venerdì 28 novembre 2014

Sul Perchè Gesù Non È Mai Esistito AL DI LÀ DI OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO




R.G. Price è un prolifico autore americano piuttosto versatile in parecchi campi, dall'economia alla politica passando per la storia. Come blogger di Rational Revolution, ha pubblicato i più recenti risultati della sua ricerca sotto la teoria del Mito di Gesù, con l'intenzione presto di farne un unico libro.

Ha però abbandonato la vecchia definizione di «miticismo» come teoria del ''Mito'' di Gesù, in favore di una definizione alternativa che, a suo dire, meglio coesiste con l'evidenza disponibile: Fictional Jesus Theory, che andrebbe tradotto in italiano con ''Tesi del Gesù Fittizio''.

La differenza è sottile tra mito e finzione.

Osiride, Era, Anubi, Thor sono mitici per definizione.

Il Gesù delle epistole di Paolo potrebbe a sua volta essere definito mitico per definizione.

Ma il Gesù dei vangeli è un Gesù fittizio per costruzione.
Come si può dimostrare che i vangeli sono fittizi? Ciò è dimostrato dimostrando che praticamente ogni scena nel vangelo chiamato Marco si basa sia su allusioni letterarie alle Scritture ebraiche che sulle lettere di Paolo, e che tutti gli altri vangeli dipendono dal racconto di Marco.



Tuttavia R. G. Price non commette l'errore di Thomas L. Brodie di confondere il mito con la fiction strictu sensu, per cui dimostrare che i vangeli sono fiction equivaleva a dimostrare, per il prete irlandese, che Gesù non esiste. Price è chiaro in proposito:
Ma l'analisi di Marco solo dimostra che il Vangelo di Marco non è storicamente vero, non prova che Gesù non è mai esistito.


Subito dopo essersi così pronunciato sintetizza chiaramente qual è la sostanza del suo argomento contro il Gesù storico:
Che cosa dimostra che Gesù non è mai esistito è il fatto che ogni altro riferimento ad una vita reale di Gesù è rivelata essere dipendente dalla storia di Marco. È da quella storia che ogni altro riferimento ad una vita reale di Gesù fluisce. Il fatto che tutti gli altri racconti su Gesù sono tutti dipendenti da questa storia, significa che deve essere stata la sola fonte di "informazioni" sulla vita di Gesù. L'unica ragione per cui una storia immaginaria sarebbe l'unica fonte di informazioni sulla vita di qualcuno è se non ci fossero nient'altre informazioni su quella persona perché non sono mai realmente esistite.

A questo punto, cercar di sostenere che Gesù possa ancora veramente aver vissuto non ha senso, perché a questo punto è dimostrato che ogni aspetto dei racconti evangelici è fittizio, così al meglio, anche se qualche "Gesù reale" esisteva quella persona avrebbe avuto così poca relazione con il Gesù dei vangeli da non poter esser detto il Gesù dei vangeli ad ogni caso. Qul che il caso da me costruito mostra è che gli "insegnamenti" di Gesù sono in realtà gli insegnamenti di Paolo, e che le azioni di Gesù sono davvero allusioni letterarie. Non ci sono parole o gesti di Gesù che rimangono - è tutto Paolo, allusione letteraria, e invenzione.


Occorre ricordare che R. G. Price è un convinto sostenitore della tesi di Mark Goodacre secondo la quale Marco sarebbe il più antico vangelo da cui tutti gli altri sinottici dipendono (tesi accettata dallo stesso Richard Carrier). A incrinare seriamente la fiducia nella datazione tradizionale è a dire il vero la recente ricerca del prof Matthias Klinghardt e del prof Markus Vinzent, i quali propongono una diversa datazione dei vangeli canonici nel II secolo, in ordine di intenderli tutti come reazione al Vangelo di Marcione. È mia forte convinzione che l'argomento anti-storicità sollevato da R. G. Price mantenga tutto il suo peso e la sua validità anche sotto quel paradigma alternativo verso il quale sono sempre più inclinato ogni giorno che passa (inutile ricordare che la priorità di Mcn sarebbe straordinariamente attesa in qualità di transizione obbligata dal docetismo rivelatorio di un Paolo al docetismo storicista del II secolo, prima di giungere al Dogma cattolico del ''dio vero e uomo vero''). Questa è stata l'unica seria obiezione a Price da parte mia.



Secondo R. G. Price, Marco fu scritto come reazione e allegoria ai fatti del 70 EC. Ma l'essere Marco un'allegoria non implica che Gesù non è esistito ''al di là di ogni ragionevole dubbio''. A negare radicalmente ''al di là di ogni ragionevole dubbio'' la possibilità della sua esistenza storica è l'applicazione di un'ermeneutica del sospetto alla certezza di coloro che si dicevano e si dicono tuttora ''convinti'' della storicità di Gesù in virtù della (unica e sola) testimonianza del vangelo: quella così forte certezza supportata per contrasto da una mera allegoria tradisce per definizione l'assenza di altre testimonianze su cui insistere per provare la storicità di Gesù.  Così i primi storicisti cristiani fecero loro malgrado il lavoro che sarebbe spettato oggi al miticista: trovare il più alto numero possibile di prove di Gesù al di là del vangelo. Quelle prove non si trovarono. Probabilmente perchè non esistevano. Dunque Gesù non era esistito al di là di ogni ragionevole dubbio.

Solo chi è colpevolmente sprovvisto di prove se la sente di scommettere tutte le sue insistenti pretese su una deliberata ed ovvia allegoria.

È lo stesso R. G. Price a confermarmi che ho appreso perfettamente il suo argomento.
Quel che Giuseppe dice è fondamentalmente corretto. Il caso si basa su più gambe.

#1) Marco è finzione - ma questo non prova che Gesù non è mai esistito
#2) Scene chiave in Marco si possono dimostrare essere allusioni letterarie, il che dimostra che la loro inclusione in altri vangeli deve aver avuto origine da Marco, non da qualche altra fonte esterna.
#3) Questo dimostra che ogni racconto su Gesù in ultima analisi si basa su Marco.
#4) Il fatto che ogni racconto su Gesù si basa su Marco, deve significare che non si era in possesso di nessun'altra informazione su Gesù. Esso era l'unica fonte di "informazioni" su un Gesù umano.

#4 è quello che dimostra che Gesù non esisteva, ed è dimostrato per due motivi:

#1) Tutti i racconti su Gesù sono basati su Marco
#2) Vi erano forti dubbi circa l'antica esistenza di Gesù tra numerose cosiddette sette cristiane, che gli apologeti del secondo-quarto secolo dovevano combattere. La SOLA prova che loro mai radunarono era una lettura teologica basata sui vangeli, E QUELLO È TUTTO.

(Consiglio il lettore di leggersi il seguito del suo commento nell'originale inglese)



Innanzitutto, va sottolineato che era, allora come oggi, chiaro interesse dei primi cristiani storicisti quello di portare quante più prove possibili e diverse a dimostrazione, in ordine di confutare l'odiato docetismo di Marcione e lo scetticismo dei pagani, dell'esistenza di Gesù in carne e ossa ''nella carne''.


A questo proposito, R. G. Price ci tiene a sottolineare l'eccessiva insistenza da parte dei primi Padri della Chiesa nel testimoniare la storicità di Gesù basandosi su vangeli canonici che in una maniera o nell'altra tutti quanti derivano da un solo vangelo, ossia il primo e più antico di essi a venire mai scritto: Marco.

Che quell'enfatica insistenza sia autoevidente nel record, perfino quando inteso a confutare il docetismo (che non è miticismo ma storicità) di Marcione e dei marcioniti, si può comunque dimostrare semplicemente osservando quante finte ''prove'' della presenza storica di Gesù siano state fabbricate ad hoc dai cristiani, ricorrendo per giunta alla falsificazione di documenti non-cristiani: i Testimonia Flaviana e il Testimonium Taciteum insegnano. 

Ebbene, a rendere sospetta a lungo andare questa insistenza sulla storicità di Gesù è proprio il suo far leva soltanto e unicamente su rielaborazioni e permutazioni dei medesimi simbolismi e allegorie sentiti per la prima volta a memoria d'uomo da Marco.

Se si sentivano indotti a ricolmare la ''testimonianza'' del vangelo di Marco, mediante i successivi abbellimenti e cambiamenti dello stesso, di così tanta enfasi - e in ultima istanza solo e soltanto del vangelo del Marco (ed è in questo preciso punto che R. G. Price intende applicare la sua ermeneutica del sospetto) - allora questo non poteva che significare una sola cosa: nessun'altra fonte, eccetto Marco, alludeva a Gesù.

