martedì 30 settembre 2014

Non ci sono dubbi: “Marco” Conobbe E Usò Paolo Per Fabbricare Il Suo Gesù

Continua l'ottava e ultima parte della mia recensione di Mark, Canonizer of Paul, di Tom Dykstra. Per l'intera serie si veda qui
  
Tutti concordano che gli autori del Nuovo Testamento fecero parecchi riferimenti all'Antico Testamento, tra implicite allusioni e citazioni dirette. Un più piccolo ma crescente numero di studiosi ha identificato un più profondo e più vasto uso dell'Antico Testamento da parte del Nuovo Testamento, in particolare esempi dove gli evangelisti sembrano aver scelto certi testi dell'Antico Testamento e, senza nessuna base storica, li hanno riscritti come storie su Gesù. Quelli studiosi comprendono John Dominic Crossan (che parla di ''profezia storicizzata''), Randel Helms (che parla di ''Gospel fictions''), Thomas L. Brodie (che parla di ''riscrittura creativa''), ed Earl Doherty, che ha suggerito che, quando i primi cristiani dicevano che questo o quell'episodio evangelico accadde ''secondo le Scritture'', non stavano offrendo delle ''dimostrazioni'' post factum di noti eventi dell'esistenza di Gesù. Piuttosto, essi ''scoprivano'' per prima che Gesù aveva fatto così e così. E solo dopo, setacciando a dovere le Scritture alla ricerca di parole chiave (''il figlio'', ''quel giorno'', ecc.), pensavano di alludere a certe storie passibili di essere interpretate quasi cabalisticamente così da derivare a partire da esse intere nuove storie: storie di quel che Gesù ''doveva aver'' fatto, o altrimenti ''Come dunque si adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che così avvenga?'' (Matteo 26:54).

Il numero di questi studi è cresciuto a dismisura, fino ad offrire quel che considero fortissimi argomenti, per considerare automaticamente ogni storiella evangelica (e parecchie di Atti) nient'altro che una riscrittura di qualche storiella dell'Antico Testamento, con un sacco di detti che sono derivati a loro volta da letteratura sacra precedente.

Earl Doherty, Richard Carrier e altri miticisti hanno richiesto invano agli studiosi storicisti cristiani (i folli apologeti del nostro giorno) migliori spiegazioni del fatto impressionante e sorprendente (=inatteso,=improbabile) che le epistole del Nuovo Testamento mai una volta citano il presunto insegnamento autorevole di Gesù per definire questioni di interesse, perfino quando un sacco di detti del genere abbondano nei vangeli.

 

Come può accadere una situazione del genere?

 
 Doherty, seguito da Carrier e altri, puntano ad una semplice soluzione: quando le lettere furono scritte, non c'era questo corpus di detti attribuiti a Gesù perchè Gesù non era ancora per nulla considerato come una figura storica, bensì come un salvatore celeste la cui morte nel remoto passato (al pari del Puruṣa vedico) o in qualche celeste terra-che-non-c'è (al pari dello gnostico Uomo di Luce, o Uomo Primigenio) aveva recato salvezza agli iniziati.

Fu solo nel corso del processo di storicizzazione della figura di Gesù (talvolta ritenuta propizia per consolidare il potere del cattolicesimo nascente in via di progressiva istituzionalizzazione, consentendo ai suoi vescovi di rivendicare per sè un legame diretto ad un recente fondatore) che quei vari detti finirono per essere attribuiti ad un terrestre Gesù storico.

I folli apologeti hanno ritenuto 1 Corinzi 7:10
Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito


 come un esempio di una citazione delle parole ricordate di Gesù, ma si tratta di una mossa disperata: sicuramente alla luce di 1 Corinzi 14:37
Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto vi scrivo è comando del Signore.


si devono ritenere quelle parole dei decreti divini che lo stesso apostolo Paolo istituì essendo ispirato, per diretta rivelazione, dal Cristo celeste. 

  
Naturalmente l'epistola di Giacomo e il capitolo 12 della lettera ai Romani sono pieni zeppi di detti che suonano piuttosto simili ai detti evangelici, e i folli apologeti vogliono farci credere che quelli parimenti SONO citazioni di Gesù, sebbene le epistole stesse mancano clamorosamente di riconoscere tale paternità. I folli apologeti sono così fantasiosi da accampare come scusa, per spiegare queste mancate allusioni al Gesù storico malgrado se ne citavano a profusione i detti, l'idea davvero fantasiosa che gli autori di epistole in qualche modo pensarono apparentemente di dare maggiore gravità e autorevolezza a quelle asserzioni se lasciavano solamente trapelare sottobanco la loro paternità gesuana, lasciando che fossero i lettori a riconoscerla tra le righe. Ecco: quella è solo una scusa tra le tante piuttosto fantasiose che si inventano i folli apologeti cristiani quando ''vogliono'' affrontare la sfida miticista. Così funziona l'apologetica.

Sembra assai più probabile, invece, almeno a me che non mi ritengo un folle apologeta  - e dunque che non cerco furiosamente di trarmi d'impiccio da un evidente problema nella mia errata interpretazione - che quei saggi detti fossero nient'altro che ovvi truismi solo più tardi attribuiti a Gesù, come quando sentii una volta in TV il presentatore di turno chiedersi retoricamente ''Questo detto è una vera perla di saggezza: chi l'ha detto, Gesù o Buddha?''.
 

In realtà, parecchi studiosi hanno elencato numerosi paralleli tra l'Antico Testamento e passi del vangelo, suggerendo che i secondi derivano dai primi, Solo negli ultimi anni, numerosi studiosi stanno procedendo a identificare molte, troppe sezioni parallele tra le epistole paoline e i vangeli, suggerendo che decine e decine di detti isolati (che trovano paralleli nelle epistole e che dalle epistole sono derivate) finirono incorporati nei vangeli e ascritti a Gesù.
Ecco la verità, dunque: gli evangelisti stavano impiegando le lettere di Paolo per farne parte del materiale sorgente del loro vangelo, insieme all'Antico Testamento.

I folli apologeti si stracceranno le vesti e grideranno ''parallelomania!'' ma la verità è che si tratta di genuino parallelismo, e che quel genuino parallelismo richiede pura dipendenza letteraria dei vangeli dalle epistole.


Earl Doherty, nel suo libro Jesus: Neither God Nor Man, esprime nella seconda parte del libro l'opinione che Marco non conobbe le lettere di Paolo. Anche se credo che il libro di Doherty è un capolavoro di ricerca scientifica (nella prima parte), non sono d'accordo con Doherty su questo punto. Doherty crede all'esistenza della fonte Q. Nella mia opinione Doherty è stato il primo a dimostrare con successo, prima ancora di Richard Carrier (il quale ha rafforzato ulteriormente quella dimostrazione, portando addirittura maggiore evidenza), che è più probabile che Paolo considerò Cristo un essere spirituale celeste e non un uomo di carne e ossa che ha camminato di recente sulla Terra.
 

Tutta l'evidenza portata da Doherty sulla questione della storicità di Gesù, da Paolo ai vangeli fino agli apologeti cristiani del secondo secolo passando per le cosiddette ''testimonianze'' pagane, dimostra che un uomo terreno, Gesù di Nazaret, è l'invenzione di vescovi e padri della chiesa della seconda metà del secondo secolo e dei secoli successivi.

Dopo la lettura di Jesus: Neither God Nor Man di Earl Doherty e di On the Historicity of Jesus di Richard Carrier ho letto Mark, Canonizer of Paul di Tom Dykstra al fine di soddisfare la mia curiosità riguardo a chi dei due, Doherty o Dykstra, presenta il miglior argomento riguardo la relazione tra Marco e Paolo. Io concordo ora con Dykstra quando afferma, a chiare lettere:

“Mark deliberately created a literary Jesus whose words and actions parallel the words and actions of Paul”.
(Mark, Canonizer of Paul, pag. 149)

 
 Ciò significa che se Paolo non poteva aver preso i suoi insegnamenti dai vangeli e se non li attinse dalla tradizione orale, allora è improbabile che gli evangelisti presero gli insegnamenti di Gesù dalla tradizione orale, visto anche le reali proporzioni in cui si basavano, per quella materia, solo sul primo vangelo. Dunque non solo i vangeli furono scritti dopo le epistole, ma dove quei vangeli concordano, gli autori dei sinottici attinsero i loro insegnamenti ''di Gesù'' dalle epistole di Paolo.

Del perchè l'Apocalisse non celebra la Resurrezione dell'Agnello Gesù, ma solo il Suo Sacrificio

AVVERTENZE PER L'USO: quanto dirò in questo post riflette solo la mia opinione personale, e dunque andrebbe considerato al livello del solo possibile e non del più probabile, qual è invece il modello delle origini cristiane proposto da Carrier/Doherty (per quanto riconosco di essere profondamente influenzato da quel modello).


Penso sia oramai maturo il momento di una rivalutazione del libro dell'Apocalisse. A quel libro bisogna guardare per comprendere cos'era il cristianesimo pre-paolino dei Pilastri.

Si tratta di un libro dalla visione esacerbata, certo, per quanto antica possa essere considerata, dallo strazio della disfatta del 70 e dal desiderio di vendetta verso Roma e i seguaci di Paolo. Il consensus pensa che a scrivere l'Apocalisse sia stata una sorta di ''cellula impazzita'' dell'antica comunità giudeocristiana dei Pilastri che avevano radicalizzato invano le loro posizioni a dispetto del fatto che i Pilastri avessero fatto ''pace'' (per modo di dire) con Paolo & co.

Ma non penso proprio che i Pilastri avessero risolto il caso Paolo, con tutte le mie migliori speranze che quello fosse stato il caso. Se non loro, sicuramente i loro successori (sia di Paolo sia dei Pilastri) avrebbero di certo radicalizzato il conflitto già vividamente descritto da Paolo in Galati.

Quindi non sono d'accordo con Richard Carrier quando costui, sull'onda del consensus, minimizza totalmente il libro dell'Apocalisse, relegandolo al 95 EC e dicendo che non riflette il vangelo degli originali Pilastri. Per quanto possa non farlo, date le mutate condizioni storiche, di certo però è più probabile che la rozza cristologia dell'Apocalisse sia molto più simile a quella dei Pilastri di quanto lo fosse quella di un Paolo sospetto di insubordinazione e d'eresia in tutte le lettere che ci ha lasciato. Almeno in questo, Bruno Bauer aveva ragione.

L'Apocalisse è l'unico libro cristiano che può perfino essere stato scritto alla fine del II secolo, e tuttavia meritare di diritto il riconoscimento della relativa ancestralità della sua rozza cristologia.

È l'unico libro del Nuovo Testamento, insieme alla lettera di Giacomo, che si può definire senza alcun timore di sorta GIUDEOCRISTIANO. Neppure il vangelo di Matteo, considerato tale dal consensus, potrebbe meritare quell'aggettivo con altrettanta fiducia da parte mia.

Le avversità del 70 e post-70 potrebbero aver avuto l'effetto di radicalizzare le posizioni dei Pilastri, ma non di tradirle nella loro essenza. Il Cristo che predica odio dalle pagine infuocate dell'Apocalisse potrebbe essere una reazione alle calamità della Guerra, ma non per questo potrà costituire un tradimento dell'originario Cristo dei Pilastri, ma al più solo una sua radicalizzazione

Il suo presunto autore è Giovanni. Chi altri se non Giovanni il Pilastro può essere inteso?

I suoi veri autori sono giudeocristiani oppositori di Paolo. Qual è la lettura più facile? Che quei giudeocristiani, traboccando di odio anti-paolino e anti-romano, fossero venuti meno ad un'ipotetica pace instaurata tra i Pilastri e Paolo pur richiamandosi all'autorità del Pilastro Giovanni? Oppure che stessero continuando, impugnando l'arma della profezia, la stessa guerra che i Pilastri loro precursori avevano intrapreso per spegnere l'insubordinazione paolina?


