domenica 31 dicembre 2017

Sull'Evoluzione del Cristianesimo (VIII) — La Fusione delle Idee di Logos, Messia, e Dio-Salvatore

(prosegue da qui)

CAPITOLO VIII

LA FUSIONE DELLE IDEE DI LOGOS, MESSIA, E DIO-SALVATORE

Noi abbiamo ora rintracciato lo sviluppo tra gli gnostici della concezione del Logos, l'unigenito figlio di Dio e della vergine Sofia, la Sapienza o lo Spirito di Dio, il quale Logos apparve sulla terra in forma umana per salvare gli uomini rivelando loro il vero Dio, e fu messo a morte dagli ingiusti. Abbiamo anche rintracciato lo sviluppo della concezione, in altri circoli ebraici, di un Giosuè messianico, o Gesù, considerato forse il Figlio di Dio da alcuni, non da altri, che venne dal cielo sulla terra per espiare tramite la sua sofferenza e la sua morte i peccati degli uomini (quest'idea fu rafforzata dal cinquantatreesimo capitolo di Isaia) e che nel prossimo futuro tornerà in gloria per resuscitare i giusti dai morti e stabilirli in un regno celeste. Infine, abbiamo rintracciato il culto del Gesù dio-salvatore che muore e risorge. Quelle concezioni hanno evidentemente così tanto in comune che si sarebbero facilmente unificate — in ogni caso, in misura notevole. Giosuè il Messia è in greco Iesus Christos, Gesù Cristo; il Logos fu chiamato Chrestos; e le parole “Christos” e “Chrestos” erano indistinguibili nella pronuncia. Il Logos Chrestos, il Figlio di Dio, che venne dal cielo sulla terra e soffrì per il bene dell'umanità, sarebbe stato quindi facilmente identificato con Gesù Christos, che venne sulla terra e soffrì per l'umanità. La natura del beneficio conferito era concepito in modi diversi; ma non ci fu nessuna difficoltà nel combinare le due idee, e così Gesù venne ad essere rappresentato sia come un Figlio di Dio rivelatore, sia come un figlio di Dio espiatorio e sofferente. Comunità di diversa origine che veneravano o adoravano un Gesù o un Cristo, anche se gli attribuivano diversi attributi e funzioni, avrebbero naturalmente creduto che l'oggetto del loro culto fosse identico a quello degli altri e quindi le varie concezioni si sarebbero assimilate gradualmente l'una all'altra. La concezione del Messia Gesù sofferente, per esempio, era ovviamente troppo vicina a quella del dio-salvatore Gesù per rimanere a lungo separata da essa. Così nel tempo i vari filoni si unirono e produssero il principale dogma cattolico.
Il professor D. Strömholm, dell'Università di Uppsala, in due articoli pubblicati nell'
Hibbert Journal durante l'anno 1926, espose un certo numero di passi del Nuovo Testamento che puntano fortemente all'esistenza di due partiti principali del movimento cristiano addirittura davvero presto all'inizio del primo secolo. Quei partiti, che corrispondono ai movimenti gnostici e giudeo-messianici, lo scrittore li indica rispettivamente coi termini “Stefanisti” e “Apostolici”. Pur di conciliare l'esistenza di quei partiti ad un periodo così precoce con l'ipotesi tradizionale, egli è costretto a datare la Crocifissione molto prima di quanto avviene nei vangeli e ad assumere che gli Apostoli non fossero compagni personali di Gesù, ma furono erroneamente descritti da Marco come tali. Egli conclude da alcuni indizi che, prima della pubblicazione del racconto della Crocifissione come l'abbiamo ora, Gesù fu considerato dai cristiani dell'età apostolica un martire che aveva sofferto nel lontano passato. Le conclusioni raggiunte dal professor Strömholm possono essere spiegate più naturalmente sotto l'ipotesi promossa in questo libro invece che sotto la vista tradizionale; e la posizione qui difesa, che il cristianesimo è il risultato di una sintesi di dottrine pre-cristiane, è confermata dalla prova da lui fornita di un processo che chiama “riconciliazione”, ma che può essere meglio inteso come una “fusione”.
È possibile che il nome
“Gesù” fosse stato applicato da alcuni gnostici al Logos prima che avvenisse la fusione generale delle idee. Nell'inno naasseno già citato il Logos è chiamato Gesù; e quell'inno è molto antico, probabilmente anteriore al primo secolo dell'era cristiana. Quando il Logos era stato completamente personificato e un nome personale fu cercato per lui, era forse più probabile che fosse scelto Giosuè di qualsiasi altro. Poiché gli gnostici credevano che il Logos fosse stato mandato da suo Padre in soccorso degli uomini, il nome “Giosuè”, che significava “Jahvè è salvezza”, si sarebbe prestato prontamente. Anche gli gnostici erano sotto l'influenza greca e parlavano greco; da qui il nome “Gesù” avrebbe suggerito la parola greca “Iesis” = guarigione. Jaso fu dea della salute e figlia di Asclepio. Giasone, ancora una volta, fu venerato come essere divino in Tessaglia e ai confini dell'Asia, e fu considerato un guaritore o un salvatore. Il nome “Giasone” era considerato infatti come un equivalente greco di Giosuè. Se, allora, il Logos era già chiamato Gesù, la fusione del Logos Chrestos, o Christos Gesù, con Giosuè il Messia, Iesous ho Christos, cioè Gesù Cristo, si sarebbe verificata ancor più probabilmente.
Alla fine, quindi, Gesù giunse ad essere concepito in generale, non solo come Figlio di Dio, ma anche come Dio stesso. La concezione gnostica si era avvicinata indipendentemente allo stesso punto. Perché, se il Logos rivelò Dio agli uomini, lo faceva particolarmente in virtù del fatto che egli partecipava della natura divina e perciò in lui Dio era manifesto; Egli mostrò Dio agli uomini nella sua propria persona, e fu di conseguenza in un certo senso Dio in forma umana — un aspetto di Dio. La mente gnostica era veramente sottile e riusciva a concepire il Logos come una manifestazione di Dio pur mantenendo comunque in teoria un monoteismo. Dio e il Logos erano aspetti diversi di uno stesso essere. A quelli si unì lo Spirito Santo come potere permeante di Dio, dunque Dio in un altro aspetto; e così si è evoluto il dogma della Trinità. Abbiamo una prova dell'influenza gnostica e della concezione gnostica dello Spirito Santo come potere di Dio, nell'apocrifo Vangelo di Pietro, in cui si dice che Gesù, nel momento della morte, abbia gridato:
“Mio potere, mio potere, perché mi hai abbandonato?”.
Ora, mentre le varie concezioni di Gesù e del Logos si sarebbero legate abbastanza facilmente e nel complesso formarono il credo dei cristiani in generale, c'erano uomini o gruppi di uomini che rifiutarono determinati dettagli e altri che si aggrapparono alla loro dottrina originale  e rifiutarono di mescolarsi nella Chiesa Cattolica. Alcuni rimasero prevalentemente monoteisti — un atteggiamento che troviamo rappresentato nella maggior parte degli apologeti del secondo secolo, che erano disposti ad essere chiamati cristiani, ma continuavano a considerare il Logos come subordinato; come il figlio di Dio, ma non uguale a lui. Questa opinione persistette, e successivamente dette origine agli eretici ariani. Anche i nazareni, o alcuni di loro, si rifiutarono di considerare Gesù come Dio; e così, quando la Chiesa Cattolica e uno standard fissato di ortodossia si erano stabiliti, essi rimasero al di fuori e furono marchiati come eretici. Gli ebioniti furono probabilmente influenzati in qualche momento ma leggermente dalla fusione di idee e mantennero la loro opinione di Gesù come semplicemente Messia — il servo, ma non il figlio, di Dio. Senza dubbio in un secondo tempo emersero delle differenze di opinione a causa delle quali uomini divennero non-ortodossi, ma le principali sette eretiche nei primi giorni del cristianesimo non si erano separate dal flusso principale; non vi erano mai state fuse. Esse semplicemente mantennero il loro punto di vista pre-cristiano, eventualmente appena modificato. La visione gnostica rispetto alla Resurrezione, per esempio, era che non ci può essere resurrezione del corpo, ma solo del pneuma e della psiche; mentre la visione ebraica in generale, e quindi quella detenuta dai fedeli del dio-salvatore Gesù, era che il corpo sarà resuscitato alla venuta del Messia. Quindi, per assicurare la resurrezione degli uomini gli adoratori di Gesù ritenevano che Gesù deve aver sofferto come un uomo ed essere resuscitato di nuovo con un corpo umano. Ora, noi sappiamo che la maggior parte degli uomini non sono logici e che alcuni sono anche in grado di tenere pareri contraddittori allo stesso tempo. Molti cristiani moderni riconciliano quei due punti di vista della resurrezione abbastanza tranquillamente e senza dubbio gli uomini del primo secolo erano capaci di fare lo stesso. Ma molti tra gli gnostici si rifiutarono di accettare la dottrina di una resurrezione corporea. Essi di conseguenza ritennero che il corpo di Gesù fosse psiche, visibile ma immateriale. Ora, la Chiesa cattolica era davvero comprensiva. Pur di attirare il maggior numero possibile di persone, tollerava considerevoli differenze di opinione, a condizione che venissero accettati alcuni dogmi essenziali; tra quelli vi fu la resurrezione del corpo, con cui era associata la dottrina della natura corporea di Gesù. La negazione di questo costituiva la grande eresia gnostica del secondo secolo.
Mentre le differenze dottrinali trattenevano pertanto alcune sette dall'unirsi con il corpo principale cristiano, una considerevole divergenza di opinioni rispetto a questioni meno vitali continuava ad esistere all'interno di quel corpo stesso. Tutte quelle diverse dottrine non possono essersi emanate da un unico fondatore; ed è particolarmente degno di nota che esse non si riferiscono a Gesù come loro rivelatore, ma fin dal principio sono dottrine 
circa Gesù. Più di questo, esse sono dottrine circa un Gesù divino, perfino nei più antichi documenti che abbiamo. Paolo, in effetti, è stato spesso brandito come un testimone dell'esistenza storica di Gesù; ma Paolo è testimone solo di un Gesù divino: egli sembra non saper niente di uno puramente umano.

