in Gesù, vede il Padre in o attraverso di lui. 

In Matteo 11:27, il Figlio è l'unico che conosce il Padre. Nel diciassettesimo capitolo del quarto vangelo, siamo molto al di là di quel punto, dato che il Figlio negozia con il Padre in termini di uguaglianza: Glorifica il tuo Figlio, perché il Figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. . . . Io ti ho glorificato sopra la terra. . . . E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse. . . . Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ho conosciuto te. . . . E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro.
E infine, in Giovanni 14:9, egli dichiara a Filippo: “Chi ha visto me ha visto il Padre”.

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXXV)

(per il capitolo precedente)

XXXIV
Ciò che ha reale importanza è che, nei vangeli sinottici, Gesù proibisce a quelli che guarisce di chiamarlo il Figlio di Dio. Egli neppure accetterebbe il titolo del Messia dai suoi stessi discepoli fino alla fine, e mai li lascerebbe usare quel'appellativo in pubblico. Non fino al giorno prima della sua morte egli si rassegna a quel titolo.
Il quarto vangelo mostra uno stato di affari del tutto diverso. Si apre in bellezza, e abbonda di lode devozionale ogni volta che uno dei discepoli reca testimonianza. Così Andrea dice: “Abbiamo trovato il Messia”. E Natanaele dice: “T
u sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele!. Nei vangeli più antichi Gesù ha assunto un approccio sprezzante verso simili distinzioni. Qui li incoraggia. Essi compaiono perfino nei suoi stessi detti. Nei vangeli sinottici, Gesù non parla mai di sé come del Messia. Il credo dei discepoli in lui come tale sembra prender forma lentamente. E sembra come se alla fine questo credo lo persuase pure lui.
Ma nel quarto vangelo ha preso luogo una complea trasposizione teologica. Già al battesimo, la figura originaria di Gesù è diventata modificata, cosicchè invece di essere battezzato da Giovanni, ora è lui stesso il Battezzatore, di cui l'uomo più anziano dice: “Dopo di me viene un uomo che mi ha preceduto, perché egli era prima di me”. Gesù è il Messia fin dall'inizio. Filippo trova Natanaele e gli dice: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù di Nazaret, figlio di Giuseppe”. Al vedere avvicinarsi Natanaele, Gesù esclama: “Ecco un vero israelita in cui non c'è frode!”. E Natanaele dice:
“Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele! Al che Gesù replica: “Da ora innanzi vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo”. In altre parole, tutte le considerazioni psicologiche sono state spazzate via a favore di un dogma teologico che appare in tutta la sua nudità fin dall'inizio.
Anche questo è illuminante. Nei vangeli sinottici, ci si è affaticati per raffigurare un Gesù leale e neutrale verso l'Impero romano senza alcuna riserva. Di volta in volta il Messia asserisce: “Il mio regno non è di questo mondo”. Quando tentano di condurlo in conflitto col potere secolare e gli domandano se sia legittimo dare il tributo a Cesare, egli risponde altezzosamente e senza la minima idea di una separazione da Roma:
Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.
Secondo Matteo 27:37, Marco 15:26 e Luca 23:38, l'iscrizione collocata sopra Gesù sulla croce (in lettere greche, ebraiche, e latine, secondo Luca) per indicare il suo crimine, fu: “Questo è il Re degli Ebrei”. Stando a loro, i vangeli più antichi, egli fu accusato irragionevolmente e ingiustamente di aver posato da re del popolo ebraico.
A nostra sorpresa, quest'idea di indicare l'accusa come ingiusta è stata persa di vista nel quarto vangelo. E nè è fatta qualche menzione dell'iscrizione stessa. [In questo il Dr. Brandes è in errore. L'episodio con l'iscrizione sulla croce si verifica in Giovanni 19:19-22 ed è trattato molto più pienamente che negli altri vangeli.]

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXXIV)

(per il capitolo precedente)

XXXIII
È del tutto chiaro che lo scrittore del vangelo di Giovanni non può essere l'apostolo Giovanni menzionato nei vangeli. Se sia possibile pensare di lui come ancora vivente, egli dovrebbe aver avuto allora 150 anni quando lo scrisse. La circostanza decisiva, comunque, è che i giudeocristiani di quel tempo presentarono l'apostolo Giovanni come loro autorità nella celebrazione della Pasqua in linea con le loro opinioni, mentre lo scrittore del quarto vangelo considera non valide e irrilevanti quelle opinioni.
Non sappiamo chi fosse l'autore. Ma sappiamo che non ebbe niente a che fare coll'apostolo. Quindi, per esempio, difficilmente poteva essere stato colpevole di una simile mancanza di gusto come la menzione di sé in quanto discepolo amato dal Signore, da Lui preferito a tutto il resto. Egli dovrebbe aver ricordato senza dubbio
il passo di Matteo 18:1, dove i discepoli domandano a Gesù: Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?. E allo scopo di umiliare il loro orgoglio, Gesù invita da lui un piccolo bambino e replica: se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli”.
L'autore del quarto vangelo inizia da una semplice premessa di non grande profondità: Dio è luce, e il mondo ha camminato nell'oscurità. L'unica possibilità di prevenire un disastro universale risiede sul Logos, la Parola . . . . quella concezione così cara agli gnostici del suo tempo . . . che è più forte del caos e capace di sconfiggere il diavolo. Davvero caratteristico del periodo quando questo vangelo fu scritto è il riferimento costante allo spirito che rimane anche dopo la dipartita di Gesù dalla vita su questa terra; il Paraclito, come egli fu chiamato; l'avvocato nell'uomo alla presenza di Dio (Giovanni 14:16 e 26; 15:26; 16:7). Egli rappresenta un principio spirituale ampiamente adorato in Asia Minore intorno alla metà del secondo secolo, e qui è descritto in una maniera che tende a rendere superflua la seconda venuta del Cristo. Il Paraclito prende il suo posto.
Vi si presenta anche un singolo passo (Giovanni 5:43), dove è posta una profezia sulle labbra di Gesù che sembra avere un definito portato storico. Ma la posizione isolata di questo passo lo priva della sua importanza. Gesù dice:
Io sono venuto nel nome del Padre mio, e voi non mi ricevete; se un altro verrà nel suo proprio nome, quello lo riceverete”. Sembra possibile che questo si possa riferire a Bar-Kokhba, il capo della rivolta contro Adriano. Queste speculazioni, comunque, sono al di là della questione e non davvero fruttuose.