Fossero stati gnostici, allora avrei ritrattato queste parole. Ma sto parlando di giudeocristiani.
È sicuramente pura follia apologetica, perfino se proviene dalla penna di Richard Carrier, credere che gli autori dell'Apocalisse avessero tradito, mossi dal loro odio antiromano, un ipotetico vangelo dei Pilastri più vicino al pensiero di Paolo.

Se dal davanzale della finestra cade un petalo rosso, è più probabile che sia caduto dal vaso di soli fiori rossi oppure dal vaso di soli fiori gialli?

Allo stesso modo, se l'Apocalisse è un libro giudeocristiano, è più probabile che suoni più paolino oppure che rifletta meglio qualcosa di un ipotetico vangelo dei Pilastri?

Inoltre quali altri giudeocristiani potrebbero esservi (in Giudea o nella Diaspora) così diversi dai Pilastri, quando l'alterità teologica (rispetto al credo degli originari Pilastri) è direttamente proporzionale alla non-ebraicità dei cristiani in questione?

Il sereno autore della lettera di Giacomo potrebbe sembrare diverso dall'autore dell'Apocalisse perchè, pur insistendo sulle opere in funzione chiaramente anti-paolina, non si fa travolgere da un odio quasi schizofrenico e ossessivo - e quando dico ossessivo intendo davvero OSSESSIVO - contro i falsi profeti e i nemici degli Eletti. Ma tolti l'odio, la schizofrenia e l'ossessione - tutte comprensibili reazioni per chi stava scrivendo in quella sorta di ''Dopo Auschwitz'' del tempo (la Distruzione di Gerusalemme del 70 EC) -, quello che rimane al fondo è sicuramente quanto di più vicino, cristologicamente inteso, rimanda ad un ipotetico vangelo dei Pilastri, un vangelo che purtroppo non abbiamo (perchè altrimenti non starei a scrivere questo post).


Non voglio tentare un'analisi serrata del libro dell'Apocalisse. A quello ci ha già pensato di recente la seria studiosa Elaine Pagels.

Però alcuni punti precisi sono interessanti, se assumo come ipotesi-guida a priori la ragionevolissima pretesa di considerare la cristologia dell'Apocalisse quella più autenticamente cristiana. E cristiana delle origini.  (e si badi bene: perfino nell'improbabile ipotesi di un Gesù storico).


Quel che colpisce subito all'occhio è che il solo riferimento alla risurrezione in tutto il libro dell'Apocalisse è quel misero verso 1:18:
Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le mani della morte e dell'Ades.


A dire queste parole è uno ''simile a un figlio d'uomo''. E che viene poi identificato come l'Agnello.


Della risurrezione non si parla più. Si allude alla crocifissione di questo ''Signore'' in Apocalisse 11:8 ma l'esegesi di quel passo è già stato fatto da Richard Carrier nelle pagine di On the Historicity of Jesus, e ad ogni caso non parla di risurrezione.

Dunque solo Apocalisse 1:18 è l'unico cenno alla resurrezione in tutto il libro dell'Apocalisse. Nel resto del libro si parla delle mille cose che realizzerà questo Agnello alla sua venuta - la prima! - sulla Terra, ma mai si accennerà più alla risurrezione di Gesù.

Che Gesù è considerato risorto è implicito in come è chiamato: Agnello. Ma certamente il più esplicito, tra i più impliciti significati associati alla parola Agnello, è l'idea che Gesù è considerato una vittima sacrificale nel tempio celeste di Dio, sacrificato da Dio stesso per purificare col suo sangue - il Sangue dell'Agnello - i peccati degli Eletti sulla Terra, al fine di poterli riscattare come futuro veniente, e apocalittico, Figlio dell'Uomo.


Nell'Apocalisse il celeste sommo sacerdote che compie il sacrificio dell'Agnello non è Gesù (come è invece nella protocattolica Lettera agli Ebrei), ma Dio stesso.

È Dio stesso che sacrifica l'Agnello celeste sull'altare celeste.

È Dio il killer.

 



Il Drago, Satana, il Serpente Antico, è la controparte nell'Apocalisse degli ''arconti di questo eone'' in Paolo, i demoniaci esseri spirituali che crocifissero Gesù. Ma nell'Apocalisse Satana non riesce ad afferrare con i suoi artigli Gesù, neppure per un istante. Satana è espulso dal cielo e scaraventato sulla Terra. Non ha nessun potere su Gesù, bensì sugli altri figli della Donna, ovvero sui veri ''fratelli del Signore'' (i veri cristiani), come lo era il Pilastro Giacomo:
Scoppiò quindi una guerra nel cielo:
Michele e i suoi angeli
combattevano contro il drago.
Il drago combatteva
insieme ai suoi angeli,
ma non prevalse
e non vi fu più posto per loro in cielo.

E il grande drago,
il serpente antico,
colui che è chiamato diavolo e il Satana

e che seduce tutta la terra abitata,
fu precipitato sulla terra
e con lui anche i suoi angeli.

(Apocalisse 12:7-9)


Per un breve interregno Satana, cacciato dal cielo, devasterà la Terra. Ha il potere di vita e di morte su tutti i santi della Terra, gli Eletti. Sulla Terra ci saranno due potenze sataniche, controparti infernali di Gesù e della Donna sua madre, ovvero la Bestia e la Prostituta:
E vidi salire dal mare
una bestia che aveva dieci corna e sette teste,
 sulle corna dieci diademi
e su ciascuna testa un titolo blasfemo.

(Apocalisse 13:1)

Quei nomi, che solo a pronunciarli evocano terrore e blasfemia contro Dio, sono i nomi di falsi dèi. La Bestia è la sintesi di tutte le false divinità e veri demoni, e perciò pura blasfemia contro il solo, unico Dio. Uno di quei demoni attrae particolare attenzione, al punto da esser scambiato per la Bestia stessa:

Una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita. Allora la terra intera, presa d’ammirazione, andò dietro alla bestia...
(Apocalisse 13:3)


Sembra in mostra quasi una sorta di crudele e blasfema parodia del sacrificio e della risurrezione di Gesù.

 Come tale, perfino nell'irriverente imitazione satanica del sacrificio di Gesù, è possibile rischiarare qualcosa dell'originale, divino sacrificio: quella ferita, che appariva parodisticamente mortale per la Bestia al punto da ritenerla magicamente ''risorta'', fu inferta dalla ''spada''.

 
Per mezzo di questi prodigi,
che le fu concesso di compiere in presenza della bestia,
seduce gli abitanti della terra,
dicendo loro di erigere una statua alla bestia,
che era stata ferita dalla spada
ma si era riavuta.

(Apocalisse 13:14)

Questo potrebbe essere un ulteriore indizio che nell'originale sacrificio dell'Agnello celeste, di cui la ferita della Bestia rappresenta una esecrabile parodia, la morte del Figlio fu provocata da un colpo di ''spada'' o ''coltello''.

L'Agnello fu ucciso dalla SPADA.

E fu ucciso da Dio. Non da demoni. Tantomeno da marionette umane dei demoni.

Dio, novello Abramo, sacrifica per davvero il suo Primogenito celeste, come puro Agnello sacrificale (a sostituzione di tutti gli inefficaci sacrifici animali compiuti nel Tempio fisico) e novello Isacco, sgozzandolo con la SPADA sulla croce e facendone fuoriuscire il Sangue purificatore, una volta per sempre, dei peccati del vero Israele.

Quasi a ribadire la totale identificazione della volontà di Gesù con la volontà del Dio che lo sacrifica sull'altare celeste, per cui Gesù diventa nel contempo sacrificio e sacrificatore, immolato e immolatore, l'autore dell'Apocalisse si spinge a fare dei Gesù un:


....un Agnello, in piedi, come immolato;
aveva sette corna e sette occhi,
i quali sono i sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra.

(Apocalisse 5:6)


Un tale Gesù è Agnello non solo perchè è la vittima scelta da Dio per il sacrificio. Ma anche perchè la sua risurrezione non muta la sua natura originaria. Agnello celeste era e Agnello celeste rimane dopo che viene immolato. Non diventa Agnello solo durante il sacrificio. Non è importante il suo ritorno alla vita dopo che viene immolato: quello che è importante è l'azione in sè, il fatto che si è offerto volontariamente e senza esitazione come Agnello. La sua opera, il suo gesto, non la sua fede o ubbidienza. Dell'animalità dell'Agnello ha non solo la sua impersonalità, ma anche la sua mancanza di libertà nella decisione. Se l'Agnello Gesù fosse stato libero di scegliere di essere sacrificato, e dunque se il sacrificio fosse stato visto almeno in apparenza come un'umiliazione o un abbassamento della propria divinità originaria, sarebbe in qualche modo inferiore rispetto all'Agnello Gesù che ciecamente e deterministicamente, al limite dell'inconsapevolezza tipica di un animale condotto al macello, si sottopone al sacrificio voluto da Dio dalla notte dei tempi.

L'Agnello Gesù non doveva morire per risorgere trionfalmente, quasi a rischiare di fare impropriamente della risurrezione una specie di rivincita rispetto alla stessa sacra volontà di immolarlo. L'Agnello Gesù doveva morire immolato per acquistare, con il suo ''sangue'':
..gente di ogni tribù, lingua, popolo e nazione . . . un regno e dei sacerdoti...
(Apocalisse 5:9)

i quali
regneranno sulla Terra
(Apocalisse 5:10)

A causa del suo sacrificio sull'altare di Dio, poichè è stato immolato da Dio sul suo altare celeste senza opporre la benchè minima resistenza e senza tradire nessun sconforto e sentimento di abbandono e di umiliazione (sentimenti che, se espressi, rischiavano di far sembrare il Dio immolatore un ingiusto tiranno, per contrasto alla pietà suscitata dal Figlio/Agnello), allora:

«L’Agnello,
che è stato immolato,
è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza, onore,
gloria e benedizione».

(Apocalisse 5:12)

Ecco perchè solo fino ad un certo punto il Gesù Agnello dell'Apocalisse è un novello Isacco mentre il Dio che lo immolava era un novello Abramo.
Perchè l'episodio di Abramo e di Isacco fu inventato apposta per suscitare pietà rispetto ad un sacrificio apparentemente crudele e irrazionale ordinato da Dio ad Abramo: immolare il proprio primogenito. Tant'è vero che quel sacrificio di Isacco fu impedito da Dio stesso all'ultimo momento.

Il sacrificio dell'Agnello Gesù invece non deve suscitare nessuna pietà: perchè è Gesù stesso, l'Agnello Gesù, a non volerla ricevere.


L'immolatore, Dio, non deve minimamente apparire crudele e tirannico di contro alla bontà dell'Agnello immolato, Gesù. Insinuare solo il sospetto in tal senso sarebbe blasfemo, sarebbe eretico, sarebbe satanico.

Come dicevo all'inizio, non è importante la data precisa dell'Apocalisse, se prima o dopo il 70, o prima o dopo il 130 EC (seconda guerra giudaica). Quel che importa sapere è che l'Apocalisse riflette la grande guerra degli ebrei contro Roma, quel conflitto che apparentemente vide il Tetragramma arrendersi di fronte ai falsi dèi pagani, salvo in realtà presagirne la loro imminente fine (e dei popoli loro sottomessi) nei deliranti disegni dell'autore dell'Apocalisse

Come tale, porta il marchio di un tempo di orrore, di crudeltà e di terrore.

 L'Apocalisse del Pilastro Giovanni è contro Paolo. 

La comunità che scrisse l'Apocalisse era la stessa comunità dei Pilastri.