 È inutile cercarle persino a priori, altre fonti. Perchè ricercarle sarebbe pura fatica sprecata. Perchè quella fatica era già stata sprecata con ogni evidenza proprio dai primi ardenti venditori del ''Gesù storico'': gli stessi cristiani storicisti della prima ora. Altre fonti di informazione su Gesù semplicemente non esistevano.

 

Come una gigantesca Torre di Babele, tutta la conoscenza di Gesù si basa, volente o nolente, e non importa se sei cristiano o non cristiano, sul solo vangelo di Marco.  E come fondamenta di un così gigantesco edificio, il vangelo di Marco non offre certezze di sorta, nella misura in cui all'80% parla sicuramente il linguaggio del simbolo e dell'allegoria, mentre per il restante 10% si presta volentieri a plausibili letture allegoriche, e per il solo rimanente 10% nulla impedisce di credere a priori che simboli e allegorie vi si celino ancora dietro, perfino se non identificati.

Un libro del genere non può andare per sua intima natura oltre la semplice e profonda domanda: «è esistito Gesù?»

Ebbene, i primi cristiani storicisti hanno convertito con la forza della persuasione e dell'equivoco quella domanda riservata a pochi (perchè solo pochi sapevano la risposta) in una certezza venduta a molti: «Gesù detto Cristo è esistito indubitabilmente». Col risultato paradossale che perfino oggi chi si dichiara convinto della storicità di Gesù può brandire come
«prova» solo ciò che per propria natura non può mai essere considerata tale: il vangelo di Marco.


Se milioni e milioni di racconti e libri su Gesù si basa sulla prima storia, ovvero una storia rivelatasi oggi ad un attento scrutinio una storiella simbolica e fittizia, allora significa che è stata quella storiella fittizia a ''convincere'' la gente dell'esistenza storica di Gesù. Quella storiella fittizia ha generato (non ha importanza indagare perchè e come, al momento) la convinzione ''forte'' nella storicità di Gesù.

Ma quella storiella fittizia da sola DI REGOLA avrebbe dovuto generare non quella convinzione, bensì solo un mero, profondo interrogativo: chiedersi se Gesù era esistito con la stessa apprensione con cui oggi il lettore moderno si chiede se fosse risorto veramente dai morti. Il fatto però che la convinzione della gente è stata fatta basare, e venduta in quanto fatta basare, su quella storiella, e quella sola singola storiella, significa che i primi a mancare di altre fonti erano e sono tuttora proprio i venditori, di allora come di oggi come di domani.

Quindi il concetto della storicità di Gesù è stato introdotto per la prima volta da una storiella fittizia che avrebbe dovuto invece, se fosse stata correttamente intesa, generare solo del sano agnosticismo sull'esistenza storica di Gesù. Dunque se rimuoviamo l'errore (l'equivoco storico di prendere una storiella fittizia alla lettera), ne deriva che quel concetto (della storicità di Gesù) non sarebbe mai dovuto entrare nella Storia di legittimo diritto, visto che per farlo avrebbe dovuto quantomeno essere confermato nella sua definizione da un'altra fonte ipotetica che non fosse fittizia. L'ingresso di una certezza tra la gente è giustificata quando provata. In mancanza di prove, quell'ingresso non è giustificato.

E dunque in realtà quello è esattamente cosa è successo: quel concetto non è mai entrato nella Storia di legittimo diritto, perchè non sarebbe mai potuto entrare come tale. La convinzione attuale dei più sulla storicità di Gesù non rende più storico l'uomo Gesù di quanto lo fosse al tempo della creazione della prima storiella fittizia che lo nomina.

È come se la storiella concludesse con quest'esito per chi la interpretava veramente:
«è esistito o no Gesù?»
 
Poi quella storiella è stata letta e ripetuta per tanto tempo facendo finta che dicesse:
«Gesù è esistito indubitabilmente»
 

Ora però sappiamo che l'ultima pretesa si basa sull'errata interpretazione della prima storiella, la quale non era andata oltre il punto di domanda:
«è esistito o no Gesù?»

Ma non andare oltre il punto di domanda significa una sola cosa: che nessuno - dico: NESSUNO! - con fondato motivo aveva mai affermato l'esistenza di Gesù. E non solo: nessuno aveva anche solo tentato un'impresa del genere, dal momento che gli unici che avevano affermato l'esistenza di Gesù erano stati e sono tuttora da che mondo e mondo solo coloro che hanno portato come
«prova» quella sola storiella fittizia.

Dunque non ha semplicemente senso dire che ''Gesù è esistito'', perchè l'unico modo per dirlo equivale a portare come prova una singola storiella che per natura non può essere addotta come prova.

E dal momento che non è mai esistito nessuno nè mai esisterà nessuno che afferma l'esistenza di Gesù senza portare come prova quella singola storiella ma altre al suo posto (e non può esistere semplicemente perchè quelle altre prove non esistono) allora significa che Gesù non è esistito al di là di ogni ragionevole dubbio.


Se il desiderio dei cristiani era di portare prove della storicità di Gesù, avrebbero portato più prove possibili (la stessa falsificazione dei Testimonia Flaviana e del Testimonium Taciteum dimostra che questa necessità di più prove molteplici e varie c'era). Eppure tutto quello che sono riusciti a portare fino ad ora è solo un'allegoria densa di simbolismi come Marco, continuamente rienunciata nei modi più sofisticati. Perciò se furono costretti a basarsi solo su quest'allegoria e su nient'altro, significa che erano davvero a corto di prove, anzi del tutto sprovvisti di prove. La più semplice spiegazione a questa loro imbarazzante mancanza di altre prove fuorchè quella ''prova'' che è Marco dimostra quanto erano e sono colpevolmente in difetto nelle loro pretese: perciò Gesù non è mai esistito.


Non esiste, e non esisterà mai, una definizione di ''storicista'' che esuli da questa descrizione da me appena data: storicista è chi crede che il vangelo di Marco sia sufficiente a provare da solo la storicità di Gesù.

Ma il vangelo di Marco non può nè provare nè negare la storicità di Gesù. Dunque se finora la ''certezza'' nella storicità di Gesù è stata fondata soltanto su una ''prova'' non-prova come il vangelo di Marco, allora quella certezza semplicemente non ha diritto di essere chiamata tale. Eppure è un fatto che quella ''certezza'' abbia fatto irruzione nella Storia pur se sull'onda di una ''prova'' così vulnerabile quale è Marco. Nonostante sul piano strettamente logico quella certezza non fosse affatto giustificata, perchè, ripeto, il vangelo di Marco non va oltre, e non permette di andare oltre, il semplice, enigmatico interrogativo sull'esistenza del Messia di cui parla.

Sono innumerevoli gli esempi di personaggi storici ai quali è stata incollata una fiction poi spacciata come verità biografica. Ma quei personaggi sono considerati tutto sommato storici perchè la loro esistenza è corroborata da prove ulteriori, oltre alla fiction, che fiction non sono.

Io credo vagamente alla storicità di Maometto perchè, nonostante lo storico odierno, quando onesto, lo perda facilmente di vista, la Doctrina Jacobi tutto sommato parla di un misterioso quanto familiare ''profeta armato di spada'': il dubbio che non si tratti affatto di Maometto, perchè non lo chiama per nome, rimane, eppure non è così forte da non permettere di postularne l'esistenza previa vaga identificazione con l'uomo chiamato Maometto.

Io nego a priori la storicità di Siddharta Gautama detto il Buddha poichè già nel nome, nel cognome e nel soprannome tradisce sin dall'inizio tutto un programma religioso mero compendio di altri che lo avevano proclamato in sua vece.

Idem per Lao Tse, per Abramo, per Mosè, per Zoroastro.

Dunque se la gente ha iniziato a proclamarsi ''sicura'' della storicità di Gesù sulla scorta soltanto di un'allegoria intesa contra sensum alla lettera, l'ermeneutica del sospetto induce legittimamente a domandarsi, e a rispondere affermativamente alla domanda, se non fosse allora il caso che non esistevano altre fonti d'informazione sull'uomo Gesù al di là di quella sola allegoria.
Paradossalmente, allora, è proprio la certezza degli storicisti (cristiani e non cristiani indistintamente) la miglior prova, quella più schiacciante, contro la storicità di Gesù.