lunedì 10 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXXIII)

(per il capitolo precedente)


XXXII
Il vero significato storico dell'Apocalisse è, naturalmente, che esso ci rivela lo stato d'animo in cui il miscuglio di tradizione ebraica e cristianesimo emergente assunse una forma tangibile per la prima volta. Questa forma si potrebbe definire in parte misticismo estatico, e in parte puro sofisma, non bilanciato da alcun miscuglio di ragione o conoscenza del mondo. Il risultato non offre nessun profondo nutrimento nè alla ragione nè all'emozione, ma stimola la fantasia fino al punto di esagerazione.
Questo libro forma il fondamento del Nuovo Testamento con la sua energica tensione verso una trasformazione ed un completamento dell'ideale messianico trovato nell'Antico Testamento.
Se si dovesse avere qualche desiderio di scoprire che forma assunse questo ideale messianico nel giro di un secolo, basta solo volgersi dallo studio dell'Apocalisse, che è il punto di partenza, al vangelo di Giovanni, che chiude in realtà il Nuovo Testamento e indica l'estensione e la direzione del percorso coperto.
Nella sua natura, quel vangelo non è più storico dell'Apocalisse, ed è egualmente indipendente dai vangeli sinottici. Dettagli ottenuti dagli altri vangeli sono trattati del tutto con non chalanche nel quarto come semplice materiale da poter utilizzare per la costruzione di una struttura teologica a molti livelli solo dopo esser stata ricolma di simbolismo e reinterpretata in uno spirito che la rimuove da ogni connessione con la realtà.
Nello spirito come nella costruzione, il quarto vangelo è fondamentalmente tanto distinto dai vangeli più antichi quanto dagli Atti, la quale opera, a dispetto di tutti gli elementi soprannaturali e miracolosi, tende coerentemente verso un approccio puramente narrativo.
Il vangelo di Giovanni è dappertutto nient'altro che un'allegoria mistico-teologica. La figura centrale della sua presentazione è, in sé stessa, nient'altro che un pezzo di vivente allegoria. Non un tratto è impiegato che non debba essere inteso in un senso simbolico. E ci sono passi dove si potrebbe scoprire uno strato all'interno di uno strato di questo simbolismo.
Quindi, quando Giovanni il Battista vede avvicinarsi Gesù, egli grida: “Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!”. Questo implica prima di tutto un'anticipazione del racconto della Passione. Poi serve ad associare Gesù all'agnello pasquale. Di fatto, ci sono numerosi altri strati di simbolismo all'interno di questo detto. Sulle labbra di Giovanni, l'agnello pasquale serve da link tra l'agnello nel suo senso letterale e l'idea che Gesù morirà così da rimuovere il peccato e offrire cibo di vita eterna.
Ma c'è ancor più simbolismo nella semplice idea di Gesù come agnello pasquale. Mentre i tre più antichi evangelisti fecero accadere la sua morte nel giorno stesso di pesach, o pasqua, il quarto vangelo mantiene che essa si verificò il giorno prima . . . cioè, il quatordicesimo giorno, e non il quindicesimo, del mese di Nisan. Questa differenza è causata dall'appassionata controversia riguardo la celebrazione della Pasqua che esplose in Asia Minore intorno alla metà del secondo secolo. La fazione giudeocristiana si appoggiò alla tradizione e si unì agli ebrei nella sua celebrazione con un pasto festivo il 14 di Nisan. In supporto alla loro posizione essi citarono il vangelo di Marco e l'espressa testimonianza dell'apostolo Giovanni.
I seguaci di Paolo, d'altra parte, provarono indifferenza verso l'osservanza di specifici giorni festivi (Colossesi 2:16). E perchè prestare qualche attenzione alla Pasqua ebraica, quando Cristo stesso fu il vero agnello pasquale, e condotto al macello come tale (1 Corinzi 5:7)? È a causa di ciò che, in Giovanni 19:36, troviamo Gesù descritto indirettamente come l'agnello pasquale. In casi di morte per crocifissione, era costume spezzare le ossa dei condannati così da abbreviare i loro tormenti. Secondo il quarto vangelo, questo non fu fatto nel caso di Gesù perchè egli era già morto. Gli ebrei non vollero che fosse eseguito quell'ultimo atto perchè sarebbe stata una violazione della Legge di Mosè. In Esodo 12:46 leggiamo: “L'agnello si mangerà in una sola casa; non porterete nulla della sua carne fuori di casa e non ne spezzerete alcun osso
.
Gesù, allora, è il vero agnello pasquale perchè le sue ossa non furono spezzate. È necessario mettersi nello spirito di parecchie migliaia di anni fa per rischiarare questa linea di pensiero, che implica la trasposizione di antiche regole alimentari alla natura di un maltrattamento sottoposto ad una personalità divina.
È interessante notare come, pur di sfuggire da quelle dispute settarie circa il significato della festa pasquale, il quarto vangelo trascura proprio ciò che nei vangeli più antichi fornì il pretesto per l'Ultima Cena, precisamente l'istituzione della Comunione. Invece lo scrittore del vangelo fa di questo pasto nient'altro che una prova finale dell'amore provato da Gesù verso i suoi discepoli. Allo stesso tempo la sua intera presentazione del racconto della Passione è dominata dal rituale pasquale ebraico.