Sono loro i bersagli polemici di Paolo a Corinto. Nelle due lettere ai Corinzi Paolo ridicolizza il facile trionfalismo dei Pilastri e la loro pomposa Rivelazione apocalittica di un regno conquistatore voluto da Dio.
 “Voi siete già sazi, siete già diventati ricchi; senza di noi, siete già diventati re. Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi.”
(1 Corinzi 4:8)

La predicazione di Paolo sembra folle agli occhi dei giudeocristiani ma il suo vangelo è pur tuttavia quello autentico. Perchè è basato su Cristo crocifisso, non su enigmi apocalittici circa futuri rivolgimenti terreni e sul giusto spirito profetico con cui interpretare quelli enigmi. Per Paolo il solo mistero, la sola sapienza, è quella ignota ai principi di questo mondo:

 “Parliamo invece della sapienza di Dio misteriosa e nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta. Perchè, se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
(1 Corinzi 2:7-8)

Lo stesso Paolo si era lasciato incantare dalle assurde promesse millennaristiche della comunità che produrrà il testo dell'Apocalisse, ma successivamente realizzò per suo conto che le loro speranze intra-mondane di una vittoria militare su Roma grazie all'intervento celeste di Cristo e l'insediamento di una nuova Gerusalemme su questa Terra erano solo chimeriche speranze ''nella carne'' (κατα σαρκα):

“Cosicché non guardiamo più nessuno nella carne; se anche abbiamo conosciuto Cristo nella carne, ora non lo conosciamo più così. ”
(2 Corinzi 5:16)


Paolo definì ''falsi fratelli'' del Signore gli intrusi inviati dai Pilastri a spiarlo in Galazia.

L'autore dell'Apocalisse considerò ''falsi fratelli'' del Signore:
...quelli che dicono di essere Giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana.
(Apocalisse 2:9)


È sempre schifoso guardare alle lotte settarie all'interno di una stessa religione. L'odio dei cristiani per gli ebrei o per i pagani non è mai stato così ossessivo e schizofrenico come l'odio dei cristiani per altri cristiani. E se quella lotta partorì come effetto il Dogma cristiano, allora quel Dogma è per definizione un mostruoso aborto apologetico grondante sangue.

  
Vinse Paolo.

Ma al tempo in cui fu scritto il libro dell'Apocalisse, Paolo era morto da un pezzo. E da nessuna parte nel I secolo - e nella prima parte del II secolo - riesco a trovare qualcuno che celebri la risurrezione di Cristo al modo in cui lo ha fatto Paolo nelle sue lettere autentiche.

Se Paolo stava perdendo inesorabilmente, col passare del tempo, una battaglia, è proprio nel tentativo di far passare la sua importanza della risurrezione di Cristo.

I suoi nemici potevano perdere.  I nuovi ''fratelli del Signore'' potevano diventare sempre più gentili, come voleva Paolo. La Torah era oramai abbandonata con tutte le sue ridicole prescrizioni, come voleva Paolo.

Ma quello che Paolo non riusciva (stranamente) a insediare e a stabilire sulla roccia era la preziosità che nella sua visione assumeva la risurrezione di Cristo.


In qualche modo, sembrava che Paolo fosse incapace di far accettare agli altri cristiani l'importanza che riservava alla risurrezione di Cristo. Come se avesse fondato il suo concetto di risurrezione sulla sabbia, e non sulla roccia. Permettendo al tempo inesorabile di far svanire del tutto quel concetto e di non porlo al centro della nascente fede cristiana.


Quanto all'Apocalisse, io faccio mie e condivido in pieno queste parole del grande miticista francese Paul-Luis Couchuod, tratte dal suo The Creation of Christ:

L'Apocalisse di Giovanni ci mostra il limitato, tuttavia fiammeggiante, mondo di pensiero e immaginazione che fu anche quello di Giacomo e di Pietro, dei Dodici e dei 500. È la vera linea, e nella sua sostanza, se non nella data, è il più antico documento documento; e dall'autentico profeta, il pilastro apostolo, il ''discepolo prediletto'', noi potremo aspettare il ritratto di Cristo che avrà subito l'ultimo rifinimento — la più fedele descrizione di Gesù.
(mia libera traduzione e mia enfasi)


Alcune correzioni sono però d'obbligo
(in fondo Couchoud scriveva all'inizio del secolo scorso): Giovanni il Pilastro potrebbe pure non essere stato l'autore dell'Apocalisse ma un suo seguace. Giovanni non può essere stato il ''discepolo prediletto'' del vangelo di Giovanni: Richard Carrier ha dimostrato che quello era Lazzaro nell'allegoria. E Giovanni era Pilastro ma non apostolo, perchè non sappiamo se ricevette il vangelo direttamente da Gesù, conformandosi così alla definizione di vero apostolo. Se però è Giovanni il Pilastro l'autore dell'Apocalisse, allora oltre ad essere un Pilastro è anche un vero apostolo.


Il Gesù dell'Apocalisse è un essere celeste. Prossimo a venire, la prima volta, sulla Terra. Al momento si è manifestato solo in visioni. Partecipa fin d'ora del Trono di Dio. La sua essenza è la Gloria di Dio e la sua immagine è l'Agnello Benedetto con gli occhi dello Spirito sotto le corna della Potenza. È nel contempo il sommo sacerdote celeste e il suo sacrificio per l'eternità. È privo di un'esistenza terrena. Ma assumerà un'esistenza terrena nell'imminente futuro, per instaurare un regno di mille anni, quando irromperà dal cielo in groppa ad un cavallo bianco, ''vestito di una veste tinta di sangue''. È il Re dei re e Signore dei Signori.

Ma quel Gesù si rivelò al Pilastro Giovanni o al suo fedele seguace dell'ultim'ora, in modo diverso da come si rivelò a Paolo.
Gesù rivelò a Paolo, perfino da Risorto, la sua umiliazione e debolezza sulla Croce.
Per l'Apocalisse Gesù era rimasto inviolato, implacabilmente sereno, perfino quando fu sacrificato da Dio sull'altare. In questo modo preservò la dignità di Agnello sacrificale e insieme la potenza del Figlio di Dio che si sottomette serenamente, senza tradire alcun'emozione o umiliazione, alla volontà di Dio di ucciderlo, perchè sa già di risorgere e di vincere: è nel suo destino.  È stato programmato per essere ucciso da Dio e per risorgere. Ha di un agnello la stessa animalesca impersonalità, quasi a momenti inconsapevolezza di venire ucciso. Si sottomette alla volontà di Dio con la stessa docilità, con lo stesso automatismo, con lo stesso ''cieco'' determinismo, di Isacco quando fu posto sull'altare del sacrificio dal padre Abramo obbediente a Dio. La sua morte è lo spettacolo di un festival passeggero, di un rito pianificato da Dio dall'inizio alla fine fin nei minimi particolari, senza mai lo zampino di Satana ad interferire neppure una volta. Il quale Satana ha però potere sulla Terra fino al giorno in cui verrà scaraventato nello stagno di fuoco.

Assente è ogni scandalo della Croce che si portava con sè invece il Gesù predicato da Paolo (ai giudei).


Il celeste guerriero dell'Apocalisse è il Messia ebraico che porterà alla vittoria i veri ''fratelli del Signore'' contro i falsi ''fratelli del Signore'' introdotti da Paolo nella chiesa. È il condottiero celeste giunto a sterminare gli idolatri e a vendicare il vero Israele.


 Fondamentalmente, i Cristi dell'Apocalisse e di Paolo sono incompatibili tra loro come le loro due religioni di riferimento. L'autore dell'Apocalisse si purifica nel Sangue dell'Agnello, ma non ammette nessun'umiliazione o sofferenza per quell'Agnello. Paolo vede sè stesso nel Cristo crocifisso, con tutte le sue fragili paure di uomo.  L'autore dell'Apocalisse si immagina già al seguito della legione di angeli che farà irruzione dal cielo sotto la guida di Gesù. Paolo continua sulla propria carne le piaghe del suo Gesù. Le porte della Gerusalemme futura e terrena si chiuderanno nell'Apocalisse ai pagani e ai loro amici come Paolo. Laddove Paolo si affrettò ad aprirle, nel cielo, ai pagani del mondo intero divenuti come lui veri ''fratelli del Signore''.
 
Il solo modo di riconciliare quelle due visioni fu o con la vittoria di una sull'altra o viceversa, oppure con la loro reciproca cooptazione da parte di un terzo contendente subentrato più tardi: il cattolicesimo nascente. Una volta che l'ansia apocalittica era passata, una volta che la nebbia della gnosi segreta si sarebbe dispersa, la leggenda cristiana prenderà la forma popolare di un racconto ''storico'' abbastanza verosimile, soddisfando i latenti desideri di salvezza degli ignari οἱ πολλοί.

venerdì 26 settembre 2014

Sulla Definizione di Vero Apostolo

I seguaci Galati di Paolo stanno venendo persuasi ad abbracciare un diverso vangelo (una forma pervertita del vero vangelo) da qualcuno che si è presentato loro.
Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro vangelo. Però non ce n’è un altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo.
 (Galati 1:6-7)


Ma  poi c'è qualcosa di strano se si legge la lettera ai Galati nella prospettiva storicista di discepoli che sono partiti da Gerusalemme alla volta della Galazia al solo scopo di ricondurre i Galati sotto l'egida dei Pilastri. Infatti, il vangelo che stanno predicando questi intrusi proviene da un ''angelo dal cielo''.


Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema!
(Galati 1:8)

Provo a prendere Paolo in parola quando rivolge questa accusa che è anche un monito. Di certo questo non quadra affatto con l'immagine ortodossa di quel che dovrei attendermi dopo aver letto vangeli e Atti degli Apostoli.
Gli storicisti dicono che Paolo sta esagerando deliberatamente indugiando apposta nel linguaggio iperbolico: che si scomodasse addirittura un angelo del cielo a intralciare Paolo sarebbe, nella loro esegesi del passo, un'esagerazione iperbolica e dunque non da prendere alla lettera. Ma ho già notato come lo stesso Bart Errorman rinuncia a vedere così facilmente iperboli in Paolo, specie quando scrive, avvicinandosi al pensiero di Richard Carrier (ma disonestamente mai senza riconoscerlo): 

 Io ho letto la lettera di Paolo ai Galati centinaia di volte sia in inglese che in greco. Ma li chiaro importo di quel che dice in Galati 4:14 semplicemente mai mi si mostrò, fino a, francamente, un pò di mesi fa. In questo verso Paolo chiama Cristo un angelo ... Paolo scrive  e voi non disprezzaste né aveste a schifo la prova che era nella mia carne ma mi accoglieste come un angelo di Dio, come Cristo Gesú stesso … Io ho sempre letto questo verso a indicare che i Galati avevano ricevuto Paolo nel suo stato da infermo al modo in cui avrebbero ricevuto un visitatore angelico, o perfino Cristo stesso. Ma il verso non sta in realtà dicendo che i Galati hanno ricevuto Paolo come un angelo o come Cristo; sta dicendo che lo hanno accolto come farebbero ad un angelo, come Cristo. In virtù di una chiara implicazione, allora, Cristo è un angelo.
 (Bart Errorman, How Jesus Became God, mia libera traduzione, pag. 252-253, mia enfasi)

Il punto è che Errorman, perfino così, continua a non capire tanto è limitato di comprendonio. Infatti ancora non riesce a realizzare l'esatta misura in cui la più antica cristologia cristiana fosse vertiginosamente alta, come gli rimprovera Larry Hurtado (che pure è un folle apologeta di massimo grado, ma almeno non così banalmente idiota come Errorman).


Ma si provi a fare a meno di interpretazioni storiciste e a leggere la lettera ai Galati senza il giogo delle lenti proto-cattoliche.