sabato 30 dicembre 2017

Sull'Evoluzione del Cristianesimo (VII) — Il Culto di Gesù

(prosegue da qui)
CAPITOLO VII

IL CULTO DI GESÙ

1. Il Dio-Salvatore

Durante gli ultimi due secoli A.E.C., principalmente sotto l'influenza della filosofia greca, l'idea di Dio stava diventando meno antropomorfica, più elevata, pura e astratta. Colti greci e romani avevano cominciato a spiegare i loro dèi e dèe come aspetti del dio supremo Zeus o Giove, e a considerare questo dio non più un tipo di monarca davvero potente, il cui principale vantaggio rispetto agli uomini fosse quello di poter soddisfare tutti i suoi desideri. Mentre il potere, senza dubbio, era ancora un elemento importante nella concezione di Dio, con questo elemento stavano per essere uniti sapienza e bontà, e Dio stava al contempo per essere dematerializzato. Gli gnostici nella loro maniera simbolica descrissero questo sviluppo dicendo che il Logos, la divina Parola o Ragione, aveva rivelato agli uomini il vero Dio e la sua vera natura. Per persone rozze e incolte, comunque, la cui mente non poteva rischiarare quelle idee più elevate, nella misura in cui Dio divenne più astratto e meno umano egli diventò anche più remoto e inaccessibile. Avendo poca capacità di pensiero astratto, essi non potevano raffigurare Dio altrimenti che come un tipo di monarca terreno, solo più magnificente, più inavvicinabile; e così sembrò loro che gli interessi di questa gente miserabile e insignificante come la maggior parte di loro non potessero essere di interesse immediato per lui. Di conseguenza essi furono indotti a rivolgersi a qualche dio che potesse agire come un mediatore tra loro e l'essere supremo — uno che avesse caratteristiche più umane, specialmente uno che fosse ritenuto aver sofferto egli stesso, e così avrebbe compreso le loro sofferenze e le avrebbe commiserate. Coerentemente, i culti degli dèi-salvatori erano diventati diffusi e popolari all'alba dell'era cristiana. Quei culti erano per lo più di origine orientale, ma rapidamente penetrarono in Grecia e in Italia. Questi furono i culti di Adone, Attis, Osiride, Dioniso, Mitra, e Gesù. Quei culti avevano parecchi aspetti in comune. In quasi tutti loro il dio del culto era il figlio di un dio, in alcuni casi del Dio Supremo; essi tutti morirono e resuscitarono dai morti. Alcuni di loro erano dèi della vegetazione, altri erano dèi solari. La morte e la resurrezione degli dèi della vegetazione originariamente rappresentavano la morte della vegetazione in autunno e la sua rinascita in primavera. La morte del dio Sole rappresentava il declino del Sole nelle regioni inferiori della sfera celeste in autunno, e la sua resurrezione il riattraversamento dell'equatore nella semisfera superiore in primavera. In certi casi, se non in tutti ad una certa misura, le due idee furono congiunte. Adone, Attis, Osiride, e Dioniso, comunque, erano principalmente dèi della vegetazione;
Le caratteristiche di Mitra e di Gesù erano quelle degli dèi solari. Nel caso di Gesù è probabile che quest'aspetto non fosse originale, ma giunse da Babilonia. Connessi al culto di quelle deità erano riti durante i quali veniva proclamata la morte del dio. Quei riti originarono da una pratica di sacrificio umano, in cui la vittima rappresentava il dio stesso. Sir James Frazer spiega così la loro origine: “L'uomo, ora, attribuiva il ciclo annuale dei mutamenti ad analoghi mutamenti nei suoi dèi; ma continuava a credere che, celebrando particolari riti magici, fosse possibile aiutare quel dio, principio della vita, nella lotta contro il suo antagonista, il principio della morte. Immaginò di potergli rendere le sue energie in declino e perfino di richiamarlo in vita. Le cerimonie celebrate a questo scopo erano, in realtà, rappresentazioni sceniche di quei processi naturali che l'uomo desiderava agevolare; è infatti dottrina comune della magia che sia possibile produrre un qualsiasi effetto desiderato semplicemente imitandolo.” Conformemente a ciò, gli uomini in tempi molto antichi proclamavano la morte del dio e quindi rappresentavano la sua resurrezione in una rinnovata vita e vigore. Con questi riti si si sarebbero potuti fondere nel corso del tempo elementi che avevano un'origine diversa. Frazer ha dimostrato che tra i popoli primitivi il sacrificio del re, che era spesso anche sacerdote, era consuetudine. Successivamente in alcuni casi il figlio del re fu sostituito. Questo è noto essere accaduto tra i popoli semitici. Oltre all'esempio di Abramo e Isacco, c'è anche il mito fenicio di Ieud, l'unico figlio di Re Crono, il cui nome fenicio era Israele. Questo Ieud è detto essere stato sacrificato da suo padre in un momento di pericolo nazionale, dopo che fu vestito di abiti regali. Nel tempo i re diventarono forti abbastanza da passare questo obbligo a un sostituto. Il sostituto prendeva il posto del re o del figlio del re e, dopo essere vestito in abiti regali, era sacrificato al suo posto. Poteva essere un criminale, oppure poteva essere stato acquistato. Per un certo numero di giorni gli era concessa piena licenza, o addirittura il potere regale, come se fosse veramente re, e alla fine del tempo veniva messo a morte. Ancora più tardi, venne sostituito un animale nel rito sacrificale; e più tardi ancora l'immagine di un animale o di un uomo, che poteva essere fatta di pane. Ci sono prove che in alcune regioni, quando il re o il figlio del re era sacrificato, egli prendeva il posto della vittima nell'uccisione rituale del dio; così le idee connesse ai due tipi di sacrificio si fusero e, oltre al suo significato originale, il sacrificio del dio assunse anche quello di espiazione. In ogni caso, però, al di là se questa fusione fosse avvenuta o meno, il sacrificio possedeva un carattere redentivo; perché si immaginò che il dio, con la sua discesa al regno della morte e la sua successiva resurrezione, avesse conquistato la morte e reso possibile la resurrezione per tutti i partecipanti nei suoi riti religiosi. A tal fine era necessario per l'adoratore diventare “uno con il dio”, fusione che in qualche maniera simbolica si effettuò nei misteri. Ogni morto egiziano era identificato con Osiride e recava il suo nome. Nel rituale della resurrezione di Attis il sacerdote ungeva di olio le labbra degli adoratori, dicendo loro: “Abbiate conforto, siate pii, perché il dio è salvato; così anche voi siete salvati nell'ora del vostro bisogno”. Nel caso del culto di Gesù, il battesimo diventò il simbolo che rappresenta l'unione con il dio, sebbene ci potrebbe anche essere stato un qualche atto simbolico nei misteri, come tendere le braccia in una posizione crocifissa, la quale è indicata nelle Odi di Salomone. L'immersione nell'atto del battesimo era intesa a simboleggiare la sepoltura; e si credeva che questa sepoltura con Cristo assicurasse resurrezione con lui. Così leggiamo in Romani 6:4 e 8: “Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte......Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui”. Il credente era allora detto essere “in Cristo”. E così si venne a pensare che l'intero gruppo di adoratori formasse simbolicamente il “corpo di Cristo”, del cui corpo ciascuno ne era membro. Originariamente, l'idea connessa al sacrificio della vittima nel culto di Gesù era senza dubbio semplicemente quella dell'espiazione. La nozione che mediante la morte e la resurrezione del dio la resurrezione dei credenti fosse assicurata penetrò probabilmente nel culto da un'altra fonte. Il rito del battesimo è relativamente tardivo. È possibile che questo rito entrò nella pratica cristiana dagli Esseni— un fatto di cui il riportato battesimo di Gesù da Giovanni potrebbe essere una rappresentazione simbolica.
 Un altro costume molto importante fu connesso con questi riti. Tra le razze selvagge e le popolazioni primitive esiste il credo che chi mangia la carne di un uomo ucciso acquista una parte delle qualità che possedeva. Da tali idee si originò la pratica di “mangiare il dio”. Gli antichi sacrifici umani furono cannibalistici. Coloro che erano presenti al rito divoravano una parte della vittima, che rappresentava il Dio ucciso, nella convinzione che venivano così a partecipare degli attributi e delle virtù del dio. Quando l'abitudine di sacrificare, prima uomini e successivamente animali, si estinse, fu naturale sostituire qualcosa che si potesse considerare particolarmente adatto a rappresentare il dio. Poiché la maggior parte di quei dèi erano dèi della vegetazione, il  grano e il frutto della vite erano ovviamente candidati; e così in tempi più tardi il corpo del dio veniva mangiato sotto forma di pane o focacce fatte di grano, e il suo sangue veniva bevuto sotto forma di vino. I misteri, allora, in cui veniva solennizzata la morte seguita dalla resurrezione di quei dèi-salvatori consisteva di una   rappresentazione drammatica della morte del dio e di un pasto sacramentale nel quale il suo corpo veniva simbolicamente mangiato e il suo sangue veniva bevuto.