Perchè quella così forte ''certezza'', nella misura in cui, come s'è visto, è una gigantesca Torre di Babele costruita sul solo vangelo di Marco, non ha oramai altra funzione storica se non di ricordare, a chi ha ''occhi per vedere'', di nuovo e ancora di nuovo, che l'introduzione del concetto di un Gesù storico nella Storia del mondo si deve unicamente, solo e soltanto, ad una lettura, contra sensum, di un'unica, deliberata allegoria. 

E se pertanto è sicuro che non esistevano altre fonti di informazione sull'uomo Gesù (perchè, se soltanto fossero esistite, i primi cristiani storicisti avrebbero avuto una cura maniacale per assicurarsene la preservazione, brandendole orgogliosamente in alto come prove oggettive della storicità di Gesù), allora la ragione della loro straordinaria assenza è molto probabilmente una sola: che l'uomo Gesù non è mai veramente esistito. E questo al di là di ogni ragionevole dubbio.

domenica 23 novembre 2014

Sul solo testo ebraico di tutto il Nuovo Testamento: l'Apocalisse





Il titolo vuol essere volutamente provocatorio, ma coglie bene l'idea che voglio esprimere in questo post. Io so benissimo che Paolo ''disse'' di essere un fariseo, che Marco non è un vangelo anti-ebraico, che Matteo sarebbe ''giudeocristiano'', che Luca-Atti intendeva presentare ''continuità'' con l'ebraismo, che infine il protocattolicesimo ''derivò'' dall'ebraismo...

Ma è davvero così? Così può essere solo se smercifico a basso prezzo il concetto di ebraicità di un testo al punto da ritenere ebreo ogni testo cristiano per il solo fatto che si richiama alle Scritture sacre dell'Antico Testamento.

Ma come posso veramente ritenere un ebreo l'autore del vangelo di Matteo - il vangelo considerato più ''giudeocristiano'' di tutti - quando, nonostante tutto il suo dichiarato amore e utilizzo delle Sacre Scritture ebraiche, non è mai riuscito a spiegarmi perchè ha abbandonato del tutto le pratiche ebraiche? Ma al contrario tradisce da tutti i pori il desiderio di convergere a sempre più indipendenza dall'ebraismo, perfino quando vuole dichiararsi indipendente all'interno di esso?

Come posso ritenere l'uomo chiamato Paolo un ebreo quando dichiarava esplicitamente che a dare a Mosè la Legge furono angeli inferiori, non Dio, e che per giunta quelli angeli inferiori non erano affatto buoni, ma erano i famigerati demoniaci
τά στοιχεία του κόσµου? Un vero ebreo si sarebbe spinto così audacemente in territorio ''eretico'' al di là del rispetto della Torah che accomunava e accomuna tuttora da che mondo e mondo ogni ebreo del globo? E non sto neppure ricordando, per puro amore di discussione con un decadente consensus, il mero sospetto che insinua dubbi sulla vera fedeltà dell'uomo chiamato Paolo allo stesso dio dei giudei...

Ma in realtà, se davvero trascuriamo le lettere di Paolo e qualche altra epistola del I secolo, se davvero il prof Markus Vinzent riuscirà a convincermi definitivamente che tutti i quattro vangeli canonici non sono del I secolo ma furono scritti nel II secolo in risposta a Marcione e al suo Vangelo, allora i loro autori di ebraico potrebbero avere solo un generico rispetto per le Scritture ebraiche e la morale ebraica, potrebbero pure avere genitori ebrei ed essere nati in quel di Israele, ma chiaramente non potrò considerarli veramente ebrei senza far torto a chi Ebreo lo è veramente nel sangue e nello spirito. Nel presente come nel passato come nel futuro.


Quando una religione come quella ebraica coincide così tanto con l'appartenenza etnica ad un popolo, ogni tentativo di dichiararsi partecipe e/o continuatore di quella gelosa esclusività etnica non può che essere interessata, e dunque tradire una sottile volontà politica di cooptazione. E i protocattolici erano maestri in questo. La loro Reductio ad Judaeum - espressione col quale indico la loro apparente infatuazione pubblicitaria per l'ebraismo - celava in realtà da sempre, come tuttora, una spregevole e ideologica Reductio ad Unum. Il mito dell'unica, ''legittima'' origine: Gesù detto Cristo.

E questa loro mossa dettata da ragioni ideologiche, perchè l'amore per la verità trionfi, deve meritare lo stesso disgusto e lo stesso scandalo che provocano alle nostre orecchie le sedicenti pretese di un Giustino Martire, il folle apologeta del II secolo:

La famosa affermazione di Giustino Martire che Socrate era un cristiano illumina il problema di chiamare la comunità dell'Apocalisse "cristiana". Giustino scrive: "Coloro che hanno vissuto ragionevolmente sono cristiani, anche se sono stati ritenuti atei, come tra i greci, Socrate, Eraclito, e uomini come loro" (Prima Apologia 46). Il problema è evidente. Il passo presenta un vicolo cieco, un'aporia, per l'interpretazione all'interno di una tradizione storico-critica, piuttosto che teologica: Socrate ed Eraclito non sono cristiani.
(John W. Marshall, Parables of War Reading John's Jewish Apocalypse, pag. 19, mia libera traduzione e mia enfasi)

Il libro le cui parole ho appena citato, Parables of War Reading John's Jewish Apocalypse, di John W. Marshall, dichiara senza mezzi termini quella allora che è un'ovvia verità, in un mondo dove niente è come appare:

Per metterla senza mezzi termini, io sostengo che l'Apocalisse è un documento ebraico e non cristiano.
(pag. 2, mia libera traduzione e mia enfasi)

Ci tiene subito dopo a non voler essere affatto contraddetto, pena il rischio di semplificazioni e travisamenti sempre in agguato:
Il mio argomento non è affatto qualcosa di simile a "tutti i cristianesimi prima del 70 CE devono essere intesi come giudaismi." Né sto derivando da una distinzione che vede in Giovanni un "Ebreo per nascita, Cristiano per fede" e quindi intende il suo documento etnicamente ebraico.
(pag. 5, mia libera traduzione)


E come effetto collaterale, viene a cadere l'aggettivo che così spesso si è abusato nei riguardi del vangelo di Matteo, per accomunarlo in qualche modo al testo dell'Apocalisse:
La categoria "giudeocristiano" .... funziona, come fa spesso, come marcatore di un cristianesimo derivato, come l'etichetta di un terreno torbido tra due alternative ben scolpite, come un ibrido che è improbabile esser in grado di riprodurre.
(pag. 7-8, mia libera traduzione e mia enfasi)


Ma qual è allora il problema?

Semplice. Il cosiddetto autore ''giudeocristiano'' del vangelo di Matteo aveva pronunciato quelle agghiaccianti parole:
E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli»
(Matteo 27:25)

...dove l'ironia implicita è che, pur rovesciando sul popolo ebraico la collera divina per il tentato deicidio dietro un'improbabile parvenza ebraica di facciata, comunque il sangue di Gesù sulla croce ha scopo espiatorio dal momento che salverà nominalmente, lavando paradossalmente i suoi peccati, di quel popolo minacciato nella sua stessa esistenza (con le guerre giudaiche del I e del II secolo) perchè reo di invocare su di sé la sua stessa distruzione, almeno le credenziali, preservandole nel Novus Israel che è la nascente chiesa proto-ortodossa. Come teologia della sostituzione, questa non può e non potrà mai essere considerata qualcosa di ebraico, qualcosa che un vero ebreo potrà mai rischiarare. Perchè si tratta della sottile negazione nichilistica della propria identità.  L'antigiudaica teologia della sostituzione, perciò, è l'essenza del proto-cattolicesimo.


Ecco invece quali sono le parole di un vero ebreo sicuro di essere tale senza nessun'obiezione di sorta:
Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – eppure sei ricco – e la bestemmia da parte di quelli che si dicono Giudei e non lo sono, ma sono sinagoga di Satana.
(Apocalisse 2:9)

Un vero ebreo non sente la necessità di rinnegare l'ebraicità di altri ebrei, se davvero quelli altri ebrei sono di diritto membri di Israele. Un vero ebreo, se impugna quelle parole, lo farà con fondato motivo: i suoi nemici non sono ebrei.