Continua Paolo:
L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!
(Galati 1:9)


Paolo sta dicendo che un vangelo può giungere all'orecchio umano o da uomini o da un angelo del cielo. Se Paolo si affretta a dire ''angelo DAL cielo'' allora di sicuro non intende un angelo travestito da uomo e considerato un mero uomo dalla gente. L'angelo che consegna il vangelo è davvero celeste e visto come tale.


Paolo prova che il suo vangelo è il vero vangelo perchè è giunto a lui direttamente tramite rivelazione da Gesù Cristo.


Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
(Galati 1:11-12)

Il vangelo di Paolo non è venuto da un uomo o da un angelo ma per diretta rivelazione da Gesù.


Questo fatto è fornito come la prova che il suo vangelo è il vero vangelo.




 “...oppure un angelo dal cielo” può avere un solo significato: il vangelo proviene dal cielo, tramite un messaggero celeste, un angelo. Non c'è posto semplicemente per un vangelo che proviene da un Gesù storico.
Galati 1:11-12 quindi diventa la pretesa di Paolo che lui ha ricevuto il vangelo in quella unica e sola legittima maniera, proprio come Pietro è costituito apostolo degli Ebrei allo stesso modo, in 2:8 (vedi in seguito). Paolo non dipese per nulla dalla ricezione del vangelo da una tradizione orale, proprio come Pietro: questo significa che neppure Pietro e gli altri di Gerusalemme ricevettero il vangelo da una fonte terrena, il Gesù storico. Se così non fosse, se Pietro è diverso da Paolo, allora non solo l'intero castello di carte che sta a fatica costruendo Paolo per persuadere i Galati crollerebbe all'istante, ma Paolo non si permetterebbe mai e poi mai di paragonare la sua elezione (per volontà celeste) ad apostolo dei Gentili alla costituzione di Pietro quale apostolo degli Ebrei... ...A MENO CHE ANCHE PIETRO FOSSE COSTITUITO COME TALE IN NOME DELLA MEDESIMA VOLONTÀ CELESTE ESPERITA PER RIVELAZIONE. 

Questa analisi fa emergere alla luce anche qualcos'altro: mette in dubbio, se proprio non distrugge, la fiducia irrazionale dei folli apologeti che Paolo in Galati 1:11-12 si riferisca solo all'autorità rivendicata da Paolo unicamente in materia di circoncisione & Torah e non investa invece piuttosto l'intera e più ampia definizione di vero apostolato.

E per due ragioni:

1)  Paolo si sta troppo emotivamente riscaldando qui per doversi limitare solo a quei dettagli, per quanto importanti: è in gioco la ragione stessa della sua presenza fra i Galati e dunque deve rischiare il tutto per tutto scoprendo tutte le sue carte, a cominciare dal mettere bene in chiaro che lui è un VERO apostolo esattamente come lo è Pietro, senza alcuna differenza che non sia un mero fatto temporale (che Pietro lo è diventato prima di lui).


2)
sarebbe irrazionale figurarsi un Paolo che rivendica uguaglianza con i Pilastri di Gerusalemme solo su un punto, e per giunta su un punto così minato proprio a causa dell'ostinata opposizione di quelli stessi Pilastri su quel medesimo punto: ossia in merito agli aspetti della Legge da applicare ai gentili. Infatti è esattamente rispetto a quel punto che Paolo e i Pilastri discordano fatalmente, e dunque men che meno proprio lì Paolo si sognerebbe di proclamarsi ''EGUALE'' a Pietro quanto ad autorità: in che cosa pretendi di considerarti ''EGUALE'' a Pietro in materia di circoncisione se tu Paolo discordi con Pietro proprio su quel punto??? Chiaramente non regge.




Paolo poi ricorda ai lettori del suo zelo nell'ebraismo ortodosso, la sua persecuzione della chiesa, e poi la sua chiamata all'apostolato.
Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno...
 (Galati 1:15-16)

Dio lo scelse per essere un apostolo dei Gentili. Per rivelare il suo Figlio Gesù ''in'' lui, qualsiasi cosa questo significhi.

 Solo quello, ricordatelo, è la prova che il suo vangelo è vero.
...subito, senza chiedere consiglio a carne e sangue, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia...
(Galati 1:16-17)


Esistevano apostoli prima di Paolo. Il vero apostolato, ne deriva, discende da una chiamata diretta da Dio e da una rivelazione da Gesù o su Gesù.
 
Paolo sta dicendo in effetti che lui, proprio come gli altri apostoli, è un apostolo in virtù di avere esperito una rivelazione.
Egli perciò non è inferiore agli altri. È un apostolo a causa della stessa ragione per la quale lo sono gli altri prima di lui. Il suo vangelo è vero.

 Non esiste nulla a suggerire che il suo apostolato gli deriva dall'avere conosciuto Gesù nella carne. Quella clausola si deve alla propaganda dell'autore di Atti. È l'anti-marcionita ''Luca'' a sostenere che la corretta ''ortodossia'' di un apostolo possa passare il test della verità solo a condizione che l'autorità di riferimento proviene da Gesù dal momento del suo battesimo alla sua morte e risurrezione. Quest'opinione dell'apostolato fu introdotta dall'autore di Atti come evidente supporto politico a favore dell''ortodossia''. Uso l'aggettivo ''politico'' qui per sottolineare il carattere arido, quanto a sensibilità religiosa e a mancanza di scrupoli in tal senso, di tale scelta.

Prima di allora, comunque, in questa lettera ai Galati, non esisteva affatto un apostolato del genere. Perfino l'apostolato di Giacomo, Pietro e Giovanni, i famigerati Pilastri, passava il test della verità solo in conseguenza di una rivelazione diretta da Dio o Gesù.

Non esistono ''dodici'' apostoli nella lettera ai Galati. Anche quello si trattava di un sviluppo posteriore. Pare che l'''ortodossia'', come la si capisce in Atti, cercò di sacralizzare l'apostolato solo collegandolo ad un Gesù umano - apparentemente in latente contraddizione contro un'opinione precedente del tutto diversa del medesimo apostolato. Un aspetto ridicolo dei folli apologeti è che, perfino se si assumesse la loro definizione storicista di apostolato Giacomo il fratello del Signore non può essere stato un apostolo perchè, stando ai vangeli, non si unì mai a Gesù durante la sua esistenza terrena.


L'autore di Atti goffamente fa di Giacomo quello che dirige l'assemblea dei Dodici al concilio di Gerusalemme.

Quando Paolo descrive il suo incontro con Giacomo il fratello del Signore, specifica che Giacomo è solo un ''fratello del Signore'' (perfino se fosse un Pilastro di Gerusalemme) perchè deve sottolineare che l'unico apostolo che incontrò fu solo Pietro, e nessun altro. Solo così può rassicurare i Galati che il suo vangelo proviene certamente da Dio, visto che l'unico apostolo che ha incontrato (e ha conosciuto di persona) è solo Pietro, e addirittura solo per pochi giorni.


E quindi quando successivamente Paolo descrive il suo incontro successivo con Giacomo il fratello del Signore (dunque solo un cristiano autorevole ma non un apostolo), con Pietro e Giovanni a Gerusalemme, lo stesso Paolo dice che Pietro fu costituito apostolo in missione tra gli Ebrei allo stesso modo in cui lui è costituito apostolo tra i Gentili. A parte che i Dodici non vengono affatto menzionati, si nota chiaramente che Pietro è la controparte di Paolo.
Anzi, visto che a me era stato affidato il Vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi – poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per le genti – ...
(Galati 2:7-8)

Giacomo è il leader. Giovanni non si sa se è un fratello del Signore come Giacomo (dunque non un apostolo) oppure è a sua volta un apostolo. Pietro/Cefa è l'apostolo degli Ebrei come Paolo è l'apostolo dei gentili. Tutti sono apostoli perchè hanno ''visto'' il Cristo risorto.

Ma allora chi sono i nemici di Paolo che lo costringono ad impugnare l'argomento che un apostolo deve aver ricevuto la sua autorità apostolica insieme al vangelo direttamente da Dio o Cristo, al punto da fargli dire che ANCHE LUI - dunque ESATTAMENTE COME LORO - ha ricevuto il vangelo non da uomini ma per mezzo di una rivelazione?


Il vero apostolo è perciò identificato non tramite una catena di tradizione orale o per successione apostolica, ma unicamente mediante una diretta vocazione spirituale.
Quando Paolo dice:
“Non sono forse un apostolo? Non ho visto Gesù?”
(1 Corinzi 9:1)


questa combinazione:
apostolo, aver ''visto'' Gesù
che rappresenta in realtà un'equazione:
apostolo = colui che ha ''visto'' Gesù
 ...se non è originariamente gnostica, è in ogni caso assai più vicina al pensiero gnostico successivo del II secolo di quanto lo fosse rispetto al proto-cattolicesimo di Luca-Atti degli Apostoli.

L'apostolo, che sia stato gnostico o no nella chiesa originaria non ha importanza, è chiamato direttamente da Dio. L'apostolo sa di esser tale in seguito ad una allucinazione estatica dove comunica con il divino.

Certo, in mezzo a voi si sono compiuti i segni del vero apostolo, in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli.
(2 Corinzi 12:12)
...con la potenza di segni e di prodigi, con la forza dello Spirito...
(Romani 15:19)

...mentre Dio stesso aggiungeva la sua testimonianza alla loro con segni e prodigi, con opere potenti di ogni genere e con doni dello Spirito Santo, secondo la sua volontà.
 (Ebrei 2:4)
 La visione del mondo celeste e della via per salirvi potrebbe essere stata il prerequisito fondamentale dell'originario apostolo.

 
Non si può non rammentare qualcosa di familiare con il vangelo di Filippo che recita così:
“. Le cose in alto si sono manifestate a noi che siamo in basso, affinché potessimo entrare nel segreto della Verità. Questa è veramente quella che è onorata, che è potente. Ma noi penetreremo là attraverso modelli spregevoli e cose deboli. E sono davvero spregevoli, in confronto alla gloria perfetta. C'è una gloria che è piú alta della gloria, c'è una potenza che è al di sopra della potenza. Per questo motivo, la perfezione si è manifestata a noi con i segreti della Verità e il Santo dei Santi si è rivelato. . . . ”


Il Gesù storico è allora l'effetto, non l'origine, del cristianesimo. Paolo e il resto della prima generazione di ''fratelli del Signore'' attinsero dalle Scritture per creare una religione misterica ebraica, completa di rituali pagani come l'Eucarestia, termini gnostici a profusione nelle sue lettere, e un dio salvatore rivale degli Dèi egizi, persiani, ellenistici e romani.
 
Leggendo Galati in questo modo, viene però un sospetto: che Giacomo, Pietro e Giovanni, non fossero apostoli ''gnostici'' solo di fatto, ma anche di nome.

giovedì 25 settembre 2014

No Jerim B. Pischedda: Tacito Non Scrisse Di Gesù

Richard Carrier ha dimostrato nel suo articolo da poco sottoposto alla peer-review (e che avevo già letto nel capitolo 20 del suo Hitler Homer Bible Christ  ) che

''non è credibile che Tacito sapesse di un tale enorme evento di persecuzione, ma tutti i successivi cristiani non abbiano alcuna conoscenza di esso per oltre duecento anni''
(Hitler Homer Bible Christ, mia libera traduzione, pag. 385).

Per dimostrarlo, come avevo spiegato, divide l'evidenza a favore di tale affermazione in tre parti, A, B e C.

(A) Il fatto che il TT [il Testimonium Taciteum] non ebbe influenza su nessuno delle numerose storie e rapporti della persecuzione neroniana in nostro reale possesso prima del quarto secolo. Dovremmo aspettarci quelle storie e rapporti per almeno essere consci dell'evento riferito nel TT se quell'evento accadde del tutto, e di sicuro se esso accadde e perfino Tacito (un pagano) sapeva e scriveva di esso.