2. Prove del Culto Pre-Cristiano di Gesù

Nel caso del culto di Gesù, la rappresentazione drammatica, come ha provato il signor Robertson, fu messa per iscritto e appare nei nostri vangeli come il racconto del processo e della crocifissione, [1] mentre il pasto sacramentale è sopravvissuto fino ad oggi. Sembra che ci sia un riferimento al primo nella lettera ai Galati, dove lo scrittore dice: “O folli Galati! Chi vi ha stregato, davanti a quali occhi Gesù Cristo fu pubblicamente raffigurato come crocifisso?”. Nei riti di alcuni di quelle divinità i sacerdoti, e anche gli adoratori, si ferivano con coltelli oppure facevano incisioni nei loro corpi, e le cicatrici così ottenute furono chiamate “stimmate”. Potrebbe esserci stato qualcosa di questo tipo nel rito di Gesù, perché nella lettera ai Galati lo scrittore dice: “Io porto i segni di Gesù nel mio corpo”; La cui interpretazione naturale è che quei segni fossero stimmate. Non c'è nessuna ragione al mondo per separare il culto di Gesù dagli altri; e se qualcuno dice che la sua origine fosse di natura diversa dalla loro, l'onere della prova ricade su di lui. Il fatto che solo  il cristianesimo è sopravvissuto non è una dimostrazione di questo, perché, per quanto la natura del culto potesse essere influenzata dalla natura della sua origine, essi erano tutti allo stesso livello sul piano intellettuale ed etico. Il cristianesimo sopravvisse, non perché ebbe un diverso tipo di origine, ma come risultato della natura e dell'organizzazione che acquisì nel corso del suo sviluppo, come verrà mostrato in seguito. Qualunque di quei culti potrebbe aver copiato, e alcuni di loro probabilmente copiarono, dettagli da alcuni degli altri; ma il dogma centrale e il rito, come Sir James Frazer ha abbondantemente dimostrato, furono un prodotto naturale dello spirito umano primitivo.
Attendersi molte prove dirette dell'esistenza del culto di Gesù nei tempi pre-cristiani sarebbe irragionevole. Qualche prova che Giosuè, o Gesù, fosse un nome divino in Palestina in quei tempi è già stata fornita. Abbiamo visto che la politica dei sacerdoti di un periodo antico consistette nel sopprimere le prove che Giosuè era stato un essere divino.. Nei giorni dopo l'Esilio il culto fu, senza dubbio, oscuro e praticato solo in pochi luoghi, forse in Samaria. E la Chiesa cattolica distrusse vigorosamente ogni prova di un culto pre-cristiano di Gesù che poteva trovare. Tuttavia, alcuni indizi della pratica del culto sono sopravvissuti.
È un grande errore supporre, come fanno alcuni scrittori, che nel periodo dopo l'Esilio tutti gli abitanti della Palestina, o perfino tutti gli ebrei, fossero adoratori monoteisti di Jahvè. Che culti privati esistettero tra gli ebrei è stato dimostrato dalle ricerche di Robertson Smith e di altri. Ora è stato stabilito che il Deuteronomio è post-esilico, anche se i teologi in generale non accettano ancora quel risultato. I fatti stabiliti ottengono spesso un'accettazione ma lentamente, soprattutto in materie teologiche. Anche i teologi, tuttavia, stanno cominciando a cedere alle prove. I professori Hölscher e Kennett, tra gli altri, sono giunti alla conclusione che il Deuteronomio appartiene al periodo dell'Esilio oppure al primo periodo ad esso posteriore. L'alternativa precedente non è probabile che sia mantenuta a lungo; infatti perché il codice dovrebbe essere redatto per uno stato che non esisteva? Ma la conclusione che il Deuteronomio è post-esilico comporta alcune altre importanti conclusioni, una che l'idolatria esisteva nel periodo post-esilico. Poiché la veemenza del divieto di pratiche idolatriche in quel libro è una prova che tali pratiche si verificavano alla sua stesura. Le leggi non sono fatte per vietare atti che le persone non hanno nessuna inclinazione a commettere. Prima dell'Esilio gli ebrei erano idolatri, e non è affatto certo che, nel loro complesso, essi erano monoteisti. Essi adoravano Jahvè nella forma di un'immagine. A Babilonia erano in mezzo a idolatri e politeisti. Un puro monoteismo e una libertà dall'idolatria in Giudea subito dopo il Ritorno sono molto improbabili. La probabilità è che circa settant'anni dopo quell'evento alcuni sacerdoti, rappresentati da Esdra (potrebbe essere sotto l'influenza di idee persiane), avevano adottato la concezione di un culto senza immagini e avevano deciso di imporre tale tipo di culto ai loro connazionali. Ma la pratica dell'idolatria e la dipendenza dai culti stranieri non vengono sradicati da una nazione in una generazione o due; e il fatto veramente sorprendente sarebbe non l'esistenza di idolatri e culti stranieri nell'ebraismo post-esilico, ma il loro sradicamento nel corso di alcuni anni dopo la promulgazione della cosiddetta legislazione mosaica. Ci sono, in effetti, prove sufficienti della pratica di culti stranieri in Palestina dopo il Ritorno; e che queste prove finora sono state così poco apprezzate è dovuto al fatto che non è ancora generalmente ammesso che i profeti che scrissero sotto i nomi di Ezechiele e di Geremia fossero posteriori all'Esilio; ma è certo che la forza degli argomenti di Vernes e Dujardin sarà riconosciuta nel breve tempo. Le prove aggiuntive a quelle presentate da loro sono la prevalenza delle credenze e delle pratiche religiose babilonesi all'epoca in cui furono scritti i libri di Ezechiele e di Geremia [2]. L'adorazione di Tammuz, una divinità babilonese, citata da Ezechiele, è già stata menzionata. Lo stesso scrittore dice anche di aver visto uomini che adorano il Sole alla porta orientale del tempio. Non c'è alcuna prova che il Sole fosse adorato in Giudea prima dell'Esilio. Questo culto potrebbe essere giunto dalla Persia per via di Babilonia. Ora, Girolamo dice che anche al suo giorno Tammuz era adorato alla grotta di Betlemme, dove è detto che Gesù era nato. La conclusione naturale è che questo culto fosse perdurato continuamente nel periodo intermedio. Il primo Isaia scrisse (2:8): “Il loro paese è pieno di idoli”, riferendosi agli ebrei; e ancora: “Come mai è diventata una prostituta la città fedele?”. Dal momento che “prostituzione” è il termine utilizzato generalmente dagli scrittori profetici per stigmatizzare il culto dei falsi dèi, questo passo indica che anche a Gerusalemme gli abitanti non erano fedeli a Jahvè. Il passo appena citato si riferisce probabilmente a credenze e osservanze ellenistiche, che furono tollerate dall'aristocrazia dominante nei giorni dello scrittore di Isaia, nel III secolo A.E.C.; e quelle osservanze potrebbero perfino aver incluso il culto di Zeus. Per molti anni dopo il Ritorno l'autorità del sommo sacerdote si estendeva solo sul territorio di una piccola area circostante Gerusalemme. L'ordine in Palestina generalmente era mantenuto dal governatore siriano o egiziano, che certamente non avrebbe interferito con alcun culto ivi esistente. I sacerdoti di Gerusalemme estesero gradualmente il raggio della loro autorità, ma non fu fino al tempo dei Maccabei che le pratiche idolatriche in Palestina potevano essere schiacciate effettivamente. E senza dubbio alcuni culti oscuri avrebbero continuato ad essere praticati privatamente. Nel capitolo 65:3, del libro di Isaia, che è considerato post-esilico dai migliori critici, leggiamo: “un popolo che mi provocava sempre, con sfacciataggine. Essi sacrificavano nei giardini, offrivano incenso sui mattoni”; e nel capitolo successivo: “Coloro che si consacrano e purificano nei giardini, seguendo uno che sta in mezzo, che mangiano carne suina, cose abominevoli e topi”. Qui nella prima citazione abbiamo un riferimento inconfondibile ad un culto straniero. Il consumo di carne di maiale menzionato nella seconda, preso assieme ai dettagli che l'accompagnano, descrive chiaramente un rito religioso in cui il maiale veniva mangiato come un animale sacro, il che significa che rappresentava il dio del culto. Questo rito deve, quindi, avere avuto origine in tempi molto antichi, e persistette in alcuni ambienti ebraici fino a dopo il ritorno da Babilonia.. Nel capitolo 27, che è ammesso essere post-esilico anche da critici tradizionalisti, troviamo: “In quel giorno il Signore punirà con la spada dura, grande e forte, il Leviatàn serpente guizzante, il Leviatàn serpente tortuoso e ucciderà il drago che sta nel mare”. Ora, Bel, il supremo dio dei Caldei, fu adorato sotto forma di serpente; un drago dal mare è anche una figura prominente della mitologia babilonese. Così che il verso sopra citato offre una prova che le credenze religiose babilonesi erano state introdotte in Palestina dopo l'Esilio. Questo è confermato da un riferimento a questo stesso drago nel libro dell'Apocalisse, dove è detto che il grande drago fu gettato fuori, quel serpente antico chiamato il diavolo; e questo drago, ci viene detto, proveniva dal mare. Il fatto che questo drago figura in modo così prominente nel libro dell'Apocalisse indica che quando quel libro fu scritto le idee religiose babilonesi esistevano ancora in Palestina e vi erano esistite continuamente fin dall'Esilio. Ho ritenuto necessario trattare a lungo questa questione, perché un certo numero di teologi prospettano la possibilità che il culto di una divinità antica, come Giosuè, avrebbe potuto continuare in Palestina per tutto il periodo post-esilico. Era anche necessario dimostrare che gli ebrei a quel tempo furono ancora facilmente influenzati da culti stranieri, e che è abbastanza ragionevole supporre che il culto di Giosuè venisse modificato dal contatto con la teologia babilonese. In considerazione di quanto è stato affermato, la probabilità è che tale cambiamento si verificò effettivamente. Per i babilonesi Marduc fu un dio-salvatore. Egli recava i nomi “Signore della Vita”, il “Compassionevole”“Appassionato”, il “Sacerdote dell'Espiazione”. Si credeva che fosse stato mandato fino alla terra da suo padre Ea, che ebbe pietà per le sofferenze degli uomini, per offrire loro soccorso nella malattia e nell'angoscia. Egli fu ucciso e resuscitò di nuovo. Ora, se ci fossero stati degli ebrei che adoravano Giosuè come colui il cui nome significava aiuto oppure salvezza, e di cui si aspettava la venuta dal paradiso alla terra per la riscossa degli ebrei, essi non avrebbero mancato di vedere la rassomiglianza tra Marduc e Giosuè; e il credo che Marduc fosse il figlio di Ea avrebbe portato a suggerire che Giosuè fosse il figlio di Jahve — se quel credo non fosse esistito in precedenza, cosa che potrebbe aver fatto. Ad ogni caso, Giosuè non era il figlio di un uomo. È detto che sia stato il figlio di Nun, e la parola ebraica “nun” è equivalente a “pesce”. Tertulliano chiama Gesù il pesce divino. Ora, il pesce è un elemento importante in alcune mitologie, essendo legato al segno zodiacale dei Pesci; e questo segno, essendo il dodicesimo ossia l'ultimo, è legato alla fine del mondo. La qual cosa rappresenta qualche indizio che Giosuè era una persona mitica, e forse che egli avrebbe dovuto apparire come Messia alla fine del mondo. Nel Talmud leggiamo: “Prima della creazione del mondo, il nome del Messia esisteva già, poiché è detto nel Salmo 72:17, il Suo nome è eterno. Prima della creazione del Sole il suo nome era Inon”. Ora, il nome ebraico Inon contiene la radice nun, e possiede lo stesso significato; quindi abbiamo un collegamento tra il nome del Messia ebraico e Giosuè figlio di Nun. Giosuè è dichiarato anche nel Talmud della progenie di Giuseppe; e quando ricordiamo che tra i Samaritani il Messia era figlio di Giuseppe, e che Giosuè fu particolarmente venerato da loro, siamo indotti fortemente al credo che per loro Giosuè fosse il nome del Messia, e che potrebbe essere stato così anche per alcuni ebrei. C'è però ragione di credere che originariamente il pesce rappresentasse la madre di Giosuè, e fosse riferito solo più tardi a suo padre. Questo punto sarà discusso nel Capitolo X. Ancora una volta, la convinzione che Marduc aveva sofferto per il bene dell'umanità avrebbe suggerito, oppure avrebbe confermato, l'idea che anche Giosuè avrebbe sofferto, oppure aveva sofferto, per il bene dell'umanità. Ci sono alcune prove a supporto di questa congettura. È stato preservato da Ippolito un frammento di un inno naasseno (e i Naasseni o gli Ofiti, ricorda, erano pre-cristiani) che recita come segue: “Disse allora Gesù: Per questa ragione mandami, Padre. Portando i sigilli io discenderò; Passerò attraverso gli Eoni; Rivelerò tutti i misteri e mostrerò la forma degli dèi: Trasmetterò i segreti della santa via, che chiamerò Gnosi”. I Naasseni, essendo gnostici, identificarono Giosuè o Gesù con il Logos e pensarono che il miglior servizio che egli potesse fare agli uomini fosse quello di portarli a conoscenza di Dio. Altri ebrei avrebbero avuto una diversa concezione della sua missione. Il signor Loisy ammette che questo inno “possiede una rassomiglianza straordinaria al dialogo tra il dio Ea e suo figlio Marduc in certi incantesimi babilonesi”. Dobbiamo, dunque rammentare la possibilità che, per lo meno, dopo il ritorno da Babilonia, Giosuè fu considerato da alcuni ebrei come il figlio di Dio, e l'ulteriore possibilità che si credeva che era giunto sulla terra e aveva sofferto per la redenzione del genere umano. Tenendo presenti quelle possibilità, possiamo continuare a dimostrarle alla luce di prove ulteriori. Ora c'è una dichiarazione nel Talmud, risalente ad un periodo subito dopo la caduta del Tempio, che ci fu un rituale ebraico “Settimana del Figlio” o, come alcuni lo chiamano, “Gesù il Figlio”, in connessione con la  circoncisione o redenzione del figlio primogenito — una circostanza che suggerisce che un Giosuè era considerato il figlio di Jahvè. Questo nome non può essere stato copiato veramente dai cristiani. Inoltre, quando il nome Barabba si presenta nella storia evangelica della crocifissione, una lettura antica del manoscritto recita “Gesù Barabba”, ed ora si ammette che questa lettura potrebbe essere quella originale. È impossibile che il nome “Gesù” sia stato interpolato in questa connessione, mentre è facile capire perché fu lasciato fuori.