Eppure, a detta di un consensus che non è più tale, i suoi nemici sarebbero ''ebrei'':
.... una tendenza che continua per quasi diciassette secoli: tutto di nascosto, trasforma "quelli che si dicono giudei" in "i giudei che si dicono giudei e non lo sono''.
(pag. 13, mia libera traduzione e mia enfasi)

Il prof Marshall si riferisce al vizio diffuso di considerare cristiano l'autore del libro dell'Apocalisse.

Per Yarbro Collins, Cristo funziona qui come conditio sine qua non del cristianesimo nell'Apocalisse. Senza riferimenti a Cristo, non è cristiana; con i riferimenti, lo è.
(pag. 49, mia libera traduzione e mia enfasi)

Qual è la differenza, allora?
Gli studiosi sono pronti a dire che l'Apocalisse procede da una matrice ebraica; io sostengo che si muove all'interno di una matrice ebraica. La differenza è piena di significato.
(pag. 69, mia libera traduzione e mia enfasi)


Dunque siamo in presenza di un documento ebraico. Perciò quel documento dev'essere piuttosto antico:
L'interpretazione delle sette teste come sette re e la gematria di 666, però, puntano a Nerone e al mito di Nerone redivivis/redux, come la stessa Yarbro Collins riconosce (1984a: 59, 100). L'episodio dei due testimoni o profeti sottolinea anche il contesto della guerra giudaica. L'evidenza esterna, soprattutto la testimonianza di Ireneo, non è abbastanza affidabile per ribaltare questi indicatori. I risultati di queste indagini suggeriscono che l'Apocalisse è stato scritta nel 69 o 70 CE con echi risalenti al regno di Nerone che ha fissato la cornice della narrazione ("Ero a Patmos...") in quel tempo.
(pag. 89, mia libera traduzione e mia enfasi)

Saruman? No: l'autore dell'Apocalisse!

Ecco la vivida descrizione del Sitz im Leben di quei tempi drammatici:

...(1) all'interno della diaspora, durante la guerra in Giudea, ci sono stati vari modelli di rapporti tra ebrei e gentili, che vanno dall'indifferenza passando per la condanna congiunta dei ribelli alle rivolte contro gli ebrei della Diaspora; (2) i vari modelli di interazione implicano una serie di atteggiamenti e disposizioni da parte degli ebrei della diaspora, per esempio, l'assimilazione confortevole, distinzioni sofisticate tra gli ebrei, e la resistenza al grande complesso culturale greco-romano; (3) nella parte occidentale dell'Asia Minore, l'Apocalisse di Giovanni testimonia di un gruppo di ebrei che intraprendono un modello di resistenza al più ampio complesso culturale greco-romano.
(pag.98, mia libera traduzione e mia enfasi)


Si preferì la terza opzione: una resistenza non violenta, ma pur sempre riluttante ad ogni compromesso col nemico esterno, e perciò fatalmente condannata all'estinzione.
 
Nel caso dei passi sulla "sinagoga di Satana", suggerisco che l'asse di differenziazione lungo il quale Giovanni divide la sua comunità da quella dei suoi nemici non è fede in Gesù, ma disposizioni verso l'impero romano e il più vasto complesso culturale greco-romano, soprattutto per quanto riguarda il consumo di cibo offerto agli idoli. Nel caso dei testi sui "comandamenti di Dio",  rendo il semplice suggerimento che la frase ha tenuto tutto il suo significato comune (e polemico) nell'ebraismo del primo secolo e che il valore di un nuovo orientamento durante la lettura di questi testi è quello di riconoscere questo e, per di più, di capire le frasi "testimonianza di Gesù" e "la fede di Gesù" a sostegno di questa semplice comprensione dei "comandamenti di Dio."
(pag. 124, mia libera traduzione)


Dunque i nemici dell'autore dell'Apocalisse non sono gli ebrei che non credono in Gesù, ma sono ebrei che, credendo o meno a Gesù, hanno deciso di scendere a patti col regno di questo mondo, Roma.

La sua descrizione dei suoi nemici in termini di idolatria e come figure al di là del recinto del legittimo ebraismo chiarisce che gli avversari da lui caratterizzati come seguaci di Balaam, Gezebele, o Nicolaiti non sono definiti dall'essere ebrei, ma dalle loro relazioni con non-ebrei e con una pratica non-ebraica.
(pag. 130-131, mia libera traduzione e mia enfasi)
Non stupisce allora che il mondo fintamente ebraico condannato dall'autore ebreo dell'Apocalisse sembra molto simile allo stesso mondo dove trovò terreno fertile a suo tempo non solo il vangelo di Paolo, ma dove germogliarono anche, nel II secolo, il protocattolicesimo e lo gnosticismo cristiano.
 ...sembra che le preoccupazioni di Giovanni riguardo l'integrazione con la religione e la cultura greco-romana così come le sue preoccupazioni nell'utilizzo del termine "Ebreo" suggeriscono che il gruppo da lui opposto consiste di una fusione di pagani timorati di Dio ed ebrei comodamente ellenizzati che accolgono i timorati di Dio senza richiedere a sé o ai loro adepti una sostanziale (agli occhi di Giovanni) separazione dalla cultura greco-romana.
(pag. 134, mia libera traduzione e mia enfasi)

 

La parabola dell'Apocalisse non può che presentarsi pertanto nei tratti di una vera e propria parabola di guerra.
Interpreto la parabola di Apocalisse 12, quindi: Israele come entità celeste lavora per portare alla luce il Messia, e l'avversario di Israele si sforza di contrastare la venuta del Messia. Il Messia è nato e poi ripreso a Dio, mentre la donna lotta con il suo destino sulla terra sotto la protezione di Dio. Cioè, la venuta di Gesù funziona come un evento che inaugura il culmine della lotta tra il bene e il male. Questa lotta avviene sia tra le  potenze del cielo che tra i seguaci dell'agnello sulla terra, che conquistano attraverso il sangue dell'agnello (12.11).
...
Con la nascita e l'ascensione del Messia, Israele entra in un tempo provvisorio di persecuzione mista e protezione. Con la nascita e l'ascensione del Messia, il conflitto in cielo si risolve nel cielo dalla potenza dell'angelo Michele e deve solo essere elaborato sulla terra con la testimonianza costante dei seguaci del agnello.

(pag. 137-138, mia libera traduzione)


Ne deriva che l'Apocalisse è preziosa per sapere quali contrastanti sentimenti serpeggiavano intorno al 70 presso la Diaspora ebraica:
 Entrambi gli elementi del commento di Giovanni - sopportazione e rispetto dei comandamenti -, sono presenti nella descrizione dei 144.000. In primo luogo, i 144.000 non fanno altro che stare in piedi e cantare, cioè, sopportano la situazione specifica e la posizione dei guerrieri di Sion è anche importante alla luce della situazione dei difensori di Gerusalemme. Con diverse legioni romane che circondano la città, i suoi difensori potevano fare poco più che adorare Dio e sperare nell'aiuto divino. In secondo luogo, la caratterizzazione della condotta morale dei guerrieri (Apocalisse 14:4-5) specifica (ma di poco) cosa potrebbe significare l'osservanza dei comandamenti. In un certo modo, le testimonianze di Giovanni e Flavio Giuseppe concordano qui: la diaspora non ha fatto nulla per togliere l'assedio di Gerusalemme. La differenza è che Giovanni intende chiamare la sua comunità alla resistenza, alla fedeltà e all'obbedienza come mezzi attivi di partecipazione nella comunità delle creature di Dio come in cielo così sulla terra, mentre Flavio Giuseppe cercava di ritrarre una diaspora pacifica colma di un ragionevole disgusto per la ribellione.
(pag. 141, mia libera traduzione e mia enfasi)

Di nuovo e ancora di nuovo mi rendo conto di quanto fosse meramente propagandistica e pubblicitaria l'opera di Flavio Giuseppe, al confronto con le più sincere note dolenti ascoltate nell'Apocalisse:

Nel loro insieme, con le sue accuse che i suoi nemici sono una "sinagoga di Satana" (e la sua chiara polemica contro l'idolatria), l'affermazione di Giovanni che la sua comunità fa (e dovrebbe) obbedire ai comandamenti di Dio articola la sua preoccupazione per la loro condotta nel contesto della Guerra Giudaica. Essi devono allontanarsi dal più ampio complesso culturale greco-romano e attenersi alle pratiche specifiche derivanti dall'alleanza di Dio con il suo popolo. Si tratta di una nuova immagine della Diaspora ebraica durante la guerra giudaica - anche se non erano di alcuna rilevanza militare per gli atti di guerra, ne erano, in un certo senso, i sostenitori. L'invito di Giovanni a tener duro fra le nazioni smentisce l'omogeneità del disprezzo per la guerra che Giuseppe Flavio descrive nella diaspora.
(pag. 148, mia libera traduzione e mia enfasi)