(B) Il fatto che fino al falso della corrispondenza Paolo-Seneca nel tardo quarto secolo, nessun altro racconto o tradizione cristiana sorse del tutto ad abbellire o dipendere dall'evento trovato nel TT. La completa assenza di ogni tradizione del martirio risultante da quell'evento per quasi trecento anni è davvero inaspettato.

(C) Il fatto che non esiste nessuna evidente conoscenza del TT, o dell'evento che esso ricorda, in Tertulliano, Lattanzio, o ogni altro autore latino (Cristiano o altrimenti), o greco per quella materia, prima del falso della corrispondenza Paolo-Seneca oltre trecento anni più tardi (e oltre duecento anni dopo che Tacito apparentemente scrisse di esso). Dovremmo aspettarci che almeno qualcuno doveva menzionarlo, e certamente quelli autori, che sapevano e utilizzavano le opere di Tacito e scrivevano su materie relative frequentemente, dovevano menzionarlo.

(HHBC, pag. 392-393, mia libera traduzione, corsivo originale, mio grassetto)




A queste porzioni aggiunge un quarto fatto dell'evidenza, D, ovvero che il passaggio tacitiano sembra parlare di qualcos'altro, dei sediziosi crestiani di Cresto e non dei pacifici cristiani di Cristo.
(D) Il fatto che aspetti nell'intero resoconto di Annali 15.44 si adattino ai Crestiani (i violenti partigiani di Cresto, un agitatore ebreo in Roma sotto Claudio) meglio che ai Cristiani (i nonviolenti adoratori di Cristo, un santo ebreo ucciso in Giudea sotto Tiberio). Dovremmo più presto aspettarci il contrario...
(HHBC, pag. 393, mia libera traduzione, corsivo originale, mio grassetto)

Ecco le stime di probabilità effetto assegnate da Carrier a quei 4 fatti, sotto l'ipotesi dell'autenticità cara a Pischedda.

(A) 1 su 20.

(B) 1 su 5.

(C) 1 su 5.

(D) 4 su 5.


Moltiplicate (1/20 * 1/5 * 1/5 * 4/5 = 4/2500), fanno 4 su 2500, ovvero 1 probabilità su 625 che Tacito abbia parlato di Cristo.

Ecco le stime di probabilità effetto invece ai quei medesimi 4 fatti, ma sotto l'ipotesi dell'interpolazione cara ai miticisti:

(A) 20 su 1.

(B)  5 su 1.

(C) 5 su 1.

(D) 4 su 5.


Moltiplicate, fanno 625 probabilità su 1 che il passo relativo a Cristo nel Testimonium Taciteum sia un'interpolazione cristiana.




Si noti che il quarto fatto, (D), non è affatto un argomento ex silentio in quanto si basa su evidenza interna al passaggio, dunque Jerim Bogdanic Pischedda dice il falso quando vende nel net, spacciandola per verità, la falsa idea che Carrier sta proponendo solo un mero argomento del silenzio (a suo dire ''Carrier costruisce una grande argomentazione ex silentio'' [1]). In questo modo Pischedda non esita a riportare falsa testimonianza pur di difendere il suo bambino Gesù dalle grinfie degli odiati miticisti, e dunque sputa sugli stessi 10 comandamenti cristiani. Lui è la prova vivente - e contemporanea - della PIA FRODE: mentire a fin di bene.


Dunque non si tratta di un argomento del silenzio e perciò non ha alcun legame di causa effetto con i fatti A, B e C, a meno che A, B e C siano al 100% attesi in virtù della ipotizzata verità al 100% di D: se Tacito si riferì ai sediziosi crestiani, allora non c'è motivo per i pagani e i cristiani successivi di collegare quei ribelli a Cristo. In alcun modo.


Dunque Jerim Bogdanic Pischedda, l'apologeta cattolico strenuo difensore nel Net italiano della'autenticità del Testimonium Taciteum (nonchè, addirittura!, della sua indipendenza come testimonianza della storicità di Gesù), deve dimostrare, se ha davvero intenzione di confutare seriamente Richard Carrier, che sull'ipotesi dell'autenticità dell'auctor nominis eius..., A implica B e C, così che, al di là della probabilità da attribuire ad A, la somma delle probabilità di A, di B e di C abbia la stessa probabilità di A. Questo equivale a dire che, poichè nessun cristiano, parlando di Nerone, si riferisce all'incendio tacitiano e al massacro conseguente (A), allora nessuna leggenda cristiana sarebbe sorta in conseguenza di ciò (B) e nessun autore cristiano o pagano ne avrebbe parlato (C) perfino se a conoscenza del passaggio. Ma ammesso e non concesso che dalla verità di A segue in rapporto di causa effetto la verità di B e di C, questa dipendenza causale di B e di C da A non è affatto aspettata al 100%. Perciò A+B+C non può essere tanto probabile quanto il solo fatto A.

In realtà che nessun cristiano colleghi la persecuzione di Nerone all'incendio di Roma è possibile se quella connessione c'è stata e fu segnalata da Tacito, e tuttavia, per amore di verità (qualcosa di cui Jerim Bogdanic Pischedda è sprovvisto), dovremmo matematizzare quella possibilità in termini della sua probabilità. Dovremmo chiederci: quanto è probabile che Tacito  parlò di Cristo in relazione all'Incendio e che per reazione nessun cristiano collegò Cristo all'incendio di Nerone, nonostante tutti leggevano Tacito, e per secoli?

Perciò se (A) nessun cristiano fece quella connessione (ed è un FATTO), allora per quanto Pischedda possa far aumentare in virtù di quel silenzio la probabilità di B - che NESSUN altro cristiano fece quella connessione (che è un FATTO) -  e la probabilità di C -  che NESSUN cristiano conoscitore e utilizzatore di Tacito fece quella connessione -, quelle medesime probabilità (di B e di C) non sfioreranno mai il 100%.

È perfettamente possibile e dunque per niente trascurabile che i cristiani che parlarono delle persecuzioni di Nerone come Tertulliano non avessero segnalato la connessione tacitiana Incendio-Cristo. Ma che non solo loro ma per giunta TUTTI GLI ALTRI AUTORI CRISTIANI non sapessero di quella connessione e, perfettamente all'unisono, sincronizzati quasi fossero una formidabile macchina da guerra, non la segnalassero, ebbene, questo è PERFINO PIÙ INATTESO, PIÙ SORPRENDENTE, DUNQUE PIÙ  IMPROBABILE.

E quanto più inatteso? Quanto più sorprendente? Quanto più improbabile?

Ebbene, di 5 contro 1, come nelle stime di Carrier.


Dunque non si tratta di un banale argomento del silenzio. Quell'argomento sarebbe banale se fosse stato recitato solo e soltanto in questo modo:

1) dovremmo aspettarci delle storie sulla connessione Incendio-Cristo.
2) quelle storie non ci sono e non le abbiamo.
3) dunque quella connessione non c'è stata in Tacito.

Pischedda crede davero che sia questo l'argomento che sta facendo Carrier? Se davvero lo crede, allora o è mentalmente limitato oppure è un bugiardo. In entrambi i casi a muoverlo e a guidarlo è solo la sua fede apologetica, non la luce della ragione.

L'argomento di Carrier invece è grossomodo il seguente:

1) dovremmo aspettarci delle storie sulla connessione Incendio-Cristo.
2) non solo quelle storie non le abbiamo, ma anche le storie CHE ABBIAMO sono addirittura silenti sulla connessione Incendio-Cristo.
3) dunque quella connessione è assente in Tacito.


Si noti che 2 è più forte della 1. In altre parole, che le storie esistenti sarebbero ignoranti di un evento è improbabile.

Quel che c'era da aspettarsi invece, se la connessione Incendio-Cristo fosse autentica, sono storie che parlano di Nerone ma non della connessione Incendio-Cristo (e quelle storie LE ABBIAMO) oltre a storie che parlano di Nerone e pure della connessione Incendio-Cristo (e quelle storie NON LE ABBIAMO).

Che le storie che abbiamo parlano di Nerone ma non della connessione Incendio-Cristo è atteso solo con 1 probabilità su 20.
Che non abbiamo storie che parlano di Nerone assieme alla connessione Incendio-Cristo è atteso solo con 1 probabilità su 5.

Che questi due fatti si verifichino CONTEMPORANEAMENTE (che abbiamo le fonti silenziose mentre invece non abbiamo le fonti non-silenziose), ecco, QUELLO è impossibile.  QUELLO è il vero argomento di Carrier.

Ed ''impossibile'' significa ''estremamente improbabile''.

In numeri, 1 su 625.

Dunque a che servono i numeri, caro apologeta Pischedda?
A matematizzare il nostro linguaggio per non far sfuggire fin troppo facilmente le implicazioni logiche dietro il fumo della chiacchiera, quel fumo che è l'esatto malcelato disegno dietro i fumosi tentativi dei folli apologeti cristiani di diffamare la strategia bayesiana di Carrier e la sua applicazione alle scienze storiche.


Ma non è finita qui. Perchè ancora le cartucce di Carrier contro l'autenticità della connessione Incendio-Cristo nel Testimonium Taciteum non sono esaurite.

C'è infatti un terzo, inquietante fatto da considerare.

Perfino gli autori (come Lattanzio) che conoscono e usano Tacito, e mi riferisco al Tacito degli Annali 15:44, non menzionano l'evento.

Jerim Bogdanic Pischedda potrebbe cercare di spiegare il silenzio delle fonti che abbiamo ricorrendo ad una delle sue proverbiali supposizioni e armonizzazioni ad hoc (perchè non derivate dall'evidenza):

''nessun cristiano lesse Tacito e quindi non poteva sapere''

 ma così, per farmele bere una a una quelle sue supposizioni e armonizzazioni ad hoc, dovrebbe in cambio, per pura onestà, ridurre le probabilità a suo favore.



Jerim Bogdanic Pischedda potrebbe cercare nuovamente di spiegare l'assenza delle fonti che rompono quel silenzio di cui sopra ricorrendo ad un'altra delle sue proverbiali supposizioni e armonizzazioni ad hoc (perchè non derivate dall'evidenza)

''ancora, nessun cristiano lesse Tacito e se lo lesse, ritenne più opportuno il silenzio''

ma così, per farmele bere una a una quelle sue supposizioni e armonizzazioni ad hoc, dovrebbe in cambio, per pura onestà, ridurre ulteriormente le probabilità a suo favore.

Jerim Bogdanic Pischedda potrebbe cercare, di nuovo, di spiegare il silenzio delle fonti che abbiamo ricorrendo ad un'altra ancora delle sue supposizioni e armonizzazioni ad hoc (perchè non derivate dall'evidenza)

''nessun cristiano che lesse Tacito si sentì in dovere di avvisare altri cristiani della connessione Incendio-Cristo''

ma così, per farmele bere una a una quelle sue supposizioni e armonizzazioni ad hoc, dovrebbe in cambio, per pura onestà, ridurre ancora ulteriormente le probabilità a suo favore.


Jerim Bogdanic Pischedda potrebbe cercare di spiegare di nuovo e ancora di nuovo il silenzio delle fonti che abbiamo ricorrendo ad un'altra ancora delle sue supposizioni e armonizzazioni ad hoc (perchè non derivate dall'evidenza)

''gli stessi cristiani, anche se le vere vittime dell'Incendio, non passarono mai alcuna informazione di esso tra i loro ranghi, al punto che perfino ogni tradizione orale originatasi con quel'evento si spense rapidamente all'interno del medesimo movimento''


ma così, per farmele bere una a una quelle sue supposizioni e armonizzazioni ad hoc, dovrebbe in cambio, per pura onestà, ridurre ancora ulteriormente, e ancor più drasticamente, le probabilità a suo favore.