domenica 9 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXXII)

(per il capitolo precedente)


XXXI
 Lo scopo del libro può essere riassunto brevemente, ma prima di tutto deve essere spiegato che il suo background è un credo nelle calamità che, secondo la teologia ebraica, dovevano preannunciare la venuta del Messia. Grandi stravolgimenti dovevano avvenire in cielo e sulla terra. Il Sole e la Luna dovevano estinguersi. Guerra, ribellione, carestia e piaghe dovevano piagare l'umanità, Satana avrebbe lottato al massimo della sua forza, poichè sapeva bene che il suo tempo era scaduto.
Nell'anno 66 gli ebrei erano scesi in rivolta contro Roma. Ma migliaia di ebrei erano già morti in numerose battaglie e Vespasiano stava avanzando su Gerusalemme. Né gli ebrei né i giudeocristiani potevano concepire l'idea che Jahve avrebbe consegnato il suo luogo santo e il suo Tempio nelle mani dei gentili. Nel frattempo si seppe che le armate in Gallia e in Spagna avevano proclamato Galba, un esperto capo militare, come imperatore in opposizione a Nerone. Quest'ultimo fuggì  da Roma, come sappiamo, e si suicidò con l'aiuto di uno schiavo quando si ritrovò nell'impossibilità di sfuggire ai suoi nemici.
C'erano molti, tuttavia, che non credettero alla sua morte, ma ipotizzarono che fosse fuggito tra i Parti e sarebbe presto ritornato a capo di un grande esercito di Parti per reinsediarsi a Roma. Queste voci avevano raggiunto Efeso e sembravano credibili ai cristiani, che odiavano Roma. Un suo riferimento appare indubbiamente non solo in Apocalisse 17:10, dove si dice che cinque re (Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone) erano caduti, ma anche nel verso successivo, che parla della
bestia che era e non è più, è anchʼessa un re, lʼottavo, che ha regnato come uno degli altri sette, e finirà in perdizione”. Per quanto possiamo realizzare  questo è rivolto a Nerone, che tornerà solo per morire definitivamente.
Le calamità che dovevano servire all'umanità da avvertimento erano già state inaugurate in quel tempo. L'Impero romano era stato travolto da guerre sanguinose, la Giudea dalla fame, l'Italia dalla peste, l'Asia Minore dai terremoti. Delle sette città alle quali l'Apocalisse formava una sorta di proclamazione circolare. . . vale a dire Efeso, Tiatira, Sardi, Filadelfia, Laodicea, Smirne, e Pergamo, . . . Solo le due appena menzionate erano sfuggite ai terremoti.
Secondo la profezia del Libro di Daniele, che servì come fonte autorevole per l'autore dell'Apocalisse, l'oppressione del popolo ebraico sarebbe arrivata ad una fine dopo
un tempo, dei tempi e la metà d'un tempo”, che in origine fu inteso significare tre anni e mezzo. Ma essendo un vero profeta, Daniele non poteva essere in alcun modo in errore. Una volta, in Daniele 9:24, quando si parla di sette settimane, egli ha in mente anni e non giorni o settimane. Pertanto, la sua profezia fu creduta riferirsi al tempo in cui stava per scriversi l'Apocalisse, poiché tre decenni e mezzo erano poi passati dalla presunta data della crocifissione.
Di conseguenza, questo è ciò che  l'Apocalisse è designata a trasmettere: il tempo di tregua previsto da Daniele è quasi scaduto. La fine del tempo si sta avvicinando. Calamità orribili sono incombenti. Ma i prescelti saranno risparmiati. Nonostante il violento assalto di Satana, la chiesa sopravviverà. Roma, d'altro canto,  scomparirà dalla faccia della terra, e Nerone stesso metterà in atto la condanna pronunciata sulla corrotta capitale del mondo.
E naturalmente, nulla di ciò viene comunicato con immediatezza prosaica, ma mediante una serie di visioni misteriose.
Il Messia si rivela come Sommo Sacerdote, rivestito di abiti sacerdotali (Apocalisse 1:13).  Inoltre egli compare: secondo Isaia 53:7, come l'agnello che è  portato al macello; secondo il salmo 2:7, come il figlio appena generato del Signore, che, secondo Apocalisse 12:5, deve governare tutte le nazioni con una verga di ferro; quindi, secondo Daniele 7:13, come il Figlio dell'Uomo che avanza sulle nubi del cielo (si veda Apocalisse 14:14, dove gli è data una corona d'oro sul suo capo, e una
falce affilata nella sua mano); e infine, come generale vittorioso, come un conquistatore romano che esegue il suo ingresso trionfale. E vidi, ed ecco un cavallo bianco; e colui che lo cavalcava aveva un arco; e gli fu data una corona, ed egli uscì fuori da vincitore, e per vincere. (Apocalisse 6:2). E ancora, il veggente vede un cavallo bianco, e chi lo cavalca è chiamato Fedele e Verace, e con giustizia egli giudica e muove guerra. I suoi occhi sono come fiamme di fuoco, e sul suo capo vi sono molte corone. Egli ha un nome scritto che nessuno sa tranne lui. Egli è addobbato da un vestito intriso di sangue, e il suo nome è chiamato la Parola di Dio (Logos tu theo).
La chiesa di Dio appare come una donna rivestita di Sole, con la luna sotto i suoi piedi, e sul capo una corona di dodici stelle (Apocalisse 12:1). È con un bambino, e addolorata per il parto, ma lei reca il Messia nel mondo. Allo stesso tempo, tuttavia, la chiesa è raffigurata come la sposa del Messia (Apocalisse 19:7). Il matrimonio dell'Agnello è vicino, e sua moglie si è preparata. La stessa idea della chiesa come sposa ricorre in Apocalisse 21:9 e 22:17. Questo è un esempio della confusione orientale già menzionata della madre di dio con la sposa del dio.
Satana appare, in conformità con Genesi 3:1, come un serpente o un drago, con sette testa e dieci corna. Anche l'Impero romano, che sta al servizio di Satana, è rappresentato da una bestia con sette teste e dieci corna. 
In Apocalisse 13:11, Nerone come Anticristo diventa una bestia che sale dalla terra. Essa ha due corna simile ad un agnello, e parla come il drago. E in modo che non ci sia alcuna incomprensione tra gli iniziati, è scritto ulteriormente (13:18): Qui sta la sapienza. Chi ha intendimento conti il numero della bestia, perché è un numero d'uomo; e il suo numero è seicentosessantasei. Se le parole Neron Kaisar sono scritte in lettere ebraiche, il totale del valore numerico dato a ciascuna lettera è 666.
Questo è il culmine trionfale dello stile del rebus.
Ognuno sa ora che le attese e predizioni dell'Apocalisse non furono soddisfatte. Come profezia allora dev'essere ritenuta indegna, proprio come la sua originalità è cancellata dalla sua riduzione ad un riassunto cristiano del Libro di Daniele. Tuttavia, gli effetti di quest'opera sono stati tremendi. Per quasi diciotto secoli i sognatori e fanatici d'Europa hanno letto la storia del mondo intero a partire da questo fantastico miscuglio. In esso hanno trovato giudizi celesti di condanna di ogni personalità storica, da Nerone a Napoleone, a cui capitò di incorrere nel loro odio. L'Apocalisse è diventata un nido in cui la follia umana ha cercato rifugio in questi ultimi duemila anni, prosperando splendidamente dentro di esso e derivandovi costantemente nuova forza.
Questo non è bilanciato dal fatto che successivi poeti apocalittici come Dante e Milton potrebbero aver tratto ispirazione dalla gigantesca visione di quei giorni antichi.