L'autore dell'Apocalisse raggiungeva forse punte quasi di schizofrenia nel suo odio xenofobo e fondamentalista, ma non si può certo negare che era libero, principalmente libero di vendere quello che voleva come frutto della sua pretesa allucinazione spacciata per rivelazione divina, nonchè di fare quello che voleva col mito di Gesù (in questo non diverso dagli altri): 
In Apocalisse 11:1, Giovanni riceve il comando di misurare il tempio di Dio nella città santa. In Apocalisse 11:8, i due testimoni di Dio giacciono morti per la strada della grande città, che è spiritualmente chiamata Sodoma ed Egitto. Il mio scopo è quello di presentare la tesi che la città santa "è" Gerusalemme e la grande città "è" Roma, senza ricorrere a speculazioni su fonti poco associate. Inoltre, è mio compito sostenere l'ambiente storico di questa interpretazione all'interno della guerra giudaica.
...
Sulla base dell'impiego di Giovanni del termine "città" e la coerenza con cui le altre occorrenze del termine si modificano negativamente o positivamente per fare riferimento a Roma o Gerusalemme, non è non-problematico identificare la città santa e la grande città in Apocalisse 11 . Gli usi di primo-ordine delle designazioni "città santa" e "grande città" sono Gerusalemme e Roma, rispettivamente. Diverse ipotesi tradizionali, i quali mi sforzo di sovvertire, sottendono l'identificazione della città santa e della grande città in Apocalisse 11. La prima ipotesi, che ho contestato nel corso di questo studio, è che l'Apocalisse di Giovanni è un documento cristiano ed è quindi suscettibile di avere una visione negativa di Gerusalemme come quello che Apocalisse 11: 3-13 implica della ''grande città''. Non è necessario, a questo punto, entrare in una critica dettagliata della prima parte di questa vista. La seconda parte - l'ipotesi che un documento cristiano potrebbe liberamente denigrare Gerusalemme - è problematica, e secondaria ricerca, che non è direttamente interessata con l'Apocalisse di Giovanni, argomenta contro tale idea. Esaminando più specificamente l'Apocalisse di Giovanni, molti commentatori suggeriscono che l'autore valorizza una "celeste" o una "nuova" Gerusalemme ma svaluta una "terrena" o "vecchia" Gerusalemme. Qui, i commentatori spesso confondono distinzione e opposizione. Giovanni distingue tra i fenomeni celesti e terrestri, ma, allo stesso tempo, li intende analoghi. Così vede in Roma l'analogo terreno dell'entità cosmica Babilonia; nei santi per i quali egli scrive, l'analogo terrena dei santi che sono sotto l'altare del tempio celeste; nei figli della donna vestita di sole, l'analogo terrena dell'esercito di Michele che sconfigge il drago in cielo. In Gerusalemme - la Gerusalemme terrena, Giovanni vede l'analogo terreno della città celeste che considera i suoi compagni sulla terra già cittadini. Ci sono diversi modi di ritrarre il conflitto che è fondamentale per l'Apocalisse di Giovanni: Satana contro Dio, la bestia contro i santi, Roma contro Gerusalemme. È sempre un atto di scelta, di selezione, e anche di riduzione distillare un'opera letteraria e precisare cos'è in merito all'utilizzo personale di Giovanni, tuttavia, suggerisce che il conflitto di città, Roma /Babilonia contro Gerusalemme, è una prospettiva sull'Apocalisse a cui l'autore sembra desideroso di portarci. Così, è possibile e vantaggioso capire l'Apocalisse di Giovanni come una narrazione sul conflitto di due città: Gerusalemme e Roma. Il progetto persuasivodell'Apocalisse può essere inteso nel rivelare Roma - centro di  potere economico, politico, e rituale - negativa in tutti i sensi e nel sostituire l'orientamento a quel centro con l'orientamento alla Nuova Gerusalemme.  Formulata in termini più antropologici, la domanda in questione nell'Apocalisse di Giovanni è il rapporto del pubblico con la cultura romana/ellenistica dominante. Il progetto di Giovanni è quello di garantire che la relazione sia controculturale piuttosto che sottoculturale (con la promessa che il pubblico sarà la cultura dominante nell'eschaton, se mantengono la loro relazione controculturale). I suoi principali mezzi per realizzare questo è la metafora della città e della cittadinanza. La mia proposta è che Apocalisse 11:1-13 è da leggersi come una parabola sulla guerra giudaica posta in due scene: la prima è posta a Gerusalemme durante la guerra giudaica, la seconda a Roma, allo stesso tempo. In questa parabola della guerra, Giovanni ammette la terribile situazione di Gerusalemme, ma promette che la sua vulnerabilità è solo parziale e temporanea e offre una visione della distruzione di Roma come punizione per il suo rifiuto del messaggio di Dio e, più sorprendentemente, per la sua crocifissione di Gesù a Roma (intesa "spiritualmente"; si veda Apocalisse 11:8).

(pag. 163-165, mia libera traduzione e mia enfasi)

Con le mani così libere, l'autore dell'Apocalisse decise per la prima volta nella Storia di istanziare, seppure ancora in forma rozzamente allegorica (al pari della sua cristologia), la crocifissione dell'agnello Gesù sulla Terra. E quale luogo scelse come sede di un tale così nefando atto? ''Sodoma ed Egitto'', cioè: Roma.

 E i loro cadaveri giaceranno sulla piazza della grande città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il nostro Signore è stato crocifisso.
(Apocalisse 11:8)

La sua logica era la seguente, ed era impeccabile:

1) secondo il mito, il Gesù mitico doveva soffrire e morire nel luogo più malefico dell'intero universo, che non fosse l'Ade o Sheol dal quale non c'era via di ritorno.

2) per l'autore ebreo dell'Apocalisse, il luogo più malefico dell'universo è Roma,
''Sodoma ed Egitto''.

3) perciò: il Gesù mitico doveva soffrire e morire a Roma.

 
Tutto questo è straordinariamente atteso sotto l'ipotesi del Mito di Cristo.
Al contrario, è ''sorprendente'', come lo stesso storicista Marshall riconosce, che ciò accada sotto l'ipotesi della storicità. Ma ''sorprendente'', docet Richard Carrier e il suo oramai classico On the Historicity of Jesus, significa insolito, inatteso, inspiegabile, in una parola: improbabile. 
 
Il dr Carrier non fa il medesimo punto perchè pur di dialogare con un fasullo consensus ritiene l'Apocalisse del 95 EC, ma Marshall ha dimostrato efficacemente, a mio parere, che quel documento è molto più antico. Più antico certamente della Lettera agli Ebrei.


Ecco in sintesi la visione del prof Marshall:
Nel loro insieme, i quattro complessi di testo che ho discusso come parabole della guerra sostengono un programma completo di resistenza al complesso culturale greco-romano all'interno del quale la comunità di  di ebrei asiatici di Giovanni vivevano le loro vite. La sua accusa che coloro che mangiavano cibo offerto agli idoli erano "una sinagoga di Satana" costituisce la più dura condanna di integrazione culturale. La sua esortazione ripetuta a "osservare i comandamenti di Dio" ribadisce le basi per la condotta che ritiene adeguata e gli standard a cui vuole che aderisca il suo pubblico. È particolarmente degno di nota che mantenere "la testimonianza di Gesù" e "la fede di Gesù" ha molto senso in questo contesto; queste frasi supportano l'esortazione a osservare i comandamenti di Dio, e non vi è alcuna giustificazione per diluire il significato di "comandamenti" da quello che qualsiasi altro Ebreo del I secolo avrebbe capito. Questa accusa e questa esortazione sono parabole di Giovanni che istruiscono il suo pubblico a mantenere la loro purezza di fronte alle nazioni. Per quanto riguarda l'andamento della guerra in Giudea, Giovanni rappresenta, con le sue visioni dei 144.000 tratti dalle tribù d'Israele e  raccolte a Sion, una forza di guerrieri puri guidati dall'agnello. E nella parabola della città santa e della grande città, Giovanni promette che la distruzione che appare imminente su Gerusalemme sarà effettivamente realizzata su Roma. Anche se Giovanni intravede l'agnello e il Signore crocifisso come forze centrali nella risoluzione dei conflitti che affronta, egli parla in queste parabole come un Ebreo che si muove all'interno dell'ebraismo e completamente fedele all'ebraismo.
(pag. 172-173, mia libera traduzione e mia enfasi)