Supponiamo l'assurdo. Supponiamo che Pischedda mi costringa con la forza a bere una per una  tutte le sue armonizzazioni ad hoc appena citate. Cosa dovrei concludere? Che se non si apprende della connessione Incendio-Cristo da Tacito in persona, DA NESSUN ALTRO CRISTIANO lo si sarebbe mai potuto apprendere.

Dunque l'argomento ancor più agguerrito di Carrier diventa il seguente:

1) dovremmo aspettarci delle storie sulla connessione Incendio-Cristo.
2) non solo quelle storie non le abbiamo, ma anche le storie CHE ABBIAMO sono addirittura silenti sulla connessione Incendio-Cristo.
3) non solo l'assenza di storie che rompono il silenzio, non solo la presenza di storie piene di assordante silenzio, ma anche le storie che dimostrano di conoscere delle opere di Tacito, e di conoscere PERFETTAMENTE la descrizione tacitiana dell'Incendio (vedi Lattanzio), mancano la connessione Incendio-Cristo.
4) dunque quella connessione è assente in Tacito.

Abbiamo la certezza assoluta che degli autori cristiani leggono Tacito, e il Tacito dell'Incendio di Roma di quel preciso punto di Annali 15:44.

Eppure anche da loro: silenzio completo su Cristo e i cristiani periti a seguito di quell'Incendio.

Zero assoluto.



Quindi Jerim Bogdanic Pischedda potrebbe vincere alla lotteria per il rotto della cuffia solo se, CONTEMPORAMENTE,

A) abbiamo solo le storie che istituiscono quel silenzio sulla connessione Incendio-Cristo in Tacito,
B) perdiamo le storie che rompono quel silenzio sulla connessione Incendio-Cristo in Tacito,
C) le storie che conoscono e addirittura usano la descrizione tacitiana dell'incendio preferiscono non parlare della connessione Incendio-Cristo (o Incendio-Cristiani) in Tacito.

Potrei perfino prendermi il lusso di negare la profonda verità di C e ancora sarebbe possibile il verificarsi contemporaneamente di A & B. Ma allora A & B non implicano C. E neppure C implica A oppure B. Dunque tutti quei fatti sono fatti tra loro indipendenti. E la loro indipendenza costringe Pischedda, volente o nolente, a scommettere sul loro accadere contemporaneamente (perchè è un FATTO che quei tre eventi indipendenti sono accaduti) concedendomi in compenso solo un piccolo favore, per onestà intellettuale: ridurre CON CERTEZZA MORALE le probabilità dell'autenticità del passaggio.

Chiamasi argomento cumulativo. A, B e C sono assai probabilmente eventi indipendenti.
Dunque che si verifichi A+B+C contemporaneamente è di gran lunga meno probabile che si verifichi solo A oppure solo B oppure solo C.

L'apologeta cattolico Jerim Bogdanic Pischedda non può sfuggire alle due, anzi tre, anzi quattro (D!!!), corna della bestia.

La smetta una buona volta il signor Pischedda di diffamare il serio e competente studioso Richard Carrier, facendo leva sulla disinformazione gratuita del web per denigrare i suoi argomenti contro l'autenticità del famigerato passo tacitiano su Cristo.

Ne guadagnerà in compenso - ne sono certo - una maggiore, e salutare, considerazione della propria onestà intellettuale.

[1] Sebbene debba riportare il link da dove prendo le parole di Pischedda, quel link mi fa così schifo che non voglio nemmeno riportarlo, in quanto indica un covo di dementi folli apologeti cattolici ed ortodossi (e sottolineo ''dementi''). Il lettore comprenderà.

Quando la possessione è possessione, al di là del bene e del male

AVVERTENZE PER L'USO: quanto dirò in questo post riflette solo la mia opinione personale, e dunque andrebbe considerato al livello del solo possibile e non del più probabile, qual è invece il modello delle origini cristiane proposto da Carrier/Doherty.

Le parole chiave del vangelo di Marco sono tre, a mio parere: ''regno di Dio'', ''Figlio di Dio'' e ''Figlio dell'Uomo''.

In base alle mie riflessioni precedenti, sono giunto personalmente alla conclusione che era ritenuto erroneamente ''storico'' dai primi apostoli cristiani, in quanto ''confermato'' ex eventu da allucinazioni, l'idea che lo Spirito del Figlio aveva posseduto un anonimo appena prima della sua morte sulla croce.

Roger Parvus sostiene che il Figlio si era sostituito all'anonimo con un astuto scambio di posto. Io invece sono incline a pensare che lo Spirito del Figlio aveva posseduto l'anonimo allo stesso modo in cui i demoni possedevano il disgraziato di turno guarito da Gesù nel vangelo di Marco.
Quell'anonimo però era praticamente irriconoscibile (e perciò a maggior ragione ''passato'' inosservato) nella sua autentica natura di ospite fisico temporaneo del Figlio per le poche ore della sua agonia - il tempo necessario affinchè si consumasse il dramma cosmico - perchè le regole del gioco era che solo uno spirito in possesso di un corpo poteva riconoscere l'identità dello spirito dimorante in un altro corpo.

E sulla Terra, nella stragrande maggioranza dei casi, se un uomo doveva essere posseduto, lo spirito possessore era sicuramente un demone, dal momento che solo i demoni dell'aria vagavano nei cieli inferiori e dunque solo loro infestavano la Terra col tacito permesso di Dio.

Dunque l'espressione ''il regno di Dio'' nel vangelo di Marco è un termine collettivo che designa tutti coloro che sono posseduti dallo Spirito del Figlio. Se il Figlio portava in sè dal principio l'immagine dell'invisibile Dio, era la logica, allora essere posseduto dal Figlio era equivalente a rassomigliare al Figlio, e dunque in definitiva a rassomigliare a Dio.

Ora, nel primo vangelo, assistiamo ad un fatto curioso: Gesù soltanto è posseduto dal Figlio. Dunque quando il regno di Dio è simile ad un granello di senape, come recita la nota parabola, ovvero prima di diventare un albero gigantesco, vorrà dire che solo ''Gesù'', soltanto lui, appartiene al ''regno di Dio'' perchè lui solo è al momento l'unico ''granello di senape'' ad essere posseduto dal Figlio. O meglio, il ''granello di senape'' è proprio lo Spirito del Figlio che lo possiede dal momento del battesimo.

Quindi abbiamo l'assicurazione, alla luce della parabola del granello di senape, che il ''regno di Dio'' originariamente rappresentato dal singolo uomo Gesù è destinato a crescere enormemente di misura, al punto da accogliere, da quel gigantesco albero che è diventato, degli uccelli, simbolo di Satana e dei suoi agenti sulla Terra, tra i suoi rami.

Quindi si apre una contraddizione: nonostante il numero di coloro destinati a diventare posseduti dallo Spirito Santo (= lo Spirito del Figlio) aumenterà a dismisura nel prossimo e remoto futuro, sempre si nasconderanno tra loro, nonostante siano condannati fin d'ora alla distruzione eterna, dei falsi cristiani, falsi ''fratelli del Signore'' posseduti non dallo Spirito Santo, ma dallo Spirito di Satana e dei suoi demoniaci arconti.

Rimane da capire il significato dell'espressione ''Figlio dell'Uomo''.

La più semplice spiegazione si basa su Marco 13:26, che fa dell'espressione ''Figlio dell'Uomo'' una fin troppo esplicita allusione a Daniele.

Per l'autore originario del libro di Daniele, e per l'ebraismo tradizionale almeno più maggioritario, il Figlio dell'Uomo indica tre cose:
(a) Lo strano articolo nell'epressione 'il figlio DELL'uomo'' si riferisce ad Adamo prima della caduta nella Genesi. Adamo è chiamato nella Septuaginta ἀνθρωπος fino alla Caduta. Ma dopo la Cacciata dall'Eden compare il nome Adamo.
(b) in Daniele il Figlio dell'Uomo è un termine COLLETTIVO, che si riferisce al Messia simile ad Adamo, simile ad un Umano, per il quale verranno soggiogati tutti i regni della terra
(c) e i ''Santi del Altissimo'' parteciperanno di questo dominio.

 In altre parole, il Figlio dell'Uomo è il vero Israele, l'Israele prescelto, puro, migliore, un insieme di uno o più esseri umani con in comune almeno una particolare caratteristica.

Il vangelo di Marco esordisce in questo modo:

 Ἀρχὴ τοῦ εὐαγγελίου Ἰησοῦ Χριστοῦ υἱοῦ θεοῦ. 


Dopo il primo verso, tutto quello che il lettore sa, se si limitasse al solo primo verso, è che la verità che si sta proclamando, almeno in superficie, è una buona notizia e come tale, sempre al medesimo livello di comprensione superficiale (di chi sa di dover appena ricevere una buona notizia), riguarda il Salvatore divino ('Gesù') e il Messia ('Cristo'), l'Unto atteso tradizionalmente dagli ebrei. Subito dopo viene detto il vero soggetto di tutti quegli attributi messianici ''Gesù'' e ''Cristo'': il Figlio di Dio.

Ma chi è il Figlio di Dio? È lo Spirito Santo che dal principio, come recita l'Inno ai Filippesi, è la forma, l'immagine, l' εἰκών, di Dio. Questa ipostasi divina, attraversando i cieli, era scesa sulla Terra dimorando in un uomo.

Nel vangelo di Marco quell'uomo venne abitato dal Figlio al momento del suo battesimo ad opera di Giovanni il Battista. Nel mito originario, così superbamente descritto nel prepaolino Inno ai Filippesi, quell'uomo compiva solo un'azione durante il tempo in cui il Figlio prendeva possesso del suo corpo e del suo aspetto fisico: morire sulla croce.

Poichè a morire sulla croce erano di solito aspiranti messia, ''Gesù'' e ''Cristi'' di loro proprio diritto, quelli attributi messianici finirono di conseguenza associati anticamente (= prima ancora di Paolo) al Figlio.

Era il Figlio ad aver voluto scivolare nel corpo di un aspirante novello Giosuè/Gesù e preteso ''Messia''/Cristo degli ebrei per realizzare quello che agli altri Gesù e agli altri Cristi di solito non riusciva: rovesciare il vecchio ordine mondiale e inaugurare uno nuovo che sarebbe durato mille anni.
Di conseguenza acquisì quei appellativi come risultato del suo esser scivolato nei panni di un aspirante salvatore terreno e unto ed essere riconosciuto superficialmente, esteriormente - ed ironicamente - come tale.


Dovendo dare una leggendaria Non-Vita sulla Terra al Figlio decisamente più lunga rispetto a quella che gli assegnava il mito originario, ''Marco'' fa scivolare il Figlio nel corpo dell'uomo non quando quell'uomo sta sul punto di finire sulla croce, in quanto reo di essersi proclamato novello Giosuè e aspirante Messia agli occhi degli osservatori esterni, ma al momento del suo battesimo, allorchè l'uomo ''Gesù Cristo'' viene posseduto dal Figlio la prima volta e solo lui ascolta la voce di Dio che dice: ''Tu sei il mio diletto Figlio: in te mi sono compiaciuto''. Non gli altri presenti. Neppure Giovanni. Dunque il Segreto Messianico è inaugurato: ora solo i demoni che abitano i corpi delle loro sventurate vittime possono essere in grado di riconoscere il Figlio dell'Uomo ''Gesù Cristo''. Gli esseri umani penseranno di vedere solo l'uomo ''Gesù'' e al più crederanno, come Pietro, che lui è il ''Cristo'' tradizionale degli ebrei. Ma nessuno, neppure Pietro, riesce a vedere che dentro l'uomo ''Gesù'', dentro l'uomo ''Cristo'', vi dimora temporaneamente il Figlio di Dio, ovvero lo Spirito Santo. Chi non considera l'uomo ''Gesù'' un ''Cristo'' (per ostilità, o per incredulità, o magari perchè non lo conosce neppure di vista) pensa che sia solo un mero abitante di Nazaret.