sabato 8 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXXI)

(per il capitolo precedente)

XXX
Questo stile trovò più tardi la sua classica espressione nel cosiddetto Libro di Daniele. Probabilmente fu scritto all'incirca nel 165 A.E.C., e non è solo il prototipo diretto dell'Apocalisse, ma l'opera nella quale possiamo vedere emergere l'immagine dell'incombente figura messianica  dal modo di pensare che caratterizza l'ebraismo antico.
Il Libro di Daniele ti fa sentire che è passato molto tempo da quando i profeti solevano proclamare le loro visioni all'aperto. È designato ad essere letto, e da lettori che hanno il tempo di rimuginare su di esso. Nello stile rassomiglia ad un rebus. E in quella più antica di tutte le filosofie della storia che è contenuta nella parte conclusiva dell'opera, incontriamo  tutti gli ingredienti stupefacenti utilizzati per la composizione dell'Apocalisse di San Giovanni. Qui troviamo il corno che parla, il corno che ha occhi. Qui troviamo l'antitesi essenziale al senso greco della forma espressa nel corpo umano . . . una perdita di realizzazione plastica piuttosto offensiva ad una mente che deriva il suo piacere principale da un pezzo di arte dall'abilità utilizzata nel procurargli una forma. Al contrario incontriamo un misticismo, e tutte le forme trovate in natura sono fuse nello stesso genere di caos disorientante che successivamente ricorre nell'Apocalisse.
Daniele vide quattro grandi bestie che arrivano dal mare. Il primo era come un leone, ma aveva ali d'aquila. Lo osservò finché le sue ali le furono tolte, e fu alzato da terra, e si rizzò sui piedi come un uomo, e il cuore d'uomo gli fu dato. Poi vide una seconda bestia, simile ad un orso, e aveva tre file di denti. E qualcuno gli disse: “divora molta carne”. Dopodichè vide una terza bestia, un leopardo che aveva quattro ali sulla sua schiena e quattro sulla sua testa. Alla fine vide la quarta bestia, spaventosa e terribile, che aveva enormi denti di ferro, e che divorò e frantumò a pezzi quel che restava e lo calpestò coi suoi piedi. Questa bestia aveva dieci corna. Poi un altro piccolo corno spuntò, e tre delle prime corna furono rimosse dalle radici per fagli posto, e in questo corno c'erano gli occhi di un uomo, e una bocca che proferisce grandi cose.
La storia procede in questo stile, suscitando l'entusiasmo e l'approvazione del suo giorno ad una tale misura che 235 anni dopo troviamo l'Apocalisse prendere il posto lasciato da Daniele.
Non si è dimostrato molto difficile scoprire il tempo in cui fu prodotto il Libro di Daniele, perché la natura delle allegorie allegoriche permette di determinare con esattezza quali eventi l'autore aveva testimoniato e quali gli erano ancora sconosciuti. Egli stava scrivendo mentre la dinastia greca rimaneva ancora al potere, ed era familiare con gli avvenimenti della metà del secolo a partire dall'ascesa al trono di Antioco il Grande. Altrimenti egli non tiene alcun conto di possibilità o probabilità di sorta. il suo Nabucodonosor trascorre sette anni a mangiare erba nei campi e poi viene restaurato nel suo regno di cui era stato in attesa per tutto quel tempo.
Il fatto significativo e decisivo è che, nel Libro di Daniele, si nota l'inizio di quella disintegrazione del rigido monoteismo ebraico che si continua nel cristianesimo. Il nome del Messia non è menzionato direttamente. Invece  incontriamo quello strano termine,    il Figlio dell'Uomo, che è utilizzato per designare il fondatore del “regno dei cieli” che doveva essere stabilito a Gerusalemme quando Giuda Maccabeo e i suoi seguaci avrebbero infranto l'impero dei Seleucidi. Poi inizierà la fase finale dell'esistenza del mondo, durante la quale la giustizia regnerà suprema. E per quella fase noi ancora attendiamo, ovviamente.
Ezechiele già parlò (9:3) di un uomo che era vestito di lino. In Daniele (10:5 et seq.) egli ritorna come figura principale . . . un uomo vestito di lino i cui fianchi sono adornati di oro prezioso. Il suo corpo è simile al topazio, e il suo volto come l'aspetto della folgore, e i suoi occhi come lampi di fuoco e le braccia e i piedi simili nel colore a bronzo lucente, e la voce delle sue parole come la voce di una moltitudine . . . di cui tutto ciò è trasferito, parola per parola, in Apocalisse 1:13-14. [Apocalisse 1:13-15 recita come segue: “E in mezzo ai candelabri c'era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d'oro. I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve. Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco, i piedi avevano l'aspetto del bronzo splendente purificato nel crogiuolo. La voce era simile al fragore di grandi acque”.]
La data di stesura si può determinare con non meno certezza per l'Apocalisse che per il Libro di Daniele. Non ci può essere alcun dubbio che è composto tra il giorno in cui morì Nerone, che fu il 9 giugno del 68 E.C., e il 10 agosto del 70 E.C., il giorno in cui i Romani distrussero il Tempio di Gerusalemme . . . una struttura che lo scrittore spera ancora che sarà risparmiata. Ma la data si può fissare con una precisione ancora maggiore. Il libro deve essere stato scritto prima che la notizia dell'assassinio di Galba, avvenuto il 15 gennaio del 69 E.C., avesse avuto il tempo di raggiungere Patmos, siccome il sesto re, menzionato in Apocalisse 17:10 come ancora presente, non può essere stato nient'altri che Galba.