Anche se Vero Ebreo, l'autore dell'Apocalisse, lui , e lui solo, vero ''giudeocristiano'', cerca per quanto solo parzialmente, di rompere lui stesso la dura dicotomia ''noi''/''loro'', e lo fa in questo modo:
Il terzo punto importante dell'agenda di persuasione di Giovanni è forse il più peculiare: prevede una trasformazione del popolo di Dio, per mezzo di una massiccia infusione di gentili. Nell'ambito del programma narrativo dell'Apocalisse, questa trasformazione può essere intesa come il movimento tra le categorie antropologiche iniziali e finali. Le categorie di partenza sono (a) gli ebrei o Israele e (b) le tribù, lingue, popoli e nazioni. Le categorie finali sono (a) coloro che abitano nel cielo e (b) quelli che abitano sulla terra. Tra queste categorie iniziali e finali, quattro movimenti sono logicamente possibili:

Figura 1. Categorie e Trasformazioni dell'Apocalisse
Il primo e il quarto movimento ricevono una certa attenzione, ma non sono trattati come problemi. Gli ebrei si spostano, o più propriamente mantengono il loro status all'interno, nel popolo di Dio in virtù del loro patto di elezione con Dio e della loro partecipazione a tale patto; con questi mezzi, essi dimorano nel cielo. I gentili confermano il loro status di coloro che abitano sulla terra mediante la loro caratteristica (da molti punti di vista ebrei) empietà e immoralità, cioè, mediante idolatria, promiscuità sessuale, disonestà,  pratica della magia, omicidio, impurità (si veda Apocalisse 21:8). Il movimento interessante è l'ingresso dei gentili nel popolo di Dio, il popolo che vive in cielo; e il movimento assente è l'ingresso degli ebrei nelle persone che sperimentano la "seconda morte", le persone che vivono sulla terra.
(pag. 185-186, mia libera traduzione e mia enfasi)



E finalmente, il prof Marshall si rende conto dell'ampio ventaglio di possibilità e di implicazioni che la sua tesi si porta inevitabilmente seco: primo tra tutti la riconsiderazione del rapporto di Paolo con l'ebraismo.
Ecco la sua idea:
  La metafora di un espatriato può descrivere in modo appropriato Paolo:  è un Ebreo che vive al di fuori del del giudaismo per il bene dei Gentili e, in una prospettiva più lunga, per il bene degli ebrei. Giovanni, d'altra parte, vive all'interno del giudaismo, anche se è all'interno di un ebraismo della Diaspora, e si sforza di separare sé e la sua comunità dal complesso culturale più ampio greco-romano, convinto che i Gentili si uniranno in un tale ritiro.
(pag. 196, mia libera traduzione e mia enfasi)


Molto più evidente della presunta ebraicità di Paolo è la grande differenza rilevata dall'acuto studioso Roger Parvus in merito al responsabile delle persecuzioni rispettivamente per Paolo e per l'autore dell'Apocalisse. E sono sicuramente convinto che le parole di Parvus possiedono una grande verità al di là della sua tentata identificazione dell'uomo chiamato Paolo con Simone di Samaria:
Ho il sospetto che ciò che l'autore dell'Apocalisse vedeva come persecuzione era diverso da ciò che Paolo intende con quella parola. Per l'Apocalisse, la persecuzione era qualcosa di essenzialmente fisico e vi era lo Stato dietro la persecuzione. Ho il forte sospetto che ciò non era il caso per Paolo,
In Galati 5:11 l'Apostolo dice: "Ma se io, fratelli, predico ancora la circoncisione, perché sono ancora perseguitato? In tal caso l'ostacolo della croce sarebbe rimosso."

Qui vede la sua "persecuzione", come in qualche modo causata dal suo rifiuto di predicare mai più la circoncisione. E lui collega questo con la "pietra d'inciampo della croce." Nel contesto di Galati, sembra che la persecuzione di cui sta parlando è opposizione da parte dei giudei cristiani che stavano mandando in rovina il suo lavoro in Galazia. Essi stavano mentendo su di lui e deviando il suo gregge lontano dal suo vangelo di Cristo crocifisso in quello che era osservante-della-Legge.

In 1 Corinzi 4:10-13 e 16 c'è questo:


Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi.
... Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori!


Qui "perseguitati" si trova con "insultati" da un lato e con "calunniati" dall'altro. L'Apostolo si considera l'oggetto di insulti e menzogne. Così appare di nuovo che la persecuzione era verbale. Se Paolo, come sospetto, era Simone di Samaria, la gente poteva andar dicendo che era un megalomane, o un pazzo, o un imbroglione, o un nemico della vera chiesa. Ma non vi è alcuna indicazione che lo Stato fosse quello che gli stava procurando questo. In Corinzi la persecuzione sembra essergli venuta da ebrei cristiani legati alla chiesa di Gerusalemme.
In 2 Corinzi 4:8-11 abbiamo questo: Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; perplessi, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi; portiamo sempre nel nostro corpo la morte del Signore Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Infatti noi che viviamo siamo sempre liberati dalla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale.

Qui la persecuzione viene immediatamente circondata da sofferenza che è mentale ("perplessi") da un lato e, eventualmente, fisica ("colpiti, ma non uccisi") dall'altro. Ma non vi è ancora neppure alcuna indicazione che l'autorità civile vi sia dietro. Quindi potrebbe essere che per l'Apostolo, la persecuzione è qualcuno o qualcosa che si oppone a lui o al suo vangelo. Corollario all'opposizione è quello che vede come il prendere la croce di Gesù, vale a dire, "che porta nel nostro corpo il morire del Signore Gesù ... sempre per essere consegnati alla morte a causa di Gesù '." Lui e i suoi seguaci non avevano alcun'aspettativa che lo Stato potesse desiderare di crocifiggerli letteralmente.

In breve: la persecuzione degli ebrei cristiani in Giudea potrebbe essere stata diversa da quella delle chiese paoline. In effetti, gli ebrei cristiani possono essere stati i principali persecutori di Paolo e dei suoi seguaci.

E, come la vedo io, se proto-Marco era Simoniano, il tipo di persecuzione che il Gesù di Marco preparava per i suoi seguaci era persecuzione da ebrei e dagli ebrei cristiani. Ciò ha ricevuto una modifica quando proto-Marco è stato trasformato in Marco canonico da un interpolatore proto-ortodosso. Ho il sospetto che il passaggio è stato in gran parte realizzato con l'inserimento del materiale di Giovanni il Battista in esso, tra cui la grande profezia nel suo 13° capitolo. Se la profezia era originariamente emessa da un uomo che fu "un profeta e più che un profeta", la persecuzione di cui parla è fisica ed è proveniente dallo Stato e dagli ebrei che hanno collaborato con esso.
Ma lasciando da parte Paolo, condannato a rimanere per sempre un enigma nel suo rapporto con l'ebraismo e soprattutto con il dio dei giudei, trovo più suggestive e più utili, a tutti gli scopi pratici, queste parole del prof Marshall:


In un certo modo, la semplice affermazione che l'Apocalisse di Giovanni è un documento ebraico fa poco per distinguerlo da, per esempio, il vangelo di Matteo, ma il compito di questo studio è stato proprio quello di prendere quella proposta e capire le sue implicazioni, con il risultato che i particolari contorni del giudaismo di Giovanni e il loro valore nell'illuminare alcuni dei passaggi più aporetici del documento diventano chiari. Argomentazioni accademiche sono state fatte per cui i vangeli di Matteo, Marco e Giovanni possono proficuamente essere intesi come documenti ebraici. Il mio compito è quello di differenziare l'ebraicità dell'Apocalisse da quello che potrebbe caratterizzare ciascuno di questi vangeli. Trovo tale differenza tra l'Apocalisse e il vangelo soprattutto nei loro diversi orizzonti del discorso o assi di solidarietà.
(pag. 197, mia libera traduzione e mia enfasi)