Ma Gesù Barabba significa Gesù il Figlio del Padre. E l'occorrenza di questo nome in questo punto particolare non può essere stata accidentale; deve esserci stata qualche ragione importante per la connessione di un uomo che reca quel nome con gli altri dettagli della Crocifissione. Senza dubbio questo Gesù Barabba è una figura simbolica, e il suo nome non è il nome di un individuo. Qualche luce è gettata su questo problema da un resoconto in Filone di una mascherata che aveva visto ad Alessandria. Un pazzo fu addobbato come un finto re in veste e corona, e poi condotto in processione, recando con sé uno scettro. Filone dice che il nome dell'uomo era Karabba. La K in questo nome può essere un errore di trascrizione al posto di B. L'episodio ci rammenta fortemente le pantomime popolari di cui così tante sono descritte nel Ramo d'Oro di Frazer, e che sono le reliquie degenerate di antichi riti di sacrifici umani o animali. Questo rito particolare suggerisce la processione sacrificale della vittima che veniva offerta come un sostituto del re o del figlio del re. A volte la vittima in questi sacrifici era un criminale condannato. In relazione a Gesù Barabba ci viene detto che era consuetudine che un prigioniero venisse rilasciato ogni anno alla festa. Questa usanza potrebbe essere stata un'antica consuetudine nazionale, continuata dai governatori romani. Cosa potrebbe essere stata l'origine di questo rilascio annuale di un criminale in relazione ad una festa? Si presenta la possibilità che il criminale fosse stato liberato in origine per essere la vittima di un rito in cui veniva sacrificato annualmente Gesù il Figlio del Padre. Se un tempo in Palestina vi fosse esistito un rito in cui il sostituto di una vittima regale veniva sacrificato al dio Giosuè, il Figlio del Padre (la stessa vittima, com'era consuetudine in quei sacrifici, rappresentava il dio), l'episodio, altrimenti inspiegabile, verrebbe spiegato. Il racconto della Crocifissione è una descrizione del rito sacrificale, con alcuni dettagli aggiunti la cui fonte è stata rintracciata. Gesù Barabba rappresenta il criminale sostituito che, quando tali sacrifici erano una realtà, era la vera vittima. Dato che lo scrittore che trascrisse la storia della Passione volle rappresentare la crocifissione di Gesù come un evento unico e dovette affrontare la possibile obiezione che il rito di Gesù Barabba non era un evento unico, egli fece la distinzione più netta che poteva tra il suo Gesù Nazareno e Gesù Barabba, rappresentando quest'ultimo mentre viene liberato ma non per essere messo a morte.
I diversi episodi della Passione hanno provocato una notevole perplessità ai teologi critici, che si sono duramente rovellati su di essi pur di dare loro una spiegazione ragionevole. Le spiegazioni fornite non sono affatto soddisfacenti. Per esempio, più di uno scrittore di una Vita di Gesù ha capito che il processo notturno è un'impossibilità. Il metodo di Brandt e Loisy nel trattare tali difficoltà consiste nel ricostruire il racconto per sé stessi nella maniera più arbitraria. Per quanto riguarda l'ingresso trionfale a Gerusalemme, Wrede osserva che questo episodio in Marco è un evento completamente isolato. Poiché quest'episodio non ha conseguenze, così anche non vi è ad esso alcuna preparazione. Può però essere spiegato semplicemente e naturalmente come la descrizione di un cerimoniale che persisteva ancora all'inizio del primo secolo, e costituiva una sopravvivenza di un rito sacrificale che prevedeva l'incoronazione e la derisione della vittima. A volte le vittime venivano comprate. Questa usanza trovò posto anche nel racconto evangelico, nella dichiarazione che Giuda, per trenta pezzi d'argento, vendette la vittima, Gesù, a coloro che erano intenzionati a sacrificarlo. Anche i teologi hanno riconosciuto il fatto che non c'era bisogno che i sacerdoti pagassero per il tradimento di un uomo facilmente individuabile. Lo storico Berosso, che fu un sacerdote babilonese, ha fornito un resoconto di una festa chiamata festa delle Sacee, celebrata ogni anno a Babilonia, che durava per cinque giorni. Un prigioniero condannato a morte era addobbato con le vesti del re, assiso sul trono del re, e rivestito del potere regale e della piena licenza di divertirsi in qualunque maniera gli compiacesse. Alla fine dei cinque giorni egli veniva spogliato delle sue vesti regali, flagellato, e impiccato o impalato. Il lettore riconoscerà ora questa festa come il tipico rituale in cui il criminale recitava la parte che in tempi più antichi era stata assegnata al re stesso. Ora, è abbastanza probabile che quelli ebrei che adoravano Giosuè come un essere divino o come il figlio di Jahvè, avessero copiato questo rito sacrificale dai babilonesi, siccome sappiamo che altri credi e costumi religiosi furono copiati da loro da parte di alcuni ebrei. Certamente, se consideriamo la materia senza pregiudizi, dobbiamo accorgerci che la rassomiglianza tra questo rito e le circostanze della Crocifissione è così vicina da rendere probabile che ci sia qualcosa di più della coincidenza accidentale. Qualsiasi storico che potesse considerare la questione in modo perfettamente distaccato giungerebbe sicuramente alla conclusione che dopo l'Esilio babilonese un rito di Gesù Barabba, basato sulla festa delle Sacee, fu celebrato in Palestina; che originariamente c'era stato un vero sacrificio, successivamente l'imitazione di uno; che questo sacrificio, forse, fu alla fine interrotto e sostituito dal dramma misterico del culto, anche se le due rappresentazioni potrebbero aver continuato ad essere praticate insieme. Il racconto dell'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, incredibile come Storia, fu una riproduzione della processione regale del finto re; l'intervallo di cinque giorni tra questo e la Crocifissione corrisponde alla licenza di cinque giorni consentita alla vittima, un esempio della cui licenza o fruizione del potere regale è l'espulsione dei mercanti dal tempio, che in realtà non sarebbe mai stata compiuta da un uomo sprovvisto di uno status ufficiale. Finalmente abbiamo la flagellazione e altri dettagli del rito come praticato durante la festa delle Sacee. Alla descrizione di tutto questo rituale nei vangeli fu aggiunto un resoconto del pasto sacramentale durante il quale i devoti mangiavano simbolicamente il corpo e bevevano il sangue del dio ucciso.
Molte persone potrebbero dubitare che il sacrificio umano era possibile in Palestina dopo l'Esilio. Ciò non può, tuttavia, essere dubitato a fronte delle prove. Era certamente possibile, e c'è un buon motivo per credere che fu reale. Plutarco menziona un esempio di sacrificio umano in Grecia al suo stesso tempo. Se ciò poteva accadere in Grecia nel primo secolo A.E.C., per non parlare del rogo di eretici in Inghilterra fino al XVI secolo e dell'uccisione di streghe anche più tardi,  poteva sicuramente essere accaduto in Palestina nel quinto, o addirittura nel secondo, secolo A.E.C.. Sicuramente nessuno che legge Geremia o Ezechiele può non essere colpito dall'intensità dell'indignazione e dell'aberrazione che ispirò gli scrittori di quei testi. Naturalmente, come ferventi monoteisti, si sarebbero indignati alla vista di culti stranieri e di un'adorazione idolatrica; ma si sente che ci dev'essere qualcosa di più di quello per spiegare il grado di avversione che è espresso. E, anzi, possiamo trovare nei loro scritti prove che sono abbastanza chiare. Per esempio, leggiamo, Geremia 19:4: “Mi hanno abbandonato e hanno destinato ad altro questo luogo per sacrificarvi ad altri dèi......E hanno riempito questo luogo di sangue innocente”; 2:29 e 34: “Tutti voi mi siete stati infedeli. Oracolo del Signore......Perfino sugli orli delle tue vesti si trova il sangue di poveri innocenti”; Ezechiele 16:20: “Inoltre prendesti i tuoi figli e le tue figlie......e li sacrificasti loro [divinità straniere] per essere divorati.”; 22:4: “Per il sangue che hai sparso, ti sei resa colpevole e ti sei contaminata con gli idoli che hai fabbricato”. Che lo spargimento di sangue qui riferito non sia semplice omicidio è provato dal contesto; e che si verificò durante la vita personale degli scrittori è provato dall'ira e dall'avversione che provocò in loro. Non è in questi termini appassionati che si scrive perfino di crimini che furono commessi cento o duecento anni prima. L'interruzione graduale di quei sacrifici può essere rintracciata nel linguaggio più mitigato di Isaia, le cui più aspre invettive sono rivolte ai nemici della Giudea; e nel linguaggio ancora più mite di Zaccaria. L'insieme delle prove ci giustifica nel concludere, con un notevole grado di probabilità, che dopo il ritorno da Babilonia un rito di Gesù Barabba, con un vero sacrificio umano, fu solennizzato da qualche parte in Palestina e che il racconto evangelico della Crocifissione fu una descrizione di questo rito; che alla fine il sacrificio fu eseguito solo simbolicamente, e la vittima non fu veramente uccisa; che l'intero rituale fu rappresentato drammaticamente nei “misteri” del culto; e che, infine, il dramma fu trascritto e aggiunto al vangelo, che era stato scritto in precedenza, ma in un primo momento non lo conteneva. Il fatto che uno sviluppo simile prese luogo nei culti di altri dèi-salvatori conferma la tesi che prese luogo anche nel culto di Gesù. E che un culto di questo tipo fosse possibile, anche in Giudea, dopo il ritorno da Babilonia, è dimostrato dall'esistenza del culto di Tammuz, che era di una natura simile. Il culto fu per lungo tempo insignificante e oscuro, ma con la migrazione degli ebrei, esso gradualmente si radicò nelle città dell'Asia, e cominciò a competere con i culti di altri dèi-salvatori simili. È molto probabile che ci sia un riferimento al culto di Gesù in Atti 13:6-11, dove Paolo si confronta con un certo falso profeta a Pafo. Il nome dell'uomo, vi viene detto, era Bar-Gesù, che significa “figlio di Gesù”. Egli fu anche chiamato Elima. Ora, El significa dio, ed Elima il dio forte o grande. L'uomo, naturalmente, potrebbe essere stato il figlio di un Gesù, poiché quest'ultimo non era un nome ebreo insolito; ma se un nome è simbolico è quasi certo che anche l'altro lo sia. Nelle due porzioni degli Atti degli Apostoli si può riconoscere un parallelismo tra gli atti e i discorsi di Pietro nell'uno e quelli di Paolo nell'altro. Quest'incontro di Paolo con Elima sembra essere un pezzo corrispondente all'incontro di Pietro con Simon Mago, Atti 8:20. Il signor Robertson [3] ha provato che questo Simone simboleggia la divinità samaritana Sem; e come Sem fu chiamato dai samaritani “il più grande dio”, si potrebbe pensare che sia riferito lo stesso dio nel nome di Elima. Questo è, però, molto improbabile, poiché su questo assunto non ci sarebbe alcuna spiegazione del nome Bar-Gesù; Inoltre,  è detto che l'uomo era stato un ebreo. Vi è forse un legame tra Elima e Sem, che verrà indicato in seguito. La spiegazione più probabile è che il falso profeta stesso rappresenta, non un dio, ma il sacerdote di un dio e che gli adoratori del dio definirono sé stessi “figli di Gesù”. Il fatto che l'uomo è chiamato falso profeta suggerisce che egli fosse un sacerdote del culto, perché nel secondo secolo il termine “profeta” non era più usato tra i cristiani nel senso dell'Antico Testamento. I capi delle comunità cristiane furono chiamati profeti. È già stato menzionato che il sacerdote di un culto  recava spesso il nome del dio. La contesa tra Paolo e questo falso profeta fu provocata da una differenza dottrinale. Ci viene detto nel verso 8 che l'uomo cercò di distogliere il proconsole dalla fede; Anche Paolo gli dice: “Non la smetterai tu di pervertire le diritte vie del Signore?”. Da cui si può dedurre che egli insegnò qualcosa sul Signore che fu, a giudizio di Paolo, una falsa dottrina. Anche se è detto che egli era stato un ebreo, la differenza tra lui e Paolo non è quella che emerse altrove tra Paolo e gli ebrei ortodossi. Questo è chiaro dal passo in generale, ma in particolare dalle parole con cui Paolo lo affronta: “Tu figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia”. Paolo non avrebbe potuto parlare in tal senso ad un ebreo ortodosso, oppure ad un giudeo-cristiano dell'antico tipo messianico. Nell'Antico Testamento, quando si fa riferimento a Jahvè, il plurale è quasi sempre usato “Elohim”; il singolare “El” è impiegato in particolare quando si parla di un dio diverso da Jahvè, per esempio, nel salmo 81:9, 10: “Non vi sia in mezzo a te alcun El straniero e non adorare alcun El forestiero”. In Isaia la parola è nuovamente applicata ad un idolo: “egli fabbrica un El”. Possiamo ragionevolmente concludere che questo falso profeta ebreo, che è a sua volta, come Simon Mago, chiamato stregone, rappresenta una comunità che adorava un dio diverso da Jahvè, al cui nome essi aggiunsero l'epiteto “forte” oppure “grande”. E se i membri si chiamavano Figli di Gesù, il dio che essi adoravano non poteva essere stato nient'altro che Gesù. Questo sarebbe coerente con l'accusa di Paolo che l'uomo insegnava una falsa dottrina riguardante il Signore; infatti Paolo non insegnava che Gesù fosse Dio. Sarà mostrato qui di seguito che ci sono alcune ragioni per pensare che la dottrina del Paolo originale fosse di natura gnostica, nel cui caso egli avrebbe un ulteriore motivo per accusare il sacerdote di un dio che morì come sacrificio espiatorio di pervertire le giuste vie del Signore. Sembra impossibile dubitare che esista qualche legame tra Simon Mago ed Elima. Simone è uno stregone; così lo è Elima. È detto che il primo aveva preteso di essere qualcuno di grande, e di essersi considerato la potenza di Dio; Elima significa “il dio forte o grande”. Simone è in conflitto con Pietro, Elima con Paolo. Simone, però, era un samaritano, Elima ebreo. La conclusione  naturale è che Elima fosse una controparte ebraica del samaritano Simone. Ora, i Samaritani credevano che il loro dio Sem fosse apparso tra gli ebrei come il Figlio, mentre in Samaria egli discese come il Padre; da qui segue che, se Simone rappresenta il Sem Samaritano, Elima rappresenta la sua controparte ebraica: vale a dire, il figlio, Gesù. Il nome “Elima” può essere applicato a Gesù perché i samaritani consideravano Gesù una manifestazione di Sem, come i cristiani in seguito lo ritennero una manifestazione di Dio. Il fatto che il falso profeta sia stato chiamato stregone può indicare che il culto di Gesù venne da Samaria; infatti Adriano, in una lettera al cognato, Servio, scrive: “Non vi è capo della sinagoga giudea, né samaritano, né presbitero di Chrestus che non sia un matematico” — ossia, astrologo, indovino, o ciarlatano. Chrestus qui
Significa il dio egiziano Serapide. Vi è un indizio nel vangelo di Giovanni che il culto di Gesù è nato in Samaria, poiché si afferma che gli ebrei hanno accusato Gesù di essere un Samaritano — un'asserzione che Gesù non ha negato. La storia dell'incontro tra Paolo e Elima è probabilmente fondata su un episodio reale. Si può ricavare che il racconto corrispondente del conflitto tra Pietro e Simone sia ispirato all'altra storia e sia mitico o simbolico.