venerdì 7 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXX)

(per il capitolo precedente)

XXIX
L'Apocalisse, o la cosiddetta Rivelazione di San Giovanni, che chiude il Nuovo Testamento, sembra essere stata scritta prima di ogni altro libro e per certi aspetti può essere considerata il fondamento sul quale poggia l'intera struttura. È nella natura delle cose che non possiamo dire nulla dell'identità di quel Giovanni che appare come scrittore di questo documento. Solo proprio questo è certo, che egli non ha niente a che fare con l'autore del quarto vangelo.
Ci viene detto che lo scritto fu fatto a Patmos, una piccola isola a forma di mezzaluna, lunga quasi dieci miglia (inglesi), e situata non lontano dall'antica città di Efeso. In quel periodo il suo splendido porto forniva a quest'isola una posizione di non scarsa importanza. Essa fu l'approdo di viaggiatori provenienti da Efeso a Roma o viceversa. Durante il periodo greco fiorì notevolmente e fu fittamente popolata. Durante i Romani divenne un porto dal quale le navi salpavano quotidianamente. Come le altre isole greche nelle vicinanze, è oggi deserta, ma bella, tuttavia, priva di ogni tipo di effetto deprimente e abbastanza attraente con le sue rocce rossastre che sorgono al di sopra del mare blu sotto un Sole brillante. Un greco dell'età calssica avrebbe potuto scrivere un idillio d'amore su quell'isola. Nello stesso luogo un antico ebreo scrisse un libro inteso a riempire di terrore le persone per le sue stravaganti profezie, denunce, e condanne, nonché per la sua grottesca e barbara immaginazione: tutto si inserisce in quello stile insofferente in cui era gradualmente declinata la maniera austera di parlare degli antichi profeti ebrei  . . . una sorta di linguaggio rosacruciano che doveva riapparire un migliaio d'anni dopo nella poesia dei bardi islandesi, con le sue forzate circonlocuzioni.
Lo stile profetico cominciò a degenerarsi nel tempo di Ezechiele. Egli scrisse in esilio, tra gli anni 574 e 572 A.E.C., e fu lui che introdusse l'elemento visionario in vista di un effetto maggiore. “Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente. Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l'aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali. Le loro gambe erano diritte e gli zoccoli dei loro piedi erano come gli zoccoli dei piedi d'un vitello, splendenti come lucido bronzo. . . . Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d'uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d'aquila”.  Poi continua senza fine circa questi grotteschi mostri  zoologici, che potrebbero essere stati ispirati dai tori alati e altre fantastiche creature viste da Ezechiele nei templi del suo esilio babilonese.
È violento e pittoresco, ma non tocca il cuore come facevano i primi profeti. 
Zaccaria, che visse molto più tardi, e scrisse intorno al 518 A.E.C., è ancor più oscuro di Ezechiele. Come quest'ultimo, riempie i suoi scritti di allegorie e visioni. “Poi alzai gli occhi ed ecco, vidi quattro corna. Domandai all'angelo che parlava con me: «Che cosa sono queste?». Ed egli: «Sono le corna che hanno disperso Giuda, Israele e Gerusalemme». Poi il Signore mi fece vedere quattro operai. Domandai: «Che cosa vengono a fare costoro?». Mi rispose: «Le corna hanno disperso Giuda a tal segno che nessuno osa più alzare la testa e costoro vengono a demolire e abbattere le corna delle nazioni che cozzano contro il paese di Giuda per disperderlo»”. Questo non è uno stile lucido, o istruttivo, o persuasivo. È uno stile di enigmi, di logogrifi, e inoltre viene usato da Zaccaria senza abilità o  grazia.

giovedì 6 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXIX)

(per il capitolo precedente)