Qual è perciò la differenza che ai miei occhi rende solo (ipocritamente) di facciata l'ebraicità tanto ostentata dagli autori dei vangeli canonici rispetto alla genuina ebraicità dell'Apocalisse?
  La differenza decisiva tra i due documenti può essere la loro posizione relativa al risultato della guerra. L'autore del vangelo di Marco scrive dopo il fallimento della rivolta e intende che la guerra segnala la scomparsa delle strutture di base della pietà ebraica. Giovanni, d'altro canto, scrive prima della conclusione disastrosa della guerra, non impegna la strategia vista in Marco di differenziare tra i leader ebrei e il  popolo. L'identità di gruppo emergente che il vangelo di Marco nutre (anche se le aspettative escatologiche abbreviano la visione dell'autore del futuro di quella comunità) dipende in misura significativa sulla critica di e sulla differenziazione da (un'altra?) pietà e pratica ebraica e sulla comprensione della guerra giudaica e del suo esito come un giudizio di Dio a sostegno di tali critiche e differenziazione.
Il vangelo di Matteo, molto più del vangelo di Marco, è profondamente preoccupato per lo stato della sua comunità all'interno del giudaismo, anche se è sul punto di rifiutare l'ebraismo. Questa preoccupazione si traduce direttamente in una preoccupazione con lo status di Gesù nella tradizione ebraica. Naturalmente, queste preoccupazioni e questo approccio verso il precipizio del rifiuto possono essere provocati da un ripudio attivo da parte degli altri ebrei. Come suggerisce Wilson, "l'impressione costante del vangelo [di Matteo] è che i colpi sono stati scagliati dal lato opposto" (1995: 56; cfr Stanton 1991: 157). Anthony Saldarini sostiene che una sociologia della devianza è necessaria per capire la posizione della comunità di Matteo all'interno del giudaismo (Saldarini 1994; 1995). È importante, comunque, riconoscere che la comunità di Matteo sembra consapevole della propria marginalità, e che i suoi sforzi sono rivolti  a ritagliarsi un posto all'interno del giudaismo.
...
Con il vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli, il movimento al di fuori del giudaismo è ben definito. Piuttosto che cercare di guadagnare lo status di corretto ebraismo (come il vangelo di Matteo), Luca-Atti si sforza di presentare il cristianesimo come il legittimo successore dell'ebraismo. Nessuna delle varie prospettive che si evince dai vangeli - lotta contro un partito nell'ebraismo, competizione per essere il corretto ebraismo, rifiuto ossessivo degli "ebrei", e lotta per succedere all'ebraismo - descrivono utilmente la situazione dell'Apocalisse. Tenta di parlare dall'interno del giudaismo e sul tema della relazione con il mondo pagano. Non condivide le ansie dei vangeli con (ed entro) l'ebraismo.

(pag. 198-200, mia libera traduzione e mia enfasi)

Quelle stesse ''ansie dei vangeli'' che suonano ai miei occhi così sospette sui volti di veri ebrei. Se la sola forma legittima di continuità con l'ebraismo del 70 EC, DOPO LA DISTRUZIONE DEL TEMPIO, era il rabbinismo talmudico, allora non posso ritenere ''ebrei'' coloro che a quel rabbinismo talmudico si opposero violentemente ricorrendo alle più infamanti tra le accuse e venendo parimenti contraccambiato con altrettanto disprezzo. Al contrario, per tutto il tempo in cui Gerusalemme resistette e anche dopo, l'Apocalisse non fa distinzione alcuna all'interno dell'ebraismo, quasi che fosse esso IL Problema scomodo, e non piuttosto un mondo greco-romano dappertutto percepito come ostile e minaccioso alla sopravvivenza di Israele tutto.


  [Yarbro Collins] ... capisce l'Apocalisse di Giovanni come un ebraismo contro il giudaismo; cioè intende gran parte della sua energia diretta verso la denigrazione e la polemica intro-ebraica. La posizione che ho sostenuto intende invece che l'energia dell'Apocalisse di Giovanni dirige la sua energia e la sua polemica al di là del confine del giudaismo. Naturalmente, Giovanni vuole che altri ebrei si comportino e credano come lui, e, naturalmente, non avrebbe avuto problemi a trovare altri ebrei che non lo fanno. Tuttavia, la sua Apocalisse non è dedicata alla polemica contro di loro. Nella sua applicazione ad altri ebrei, allora, la frase "congregazione di Belial'' non è parallela alla "sinagoga di Satana". Invece di impostare l'Apocalisse di Giovanni contro gli ebraismi del suo tempo, mi sforzo di impostarlo al loro interno.
(pag. 200-201, mia libera traduzione e mia enfasi)


Laddove un autore protocattolico, che si chiami Marco, Matteo, Luca o Giovanni, mirerebbe per definizione a sentirsi a casa sua in tutta l'ecumene, in tutti gli angoli della terra - e possibilmente da padrone -,
  ...lo scrittore dell'Apocalisse ammonisce i suoi lettori a non sentirsi a casa in qualsiasi luogo della terra.
(pag. 202, mia libera traduzione)

lunedì 17 novembre 2014

Sfidando Carrier...




Il dr. Detering informa nel suo blog a proposito di Daniel N. Gullotta, uno studioso accademico che a quanto pare sembra seriamente intenzionato a sottoporre alla peer-review una critica serrata e il più possibile onesta di On the Historicity of Jesus.

Nel suo approccio con la ricerca di Richard Carrier è in effetti stato fin troppo chiaro:
Regardless, Carrier has made his case against the historicity of Jesus, and given his credentials and peer-review publication, I think it is fair to say that he deserves our attention no more or less than any other scholar working in the field.

 Quella specifica si rendeva necessaria vista la vivida e condivisibile descrizione da parte dello stesso prof Gullotta della aihmè fin troppo misera realtà della blogosfera, dove dogmatici si scontrano di continuo sulla questione della storicità di Gesù, infiammando inutilmente il discorso e non portando così a nulla di buono se non a radicalizzare le posizioni reciproche.
Concordo perfettamente con il prof Gullotta su questo punto: esistono miticisti nel net che si dicono tali senza mai aver letto attentamente OHJ, come pure esistono sedicenti storicisti che pretendono di confutare OHJ senza neppure averlo aperto. Poi ci sono i volgari stronzi diffamatori del dr. Carrier, come ad esempio l'apologeta ortodosso Valerio Polidori e i suoi ottusi lacchè Lorenzo Noli, Jerim Pischedda e Federico Adinolfi, tutti colpevoli di credere, e pretendere di credere, che da solo per confutare Carrier basti e avanzi il ridicolo libello divulgativo spara-nel-mucchio di Bart Errorman, che scade al livello di un becero fondamentalista cristiano quando fa di tutti i miticisti un unico (e comodo) bersaglio polemico pur di eludere gli unici e soli argomenti di Carrier-Doherty [1].

Ma se la storicità di Gesù dev'essere difesa al modo gretto e meschino in cui l'hanno difesa finora i vari Errorman, McGrath e Casey, allora quella storicità è veramente morta.
Sembra averlo compreso finalmente un accademico del livello di Gullotta, e dunque ecco finalmente la promessa di un libro storicista che prende SUL SERIO Carrier giocando sul suo stesso terreno: non concedere nessun'ipotesi gratuita ma solo e soltanto offrire sana EVIDENZA.

Francamente, la vedo dura.






Con tutte le mie migliori intenzioni come posso anche solo sperare che qualcuno riesca a confutare OHJ quando quel che prima della sua lettura consideravo un forte baluardo inespugnabile pro-storicità (''Giacomo il fratello del Signore'' di Galati 1:19) diventa al termine della sua lettura un argomento invece addirittura pro-mito?

Se il prof Gullotta riesce a confutare Carrier restituendo ad un'evidenza storicista l'antico lustro che aveva quella medesima ''evidenza'' prima della lettura di OHJ, allora gli riconoscerò il grande merito di aver dimostrato finalmente la storicità di Gesù.

Io finora, nel mio piccolo, ho visto solo due errori in OHJ, ma la loro presenza non inficia per nulla la conclusione del libro: il primo errore lo riconobbe a dire il vero lo stesso Carrier, su mia diretta segnalazione, mentre il secondo, pur non essendo considerato tale dal suo autore, è stato denunciato abilmente da Vince, blogger di Natural Reason (il quale però sembra per il resto dei suoi commenti convergere con le conclusioni di Carrier).