Quello Spirito del Figlio uscirà fuori dal corpo dell'uomo ''Gesù'' proveniente da Nazaret quando quell'uomo morirà e il suo cadavere verrà tumulato nella tomba.

Ora si noti cosa succede al finale del vangelo di Marco:
''Voi cercate Gesù il Nazareno che è stato crocifisso''.
(Marco 16:6)


Il giovane vestito di bianco descrive quello che stanno credendo le donne giunte al sepolcro: pensano ancora, nella loro cecità, di eessere state per tutto quel tempo con l'uomo ''Gesù'' proveniente da Nazaret.

Ma ora quell'uomo è risuscitato, dice il messaggero divino.

Solo un uomo poteva risorgere nella profezia ripetuta tre volte dallo stesso uomo ''Gesù'' quando era abitato dal Figlio di Dio: ovvero il Figlio dell'Uomo.


Dunque qui possiamo rischiarare il vero significato di Figlio dell'Uomo e aggiungere qualcosa di nuovo all'interpretazione originale di quell'espressione mutuata da Daniele.


Il Figlio dell'Uomo è l'uomo ''Gesù'', ritenuto ''Cristo'' secondo il massimo di realizzazione basata sulle sole possibilità umane, ma solo quando quell'uomo possiede dentro di sè lo Spirito vivificante del Figlio di Dio.

Tutto quello che il malvagio Giuseppe d'Arimatea, in combutta col Sinedrio e con Pilato, era riuscito a seppellire era solo il cadavere (Πτώμα) dell'uomo ''Gesù'', non più posseduto dallo Spirito del Figlio e dunque non più Figlio dell'Uomo: era tale solo durante il tempo in cui il Figlio possedeva lui. Per Giuseppe d'Arimatea, come per gli altri farisei, quell'uomo ''Gesù'' era sì posseduto, ma da Belzebuul, non da un angelo, e tantomeno era il ''Cristo'': chiudendo la tomba e sigillandola per bene con un grosso macigno speravano di porre fine per sempre alle grane sollevate da quell'uomo di Nazaret.

Quel che è risorto invece è il corpo celeste dell'uomo ''Gesù'', un corpo vivo (σομα) perchè lo Spirito del Figlio era ritornato in lui per abitarvi di nuovo, e questa volta definitivamente.

Si aprono due possibili definizioni per l'espressione Figlio dell'Uomo in Marco, allora, fermo lasciando il significato originario tradizionale ebraico derivatogli da Daniele:

1) Figlio dell'Uomo è l'uomo ''Gesù'' - ma anche qualunque uomo - che ospita dentro di sè lo Spirito Santo del Figlio e in qualche modo lo lascia trapelare fuori di sè.

2) Figlio dell'Uomo è l'uomo ''Gesù'' - ma anche qualunque uomo - che ospita dentro di sè lo Spirito Santo del Figlio, ma solo DOPO che il Figlio ritorna la seconda volta dentro il nuovo corpo celeste dell'uomo ''Gesù'' per resuscitarlo e non più lasciarlo (e dunque per identificarsi definitivamente con lui).


Io penso che sia più probabile, alla luce delle ricorrenze dell'espressione ''Figlio dell'Uomo'' nel vangelo di Marco (anche in circostanze diverse dalla predizione della risurrezione del Figlio dell'Uomo), la prima definizione.



Ma del secondo punto ci terrei a salvare un aspetto: il fatto che la risurrezione, per definizione, assicura una presenza eterna e costante dello Spirito Santo del Figlio dentro l'uomo ''Gesù'' nei secoli dei secoli. Da quel momento in poi il Figlio non uscirà più fuori dell'uomo ''Gesù'' e perciò la morale della favola è questa: che lo Spirito Santo non uscirà più dai cristiani che vivono, muoiono e risorgono ''in Cristo''.


Perciò, se il Figlio di Dio abiterà un uomo, quell'uomo non diventerà più un mero figlio d'uomo, ma il Figlio dell'Uomo: nella misura in cui il Figlio di Dio si ''umanizza'' esteriormente in lui, anche l'uomo si ''divinizzerà'' a sua volta interiormente nel Figlio, diventando gradualmente una cosa sola col Figlio di Dio e perciò divenendo di diritto IL Figlio dell'Uomo, prima di morire e dopo la morte.

Quello che Marco sta descrivendo dunque è esattamente questo processo iniziatico: come la vera risurrezione consiste nel comprendere che l'uomo - qualsiasi uomo, non solo l'uomo ''Gesù'' - diventa Figlio di Dio quando realizza di ospitare dentro di sè lo Spirito Santo. Quando la conoscenza riservata ai soli demoni (sapere che lo Spirito del Figlio ha preso dimora in un particolare uomo)  viene a far parte della sua conoscenza e perciò non si limiterà più, come l'ignorante Pietro, a proclamare ''Cristo'' l'uomo ''Gesù'' posseduto dal Figlio, ma riconoscerà l'esatta presenza del Figlio in lui. Dentro di sè.

Questa è pura Gnosi.

Quindi oramai non ci sono più dubbi. L'autore di Marco, pur partendo da premesse squisitamente ebraiche e in seno ad una comunità paolina ancora in gran parte formata da ebrei della Diaspora, era giunto ad un passo dal gettare le basi di quello che diventerà il vero e proprio pensiero gnostico successivo.

Marco introduce il tema del Segreto Messianico per veicolare un preciso messaggio a coloro che hanno occhi per vedere: il vero ''fratello del Signore'' è colui che, come il nazareno, ha dentro di sè il Figlio. E come il (o forse, più del) nazareno, LO SA.


Quest'ultima frase apre un'interessante e suggestiva domanda: l'uomo ''Gesù'' nell'allegoria di Marco, SAPEVA di ospitare dentro di sè il Figlio quando il Figlio era scivolato dentro il suo corpo al suo battesimo? Oppure da quel momento il Figlio si era totalmente impadronito del suo corpo al punto da usarlo come una marionetta a sua totale discrezione?

Parecchi indizi inducono a rispondere di sì alla seconda domanda, ma solo fino a un certo punto. 

Marco, il più antico dei vangeli canonici, non sta semplicemente omettendo i dettagli su Gesù prima del suo battesimo, ma sta informando per via indiretta i suoi lettori che non c'è stato nessun fatto saliente da dire riguardo all'uomo ''Gesù'' prima del battesimo. Marco è chiaro: l'uomo ''Gesù'' proveniente da Nazaret era un perfetto sconosciuto fino al giorno in cui fu battezzato da Giovanni, mettendosi in fila al pari degli altri peccatori.

Questo spiega perchè gli stessi parenti non lo riconoscono più, una volta che il loro ''Gesù'' è posseduto dal Figlio:
Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé».
(Marco 3:21)

Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano».
(Marco 3:31-32)


È diventata un'altra persona:
Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
 (Marco 6:1-3)

Quindi ad importare a Marco è il Figlio che sta possedendo l'uomo ''Gesù'', non la vita precedente di quest'ultimo. Per questo non conta la sua nascita, la sua infanzia e giovinezza. Per questo non contano affatto i suoi parenti, introdotti al solo scopo di ribadire questa indifferenza (oltre che per attaccare sottobanco i Pilastri).

Luca e Matteo, nei loro racconti della vita pregressa di Gesù, nascita in primis, stanno semplicemente inventando e colmando i buchi, animati da un apologetico horror vacui rispetto all'idea che ''Gesù'' è solo un posseduto dal Figlio.


Dunque il segreto sulla vera identità di ''Gesù'' permea tutto il vangelo di Marco. Chi è ''Gesù''?

''Gesù'' è introdotto nel vangelo di Marco in una scena segreta e nota solo a Dio e ai lettori. Lo stesso Spirito Santo non scende ''su'' Gesù (come nel vangelo di Matteo), ma ''in'' Gesù. Solo i demoni e Dio conoscono l'entità ospitata dall'uomo ''Gesù''.

 Per Marco un altro spirito scivola in un corpo. Lo spirito di Elia entra dentro Giovanni il Battista.

Gesù dice:

Io però vi dico che Elia è già venuto e gli hanno fatto quello che hanno voluto, come sta scritto di lui».
(Marco 9:13)

Giovanni il Battista non è un attore che finge di essere Elia nel vangelo di Marco. Egli è solo l'uomo che ospita dentro di sè Elia. Lo spirito di Elia perciò ha un'esistenza separata nel vangelo. Tant'è vero che lo ritroviamo, senza più bisogno di nascondersi dietro un uomo, alla scena della Trasfigurazione di Gesù, per parlare con quest'ultimo. Perciò in Marco 1:1, ''Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero [τὸν ἄγγελόν]: egli preparerà la tua via'',  la profezia di Malachia realizzata nella figura di Giovanni il Battista sta a significare che il messaggero, o angelo, vale a dire lo spirito di Elia, è penetrato nel corpo di Giovanni per farne apparentemente un angelo umano e non invece, com'è in realtà, celeste. Marco per messaggero intende sempre un angelo celeste. E nel caso di Giovanni il Battista non fa eccezione. L'angelo celeste, lo spirito di Elia, è penetrato in lui e ha sofferto con lui.
In Malachia 3:1 Elia stesso è stato preventivamente tradotto in cielo per diventare un angelo prima di compiere la sua missione di araldo del Messia.


  
Ecco, io vi mando il mio messaggero; egli preparerà la via davanti a me. E subito il Signore, che voi cercate, l’Angelo del patto, che voi bramate, entrerà nel suo tempio. Ecco egli viene, dice l’Eterno degli eserciti...
 (Malachia 3:1)

Dunque se Elia compare senza più nascondimenti dopo la morte del suo involucro umano Giovanni il Battista, allora alla scena della Trasfigurazione Gesù ha rivelato se stesso per lo Spirito che lo possiede dal momento del battesimo: il Figlio di Dio.

Paradossalmente, rispetto allo stesso Pietro, che dice a Gesù di essere il ''Cristo'' (e non il Figlio di Dio), sono i farisei a fiutare qualcosa di più vicino alla verità, quando accusano Gesù di essere posseduto dal principe dei demoni, Beelzebul. Pure loro però non si rendono conto che Gesù è posseduto non da Satana ma dallo Spirito Santo.

Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé». Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni». Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».

(Marco 3:21-30)

I demoni, invece, possessori delle loro disgraziate vittime, sono in grado di identificare chi sta veramente parlando a loro:
non l'uomo ''Gesù'' proveniente da Nazaret, ma il Figlio di Dio. Non il Figlio dell'Uomo, ma il Figlio di Dio. Non il visibile ''Gesù'' umano, ma l'essere o spirito che lo possedette al battesimo e lo spinse nel deserto.
E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto...
(Marco 1:12)



 Ecco un esempio di quelle conversazioni misteriose che accadono quando Gesù incontra persone possedute da demoni. Gesù, o meglio il Figlio di Dio in lui, è visto dal narratore mentre si rivolge direttamente al demone scivolato dentro l'indemoniato di turno.
 
Giunsero a Cafàrnao e subito Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
 (Marco 1:21-26)


È come se stessi assistendo a qualche sorta di struggimento per il potere del corpo tra due Spiriti che sono a mapalena celati dietro la carne da loro abitata. (Il lettore si ricordi di questo piccolo particolare perchè gli tornerà utile alla fine del post).