XXVIII
L'immagine offertaci del disprezzo provato da Gesù per i farisei, e dei suoi costanti attacchi su di loro, non può in alcun modo essere storica, ma sembra l'espressione di un antisemitismo  sviluppato molto più tardi, poichè ciò che dice si conforma invariabilmente ai loro insegnamenti.
Quando, in Matteo 5:17, egli dice che non è venuto a distruggere la Legge, ma a compierla, quella è una tipica espressione farisaica. Nel Talmud è detto: “Non una lettera della Legge sarà mai abolita”. Noi siamo spinti a pensare che i farisei trovarono una colpa in Gesù perchè i suoi discepoli guarirono un malato di Sabato. Ma i rabbini furono unanimi nel ritenere che la santità  del Sabato non poteva essere rispettata qualora fosse in gioco una vita umana. 
 Nel Talmud, sotto il capitolo di Yoma (fol. 85b), è dichiarato espressamente: “Il Sabato è stato dato a te, e non te al Sabato”. Guarire facendo stendere la mano al paziente, come è detto che avesse fatto Gesù (Marco 3:5), non fu affatto proibito dai rabbini, ed è una chiara propaganda quando, in Luca 6:11, ci viene detto che
essi furono pieni di rabbia” a causa di ciò.  Un tale accesso di rabbia da parte loro è storicamente impossibile.  
Si è colpiti, come ho già suggerito, dal modo rigoroso con cui Gesù, in Matteo 5:32, si esprime contro un divorzio fatto sulla base di un consenso reciproco.  Ma su questo punto egli era strettamente concorde con i farisei, nei cui confronti è creduto in costante opposizione. Egli si colloca semplicemente con l'opinione più intollerante predicata da Gamaliele, e contro l'approccio più mite della scuola di Hillel.
Neanche il presunto fatto che Gesù fosse stato proclamato il Messia avrebbe mosso i farisei contro di lui.  Non solo i figli di Israele in generale erano riferiti come i figli del Signore, ma a volte per eccessivo rispetto sacerdoti e rabbini parlano di un uomo come il Messia. Basta ricordare il caso di Zorobabele, oppure la relazione di Rabbi 'Aqiba con  Bar-Kochba. [Zorobabele, che nacque a Babilonia diventò indispensabile
principalmente nella restaurazione del servizio del Tempio dopo il ritorno dall'esilio. Bar-Kochba fu riconosciuto Messia dal famoso Rabbino 'Aquiba. Siccome la rivolta terminò fatalmente, i rabbini più tardi sostennero che il suo vero nome fosse Bar-Coziba, che significa “il figlio di menzogna”.]
Ma quelli esempi saranno sufficienti. I nostri piedi non toccano mai un fermo fondamento storico.

mercoledì 5 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXVIII)

(per il capitolo precedente)


XXVII
Per nascondere quanto completamente il Gesù-ideale del Nuovo Testamento fosse radicato nell'Antico Testamento, il cristianesimo ortodosso dei tempi moderni ha cercato di stabilire un forte contrasto tra la relazione dell'ebraismo antico con Jahve come il Signore e la relazione di Gesù con lui come un padre.
Ma anche l'Antico Testamento considera Dio un padre amorevole. Esclama Isaia (63:16 e 64:8):
Tuttavia, tu sei nostro padre . . . Tuttavia, Signore, tu sei nostro padre. Si potrebbero trovare più di venti esempi dello stesso genere. 
Soprattutto, l'opposizione stabilita tra le dottrine di Gesù e le precedenti della Torah (la Legge scritta) e dei rabbini è completamente artificiale. Perfino la più strana delle cose messe in bocca a Gesù dagli evangelisti era stata detta prima del suo tempo. In Deuteronomio 33:9 leggiamo:
Egli dice di suo padre e di sua madre: 'Non lo vedo!' Non riconosce i suoi fratelli, e nulla sa dei propri figli; perché i Leviti osservano la tua parola e sono i custodi del tuo patto”. E in Matteo 19:29 troviamo questo: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”
Nel Talmud, sotto la voce Bava Metzia (la porta media) è detto: Sei di Pumbedita (in Babilonia), dove fanno passare un elefante attraverso la cruna di un ago?. Ma in Matteo 19:24, quelle parole sono poste sulle labbra di Gesù: Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli. Per tutta l'ultima parte del suo detto, ciò che fu detto originariamente per scherzo riceve una tendenza ebionita che non possedeva prima, ma che esprime la tendenza comunista dello scrittore del vangelo. 
Come regola generale Gesù parla interamente nello spirito dell'Antico Testamento. “Ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette.” (Luca 4:16-20 e Isaia 61:1-2).
È detto nel Talmud di come un gentile giunse da Hillel e gli disse: “Sarò convertito, ma solo a condizione che tu mi insegni tutta la Legge, mentre mi reggo su una gamba”. A cui Hillel replicò: “Ciò che per te è odioso, non farlo al tuo vicino. Questa è tutta la legge, e il resto è il suo commentario. Và e studiala!”.
Gli scrittori dei vangeli manifestano particolarmente  la loro mancanza di coerenza, facendo parlare Gesù invariabilmente come se fosse del tutto familiare con lo spirito dell'Antico Testamento, mentre allo stesso tempo lo fanno alludere in maniera errata a vari libri della Bibbia.
Così Matteo 5:43 mette quelle parole sulle sue labbra: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici”
Se quelle fossero veramente le parole di Gesù, egli avrebbe mostrato un'ignoranza grossolana della Legge. In Levitico 19:8, dove è prescritto l'amore per il prossimo, è vietato anche l'odio verso i nativi o gli stranieri, e in 19:34 si dice anche che si deve amare lo straniero come sé stessi. In Esodo 23:4-5, l'amore per i nemici è comandato espressamente:
Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo”.
Sì, i primi manoscritti dei vangeli non mancano neppure delle parole che successivamente furono poste sulle labbra di Gesù:
benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano. Ma nel Talmud . . . Sanhedrin (fol. 48) . . . è detto: “È meglio soffrire un'ingiustizia che commetterla”. E là . . . Bava Metzia (fol. 43) è detto anche: “Sii tu piuttosto tra coloro che sono perseguitati che tra coloro (che sono) i persecutori”.