Ma come dice Carrier:
Parimenti se tu pensi che c'è evidenza da me trascurata, evidenza a favore della storicità: hai bisogno di presentarla e dimostrare perchè quell'evidenza sia più probabile su h rispetto che a ¬h (nel modo in qui quelle alternative sono state definite, nei Capitoli 2 e 3). E non solo più probabile, ma così molto più probabile da superare tutti gli altri fattori contro di essa - persino su stime tanto lontane contro la storicità quanto tu possa ragionevolmente ritenere possibile: perchè anche tu sei obbligato a misurare la misura a cui le tue personali stime possano essere disputate oppure in errore. Tu non puoi avvolgere le tue personali opinioni come se fossero la verità. Se io devo ammettere che la probabilità che Gesù esisteva poteva essere tanto alta quanto 1 su 3, tu devi ammettere che la probabilità poteva essere tanto bassa quanto... ...bene, quanto bassa? Tu devi onestamente rispondere a quella domanda.
(On the Historicity of Jesus, pag. 603, mia libera traduzione)

Questo significa che l'evidenza richiesta dev'essere reale e non immaginaria. Io sono scettico sulla possibilità del prof Gullotta di portare tale evidenza, ma qualunque essa sia, di certo il prof Gullotta dovrà passare inevitabilmente, sarà costretto a farlo!, per la dimostrazione che la classica lettura storicista di Galati 1:19 debba essere quella più probabile e conforme al contesto.

Posso portargli fin d'ora un mio contributo (da me tradotto in inglese anche qui e tutt'ora in attesa di una risposta dal dr. Carrier, il quale è attualmente indisponibile):


1) Giacomo in 1 Corinzi 15:7 compare tra i protagonisti nella lista delle apparizioni del Gesù Risorto, dunque merita il titolo di apostolo secondo la stessa definizione che ne dà Paolo (ognuno che ha ''visto'' Gesù in allucinazione).

2) questo Giacomo è probabilmente lo stesso Giacomo di Galati 2, cosiddetto ''Pilastro''.

3) se questo Giacomo apostolo & pilastro è lo stesso Giacomo di Galati 1:19, non potrebbe essere chiamato da Paolo ''il fratello del Signore'' se la specifica ''del Signore'' fosse stata introdotta da Paolo per indicare la natura di non-apostolo di questo cristiano, a differenza di Pietro citato appena prima, che degli apostoli era il solo rappresentante quella volta a Gerusalemme. Dunque questo significherebbe che Giacomo è chiamato ''fratello del Signore'' per altri motivi, e l'unico motivo più plausibile in vista sarebbe nel significato letterale di ''fratello del Signore'': essere fratello carnale di un Gesù storico.

4) il problema con questa identificazione di Giacomo Pilastro & Apostolo di Galati 2 con il Giacomo ''fratello del Signore'' di Galati 1:19 è sollevato da Richard in anticipo:
Certamente in Gal. 1:19 Paolo intese o Giacomo il Pilastro oppure un altro Giacomo. E se intese Giacomo il Pilastro, allora non intendeva che fosse letteralmente il fratello di Gesù - in quanto quel Giacomo sembra essere stato il fratello di Giovanni, non di Gesù. Così per mantenere che Paolo intende che questo Giacomo fosse il fratello letterale di Gesù, tu devi concludere che Paolo intese un diverso Giacomo in 1.19 rispetto a quello che menziona subito dopo (in Gal. 2.9 e 2.12). Ma ciò significa che di qualunque Giacomo lui sta parlando in 1.19 poteva non essere stato per nulla un apostolo. E ciò significa che Paolo potrebbe star usando ''fratello del Signore'' ancora di nuovo per distinguere apostoli da altri cristiani, e non per identificare la famiglia di Gesù.
(On the Historicity of Jesus, pag. 588, mia libera traduzione, corsivo originale, mio neretto)

In effetti, Richard ha dimostrato efficacemente e conclusivamente, a mia opinione, che nei vangeli il ruolo prominente che spetterebbe a Giacomo fratello di Gesù (se solo fosse stato davvero il Pilastro & Apostolo Giacomo di Galati 2) è invece affibbiato ad un altro Giacomo, non figlio di un Falegname di Nazaret ma il ''figlio di Zebedeo'' al pari dell'altro Pilastro, Giovanni.

E non importa se ''Zebedeo'' è solo un personaggio fittizio che già dal nome tradisce un significato etimologico offensivo nei riguardi del Pilastro Giacomo, come avevo spiegato in un altro post: è chiaro che per l'autore di Marco e degli altri vangeli il Pilastro Giacomo figlio di Zebedeo non è affatto il Giacomo fratello di Gesù. Gli evangelisti hanno ben chiaro in mente quella distinzione, e l'autore di Atti degli Apostoli non menziona addirittura più un Giacomo fratello di Gesù.

5) Perciò la tesi di Carrier ne esce ancor più rafforzata: Giacomo ''il fratello del Signore'' di Galati 1:19 non è lo stesso Giacomo di Galati 2 perchè solo così si risolve la contraddizione da me introdotta di un Giacomo Pilastro e Apostolo che nei 4 vangeli figura ripetutamente nei panni del figlio di Zebedeo e non nella veste del fratello di Gesù. L'unica alternativa per far sussistere l'identità tra il Giacomo di Galati 1 e il Giacomo di Galati 2 sarebbe negare a questo Giacomo il titolo di Apostolo ma concedergli solo quello di Pilastro (una conclusione alla quale sono arrivati a dire il vero anche alcuni storicisti come Mauro Pesce [2]), ma così allora bisognerebbe concludere, con Robert Price, che la lista di apparizioni di 1 Corinzi 15 non è originale, dal momento che vi compare Giacomo, anche se non è chiaro in qualità di compreso tra gli apostoli (per aver ''visto'' Gesù Risorto, 1 Corinzi 15:7) oppure come separato e distinto da loro.  Si noti che se il Giacomo di Galati 1:19 è Pilastro ma non Apostolo, l'argomento di Carrier non ne viene affatto intaccato.

Quest'evidenza si aggiunge al resto dell'evidenza portata da Richard sulla necessità che aveva Paolo di chiarire in Galati 1 di aver abboccato degli apostoli solo Pietro e oltre a lui solo ''fratello'' Giacomo e nessun altro, a conferma del suo essere vero apostolo al pari degli altri, avendo esperito Gesù unicamente in allucinazione.

Quanto all'altra menzione dei ''fratelli del Signore'' in 1 Corinzi 9:5, là l'argomento pro-mito di Richard è altrettanto forte, se non più stringente: come avrebbe preteso Paolo di meritare gli stessi privilegi dei suoi superiori, senza nemmeno tentare di offrire un minimo di giustificazione alle sue arroganti pretese? Semplice: non erano a lui ''superiori' i suoi termini di paragone, ma al più, come Pietro e gli altri apostoli, solo suoi pari. Perciò i ''fratelli del Signore'' erano tutti gli altri cristiani non apostoli, di certo dalle pretese inferiori rispetto a quelle dell'apostolo dei gentili, visto la nonchalance con cui Paolo le calpesta senza pensarci due volte.

A parte forse l'argomento di Abel Dean, ben analizzato dall'abile blogger Nicholas Covington qui, non vedo altre critiche di OHJ degne di nota all'orizzonte nel net.

Lo stesso Abel Dean, come si deduce dal suo commento, sembra tradire tutti i sintomi del classico storicista dogmatico e cospirazionista.

L'impresa a cui si accingerà il prof Gullotta, sfidare Richard Carrier, sembra dunque una vera e propria ''mission impossible''!


[1] una ''logica'' che definirei ''pilatesca'': sarebbe come dire che Pilato avesse ragione a crocifiggere Gesù perchè era ''in tutto e per tutto'' uguale agli altri sedicenti messia sediziosi.



[2] Così Mauro Pesce, che sembra dare indirettamente ragione a Richard Carrier sulla natura di non-apostolo del Giacomo di Galati 1:19:
"mi è sempre sembrato che Giacomo, secondo questa frase della lettera ai Galati di Paolo, non sia "apostolo", ma appunto quello che Paolo dice: "fratello del Signore". Non credo che l'inciso "se non Giacomo il fratello del Signore", debba portare alla conclusione che Giacomo fa parte degli apostoli appena citati prima. Non va preso l'inciso come se specificasse altri appartenenti al gruppo degli apostoli. " Se non" non specifica "degli apostoli" ma "non vidi nessun altro". Avendo detto "Non vidi nessun altro", Paolo si corregge dicendo che però ha visto anche Giacomo, e accorgendosi che si potrebbe equivocare intendendolo come apostolo, specifica subito che non fa parte degli apostoli, ma è il Giacomo "fratello del Signore"."