3. I club comunisti

In relazione a ciascuno di quei culti c'era un'associazione che è stata definita un club comunista. In questi club i culti offrirono un'attrazione irresistibile ai lavoratori poveri delle grandi città. Erano completamente democratici, gli schiavi erano ammessi da pari a pari ai lavoratori liberi; anche le donne potrebbero esserne state parte e autorizzate a partecipare alle discussioni. Dopo una discussione nell'assemblea tutte le decisioni venivano prese e le regole venivano fatte coi voti di tutti i membri presenti. È facile comprendere il sollievo dalla stanca monotonia della vita quotidiana che queste associazioni offrono agli schiavi e ai poveri artisti. E, malgrado alcuni abusi, avevano un effetto emozionante. Veniva inculcato l'amore fraterno e in un momento in cui non c'era nessuna libertà politica, quando la vita umana era di poco conto e quando ricchi padroni disprezzavano e tiranneggiavano i loro schiavi e dipendenti poveri, nell'assemblea religiosa ciascun membro era libero, la sua opinione aveva il suo dovuto peso — quello dello schiavo più miserabile non meno di quello del più ricco uomo libero — e si insegnava che la sua vita era qualcosa di prezioso, poiché un dio era morto per la sua salvezza. Era in una riunione dell'associazione che venivano proclamati i misteri religiosi. C'era periodicamente un pasto comune, generalmente in combinazione con un sacrificio. Ma il pasto comune, l'agape o il banchetto amorevole, potrebbero essere stati tenuti separati dal sacramento sacramentale, com'era apparentemente il caso nelle comunità cristiane. Il primo sembra essere indicato in 1 Corinzi 11:20, dove lo scrittore biasima i disordini che talvolta si verificavano al pasto comune. Durante il pasto venivano cantati inni al dio del culto. Prima dell'ammissione i neofiti venivano esaminati dal presidente per quanto riguarda la loro purità. Era imposta l'astinenza da certi atti e cibi. Quando il neofita era considerato idoneo all'ammissione, veniva solitamente purificato dal battesimo. Questo sembra mostrare che l'origine del battesimo era allo scopo della purificazione corporea, come lo era tra gli esseni. Nel culto di Gesù esso acquisì gradualmente un significato simbolico. Questi gruppi di culto erano ovviamente un fattore molto importante per la rapida crescita della popolarità dei culti. Inoltre, procurarono ai membri del culto un'influenza politica: come individui erano insignificanti, ma agendo in concerto quando erano diventati numerosi si potevano farsi sentire. Di conseguenza, a volte sembravano pericolosi alle autorità e vennero pubblicati decreti per sopprimerli. Senza dubbio in quel caso avrebbero continuato come società segrete. La comunità cristiana venne ad essere chiamata il corpo di Cristo e i decreti della sua assemblea pronunciamenti dello Spirito Santo.

NOTE

[1] The Jesus Problem, pag. 96.

[2] Si veda anche Appendice A.

[3] The Jesus Problem, Appendice B.

venerdì 29 dicembre 2017

Sull'Evoluzione del Cristianesimo (VI) — Gesù

(prosegue da qui)


Capitolo VI

GESÙ

1. Gesù e Giosuè

Il nome
“Gesù”, come è stato detto prima, è una forma greca dell'ebraico “Giosuè”. Porterebbe ad apprezzare la situazione reale se la forma “Giosuè” potesse essere usata per tutto il Nuovo Testamento ovunque occorra il nome “Gesù”. Ora, c'è una buona ragione per credere che Giosuè oppure Gesù fosse un nome divino in alcune parti della Palestina prima dell'era cristiana. È dichiarato nel vangelo che i discepoli cacciavano demoni nel nome di Gesù — vale a dire, Giosuè. Ma cacciare i demoni fu un atto di esorcismo; e l'esorcismo fu sempre praticato mediante la recitazione di una formula che conteneva il nome di qualche deità. Si immaginava che questo nome incutesse timore nei demoni e li inducesse all'obbedienza. Giustino dice, per esempio: “Se fate l'esorcismo nel nome di uno dei vostri re o giusti o profeti o patriarchi, nessun demonio verrà sottomesso, mentre se uno di voi esorcizza nel nome del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il demonio viene ugualmente sottomesso”. E assurdo supporre che qualcuno avrebbe immaginato che i demoni potessero essere espulsi nel nome di un falegname sconosciuto. L'uso della frase ¨nel nome di Giosuè” indica che al principio dell'era cristiana il nome fosse parte di una formula riconosciuta impiegata nell'esorcismo. A dispetto dell'assiduità con cui successivamente i capi della chiesa cercarono e distrussero ogni prova documentale da cui si potessero ricavare i fatti del primo sviluppo cristiano, un poco è sopravvissuto, e ci è stato preservato il ricordo di una forma di parole usate negli esorcismi, che recita: “Io ti scongiuro per il dio degli ebrei, Gesù”. In questa formula di esorcismo noi abbiamo una prova che conferma la conclusione derivata dalla dichiarazione evangelica che il nome “Gesù” fosse di efficacia divina negli esorcismi in parti della Palestina dove Gesù non era mai stato. In altre parole, la formula fu pre-cristiana ed ebraica.
Di nuovo, come ha sottolineato il signor Thomas Whittaker, nell'epistola di Giuda, nel quinto verso, dove si presentano le parole
“il Signore”, la lettura più antica, che è riconosciuta al margine della Versione Riveduta, era Gesù — ossia, Giosuè. Così che la forma originale del verso era: “Ora voglio ricordare a voi......che Gesù dopo aver salvato il popolo dalla terra d'Egitto, fece perire in seguito quelli che non vollero credere”.  Nel verso successivo è detto che questo Gesù o Giosuè aveva relegato in catene eterne nell'oscurità, gli angeli che non mantennero il loro primo stato. Ma uno che aveva il potere di legare angeli erranti poteva essere concepito solamente come un essere divino o soprannaturale. Sedersi in giudizio degli angeli caduti era una funzione del Messia celeste, secondo il libro di Enoc. Quindi noi abbiamo qui una prova diretta che Gesù fu considerato un essere divino oppure il Messia da alcuni ebrei, poiché quest'epistola fu scritta o per ebrei oppure per giudeo-cristiani. Lo scrittore identifica Gesù col Giosuè dell'Antico Testamento, da lui considerato un essere divino. Giosuè, perciò, dev'essere stato considerato così da alcuni ebrei in tempi pre-cristiani.
C'è, inoltre, una prova nell'Antico Testamento dello status divino di Giosuè. Nel libro dell'Esodo, 23:20-21, è scritto:
“Ecco, io mando un angelo davanti a te per proteggerti lungo la via, e per introdurti nel luogo che ho preparato. Davanti a lui comportati con cautela e ubbidisci alla sua voce......poiché egli non perdonerà le vostre trasgressioni; poiché il mio nome è in lui”. Nel verso 23 è fatta la promessa che sotto la guida di questo angelo le tribù vicine saranno conquistate: gli Amorrei, gli Ittiti, i Ferezei, i Cananei, gli Ivvei e i Gebusei. E quelle tribù furono davvero conquistate sotto la guida di Giosuè, come è riportato nel libro di Giosuè. I libri storici dell'Antico Testamento furono composti dalla casta sacerdotale di Gerusalemme, il cui scopo principale era la costituzione di un culto puramente monoteistico di Jahvè; da qui la continua condanna degli ebrei e di alcuni dei loro sovrani per idolatria e adorazione di falsi dèi. È davvero improbabile che al tempo in cui quei libri furono scritti qualche ebreo adorasse ancora gli dèi di Moab e Ammon, ma è risaputo che ci fossero culti di dèi-salvatori tra di loro, ed è probabile che quelli fossero i culti condannati nei libri storici sotto i nomi appropriati al periodo al quale si riferivano. Se il culto di Giosuè era uno di questi, gli scrittori non potevano assolutamente tollerarlo e così ridussero il suo status a quello di un angelo. Successivamente, comunque, qualcuno che rieditò il libro di Giosuè evidentemente ritenne che anche questo fosse pericoloso, e così inserì i versi da 13 a 15 nel capitolo 5, che descrivono l'apparizione a Giosuè di un essere ovviamente soprannaturale, probabilmente inteso a rappresentare l'arcangelo Michele, in modo che lui potesse venire preso per l'angelo di cui si parla in Esodo. Questo passo è chiaramente un'interpolazione, in quanto non udiamo niente più di questo angelo, e le conquiste sono tutte fatte sotto la guida di Giosuè. L'interpolazione è essa stessa una prova che vi esisteva qualche concezione di Giosuè che aveva bisogno di essere ridimensionata. Che quel passo di Esodo si riferisce veramente a Giosuè è provato dalle sue parole: “infatti il mio nome è in lui”. Il nome “Giosuè” potrebbe essere interpretato Jahvè-salva, oppure Jahvè è salvezza. Quest'interpretazione è affermata da Giustino nel suo Dialogo con Trifone, ed egli si affanna a derivare analogie tra Giosuè e Gesù. E in Matteo leggiamo: “Tu lo chiamerai Gesù [ossia, Giosuè]: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”.
Una conferma ulteriore è presente in una collezione eterogenea di versi greci, profetici nella forma, gli Oracoli Sibillini, evidentemente scritti da ebrei, nei quali capita il passo: Allora di nuovo verrà dal cielo un uomo eccelso, lui che distese le mani sul legno fruttifero, il migliore tra gli ebrei, lui che una volta fermò il sole chiamandolo con belle parole e con labbra pure”. Qui, di nuovo, abbiamo una dimostrazione che Giosuè fu considerato un essere soprannaturale, dal momento che egli sta per giungere di nuovo dal cielo. In altre parole, egli è l'atteso Messia.
Abbiamo, alla luce di tutti i fatti qui esposti, prove abbastanza sufficienti per giustificare il signor J. M. Robertson nell'affermare che un culto di Giosuè esisteva fin da tempi remoti in alcune parti o in parte della Palestina. Il signor Robertson aggiunge qualche ulteriore prova a supporto di questa tesi. [
The Jesus Problem, pag. 85.] Egli menziona che nella liturgia del Nuovo Anno ebraico fino ad oggi Giosuè figura come il “Principe della Presenza”, la qual cosa sembra identificarlo col Metatrone del Talmud, poichè Metatrone è equivalente alle parole greche meta thronon, “dietro il trono”. Espressioni simili difficilmente si possono spiegare altrimenti se non supponendo che Giosuè fosse una deità palestinese subordinata a Jahvè Troviamo anche un “Angelo della Presenza” menzionato in Isaia 63:9 : “L'Angelo della sua presenza li salvò; nel suo amore e nella sua compassione li redense”. Quelle parole suggeriscono chiaramente Giosuè, visto che il nome implica una salvezza. Il termine “Angelo della Presenza” ci rammenta anche la descrizione del Messia nel libro di Enoc mentre sta di fronte a Jahvè alla testa dell'esercito angelico.
C'è un oscuro riferimento ad un sommo sacerdote Giosuè, il figlio di Iosedec, nel libro di Zaccaria. Ora, questo libro segna la transizione tra i libri profetici e le apocalissi. Nello stile e nel metodo presenta affinità con entrambi. Tutti quelli scrittori, sebbene collocandosi in un tempo precedente, volgono le loro opere a circostanze, eventi, o questioni scottanti del loro stesso giorno. Come dice Dujardin: “Gli autori delle profezie, come tutti gli scrittori della Bibbia, desiderano dare una lezione ai loro contemporanei; e, come tutti gli scrittori della Bibbia, si rifiutano di predicare in termini astratti”. Lo scrittore del libro di Daniele, desiderando pubblicare un manifesto riguardante gli eventi del suo giorno, pone la scena del suo libro nei giorni di Nabucodonosor, Baldassar, e Dario, e narra un romanzo storico inteso ad essere applicato dai suoi lettori alle circostanze politiche del loro tempo. In questo egli stava sviluppando un metodo che Zaccaria aveva utilizzato prima di lui. Lo scrittore più antico attribuisce la sua opera ad un profeta che visse nel regno di Dario, poco dopo il ritorno degli ebrei da Babilonia; ma il suo libro fu composto probabilmente non prima del 198 A.E.C. [
1] Egli non stava scrivendo Storia, non più dell'autore di Daniele; e sebbene menziona un evento storico — la ricostruzione del Tempio da parte di Zorobabele e Giosuè, il sommo sacerdote — il suo scopo è veicolare qualche lezione ai suoi contemporanei che essi avrebbero senza dubbio compreso, ma di cui noi non possediamo più la chiave. Tutto ciò che è detto circa Giosuè nella prima parte del libro dev'essere capito come simbolismo, ma quanto al significato del simbolismo è ora possibile solo far delle ipotesi. Lo scrittore profetizza che Giosuè “riceverà gloria, si siederà e dominerà sul suo trono”, e tuttavia egli sapeva che Giosuè, il figlio di Iosedec, che da lungo tempo era morto, non regnò, e fu, in realtà, un uomo di nessun significato particolare. Cos'è il significato di questo? Siccome è stato provato che Giosuè fu per alcuni ebrei un nome messianico, si potrebbe suggerire che nel passo messianico lo scrittore stava usando il nome di Giosuè, il sommo sacerdote, come un simbolo per Giosuè, il figlio di Nun. Alcuni degli scrittori profetici e apocalittici profetizzarono che quando il Messia sarebbe apparso tutte le nazioni del mondo sarebbero venute sotto la Legge di Mosè, e che il Tempio di Gerusalemme sarebbe diventato il comune centro di adorazione. Zaccaria poteva aver avuto in mente quell'idea quando scrisse: “Egli costruirà il tempio dell'Eterno......Anche quelli che sono lontani verranno per aiutare a costruire il tempio dell'Eterno”.
Lo scrittore dell'Apocalisse di Giovanni, che probabilmente comprese Zaccaria meglio di noi, credeva ovviamente che i passi in questione fossero simbolici, poiché introduce nel suo undicesimo capitolo “due testimoni” che sono chiaramente il Zorobabele e il Giosuè di Zaccaria e Aggeo, come si potrebbe osservare facilmente confrontando i versi 1 e 4 di quel capitolo con Zaccaria 2:1, e 4:2 e 3. Il “sacco” di Apocalisse 11:3 potrebbe anche rappresentare le “vesti immonde” menzionate da Zaccaria. Quei “testimoni” sono rivestiti di attribuiti soprannaturali e recitano una parte quasi-messianica. Dopo venir uccisi dalla bestia essi sono riportati in vita ed innalzati al cielo. Ci dev'essere nascosto di più dietro quei nomi di quanto è finora stato immaginato. Le vesti immonde e la figura di Satana sono anche, senza dubbio, simbolismo, e non hanno alcun riferimento al reale sommo sacerdote Giosuè.