martedì 4 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXVII)

(per il capitolo precedente)


XXVI
Questo porta alla mente altri tratti disumani a volte attribuiti a Gesù stesso dagli scrittori dei vangeli . . . la sua solenne predicazione dei tormenti eterni degli ingiusti, per esempio, e la durezza che a volte ostenta senza una chiara ragione perfino contro la sua propria madre. Fu questo stato d'animo che si manifestò in seguito nella barbarica intolleranza della Chiesa, e che, nei tempi antichi, trovò la sua espressione più disgustosa nell'omicidio di Ipàzia, nell'anno 415.  Gli evangelisti non sentirono che tali tratti resero contradditoria e incoerente la figura di Gesù da loro presentata.  Un momento fanno dire al Salvatore: “Non giudicate”. In un altro momento egli si mostra fin troppo incline a giudicare.
Un momento egli è tutto gentilezza, considerazione, pieno di tolleranza e tenerezza. E poi diventa più impietoso rispetto a chiunque altro. Questo elemento di autocontrollo cresce in modo estremamente marcato a volte. In Luca 22:36, egli dice ai suoi discepoli:
Chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. E poi comprano due spade. Ma quando Pietro taglia l'orecchio destro del servo del sommo sacerdote, che è uno di quelli che vengono ad arrestare Gesù, quest'ultimo tocca l'orecchio dell'uomo e lo guarisce. In Matteo 26:52, egli condanna proprio l'uso di una spada: “Perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. E si potrebbe ricordare che nel Discorso della Montagna egli ha detto: A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra.
In un unico punto del Nuovo Testamento, Giacomo 5:11, l'esempio di Giobbe è raccomandato ai primi cristiani. Questo è come dovrebbe essere, poichè evidentemente la figura di Giobbe è stata una di quelle usate per costruire la concezione di un redentore sofferente, ma infine vittorioso.  Le corrispondenze non sono poche. Naturalmente è stato detto che Giobbe non fosse un israelita, ma appartenesse ai Bnei Kedem, o Figli dell'Est, che più tardi divennero noti come Saraceni e come tali combatterono nelle crociate sotto Saladino. Egli apparteneva alla stirpe di Edom, e il popolo di Teman era famoso per i suoi sapienti, riferimenti ai quali capitano di frequente nella Bibbia.
Tutto questo non fa alcuna differenza, però, e non è apparente nel Libro di Giobbe se non tramite l'assenza del nome di Jahve nel dialogo. Esso appare sullo sfondo, che evidentemente è di una data posteriore. Sia Giobbe che Gesù sono creduti di un nobile lignaggio. Entrambi sono tentati da Satana, ed entrambi rimangono fermi nella loro resistenza. Entrambi sono esposti alla sofferenza e al disprezzo. Entrambi sono minacciati di morte. Entrambi arrivano alla fine a posizioni di alto onore. Entrambi sono del tipo redentore. Le somiglianze diventano particolarmente marcate quando leggiamo i detti di Giobbe nel capitolo 29, versi 12-17: “Io soccorrevo il povero che chiedeva aiuto, l'orfano che ne era privo. La benedizione del morente scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Mi ero rivestito di giustizia . . . Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. Padre io ero per i poveri ed esaminavo la causa dello sconosciuto; rompevo la mascella al perverso e dai suoi denti strappavo la preda”.

lunedì 3 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXVI)

(per il capitolo precedente)


XXV

Non meno bizzarre, come sottolineò Bengt Lidforss, sono quelle parabole nelle quali il Gesù degli scrittori evangelici esorta i fedeli ad implorare Dio incessantemente con preghiere. Esse sono sempre efficaci, poichè egli viene così stancato da questo continuo fastidio che è pronto a concedere ogni cosa. Anche su questa materia il mondo pagano intratteneva opinioni più avanzate. Luciano si prese gioco della ridondanza e rumorosità nella preghiera. Egli disse: Quanto è utile, dopo tutto, urlare ad alta voce, rimanere insistente e mai ottenere alcun rifiuto! È utile non solo nella supplica di un caso, ma nella preghiera. Considerate Timone, che era molto povero, ma che diventò ricco solo perché urlò al massimo della sua voce e costrinse Zeus a prestargli attenzione!”.
In Luca 11:5-9 c'è un uomo che risveglia il suo amico a mezzanotte e gli domanda tre pani, siccome deve ricevere un visitatore a quell'ora tarda e non ha niente da mettergli davanti. All'inizio l'amico risponde che la sua porta è chiusa, e che è a letto coi suoi figli. Egli non si disturba di alzarsi di nuovo per una piccola cosa. “Io vi dico che se anche non si alzasse a darglieli perchè gli è amico, tuttavia, per la sua importunità, si alzerà e gli darà tutti i pani che gli occorrono . . . Chiedete con perseeranza, e vi sarà dato . . . Bussate ripetutamente, e vi sarà aperto”.
Una variazione della stessa idea burlesca accade in Luca 18:2-7. “C'era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi». E il Signore soggiunse: «Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare?”. Il punto è pregare tutto il tempo e non stancarsi. Allora alla fine Dio si stanca e risponde alla preghiera.
Numerosi esempi di parabole non meno specifiche potevano essere citate. Ecco una di costruzione insolitamente cattiva, sebbene il suo punto non contraddice in sé stesso il senso comune. Nella parabola del buon pastore (Giovanni 10:1-6), ci viene detto circa la porta che conduce all'ovile, e di chi entra per quella porta . . .  invece di arrampicarsi in qualche altro modo, come fanno i ladri e i briganti. L'uomo che entra dalla porta è il pastore, e il pastore è Gesù. Ma qualche tempo dopo, quando i discepoli mancano di realizzare il punto, Gesù fa a pezzi l'intera parabola  dicendo: “io sono la porta delle pecore”. Nel verso 9 egli ripete: “Io sono la porta”. Ma nel verso 11, l'evangelista ha dimenticato completamente di ciò, e di nuovo Gesù dice: “Io sono il buon pastore”.
Ecco un'altra parabola che contraddice apertamente profonde idee di onestà e dovere. È la parabola delle dieci mine di Luca 19:12-26. Che la sua composizione sia confusa dal mescolamento di due azioni reciprocamente sconnesse, si potrebbe trascurare. Uno dei servi a cui è stato dato una mina da far fruttare è così impaurito dall'ira del suo austero padrone da non tentare di rischiare quella mina allo scopo di fargli derivare un interesse. Invece se la nasconde in un fazzoletto e la restituisce come la ricevette. Il suo padrone esclama allora irosamente: “Perchè non hai messo il mio denaro in banca, e io, al mio ritorno, lo avrei riscosso con l'interesse?”. Dopodichè egli si riprende la mina e la dà a chi ne aveva ricavato dieci mine. Infine, essendo un impetuoso gentiluomo, egli ordina che tutti coloro che non lo volevano come loro sovrano siano uccisi sotto i suoi occhi.