Si noti il famoso episodio della trasfigurazione.
  Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
(Marco 8:3-7)

Alla scomparsa di Mosè ed Elia, ecco cosa dice Marco, ancora di nuovo divertito all'idea di rappresentare la scemenza di Pietro e dei due Pilastri:

  E a un tratto, guardatisi attorno, non videro più nessuno con loro, se non Gesù solo. 
(Marco 8:8)


Più nessuno con loro. Se non Gesù solo.



I discepoli sembrano vedere solo ''il figlio d'uomo'', solo ''Gesù'', lo sconosciuto peccatore venuto da Nazaret. Non il Figlio di Dio che sta veramente possedendo quel particolare ''figlio d'uomo''

Il Figlio dell'Uomo, assicura Gesù ai suoi discepoli, apparirà di nuovo.
«Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà».
...
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria.

(Marco 10:33-34, 13:26)

Stessa promessa è fatta da Gesù all'indirizzo del sommo sacerdote che lo accusa:



Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! 
E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».

 (Marco 14:61-62)

In questo episodio è il Figlio di Dio che abita ''Gesù'' a dire ''Io lo sono!'' (puntualmente, senza essere affatto riconosciuto dal sommo sacerdote). Dopodichè profetizza la venuta nella gloria del Figlio dell'Uomo (del vero Israele), paradossalmente con la distruzione del vecchio, corrotto Israele nel 70 EC.

Il Figlio dell'Uomo sarà visibile pienamente alla luce del Sole quando la sua identificazione col Figlio di Dio sarà completa, dopo la risurrezione.

Si assiste ad un curioso pattern:

1) Elia lascia Giovanni il Battista quando Giovanni è decapitato da Erode, per ricomparire in persona dal vivo alla trasfigurazione, senza maschere.

2) Il Figlio di Dio lascia Gesù alla sua crocifissione per ricomparire, pienamente rivelato nella sua vera forma, come Figlio dell'Uomo (il vero Israele tra le genti).



L'uomo ''Gesù'', per tutto il tempo, non era lui ad agire e a dire quello che faceva e diceva, ma solo il Figlio dentro di lui, al suo posto.



Marco sembra indugiare apposta più del solito allorchè descrive la lunga agonia sulla croce, dal momento che Gesù è crocifisso al momento finale della morte sopraggiunta nella forma più completa.

Venuta l'ora sesta, si fecero tenebre su tutto il paese fino all'ora nona.
(Marco 15:23)

E qull'indugio, quella sinistra quiete e quelle tenebre minacciose, sono rotte ad un tratto solo da un gemito sgomento:

All'ora nona Gesù gridò a gran voce: "Eloì, Eloì, lamà ebactanì?'', che tradotto vuol dire: ''Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?''
Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: ''Chiama Elia?'' Uno di loro corse e, dopo aver inzuppato d'aceto una spugna, la pose in cima a una canna e gli diede da bere, dicendo: ''Aspettate, vediamo se Elia viene a farlo scendere''.

(Marco 15:34-36)

Si noti quello che sta descrivendo mirabilmente Marco: l'uomo ''Gesù'' da un lato non si è ancora liberato dello Spirito del Figlio che lo occupa, e dall'altro sente che, insieme alla sua vita, anche quello Spirito sta sul punto di doverlo lasciare. La meraviglia dei presenti è il segnale che qualcosa sta accadendo, anche se non si comprende cosa. Chiamare in ballo Elia è equivalente a scambiare Gesù per Elia: è in atto lo stesso fraintendimento che portò già in precedenza la gente a ritenere per sbaglio Gesù ''alcuni Giovanni il Battista; altri Elia, e altri uno dei profeti'' (Marco 8:29) e ''Cristo''. E come allora Gesù non era in realtà Elia ma era un uomo di Nazaret posseduto dal Figlio all'insaputa di tutti (fuorchè dei demoni), così ora lo stesso uomo ''Gesù'' non ''chiama Elia'' in realtà ma chiama il Figlio. Un Figlio che evidentemente è in procinto di abbandonarlo.

DUNQUE SE GESÙ CHIAMA IL FIGLIO, SI ACCORGE SOLO ALLORA DI NON ESSERE IL FIGLIO.


Certamente la citazione del salmo di Isaia serve, quando letto fino in fondo nell'originale e non nell'imitazione, a ribadire ironicamente il tema della vittoria sulla croce sotto forma di un'apparente sconfitta (in fondo quel dettaglio non fa che inserirsi nella lunga scia di dettagli simili disseminati da Marco, tra l'ironica contrapposizione di significati materialistici - il titulus, tra tutti - e l'ironia teologica ad essi sottesa). E tuttavia quell'invocazione è in aramaico perchè a pronunciarlo, vuole insinuare sottilmente Marco, non è stavolta più lo Spirito del Figlio presente nell'uomo ''Gesù'' proveniente da Nazaret, ma l'uomo ''Gesù'' stesso. Che si accorge solo ora di avere lo Spirito, paradossalmente proprio ora che lo Spirito lo sta lasciando.

Gesù, emesso un gran grido, rese lo spirito.
(Marco 15:37)

Questa volta il ''gran grido'' non è emesso da ''Gesù'', ma dallo Spirito al momento in cui lo abbandona: è lo stesso grido, mutatis mutandis, dei demoni che fuggivano esorcizzati alla vista del Figlio dentro l'uomo ''Gesù''. In quel momento è il Figlio a morire, ghermito dai demoni della morte. Satana e i suoi scherani fin da subito avevano riconosciuto il Figlio nell'uomo ''Gesù'', e ora sembrano davvero prevalere su di esso, visto che sono riusciti a crocifiggerlo insieme all'uomo che ne era il portatore, utilizzando farisei e romani come marionette.
Marco ci tiene a sottolineare che stavolta lo Spirito è proprio definitivamente uscito da quello che fino a un secondo prima, per definizione, era il Figlio dell'Uomo (in quanto posseduto dallo Spirito) e dunque l'emblema proverbiale dell'Israele morente:
E la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo.
(Marco 15:38)


Fino allo svelamento, da parte di chi assiste alla scena, della doppia natura di quell'uomo crocifisso sulla croce, perfino se si tratta (ancora una volta: l'ironia proverbiale di Marco) di un finto stupore perchè caustico e spregiativo:
E il centurione che era lì presente di fronte a Gesù, avendolo visto spirare in quel modo, disse: ''Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!''
(Marco 15:39)


Dunque ''Gesù'' agonizzante sulla croce seppe di essere stato fino a quel momento posseduto dal Figlio? Forse che il Figlio ebbe compassione per questo di lui? Vorrei credere che la risposta sia un sonoro , seppure parte di me ritiene che la risposta potrebbe essere no. Ma se rispondo , il separazionismo di Marco si evolve sulla croce in una forma di adozionismo. Questo può essere conforme alla visione paolina del battesimo: col battesimo l'iniziato muore alla sua vita precedente e risorge come adottato figlio di Dio, e perciò vero ''fratello del Signore''.  Dunque l'uomo ''Gesù'' può essere stato adottato da Dio come figlio quando, alla morte, si accorge di avere dentro di sè lo Spirito Santo del Figlio in procinto di lasciarlo. Questo è coerente con quanto recita l'Inno ai Filippesi nella parte finale.



Per questo Dio lo esaltò
e gli donò
 il nome che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
[ἐν τῷ ὀνόματι Ἰησοῦ]
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!»,
 a gloria di Dio Padre.


Il Nome che è al di sopra di ogni nome non è il nome Gesù ma il Nome Divino, il Tetragramma (=YHWH): κύριος Ἰησοῦς χριστός.


 La frase ἐν τῷ ὀνόματι Ἰησοῦ dev'essere tradotta ''al nome DI Gesù'', vale a dire, il nome che appartiene a Gesù, invece che ''al nome Gesù''.  Il Nome Divino, il Tetragramma, ora appartiene legittimamente a ''Gesù'', a ''Cristo''.

Questo si ritrova anche in Filone, laddove parla di Gesù. Filone ''sa'' che il Gesù di Zaccaria 6 è il Logos, e dunque ritiene che il titolo di Ἀνατολή con cui il Gesù di Zaccaria 6 è salutato deve essere attribuito necessariamente al Logos. Anche nell'Inno ai Filippesi il titolo di κύριος si assegna ad un essere che è già chiamato ''Gesù'' e ''Cristo'' agli occhi degli uomini.

Quindi lo ''svuotamento'' del Figlio corrisponde al ''riempimento'' dell'uomo (considerato) ''storico'' che ospitò il Figlio: entrambi i rispettivi processi paralleli di svuotamento e di riempimento raggiungono il culmine alla morte di entrambe le due nature, umana e divina, ''e alla morte di croce''.
L'uomo ''Gesù'', il ''Cristo'' κατα σαρκα viene dunque innalzato tramite l'identificazione col Figlio e onorato addirittura del Nome Divino. L'uomo ''riempito'' dal Figlio perciò, è la logica conseguenza, non è più un uomo qualsiasi, ma il Figlio dell'Uomo.



I successivi vangeli favoriranno letture letteraliste del vangelo di Marco (di cui non sono che puri rifacimenti)  e quindi indurranno sempre più gli stupidi hoi polloi a credere che Gesù diventa perfetto solo dopo la sua risurrezione - e così qualunque cristiano. L'enfasi sarà data sul prima e sul dopo la croce, e quindi sul prima e sul dopo la morte di ogni cristiano.

Ma per il messaggio segreto che ha voluto veicolare Marco, l'enfasi non è sul mero piano temporale. L'enfasi è sulla giusta conoscenza, non importa se da vivi o da morti: l'uomo ''Gesù'' è perfetto  - è il Figlio dell'Uomo - quando sa di essere posseduto dal Figlio allo stesso modo in cui i demoni stessi fiutano in lui la presenza del Figlio. Dopo la morte quell'autocoscienza interiore potrà raffinarsi e migliorarsi a dismisura, certo, (fino a poter parlare di una compiuta identificazione tra uomo e Dio), ma intanto l'uomo ''Gesù'' è già il Figlio dell'Uomo quand'è in vita perchè ospita dentro di sè il Figlio dell'Uomo. Quello che è richiesto ufficialmente al cristiano di rango inferiore è di rendersi conto che il suo corpo è il tempio dello Spirito Santo. Ma al cristiano di rango superiore è rivelata la verità: che dentro di lui dimora il Figlio allo stesso modo in cui dimorava nel peccatore ''Gesù'' proveniente da Nazaret, e per giunta con maggiore consapevolezza.

Lo Spirito Santo abita in lui allo stesso modo in cui abitava in ''Gesù'' di Nazaret quando scivolò dentro di lui al battesimo, e poco dopo ''lo sospinse'' nel deserto.

Il Tempio fisico di Gerusalemme non è più necessario. L'immagine del Tempio disico, distrutto nel 70 EC dai Romani proprio a causa della sua inutilità, è rappresentata plasticamente dalla tomba vuota con tanto di macigno rimosso. Questo a livello individuale, per il singolo ''Gesù'' proveniente da Nazaret e induttivamente per ogni singolo cristiano.
Ma a livello collettivo, il danielico Figlio dell'Uomo, ovvero il vero Israele, diventa la chiesa dei cristiani paolini alla quale apparteneva lo stesso ''Marco''. Il vero Israele muore nel 70 EC e risorge nell'Impero romano come nazione de-tribalizzata dei veri ''fratelli del Signore''.

Chi vuole vedere il Santo Sepolcro a Gerusalemme, dovrebbe visitare il Muro del Pianto. 


«A voi è dato di conoscere il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori, tutto viene esposto in parabole, affinché:   
"Vedendo, vedano sì, ma non discernano;
 udendo, odano sì, ma non comprendano; 
affinché non si convertano,
 e i peccati non siano loro perdonati