2. L'Apocalisse di Giovanni

I critici tradizionalisti in maniera proprio non scientifica identificano il Gesù dell'Apocalisse di Giovanni col Gesù dei vangeli; ma, constatando che le due rappresentazioni hanno a malapena qualcosa in comune, il metodo scientifico richiede che l'identità dev'esser provata, e non semplicemente assunta sulla base del nome comune. Le due figure potrebbero avere la stessa origine ultima, ma lo sviluppo ovviamente è proceduto lungo linee davvero diverse; e il punto di divergenza di quelle linee è molto probabilmente pre-cristiano. Chi, venendo ad uno studio di quest'opera senza pregiudizi cristiani, poteva mai immaginare che i versi da 13 fino a 18 del capitolo 1 sono intesi ad essere una descrizione del mite e gentile maestro che i teologi liberali vedono nel vangelo?
Quest'Apocalisse non offre alcun supporto al concetto tradizionale di Gesù; in realtà, non si può riconciliare con esso. La probabilità è che il libro fosse originariamente un'opera ebraica ed abbia sofferto interpolazione da cristiani. Quell'opinione è tenuta da parecchi studiosi competenti. La misura dell'interpolazione potrebbe, comunque, esser meno di quanto è assunta generalmente. Il libro è supposto da alcuni critici essere stato scritto nel regno di Domiziano, e questo concorda colla datazione ecclesiastica (96 E.C.). Altri hanno mantenuto che fu composto intorno all'anno 69. Non è impossibile (c'è qualche prova interna che punta a quella via) che l'opera ebraica originale fosse scritta all'incirca in quella data, e che sia stata combinata con uno scritto cristiano posteriore. Anche la porzione puramente ebraica potrebbe essere composita. Apocalisse 17:6 che appare riferirsi a martiri cristiani, è probabilmente una interpolazione più tarda. Secondo l'ipotesi che l'opera originale sia ebraica, Apocalisse 13:7, che dice che fu concesso alla bestia (Roma) di far guerra ai santi e travolgerli, potrebbe riferirsi alla guerra tra gli ebrei e i romani, i santi essendo ebrei. Ed è molto probabile che la bestia con due corna menzionata nel verso 11 simboleggi la casa flaviana coi suoi due imperatori, Vespasiano e Tito. In quel caso, dal momento che Domiziano non vi è compreso, la parte del libro dove si presenta questo verso potrebbe essere stata scritta nel regno di Tito. Un'ipotesi che spiegherebbe alcune delle caratteristiche del libro è che esso è composto principalmente di due scritti ebraici, con frammenti aggiunti (lo scritto più antico datato attorno al 69 E.C., e il più recente nel regno di Tito oppure di Vespasiano), e che quest'opera composita fu rilevata dai cristiani e da loro interpolata.
Il libro nel complesso porta più supporto al credo che Gesù (Giosuè) fosse un essere divino per alcuni ebrei di quanto ne porta all'ipotesi di uno storico Gesù uomo. La figura ivi raffigurata non presenta affatto aspetti umani — un fatto che è abbastanza incomprensibile, considerando l'antica data del libro, se esso fosse stato basato sulla vita e morte di un uomo reale.
Non c'è nulla in comune tra il Gesù dell'Apocalisse e il Gesù evangelico al di là del nome e del fatto che ciascuno fu ucciso come sacrificio espiatorio. Dal momento che il Gesù dell'Apocalisse è dipinto come un essere celeste, la presunzione è che il suo sacrificio espiatorio sia un dogma; e ricondurlo come fosse un dato di fatto ad un evento storico è non scientifico. E, constatando che ci sono profe sufficienti che Giosuè, oppure Gesù, fosse un Messia, oppure un essere divino, per certi ebrei, l'assunzione che la sola base possibile per il Gesù dell'Apocalisse sia il Gesù evangelico è molto ingiustificata.
È vero che è detto che il primo Gesù era stato ucciso Non è detto, comunque, che egli fu crocifisso; è implicato, in realtà, che egli non lo fu. Lo scrittore dice:
“In mezzo al trono e alle quattro creature viventi e in mezzo agli anziani, stava un Agnello in piedi, che sembrava essere stato immolato”; che può solo significare “sacrificato”. L'Agnello è una vittima sacrificale; e se lo scrittore non si sta riferendosi alla crocifissione storica di un uomo particolare, del quale non c'è nessuna prova, e che è resa improbabile dall'intera natura dell'opera, egli ha in mente un rito sacrificale. Gli scrittori evangelici, avendo fissato la crocifissione del loro Gesù ad una data specifica nel primo secolo, di necessità considerarono come profezie i passi del Nuovo Testamento che furono immaginati riferirsi alla sua morte, perfino se essi figurano al passato. Lo scrittore dell'Apocalisse, comunque, dice che l'Agnello fu ucciso “dalla fondazione del mondo”, il cui significato naturale è che la morte sacrificale dell'Agnello è di ancestrale antichità. L'interpretazione prevalente è forzata, e vi si fa ricorso solo a causa della volontà di identificare il sacrificio dell'Agnello con la crocifissione di un uomo Gesù. Lo scrittore, allora, non ebbe bisogno, e di fatto evitò, di comprendere i passi cosiddetti messianici come profezie. Egli copia dettagli dall'Antico Testamento, specialmente dagli scrittori più apocalittici, Ezechiele, Zaccaria, e Daniele; ma in nessun caso egli utilizza un testo dell'Antico Testamento alla stessa maniera degli scrittori evangelici, senza dubbio perché la sua concezione della morte dell'Agnello fu diversa dalla loro della Crocifissione. Forse si potrebbe dedurre che i tre scrittori sopra nominati e alcune delle Apocalissi, compresa quella di Giovanni, appartennero ad una cerchia di pensiero in cui l'idioma peculiare impiegato era divenuto tradizionale e fosse ben compreso dai membri della cerchia, sebbene a noi non proprio comprensibile. Gli scrittori evangelici avevano il loro idioma, ma fu uno differente. In ogni caso, è proprio ragionevole supporre che lo scrittore dell'Apocalisse di Giovanni comprese il linguaggio figurativo e le allusioni di Zaccaria ad una misura che è impossibile per un lettore moderno. Egli adotta veramente qualcosa del linguaggio figurativo di Zaccaria, e senza dubbio intese utilizzarlo, e probabilmente lo utilizzò, nello stesso senso in cui lo fece Zaccaria.
In Apocalisse 1:7 leggiamo:
“Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto”. Questo passo è una riproduzione di Zaccaria 12:10 — parole che sono poste ovviamente sulle labbra del Messia come il rappresentante di Jahvè: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto”. Quei due passi meritano una considerazione accurata. Il termine “trafitto”, che nell'Apocalisse è riferito a Gesù, l'Agnello, conferma il credo che in quel libro Gesù non è considerato crocifisso, ma uno che è stato trafitto da una lancia nella maniera in cui venivano di solito sacrificate le vittime. È certo che lo scrittore del vangelo di Giovanni comprese  Zaccaria in questo senso, perché, riconoscendo nel passo una profezia messianica, quale effettivamente è, osservò che la crocifissione non vi avrebbe corrisposto, e di conseguenza introdusse nel suo racconto l'episodio di Gesù che viene trafitto con una lancia. Ora, lo scrittore dell'Apocalisse utilizza il passo in una maniera diversa; egli lo adotta semplicemente e lo fa suo. Sembra impossibile per una persona priva di pregiudizi dubitare che egli intese con ciò la stessa cosa intesa da Zaccaria. Il suo Gesù, che era stato trafitto come un sacrificio da tempo ancestrale, sarebbe venuto nella gloria, e coloro che lo avevano trafitto lo avrebbero visto ed egli sarebbe stato compianto. Zaccaria fa dire al Messia: “Io sono stato trafitto [che, naturalmente, è implicato dal contesto] e quando io vengo a distruggere i nemici di Gerusalemme essi guarderanno a me, a colui che hanno trafitto”. Ma nell'Apocalisse fu Gesù — ossia, Giosuè — che era stato trafitto. È possibile evitare la conclusione che lo scrittore capì che anche in Zaccaria fu Giosuè che era stato trafitto? Nel cui caso è altamente probabile che quello è ciò che intese Zaccaria. Questa conclusione è favorita dal fatto, già provato, che Giosuè fu il Messia per certi ebrei; e dal fatto ulteriore, per cui sarà fornita una prova nel capitolo successivo, che vi era esistito da tempi antichi un culto di Gesù in cui un Giosuè, o Gesù, era stato infatti trafitto come una vittima.
È possibile che in Zaccaria il
“lutto” di cui si parla ha un riferimento ad una cerimonia del culto, come lo ha il pianto per Tammuz.

NOTE

[1] Ragioni per questa data sono fornite nell'Appendice A.