domenica 2 luglio 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXV)

(per il capitolo precedente)


XXIV

In generale si potrebbe dire che la moralità greco-romana figurò molto al di sopra di ciò che i vangeli posero sulle labbra di Gesù. Il pensiero fondamentale della moralità pagana, che una buona azione è la sua stessa ricompensa, non si presentò mai ad alcuno degli evangelisti. La moralità dei vangeli è una moralità di ricompense. Quel che essi fanno impartire dal Gesù da loro disegnato ai suoi fedeli, è che essi non devono eseguire le loro buone azioni sulla terra in maniera tale da trascurare la loro ricompensa celeste, che è di gran lunga più preziosa di ciò che possono ottenere qui (Matteo 6:1-6; Luca 14:12-14). L'idea di ricompensa è una conclusione predefinita per gli evangelisti. Ogni prescrizione morale deve, naturalmente, essere accompagnata da una promessa di ricompensa o punizione. Essi fanno in modo che Pietro domandi a Gesù che cosa otterranno i discepoli in cambio di aver rinunciato a tutto e seguito lui. In questa domanda Gesù non vede niente di specifico o vergognoso, ma risponde che, quando il Figlio dell'uomo sarà assiso sul trono della sua gloria, allora essi saranno assisi su dodici troni, a giudicare le dodici tribù di Israele . .  una ricompensa non davvero attraente come noi vediamo oggi le cose.
E se la moralità evangelica non è allo stesso livello delle idee etiche più moralmente sviluppate di un tempo posteriore, nè può essere considerata di un ordine più elevato l'intelligenza manifestata in quei frammenti di discorso
riprodotti più o meno casualmente.
Per i punti iniziali sembra essere stato preso Isaia 6:9,
Ascoltate pure, ma senza comprendere”, e 28:12, Ma non vollero udire”. Quelle parole sembrano aver indotto gli evangelisti a far parlare Gesù in parabole. Le fonti della maggior parte di quelle parabole sono recuperabili. Così la parabola del seminatore è un'allegoria di una data molto più antica, mediante cui la setta gnostica dei Naasseni tentò di illustrare la semina divina del seme che sorge dal Logos, tramite cui fu creato il mondo.
La parabola del mercante che vendette tutto quanto possedeva per comprare un'unica perla è trovata nel Talmud e potrebbe risalire a Proverbi 8:11, dove è detto che
la sapienza vale più delle perle”. Alcune delle parabole sono state prese direttamente dalla Mishnah del Talmud, che fu completato duecento anni prima della nostra epoca, e di frequente sono state malamente corrotte nella riproduzione.
C'è, per esempio, la storia del re che invitò i suoi servi ad una festa senza fissare l'ora. Alcuni si recarono a casa, indossarono la loro veste migliore, e tornarono ad attendere presso la porta del palazzo. Altri dissero che non c'era nessuna fretta, siccome il re sicuramente avrebbe permesso loro di sapere l'ora più tardi. Ma il re li chiamò rapidamente, e quelli sistemati al loro meglio furono ben ricevuti, mentre quelli con addosso gli abiti di tutti i giorni furono cacciati. La morale è: Preparati oggi, poichè domani potrebbe essere troppo tardi.
La parabola è mediocre al suo meglio, ma pur così ancora molto più illuminante della parabola corrispondente nel Nuovo Testamento sulle vergini sagge e stolte. Ma quel che gli evangelisti fanno fare a Gesù è miserabile e irrazionale. Il re invita un numero di ospiti ad un banchetto nuziale (Matteo 22:1-14). Sotto vari pretesti si dichiarano impossibilitati a venire. Quel che è ancora peggio, e assolutamente irragionevole, essi deridono i servi del re e li uccidono. Questo fa adirare il re così che lui . . . che suona altrettanto fantastico . . . manda il suo esercito a sterminare gli assassini e a incendiare il loro villaggio. Poi il re ordina ai suoi servi di andare per le strade e invitare chiunque possano trovare, buoni e cattivi. Il palazzo si riempie rapidamente, e il re passa in rassegna i suoi ospiti. Tra quelli egli trova
un tale che non indossava l'abito nuziale”, la qual cosa, date le circostanze, poteva difficilmente sorprenderlo, e di certo non si poteva ritenere una causa di risentimento. Nondimeno egli dice ai suoi servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Questo re è anormale nella sua attesa che persone che sono state tratte dalla strada senza il minimo avviso appariranno in abiti festivi, o si esporranno altrimenti a dannazione eterna. Egli avrebbe dovuto sapere che il povero, al quale il suo invito fu rivolto in particolare, non possedeva per nulla abiti simili.