giovedì 28 dicembre 2017

Sull'Evoluzione del Cristianesimo (V) — L'Evoluzione dell'Idea Messianica

(prosegue da qui)
CAPITOLO V


L'EVOLUZIONE DELL'IDEA MESSIANICA

1. Il Messia Sofferente

Alcuni critici, Strauss tra gli altri, hanno pensato che il Nuovo Testamento si potesse spiegare come un riflesso dell'Antico. C'è, naturalmente, una buona dose di verità in questo, ma è lungi dall'essere l'intera verità. Senza dubbio mettendo assieme passi dell'Antico Testamento si potrebbero produrre molti elementi importanti della narrazione evangelica. Ma una costruzione del genere sarebbe solo un corpo; prima che potesse vivere doveva essere provvista di un'anima. Una grande religione non si poteva costruire su un fondamento puramente letterario. I vangeli sono prodotti della religione, non il contrario; dunque si devono prima scoprire le condizioni che portarono alla nascita della religione; la spiegazione dei vangeli seguirà naturalmente. Anche se non possiamo trovare quelle condizioni nella loro interezza nell'Antico Testamento, vi possiamo rintracciare la produzione di un'atmosfera mentale che fu molto favorevole alla loro crescita.
I salmi sono una collezione di inni composti in tempi diversi per un periodo considerevole e cantati dalle congregazioni nelle sinagoghe. Quando una forte ondata di emozioni stava correndo attraverso la gente, ciò si sarebbe riflesso negli inni composti in quel periodo; molti di questi inni sono di conseguenza colorati dai sentimenti di gioia, di ringraziamento, di dolore o di delusione che animarono il popolo nei vari tempi in cui furono scritti, a seconda se la nazione fosse prospera o il contrario. La seconda metà del III secolo A.E.C. fu un periodo di grande miseria per gli ebrei. I re rivali di Siria ed Egitto stavano disputandosi il possesso della Palestina; eserciti marciarono nel paese; la gente subì molte crudeltà, e fu ridotta ad uno stato di disgrazia. Anche negli intervalli di pace, e quando il re di Siria aveva infine preso possesso del paese, prevalevano l'ingiustizia e l'oppressione. La gente era schiacciata dai tributi  e si imponevano tasse elevate; e uomini della loro nazione, incaricati dal re al governo del paese, sfruttarono l'occasione di arricchirsi per mezzo di una crudele estorsione. I salmi composti in questo tempo sono un grido di pietà e aiuto a Jahvè nella prevalente oppressione e umiliazione. VI si presentano passi del genere:
“Ci hai consegnati come pecore da macello....... Ci hai resi ludibrio dei nostri vicini, scherno e obbrobrio a chi ci sta intorno”.
Spesso il salmo è scritto alla prima persona singolare, ma esso è ancora il grido di tutta la nazione. Occasionalmente singolari e plurali si alternano nello stesso salmo:
“Pietà di me, o Dio, perché l'uomo mi calpesta, un aggressore sempre mi opprime..
“Tu conosci la mia infamia, la mia vergogna e il mio disonore; davanti a te sono tutti i miei nemici. Hanno messo nel mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto.
“Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo. Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: «Si è affidato al Signore, lui lo scampi; lo liberi, se è suo amico».”
Quei versi furono successivamente considerati messianici, ma non si riferiscono ad un individuo; sono immagini poetiche. Ora confrontiamo con quelli estratti il ben noto capitolo cinquantatre di Isaia, che è sembrato di grande importanza sia per i cristiani in generale che per gli studiosi del cristianesimo. L'ultima parte di Isaia fu composta da uno scrittore diverso e ad un tempo posteriore rispetto alla prima parte. È datato da Dujardin nello stesso periodo in cui furono scritti i salmi sopra citati:
“Ecco, il mio servo prospererà, sarà innalzato, esaltato, reso sommamente eccelso.
“È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida........
“Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire.......
“Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.
“Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità........per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
“Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello,
"Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo.......Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo”.
Questo passo, come i versi citati dai salmi, è stato ritenuto provvisto di un riferimento individuale; ma sembra che ci siano buone ragioni per respingere questo parere. La sua personificazione è un'immagine poetica. C'è una somiglianza tra le sue idee e la sua fraseologia e quelle dei salmi; ed è quasi certo che qui lo scrittore rappresenta le sofferenze degli ebrei come un espiazione dei loro peccati. Lo scrittore potrebbe aver avuto in mente il sacrificio espiatorio di una vittima umana, ma se così fosse questo non era la sostanza della sua idea — era solo il suo simbolo. La vittima è descritta come il servo di Jahvè e in questo libro il servo di Jahve è sempre Israele, la nazione ebraica, tranne quando lo si riferisce particolarmente per nome a qualche eroe ebreo, come Davide. Per esempio, troviamo: “Il Signore mi ha detto: «Tu sei il mio servo, Israele, per mezzo di te io manifesterò la mia gloria»”. “Ma tu, Israele, mio servo, ...... che io ho scelto”. Molto coerentemente, nei versi seguenti il riferimento è anche a Israele, che personifica il  popolo ebraico: “Ecco il mio servo, che io sostengo, il mio eletto in cui la mia anima si compiace. Ho posto il mio Spirito su di lui; egli porterà la giustizia alle nazioni. Non griderà, non alzerà la voce, non farà udire la sua voce per le strade. Non spezzerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante......Egli non verrà meno e non si scoraggerà, finché non avrà stabilito la giustizia sulla terra”.
In un secondo momento questo linguaggio figurativo non fu più capito; giunse ad essere inteso letteralmente come un linguaggio figurativo da applicare a qualche uomo oppure a qualche essere che fu più di un uomo; di conseguenza, venne considerata una profezia messianica, come lo è considerata da alcune persone, in effetti, ancora oggi. Quando la speranza e l'aspettativa messianiche si diffusero ampiamente tra gli ebrei, chi altrimenti, nella loro mente, se non il Messia poteva essere colui del quale Jahveh parlò come “il mio eletto in cui la mia anima si compiace” e dichiarò che doveva recare il Giudizio ai gentili? Questo passo poteva facilmente venir applicato al Messia, perché descrive un giudice, un sovrano; e nelle concezioni posteriori del Messia la sua funzione di giudice delle nazioni alla fine del mondo presente diventò prominente. Ovviamente, tuttavia, era molto meno probabile che la descrizione dell'essere sofferente e disprezzato nel capitolo cinquantatre sarebbe stato applicato al Messia. Infatti, la maggioranza degli ebrei non poteva applicarla così, perché essi avevano concentrato la loro mente su un Messia che, come un secondo Davide, doveva restaurare il regno e rendere gli ebrei una nazione grande e potente. Ma tra tutti i popoli ci sono uomini che considerano la bontà migliore della grandezza, l'altruismo e la mansuetudine migliori dell'orgoglio e della brama di gloria; e sappiamo, in realtà, che ci furono ebrei nella cui mente il ritratto di una vittima volontaria, che muore allo scopo di salvare i suoi seguaci, toccò una corda sensibile.
Gli ebrei furono a stretto contatto con i culti degli dèi che erano uccisi e risorgevano. In effetti, alcuni di questi culti probabilmente esistevano nella stessa Palestina, poiché lo scrittore del libro di Ezechiele dice di aver visto donne che piangevano per Tammuz vicino alla porta del Tempio e la data più probabile per Ezechiele è alla fine del quarto oppure all'inizio del III secolo A.E.C. [1]; da qui deriva che Tammuz fu adorato a Giuda in tempi post-esilici. Ora, Tammuz era un dio-salvatore, una divinità babilonese simile o identica ad Adone, il cui nome significa il Signore, una giovane divinità adorata fra i Fenici, che soffrì una morte violenta e resuscitò di nuovo. Divenivano dèi coloro che si sacrificavano per la redenzione di coloro che credevano in loro. Di conseguenza, almeno alcuni degli ebrei non sarebbero stati impreparati alla concezione di un Messia che era morto e risorto; e il passo in Isaia, se compreso messianicamente, implica questa concezione, poiché i versi conclusivi del capitolo cinquantadue, che introducono il cinquantatreesimo capitolo, dichiarano che il servo di Jahvè, anche se ucciso, sarà esaltato ed innalzato e sarà davvero elevato. Il paragone di questo servo di Jahvè ad una tenera pianta, una radice emersa dall'arido suolo, lo collegherebbe anche al Messia, di cui un nome tra gli ebrei era “il Ramo”. Inoltre, l'idea della redenzione di un popolo mediante la morte di un uomo era familiare agli ebrei. Il racconto di Abramo e Isacco è un'indizio della pratica antica del sacrificio umano tra di loro in tempi di disagio o pericolo; ed è certo che si verificava ancora qualche volta in un periodo molto più tardo, e che la memoria della pratica persisteva ancora. Infatti, secondo Sir James Frazer, i riti del Purim originarono e rappresentarono un sacrificio del genere.
È noto che i rabbini interpretarono messianicamente il capitolo cinquantatreesimo di Isaia, e ciò li spinse naturalmente a contemplare l'idea di un Messia sofferente. Alcuni di loro, comunque, raggiunsero la concezione di un Messia ben Giuseppe che avrebbe sofferto per il suo popolo, come una figura distinta dal conquistatore Messia ben Davide. È stato sostenuto che i rabbini furono indotti a questa posizione nel corso di controversie coi cristiani. Ma non c'è nessuna ragione di supporre questo. Appena il capitolo cinquantatreesimo di Isaia fu interpretato messianicamente, la concezione della morte redentiva del Messia diventò inevitabile, soprattutto perché il credo nella possibilità di una redenzione nazionale attraverso la morte di un uomo esisteva indipendentemente.
Nel secondo libro dei Maccabei, un giovane uomo che fu torturato e ucciso coi suoi fratelli da re Antioco Epifane, dice prima della sua morte: “Anche io, come già i miei fratelli, sacrifico il corpo e la vita per le patrie leggi, supplicando Dio che con me invece e con i miei fratelli possa arrestarsi l'ira dell'Onnipotente, giustamente attirata su tutta la nostra stirpe”. Alcuni ebrei, quindi, credettero che tutti si potessero redimere dalla morte di uno solo. 
Di conseguenza, è abbastanza naturale che dovrebbero aver considerato un tale atto di redenzione degno di un Messia. Lo scrittore del libro apocrifo ebraico, l'Assunzione di Mosè, scritto tra il 1 e il 30 A.E.C, in realtà, argomenta contro l'idea di un Messia conquistatore e sostiene che l'età messianica verrà portata a termine, non tramite la violenza, ma come risultato di sofferenza e martirio. Un'idea simile si trova in 4 Maccabei, scritto forse qualche anno prima. Con riferimento agli uomini torturati e uccisi da Antioco Epifane, lo scrittore afferma: “In modo che costituire un'espiazione per i peccati del popolo, e a causa del sangue dei pii, e della loro morte propiziatoria, la Provvidenza Divina salvò Israele, che prima era stato afflitto”. Così esistettero nella coscienza ebraica all'inizio del primo secolo concezioni che erano sufficienti a produrre l'idea di un Messia sofferente. È noto, in realtà, dal Dialogo con Trifone di Giustino che esistette realmente il credo che il Messia sarebbe apparso due volte, la prima volta nell'umiltà e la seconda nella gloria. 
Il credo che il Messia fosse già apparso e avesse sofferto fu probabilmente dovuto all'influenza della dottrina gnostica sulle idee che erano in corso di sviluppo nel cristianesimo. È stato mostrato che gli gnostici devono aver collocato necessariamente nel passato l'apparizione e la morte del Logos; è stato mostrato anche che alcuni di loro prima, e all'inizio, del primo secolo, stavano identificando il Logos col Messia o Cristo. Di conseguenza, all'inizio del primo secolo esisteva l'idea, e stava per essere insegnata, che il Cristo fosse apparso e avesse sofferto in qualche tempo. Nelle Odi di Salomone abbiamo una prova diretta che tale era il caso. Il tempo in cui la sua apparizione si era verificata fu in un primo momento abbastanza indefinito e non specificato, come potremmo osservare dalle epistole paoline. Non fu fino alla pubblicazione del vangelo che la morte del Cristo cominciò ad essere riferita ad una data precisa e recente.
Sarà inoltre mostrato nei prossimi due capitoli che c'è motivo di credere che, a parte la dottrina gnostica, già esisteva in Palestina il credo che un Gesù avesse sofferto come sacrificio espiatorio. Una concezione del genere avrebbe trovato il terreno più favorevole per la sua crescita nelle menti di persone di umile condizione che erano state abituate alla mansuetudine nel lungo periodo di turbolenza e di oppressione attraverso il quale avevano dovuto passare. E così poteva essere spiegata l'origine delle sette dei Nazareni e degli Ebioniti. Infatti, il nome “Ebionita” o “Povero” è stato spiegato come un termine di disprezzo applicato a loro da altri ebrei per la loro concezione del Messia, che fu considerato meschino o povero.
Non sarebbe affatto improbabile, da quello che sappiamo, che una setta pre-cristiana avrebbe dovuto tenere in riverenza un servitore di Dio o Messia che in un qualche momento aveva sofferto in passato come espiazione per i peccati degli ebrei; la quale concezione potrebbe
essere stata successivamente espansa in quella di espiazione per i peccati di tutta l'umanità. La concezione poteva facilmente essere esistita verso la fine del primo secolo A.E.C., poiché a quel tempo molti degli ebrei avevano cessato di sperare che la loro nazione potesse recuperare l'indipendenza con la forza delle armi sotto una leadership umana; e, sotto l'influenza del secondo libro di Esdra e di scritture simili, alcuni di loro avevano iniziato ad anticipare la fine imminente del mondo e l'ultimo giudizio, quando gli ebrei sarebbero stati salvati e avrebbero ereditato una nuova terra. E siccome erano stati costantemente assicurati dai loro scrittori ispirati che la loro salvezza era stata ritardata a causa della rabbia di Jahvè per la loro iniquità, difficilmente avrebbero potuto ignorare la sperata prospettiva che si apriva davanti a loro nel capitolo di Isaia il quale fornì la certezza che il servo di Jahveh — il Messia, il Cristo, come lo compresero —, aveva offerto sé stesso come un sacrificio espiatorio per le loro iniquità. Ed è importante notare che quel capitolo descrive qualcosa che era già accaduto. Non è una profezia; le sofferenze che descrive sono le sofferenze che la nazione ebraica aveva precedentemente subito o stava subendo. Cosicchè, quando il capitolo venne interpretato messianicamente, esso avrebbe naturalmente suggerito che il sacrificio espiatorio del Messia era già stato consumato.

2. Il Messia Trionfante

La parola ebraica “Messia” significa semplicemente “Unto”. La parola greca “Christos” ha il medesimo significato. Ogni re ebraico, essendo unto, era un Messia. È molto improbabile che mentre la monarchia perdurava gli ebrei si attendessero la venuta di un Messia in qualche senso speciale come liberatore. L'unto sedeva ancora sul trono di Davide, e dopo di lui il suo successore vi si sarebbe assiso a sua volta. La nazione era indipendente, anche se negli anni successivi della monarchia era senza dubbio povera e depressa. Le circostanze, però, non erano tali da dare origine alla brama di un campione regale che avrebbe dovuto riportare la nazione ad una posizione che aveva perduto. Ma quando la monarchia cessò di esistere, e il resto del popolo nel quinto secolo A.E.C. fu misero e indifeso e sottoposto a un re straniero, allora è facile capire come il ricordo dell'antica gloria del regno davidico sarebbe rinato, recando con sé la speranza che un giorno un discendente della casa di Davide avrebbe restaurato la monarchia; in altre parole, che divenisse il re unto — il Messia e con l'aiuto di Jahvè avrebbe reso gli ebrei di nuovo una grande nazione. Siccome questo Messia doveva essere un germoglio o virgulto del ramo di Iesse o Davide, egli fu chiamato dai profeti “il Ramo”. Quindi troviamo nel libro di Geremia, probabilmente scritto nella prima metà del quarto secolo A.E.C.: [2]
“Ecco, verranno giorni — dice il Signore — nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto;......Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora......Davide non sarà mai privo di un discendente che sieda sul trono della casa di Israele”.
Il primo Isaia non si accontenta più dell'indipendenza e della buona autorità ebraiche; egli ha cominciato ad avere sogni di conquista straniera, infatti scrive: “Grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare.......In quel giorno la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli, le genti la cercheranno con ansia”. La Siria e l'Egitto stanno per essere conquistati e gli ebrei dispersi riportati indietro in Palestina.
Con il libro di Daniele, intorno alla metà del secondo secolo, perveniamo ad uno scenario che alla fine ha portato ad una notevole espansione dell'idea messianica. “Io guardavo nelle visioni notturne, ed ecco sulle nubi del cielo venire uno simile a un Figlio dell'uomo; egli giunse fino all'Antico di giorni.....  A lui fu dato dominio, gloria e regno, perché tutti i popoli, nazioni e lingue lo servissero; il suo dominio è un dominio eterno”. Ora, questo essere, nell'aspetto di un uomo, non è il Messia. Abbiamo qui immagini poetiche, come nei passi citati da Isaia; e come in quei passi il servo di Jahvè è inteso a rappresentare il popolo d'Israele, così qui l'essere paragonato a un uomo simboleggia il medesimo popolo, ed è a lui che sono promessi dominio e gloria. Tuttavia, inteso letteralmente, questo simbolismo forniva le caratteristiche al ritratto del Messia che fu derivato successivamente. “Figlio dell'Uomo” qui significa solamente uomo. Un Messia è menzionato, come sempre, nel libro di Daniele che è descritto come “il Messia, il Principe”. Questo Messia fu Giuda Maccabeo. Cosicchè nella mente dello scrittore di questo libro il Messia fu ancora niente più che un unto che avrebbe dovuto ristabilire gli ebrei come nazione indipendente. Si può tuttavia notare che non era più a lungo ritenuto universalmente necessario che il Messia dovesse essere del seme di Davide.
Sotto l'influenza della filosofia greca e delle circostanze nazionali degli ebrei l'idea messianica subì un cambiamento considerevole, ed emersero concezioni davvero varie della natura e delle funzioni del Messia. Tra i farisei in genere persisteva la concezione originale. Il Messia doveva essere un discendente di Davide e un re di Israele; doveva purificare Gerusalemme dai pagani, colpire i senza dio e far ritornare gli ebrei della Diaspora. Ma la successione di disastri che afflissero la nazione ebraica, e la disperazione di contrastare il potere di Roma, portarono gradualmente la maggior parte dei farisei a disperare di poter ristabilire un potente regno ebraico tramite sforzi militari e mezzi puramente umani. Essi difesero la passività e la sottomissione e un'attesa paziente che aspettava il giorno in cui Dio avrebbe riscattato il suo stesso popolo. Il regno messianico sarebbe stato stabilito non colla forza delle armi, ma per il potere di Dio che agiva sulla mente degli uomini e per la sapienza e la santità del Messia. Gli uomini di tutte le nazioni sarebbero venuti a vedere la sua gloria e la sua carità, e gli sarebbero stati soggetti di loro spontanea volontà. Questa visione è espressa nei Salmi di Salomone, un'opera farisaica prodotta intorno alla metà del primo secolo.
Altri ebrei, come abbiamo già visto, avevano abbandonato l'idea che il Messia deve necessariamente essere discendente della casata reale di Davide, e, condividendo l'opinione dei farisei che il successo militare sotto una guida umano non era più da sperare, cominciarono a dipingerlo un essere più o meno soprannaturale, o un uomo dotato di poteri sovrumani oppure un essere totalmente divino alla cui idea contribuì senza dubbio il libro di Daniele. Troviamo questa concezione nel secondo libro di Esdra, capitolo 13, dove Esdra, in una visione, vede un uomo possente, il Messia, venire dal mare con le migliaia di cielo, e fuoco emette dalla sua bocca con cui sono distrutte tutte le nazioni che avevano oppresso gli ebrei. Si spiega, tuttavia, che questo fuoco è metaforico e rappresenta la legge. Il Messia supererà e giudicherà tutte le nazioni senza alcuna arma che non sia la sua autorità e potenza divina, che renderà impossibile a ognuno rifiutarsi di obbedire ai suoi comandi. C'è motivo di credere, come verrà mostrato in un capitolo successivo, che per alcuni ebrei il Messia soprannaturale doveva essere una reincarnazione di Giosuè. E non è impossibile che, da un pò, Giosuè fosse considerato anche il Figlio di Dio. In 2 Esdra 7:27-31, leggiamo:
“E chiunque scampa questi mali, vedrà le mie meraviglie.
"Perché mio figlio Gesù comparirà con quelli che saranno con lui e quelli che rimangono si rallegreranno entro quattrocento anni.
“E tutti quelli che siano stati liberati dai mali che ti ho detto prima vedranno i miei prodigi.
“Infatti si rivelerà il mio figlio Gesù assieme a coloro che sono con lui, e farà gioire per quattrocento anni coloro che saranno rimasti.
“E dopo questi anni accadrà che muoia mio figlio Cristo e tutti coloro che hanno respiro d'uomo.
“Questo mondo tornerà al suo antico silenzio per sette giorni come all'inizio primordiale, in modo che nessuno venga dimenticato, e dopo sette giorni accadrà che il mondo futuro non ancora sveglio si desterà e perirà quello corruttibile”.
“Gesù” è una forma greca del nome ebraico “Giosuè”.  Il passo sopra citato potrebbe aver sofferto un'interpolazione cristiana, anche se non è certo. Il tenore generale del passo non è affatto cristiano. Non è parte della dottrina cristiana, anzi è inconsistente con essa, che il Cristo debba morire dopo aver regnato quattrocento anni e debba risuscitare dai morti dopo sette giorni. Le affermazioni dei critici tradizionalisti su una materia di tal genere sono prive di valore, essendo abbastanza non scientifiche. Ogni menzione di un Messia Giosuè o Gesù in un'opera ebraica dev'essere naturalmente un'interpolazione cristiana, oppure essi dichiarano almeno che l'opera sia un'opera giudeo-cristiana. Tutte queste domande sono risolte in accordo ad una conclusione scontata. In due o tre altri punti di 2 Esdra, il Messia è chiamato il Figlio di Dio. Questo libro fu scritto probabilmente in prossimità della fine del primo secolo E.C.., ma la concezione del Messia che esso contiene era stata certamente corrente in una certa cerchia per qualche tempo prima. La dottrina della resurrezione trovata in 2 Esdra è la solita dottrina ebraica, che il corpo risorgerà.
Nel Libro di Enoc, scritto molto prima di 2 Esdra, nel 100 A.E.C. circa, la concezione del Messia celeste è sviluppata perfino più ampiamente, anche se in quel libro il Messia non è il Figlio di Dio. Egli è chiamato l'Eletto, anche il Figlio dell'Uomo. Sembra essere considerato il Principe degli Angeli, dal momento che si trova davanti al trono di Dio alla testa dell'esercito angelico. È anche detto che sia esistito prima della fondazione del mondo. Enoc, in una visione profetica, vede il Messia assiso sul trono della sua gloria, che è anche il trono dell'Onnipotente, per giudicare il mondo. Questo giudizio, apparentemente, dev'essere eseguito solo su quelli viventi all'arrivo del Messia. La fede in una resurrezione generale non esisteva tra gli ebrei di questo tempo. Lo scrittore di Enoc, però, afferma che dopo il giudizio ci sarà una resurrezione di israeliti. I giusti dimoreranno allora in cielo col Figlio dell'Uomo per sempre.
Connesse alla concezione del Messia celeste nelle Apocalissi vi sono diverse altre idee importanti che contribuirono allo sviluppo della dottrina cristiana. Alcune di quelle idee furono modificate dall'influenza di altre idee provenienti da una fonte diversa; e alcune in particolare furono universalizzate e spiritualizzate a causa dell'influenza gnostica. Tra quelle idee connesse c'erano quelle che si riferivano alla fine del mondo presente. La distinzione tra questo mondo e il prossimo fu fortemente derivata dagli scrittori apocalittici. Il mondo presente, essi pensarono, era essenzialmente malvagio e sotto il dominio di Satana e del suo esercito di spiriti maligni. Il dominio di Satana sarebbe stato interrotto da una grande battaglia tra un esercito di angeli guidati dal Messia da un lato, e da Satana e i demoni dall'altro. La fine del mondo presente, che si pensava fosse vicina, sarebbe stata inaugurata da guerre, tribolazioni, segni e meraviglie. L'Apocalisse di Baruc, riferendosi a quel tempo, dice: “E voi, sposi, non entrate, né le vergini si ornino di corone. E voi, donne, non pregate per generare.  Di fatto si delizino piuttosto le sterili e gioiscano quelle che non hanno figli, ma quelle che hanno figli si addolorino”. Il nuovo regno, il regno di Dio che dovrà essere stabilito dopo il giudizio e la distruzione di Satana, sarà un Regno soprannaturale di origine celeste, preparato da Dio prima della fondazione del mondo. Alcuni degli scrittori, tuttavia, pensavano che ci sarebbe stato un periodo intermedio, durante il quale il Messia avrebbe regnato sulla terra. Secondo l'Enoc slavonico, la durata di questo regno sarebbe stata di 1000 anni —- cioè il millennio. Secondo alcuni degli Oracoli Sibillini, la fine del mondo presente sarebbe accaduta mediante distruzione dal fuoco. Per alcuni degli scrittori lo stato futuro dei giusti è uno stato di benessere piuttosto materialistico, ma in altri è raffigurato più spiritualmente. I giusti brilleranno come le stelle e saranno come gli angeli. I malvagi sono condannati irrevocabilmente. O saranno completamente distrutti, oppure soffriranno la pena eterna del fuoco, oppure saranno gettati nell'oscurità eterna.
Abbiamo visto che gli gnostici credevano che il Logos, il Figlio di Dio, doveva morire e risorgere dai morti per assicurare la possibilità di resurrezione per l'umanità. È evidente che esisteva un credo simile presso un certo gruppo di ebrei messianici. Secondo lo scrittore di 2 Esdra, solo quelli che erano vivi all'arrivo del Messia dovevano condividere le glorie del suo regno. Quelli che erano morti in precedenza non potevano risorgere dai morti, finché il Messia non fosse morto; poi, dopo sette giorni, egli sarebbe risorto, e i giusti con lui. Ora, se questo credo fosse stato tenuto da qualcuno di coloro che consideravano messianiche le parti dei salmi e il cinquantatreesimo capitolo di Isaia, sarebbe stato facile per loro, a causa di quei passi, collocare nel passato la morte del Messia e la sua gloriosa seconda venuta nel futuro; specialmente perché questa seconda venuta era ritenuta vicina. Quando i cristiani avevano fissato la morte del loro Messia sotto il governatorato di Ponzio Pilato, essi furono obbligati a trattare i passi riferiti come profezie, anche se figurano al tempo passato e non si riferiscono ad un evento futuro. Quando furono scritti essi avevano alluso a circostanze contemporanee, oppure ad eventi che si erano verificati poco tempo prima, e sarebbe abbastanza naturale per un ebreo che li considerava messianici ed attendeva l'apparizione gloriosa del Messia nell'immediato futuro interpretarli come passi che descrivono qualcosa che era già accaduto quando essi furono scritti.

NOTE

[1] Sulle date dei profeti si veda Appendice A.

[2] Si veda Appendice A.